La Versione di Banfi

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5 Stelle: Conte in sospeso

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5 Stelle: Conte in sospeso

Il Tribunale di Napoli sospende la nomina di Giuseppe Conte a Presidente del Movimento, accettando un ricorso di attivisti. Spread a 160, rischi sui rincari. Ucraina, Macron ieri a Mosca e oggi a Kiev

Alessandro Banfi
Feb 8, 2022
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5 Stelle: Conte in sospeso

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Come se non fosse bastata la travagliata elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, c’è un nuovo terremoto nel Movimento 5 Stelle. Il Tribunale di Napoli, accettando il ricorso di alcuni militanti e attivisti, ha sospeso l’elezione di Giuseppe Conte a presidente e a capo del Movimento. Tutti i poteri tornano nelle mani di Beppe Grillo. Alla polemica politica che lo contrapponeva a Luigi Di Maio, ecco dunque un atto giudiziario che si aggiunge a incrinare la leadership di Giuseppe Conte. E nel partito più acriticamente giustizialista del panorama politico italiano, dopo la scomparsa dell’Italia dei Valori dell’ex pm Antonio Di Pietro. Conte ha subito detto che non si farà soffocare dalle “carte bollate”, ma certo la sentenza complica parecchio un dibattito interno già poco sereno.

Non è che il resto della politica italiana sia tanto in buona salute. Il governo forse giovedì varerà nuove misure economiche contro il rincaro delle bollette, mentre ieri Mario Draghi e Marta Cartabia hanno parlato tre ore della riforma del Csm, a Palazzo Chigi. Sul futuro della nostra economia pesano le incognite del rincaro energetico e dell’inflazione, che, come sostiene oggi il ministrio Cingolani, rischiano di “mangiarsi” i fondi del Recovery. Draghi cerca di spiegare ai partiti che l’Europa non accetta un altro scostamento di Bilancio. Ieri intanto la Borsa di Milano e lo spread (salito a 160) hanno mandato segnali chiari. La reazione dei mercati alle preoccupazioni della Lagarde (Bce) è stata violenta e ha penalizzato soprattutto l'Italia.

Ucraina in primissimo piano sul fronte internazionale. Ieri Putin e Macron hanno avuto un lungo faccia a faccia al Cremlino sulla crisi. Intanto, il cancelliere tedesco Scholz è stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Biden. Il processo per una soluzione diplomatica è appena iniziato, molto dipenderà dal nuovo incontro di oggi, a Kiev, tra Macron e il presidente ucraino Zelensky. C’è una data di “scadenza”, che è stata evidenziata dalle Cancellerie occidentali: il 15 febbraio. Entro allora si capirà che cosa davvero potrà accadere in Ucraina.

Oggi è la Giornata nazionale contro la tratta di persone, ricorrenza arrivata all’ottavo anno e voluta da papa Francesco, in coincidenza con la festa di santa Giuseppina Bakhita, schiava moderna diventata suora. A proposito del Papa val la pena rileggere la versione integrale della sua splendida intervista televisiva con Fabio Fazio a Che tempo che fa. La trovate qui:

Il testo integrale dell’intervista di papa Francesco

Lo hanno visto il 29 per cento dei telespettatori di domenica sera. Più di 7 milioni di persone.

Da oggi è disponibile il quarto episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo quarto eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Chiara Ingrao, figlia di Pietro, dal 1976 al 1979 primo presidente della Camera espresso dal Partito comunista. Primogenita dell'ex dirigente del Pci e di Laura Lombardo Radice, Chiara Ingrao inizia il suo racconto proprio dall’incontro tra i suoi genitori nei giorni più difficili e rischiosi della Resistenza contro il fascismo. Vennero poi gli anni del dopoguerra, con la militanza nel Partito comunista , di cui Pietro Ingrao rappresentò uno dei volti più significativi dell’ala sinistra, tanto poi da contestare la svolta che, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe portato al cambio di nome. Non a caso, Ingrao aderirà a Rifondazione comunista e, nei suoi ultimi anni, dichiarerà il sostegno a Sinistra, ecologia e libertà. In mezzo, anni e vicende difficilissime, come il caso Moro, vissuto come tragedia anche familiare vista l’amicizia d’infanzia tra Chiara Ingrao e una delle figlie dello statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse.

Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Qui il link della quarta puntata con Chiara Ingrao:

Chiara Ingrao racconta il padre Pietro

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

MENO 4 AL NUOVO INIZIO

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LE PRIME PAGINE

La sentenza del Tribunale di Napoli sui 5 Stelle catalizza l’attenzione dei quotidiani. Corriere della Sera: M5S, il giudice sospende Conte. Il Fatto questa volta critica i giudici: Il nuovo Conticidio delle carte bollate. Per Il Giornale è: Il Conte decaduto. Il Quotidiano Nazionale è didascalico: Sospeso Conte, grillini allo sbando. Gioco di parole del Manifesto che illustra così una foto di Conte: Causa persa. Il Mattino è il giornale della città patria della sentenza: Conte bocciato a Napoli. I CinqueStelle nel caos. La Repubblica: Decapitati i 5Stelle. L’economia si prende molte altri titoli di apertura. Il Sole 24 Ore torna a mettere in prima pagina il differenziale coi bund tedeschi: Borse, Milano in calo e spread a 160. L’industria resta a secco di componenti. La Stampa riporta un virgolettato del ministri Cingolani: “Il caro energia si mangia il recovery”. Domani mette nel mirino gli sconti dei supermarket: La grande distribuzione nasconde il vero costo dell’inflazione. Libero dà notizia del secondo libro su toghe e Csm: Palamara atto secondo: i nuovi segreti dei giudici. Il Messaggero corregge gli allarmi di ieri e annuncia: Via le mascherine in tutta Italia. Mentre La Verità insiste sui non vaccinati: L’urlo degli invisibili. Avvenire ricorda che oggi è la Giornata contro la tratta di esseri umani: Schiave invisibili.

AZZERATI I VERTICI DEI 5 STELLE

Clamorosa sentenza del Tribunale di Napoli che azzera i vertici dei 5 Stelle, sospendendo la nomina a capo del Movimento di Giuseppe Conte. La cronaca di Claudio Bozza per il Corriere

«Il nuovo terremoto in casa Cinque Stelle, dove già è in corso il durissimo scontro tra Conte e Di Maio, si scatena all'ora di pranzo. Il tribunale di Napoli, di fatto, annuncia l'azzeramento dei vertici del partito, «sospendendo la modifica dello statuto e l'elezione di Conte a leader». In prima istanza i giudici si erano espressi in maniera opposta, ma ieri è arrivato il colpo di scena. Il tribunale ha infatti congelato le due delibere del 3 e del 5 agosto scorso che avevano modificato le norme interne ai Cinque Stelle, attraverso le quali si era arrivati alla votazione online che, subito dopo, aveva incoronato leader Giuseppe Conte, dopo la lunga gestione da capo politico «reggente» di Vito Crimi. Di fatto, da ieri, secondo la legge non è più il presidente del Movimento. È la conseguenza del ricorso presentato da un folto gruppo di attivisti della prima ora che, assistiti dall'avvocato Lorenzo Borrè, contestavano le modalità varate per la «rifondazione» del M5S. I giudici hanno dato loro ragione, riconoscendo la sussistenza di «gravi vizi nel processo decisionale», tra cui l'esclusione dalla votazione di oltre un terzo degli iscritti e il conseguente «mancato raggiungimento del quorum». Secca la replica di Conte: «La mia leadership si basa ed è fondata sulla profonda condivisione di principi e valori - dice -. Quindi è un legame politico prima che giuridico, non dipende dalle carte bollate». E rispondendo a Otto e mezzo su La7 aggiunge: «La discussione sul limite dei mandati da parlamentare produce mal di pancia comprensibili: ne vorrei discutere con Grillo, ma ragionerei sul trovare qualche volta delle deroghe». Tutto mentre il Pd si dice «preoccupato per la stabilità» della maggioranza e si augura che la «scossa post Colle non diventi terremoto». Poi l'ex capo Crimi spiega, in sintesi, la strategia per porre un rimedio ai vulnus contestati dal tribunale: «Ora si procederà a una nuova votazione secondo le indicazioni del giudice» e «sarà questa l'occasione per proporre agli iscritti - anche con meno di sei mesi di anzianità - la ratifica delle delibere sospese in via provvisoria», spiega una nota ufficiale dei pentastellati. «Torneremo a Napoli il primo marzo e chiederemo al giudice di merito di pronunciarsi. Tra 20 giorni siamo lì: crediamo fermamente che il ricorso verrà respinto», afferma Francesco Astone, legale di fiducia scelto da Conte. Dura la reazione dell'Associazione Rousseau, guidata da Davide Casaleggio, il cui cordone ombelicale con il M5S fu tagliato proprio dalla rivoluzione dello scorso agosto: «Più volte abbiamo evidenziato quanto la gestione delle votazioni e della comunità degli iscritti richiedesse professionalità che non possono essere improvvisate con modelli di gestione dilettantistici». E poi: «Ora servono nuove votazioni per individuare una guida collegiale al posto del decaduto capo politico Conte» seguendo «le modalità previste dal precedente statuto». Mentre Alessandro Di Battista, ex leader dell'ala dura: «Se solo Gianroberto (Casaleggio, ndr ) potesse scendere giù per un paio d'ore...», scrive evocando il fondatore del Movimento. Da registrare anche la reazione dei promotori del ricorso: «La soddisfazione per il reclamo accolto non cancella la delusione per il sogno tradito», commenta Liliana Coppola, una dei tre attivisti napoletani che ha portato avanti la battaglia grazie a una raccolta fondi per coprire le spese legali».

Nel retroscena di Repubblica i sostenitori di Conte puntano il dito conto il Ministro Di Maio che si è dimesso poco prima della sentenza. Gli avversari interni dicono: "Meno male che è un avvocato". Matteo Pucciarelli.

«La battuta che è andata per la maggiore nella ridda di telefonate, messaggi, vocali e caffè amari, in una ennesima giornata di impazzimento generale per i 5 Stelle, è stata una: «E menomale che è pure un grande avvocato...». La faccenda a colpi di ricorsi, cavilli e legalese è in realtà tutta politica e comunque verrà risolta Giuseppe Conte ne esce un po' più ammaccato di quanto già non lo fosse. C'erano voluti dei mesi per arrivare a concludere la transizione, ed era stata piena di affanni: la rottura con Davide Casaleggio, la creazione di una nuova piattaforma neutra, il lavoro sullo statuto riscritto daccapo, la lite a un passo dalla rottura totale con Beppe Grillo e poi la riappacificazione. Ora, nel mezzo di una nuova bagarre - stavolta con Luigi Di Maio, l'ex capo politico - rieccoci punto e a capo, tutto da rifare. Appena uscita la notizia del provvedimento cautelare, l'ex presidente del Consiglio ha riunito i cinque vice e i fedelissimi, poi s' è visto con Vito Crimi e il notaio di fiducia Alfonso Colucci e sono questi ultimi due, si vocifera, ad aver sbagliato alcuni riferimenti normativi nell'amministrare il passaggio; ma insomma, al netto dei perché e dei per come, c'è anche chi al presidente ha consigliato a mezza voce, «Giuseppe cogli la palla al balzo, rifacciamo una cosa tutta nuova e daccapo». Non è però cosa da Conte, personalità pacata e allo stesso tempo incline all'intestardirsi nelle cose, anche quando le priorità sarebbero altre. E così, nel mentre si cercava di capire cosa fare, proprio dal punto di vista tecnico- giuridico, i suoi erano tutti soddisfatti di un sondaggio di Swg appena sfornato dove si chiedeva: "Se ci dovesse essere una scissione tra Conte e Di Maio, lei chi seguirebbe?". Il 75 per cento degli intervistati aveva risposto Conte, percentuale sì bulgara, ma che adesso dovrebbe lasciare il tempo che trova. A dimostrazione che se pure il (piccolo) mondo a 5 Stelle crolla, il pensiero va sempre lì, al compagno e nemico di stanza alla Farnesina. Un pensiero anche cattivo: tribunale di Napoli, quindi "zona" sua, l'amicizia ostentata con la numero uno dei servizi segreti Elisabetta Belloni, le dimissioni a sorpresa da un organo che si scopre poco dopo non valere più nulla; nelle stanze dei supercontiani si è pure pensato una cosa tipo, tu guarda le coincidenze (molto banalmente, comunque, l'ordinanza è datata 3 febbraio...). Comunque sia andata, alla fine l'avvocato Conte ha scelto la risposta politica all'ingarbugliato fatto civilistico: «La mia leadership non dipende dalle carte bollate». Che però ora restano lì da dover sbrogliare, con il carico tutto politico che si portano appresso: l'associazione Rousseau cacciata in soffitta che ora rialza la testa e rivuole centralità, Alessandro Di Battista che invoca lo spirito di Gianroberto Casaleggio, gli avversari interni che sognano un ritorno alla guida collegiale che pure fu varata dagli Stati generali del M5S pre-pandemia, Crimi che torna a essere il crocevia burocratico e parecchio pasticcione al quale aggrapparsi per provare a riaggiustare la situazione, Grillo che aveva previsto lo scatafascio giuridico con una lettera aperta proprio a Crimi, ma che non fu ascoltato e oggi chissà cosa pensa e quanta voglia ha di sfoderare il vaffa, ma stavolta verso quei suoi "figli" un po' duri di comprendonio. Il nervosismo nel gabinetto di guerra contiano è quindi comprensibilmente tanto e, con il solito metodo delle note alle agenzie di stampa firmate "fonti Movimento", in mezzo ci finisce pure il Pd, «impieghi il tempo per occuparsi delle sue divisioni interne », è la stilettata in risposta alle preoccupazione emerse dai dem. Mentre la resa dei conti, il cosiddetto "confronto" auspicato per giorni con Di Maio e non ancora fissato, adesso slitterà a chissà quando. Ospite in serata da Lilli Gruber, un Conte con l'elmetto ha pure toccato l'argomento letale in casa 5 Stelle, cioè il limite dei due mandati: «Resta il principio ispiratore, che la politica non è una professione ma una vocazione. Questa regola ha un fondamento che va mantenuto, ne vorrei discutere con Grillo, ma ragionerei sul trovare qualche volta delle deroghe...». È l'ennesimo elemento di cui discutere, tra puristi (quasi tutti al primo mandato) che lo vedono come un tradimento e pragmatici che invece sono già avanti, anzi parecchio oltre, tutto l'antico bagaglio populista. Il "logoramento" temuto da Conte è nei fatti, ma è anche un processo autoindotto».

IL TERREMOTO 5 STELLE NEI COMMENTI DI OGGI

La sentenza di Napoli viene commentata ampiamente sulla stampa stamattina. Stefano Feltri per Domani sostiene che la questione riguarda soprattutto il Pd.

«I Cinque stelle dovevano dimostrare che in Italia si poteva fare politica in un modo diverso: senza sprechi, senza personalismi, senza costi, senza intermediazioni, senza rubare e arricchirsi. Ogni loro fallimento si trasforma in un argomento per i loro avversari, che possono così facilmente sostenere come proprio l'esperienza dei Cinque stelle dimostri che nessun altro modo di fare politica è possibile rispetto a quello che abbiamo visto fino alla loro comparsa. Se provi a vivere senza finanziamento pubblico, poi arriva quello privato, nel caso dei Cinque stelle anche nel modo peggiore (l'armatore Vincenzo Onorato finanziava il sito di Beppe Grillo e offriva viaggi gratis alla famiglia, in cambio di leggi su misura). E se cerchi di impostare una politica francescana poi finisci impelagato in micragnose polemiche sugli scontrini. Bella l'idea di vivere senza correnti, ma in assenza di meccanismi democratici la competizione tra legittime impostazioni e ambizioni si riduce a trame di palazzo e ricorsi in tribunale, come quello accolto dal tribunale di Napoli che (forse) cancella la presidenza di Giuseppe Conte. Uno vale uno è un principio sacrosanto in democrazia, ma poi si scopre che alcuni sono più bravi di altri e magari meriterebbero di chiedere agli elettori un nuovo mandato, ma il limite a due costringe a scegliere tra la coerenza e la competenza. La deliberazione digitale era un'idea interessante, ma i Cinque stelle non hanno considerato il rischio di finire ostaggio della piattaforma (Casaleggio) che, nel suo piccolo, pone le stesse criticità di Facebook se controlla dati e fissa le regole. Quando gli altri partiti avranno finito di osservare compiaciuti questa disfatta, dovranno interrogarsi sulle sue implicazioni. La disfatta pentastellata significa forse che tutto quanto il Movimento contestava è non solo tollerabile, ma anche necessario nel senso di privo di alternative? La fine della rivoluzione grillina - che passi per il collasso interno o altre scissioni - pone alcune questioni, soprattutto al Pd. Il segretario Enrico Letta può aspettare che il partner interno alla coalizione finisca di autodistruggersi, in modo da ridefinire i rapporti di forza. Oppure Letta potrebbe cercare di intercettare quello che resta della spinta innovativa dei Cinque stelle, salvandola dalle meschinerie che ossessionano i vertici del Movimento, e cogliere l'occasione per fare qualcosa di più ambizioso di un "campo largo" di partitini assai asfittico. Che sia una vera coalizione, una federazione, un nuovo partito: se il Pd pensa di poter prosperare sulla disfatta dei Cinque stelle e recuperarne i voti per inerzia, rischia di sbagliare parecchio i suoi conti. Il Movimento non può salvarsi da solo, ma oggi neppure il Pd può prosperare senza i Cinque stelle».

Marco Travaglio sul Fatto sposa in pieno la linea di Giuseppe Conte, torna a parlare di “Conticidio”: questa volta la sentenza e l’operato dei giudici non vanno presi alla lettera. Come dice l’ex premier, sono solo “carte bollate”.

«Il Carnevale di Rio per la bizzarra ordinanza del Tribunale civile di Napoli sul nuovo statuto 5Stelle e sull'elezione di Conte a presidente è fortemente esagerato, come disse Mark Twain alla falsa notizia della sua morte. E vien da domandarsi se non si siano ancora stufati gli "esperti" che da 13 anni, dalla nascita del M5S , ne annunciano il decesso, salvo poi scoprire che il funerale è sempre rinviato a data da destinarsi. Non c'è elezione rionale, scaramuccia, scandaletto, sondaggio, congiuntivo sbagliato che non inneschi infiniti necrologi sulla dipartita dei "grillini" che dicevano vaffa, volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, dicevano no a tutto, non si alleavano con nessuno, credevano nei clic e giù col pilota automatico dei luoghi comuni. Da quando poi han trovato Conte, prima premier e poi leader, giù a ridere sull'avvocato del popolo, l'azzeccagarbugli, il democristiano con la pochette, il figlio di nessuno (nel Paese dei figli di papà e del lei non sa chi sono io). Eppure non sono bastati ad affossarlo i conticidi Salvini, Innominabile, SuperMario, Grillo, Di Mario, Confindustria, giornaloni. I morti presunti sono sempre lì, fra il 15 e il 16% nei sondaggi, nel momento più difficile della loro storia, a una manciata di punti da quelli bravi. Il putribondo "Giuseppi" è sempre primo fra i leader politici. E chi dovrebbe capire l'Italia per raccontarla non si domanda mai il perché, per non ammettere di avere sbagliato tutto. A furia di demonizzare il reddito di cittadinanza, il decreto Dignità, la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione, il taglio dei parlamentari e dei vitalizi, il cashback, il superbonus, le manette agli evasori, lor signori non si rendono conto che è per tutto ciò, oltreché per l'onestà personale e la sintonia con le persone, che un movimento così scombiccherato e lacerato non passa di moda. E che Conte viene ricordato dalla gente come colui che ha affrontato la pandemia senza dividere gl'italiani fra buoni e cattivi, spiegando ogni sera le proprie scelte: l'opposto dei fenomeni che si sono seduti alla tavola imbandita (da lui) con i 209 miliardi del Recovery Fund e i vaccini già comprati e programmati. Se ora questi geni pensano che dove hanno fallito loro riusciranno le scartoffie di un tribunale incompetente (territorialmente), resteranno delusi un'altra volta: ripetendo la votazione sospesa dai giudici e allargandola agli 81mila iscritti più recenti, il plebiscito pro Conte si moltiplicherà. Proprio quando la Banda Larga puntava tutto sul neo-amico Di Mario per la soluzione finale. Visti i risultati ottenuti parlandone male, gli aspiranti killer dei 5Stelle potrebbero iniziare a parlarne bene. Magari funziona».

Morire in tribunale? Si chiede retoricamente Augusto Minzolini sul Giornale, che coglie la nemesi implicita in una sentenza che mette in mora i giustizialisti.

«A volte la Storia è spietata, ti mette davanti alle bugie che hai raccontato, alle follie che hai coltivato, alle menate che hai dichiarato, alle contraddizioni che hai celato. È quello che sta capitando ai 5 Stelle e ai loro vertici. Immaginate un soggetto politico nato sul giustizialismo, sul fiancheggiamento senza «se» e senza «ma» dei magistrati (basta guardare alle riforme di Bonafede), sullo slogan «onestà, onestà» come se le persone probe fossero solo i suoi militanti e tutti gli altri dei delinquenti, che muore in Tribunale. Di carte bollate. Per le regole che autonomamente si è dato e che inopinatamente ha violato. È la vendetta della Storia. Il fallimento di un modo di vedere la politica, di interpretarla, di farla. Non è più il movimento dell'uno vale uno, ma un meccanismo che tritura leadership, personalità, principi e valori. In questa prospettiva Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari che dovrebbe cibarsi di cavilli - sospeso dal vertice dei 5 Stelle per una decisione del tribunale di Napoli - per i giudici sul piano delle regole è a tutti gli effetti un usurpatore. Una condizione che lo trasforma anche in una figura tragica sul piano politico. E chi ne prende il posto, o meglio chi torna al vertice? L'indagato Beppe Grillo: anche qui per qualsiasi garantista non ci sarebbe nulla da eccepire, ma i sacerdoti del giustizialismo ad oltranza dovrebbero imporsi almeno una riflessione sul veleno che hanno sparso in passato. La verità è che sta venendo giù tutto un mondo. E il granellino di sabbia che ha mandato in tilt il meccanismo perverso sono gli esposti o le querele di semplici militanti, per lo più sconosciuti, espulsi dal movimento. Quelli che hanno creduto davvero al teorema dell'uno vale uno e lo hanno messo in pratica mandando in crisi quelli che lo avevano solo teorizzato. Ora c'è da chiedersi se qualcosa nascerà da queste macerie, o se qualcosa almeno resterà. La crisi appare irreversibile e, per alcuni versi, letale. La metamorfosi profonda è paradossale: Luigi Di Maio, il personaggio delle origini, il primo leader, è diventato l'immagine del grillismo di governo, di quello che si è abituato alle regole del Palazzo e forse ne è stato inghiottito; mentre Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari, il professionista della società civile, scelto anche da Di Maio come nome potabile per Palazzo Chigi, ora tenta di rappresentare, con tutti i suoi limiti, il grillismo d.o.c. Più che uno scambio di ruoli è la rappresentazione del caos che regna nel movimento o in ciò che ne resta. Un movimento che, invece, di avviarsi verso un nuovo inizio, sembra che si stia contorcendo in una lunga agonia».

Nel retroscena di Francesco Verderami sul Corriere si mette l’accento su quello che accade a sinistra. Nel Pd la preoccupazione sul M5S: Il centrodestra «costretto» all'unità dalle Comunali, mentre il “campo largo” non riesce a stare insieme.

«Il centrodestra non riesce a separarsi, il centrosinistra non riesce a unirsi. E quando il fall out del Quirinale sarà terminato, si capirà che - da una parte - le minacce reciproche di Salvini e Meloni di far saltare l'alleanza celano solo lo scontro per il primato sulla fascia di elettorato che si contendono. Mentre dall'altra, il tentativo di costruire una coalizione stabile tra Pd e M5S confligge con la debolezza strutturale del Movimento. Per ora nel centrodestra prevalgono le dichiarazioni bellicose, se è vero che all'idea del Partito repubblicano lanciata dal capo del Carroccio, la leader di FdI contrappone il disegno di un «Partito dei conservatori», anch' esso a vocazione maggioritaria. Ma come separati in casa, entrambi sanno che il divorzio costerebbe politicamente troppo. Fra pochi mesi saranno chiamati al voto 970 comuni, tra i quali ci sono quattro capoluoghi di regione e ventuno capoluoghi di provincia: e siccome il modello elettorale impone la costituzione di alleanze, non presentarsi insieme vorrebbe dire consegnarsi alla sconfitta. Non a caso Berlusconi ha contattato la Meloni, e dopo averle assicurato di non aver «mai messo il veto sulla tua presenza nelle trasmissioni Mediaset», ha preso a parlarle di Amministrative: «Senza il centrodestra la maggioranza degli italiani non sarebbe rappresentata». Messa da parte una certa irritazione, se il Cavaliere ha usato toni concilianti verso l'alleata è perché - come racconta un autorevole rappresentante forzista - «non possiamo permetterci di non stare insieme. Troveremo un modo, magari un altro modo. Ma ci arriveremo». Ci arriverà pure Salvini. Malgrado abbia alzato la tensione anche nella giunta regionale lucana, dopo averlo fatto in Liguria, il Capitano ieri ha preannunciato che chiamerà la Meloni «nonostante gli insulti». «E alla fine - ammette senza entusiasmo uno dei maggiorenti del Carroccio - non so come si arriverà a una pace». Detto così somiglia più a un armistizio. Ma i leader non possono fare altro (anche) per la spinta dei territori, dove i dirigenti locali - specie quelli impegnati al voto - non sono disposti al suicidio. E infatti - a sentire fonti accreditate della Lega - «le trattative per le candidature in questi giorni non si sono mai interrotte». Come non si è mai interrotto il tentativo del Pd di costruire un solido rapporto con i grillini. Ma il «campo largo» giorno dopo giorno si va restringendo. Certo, al Nazareno festeggiano il consolidamento del partito al primo posto nei sondaggi, ma è impressione (quasi) unanime tra i dem che gli alleati si stiano «liquefacendo». Non a caso Bettini, conscio di quanto sta accadendo, nell'ultima intervista proponeva l'aggiunta di un'altra stampella al centro per rafforzare elettoralmente la coalizione, tenendo il rapporto «anche» con Conte. A questo schema Franceschini non crede più. Il ministro della Cultura deve essersi convinto che il declino grillino non offra prospettive al Pd, altrimenti non sarebbe uscito allo scoperto per lanciare alla Lega la proposta di varare una riforma proporzionale del sistema di voto: un modo per scontrarsi nelle urne e (magari) incontrarsi dopo nel governo. Il proporzionale è l'exit strategy del Pd per staccare la propria sorte da quella di M5S, è l'approdo (difficilissimo) a cui la stragrande maggioranza dei democratici guarda: da Guerini a Orlando, passando per i giovani turchi. Insieme accerchiano Letta, che dall'altra parte è pressato da Prodi. La riforma elettorale sembrava un tema di domani, ma il collasso in tribunale della leadership contiana rende la questione urgente. Anche perché da ieri il Pd non sa neppure con chi parlare nel Movimento, il cui vertice è stato decapitato. «Vorrà dire che cercheremo Crimi», sorride amaro un membro della segreteria dem: «La verità è che lì non tiene più nulla. Quello tra Conte e Di Maio non è uno scontro su una differente linea politica ma un conflitto di potere. Siamo alle comiche finali». E per quanto il segretario del Pd non intenda ingerirsi negli affari interni di M5S, è costretto a registrare una «situazione senza precedenti» che tocca una forza «alleata di governo»: è il fall out del Quirinale che sta «destabilizzando l'intero quadro politico». Ma soprattutto sta facendo saltare il disegno lettiano del «campo largo».

DA VENERDÌ VIA LE MASCHERINE IN TUTTE LE REGIONI

La lotta al virus. Via il primo obbligo: da venerdì prossimo si esce all’aperto senza mascherina, a prescindere dai colori. Dice il sottosegretario Costa: "A fine marzo lo stato di emergenza non sarà prorogato". Michele Bocci per Repubblica.

«Ancora pochi giorni e poi le mascherine all'aperto, se non ci sono assembramenti, si potranno togliere. Lo ha annunciato ieri il sottosegretario alla Salute Andrea Costa dopo un colloquio con il ministro Roberto Speranza, che da sempre è molto cauto ma guarda anche a quello che sta succedendo in altri Paesi europei. E in Francia e Spagna hanno preso la stessa decisione. L'11 febbraio, quindi, la regola sulle mascherine cambierà. Fino ad allora vanno messe sempre, come previsto da un'ordinanza entrata in vigore il primo di febbraio che appunto prorogava la durata dell'obbligo di dieci giorni. Da venerdì prossimo si sarebbe dovuti tornare alla vecchia regola, e cioè che solo nelle zone bianche si può togliere la mascherina all'aperto. Secondo Costa sarà invece data una nuova indicazione per estendere la regola anche alle zone arancioni e gialle, nelle quali al momento si trovano quasi tutte le Regioni. La mascherina quindi dovrà essere sempre usata negli ambienti chiusi, mentre all'aperto andrà comunque portata con sé e indossata in caso di assembramenti, o comunque situazioni a rischio. La novità non piace a tutti e ieri dalla Campania hanno fatto sapere che in quella regione l'obbligo andrà avanti fino alla fine di febbraio. Sempre Costa ha confermato quanto già reso noto da altri esponenti del governo e da tecnici. Alla luce della nuova fase epidemica, che porterà la curva ad abbassarsi nel giro di un mese, lo stato di emergenza non verrà rinnovato. Scadrà il 31 marzo e si dovrà decidere se mantenere comunque la struttura del generale Francesco Figliuolo e come. Le Regioni da tempo chiedono l'abolizione delle zone colore tranne la rossa. Il governo, almeno per ora, non l'ha concessa. Va però detto che la nuova decisione sulle mascherine cancella l'ultima differenza rimasta tra zone bianche e zone gialle. A cambiare sarà, come annunciato già da tempo e pure previsto in una bozza di provvedimento dei giorni scorsi, il sistema di conteggio dei casi ai fini del calcolo dell'occupazione dei posti letto. In particolare per quelli ordinari, saranno contati solo i pazienti ricoverati "con" il Covid e non "per" il Covid. Intanto le Regioni tendono a spostarsi verso i colori con meno restrizioni, cioè la zona bianca e la zona gialla. I cambiamenti avverranno tra po' di tempo, perché la curva dei ricoveri per ora non scende alla stessa velocità di quella dei casi. Oggi le Regioni in zona bianca sono tre: Umbria, Molise e Basilicata. L'altra realtà ad avere numeri compatibili con il bianco è la Valle d'Aosta, che però al momento è in arancione. In giallo ci sono 9 Regioni e le due Province. In arancione, oltre la Val d'Aosta, sono in cinque. Quattro di queste, cioè Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Sicilia, hanno però dati da giallo. In base alle norme sulla classificazione devono avere per tre settimane dati compatibili col colore con meno restrizioni prima di poterci entrare. Secondo questa regola solo la Sicilia può sperare di passare in giallo dopo la Cabina di regia di venerdì prossimo».

Primo giorno delle nuove regole nelle scuole: caos sui tamponi. Valentina Santarpia per il Corriere.

«Marco si è presentato in classe, nella sua seconda media di una scuola della periferia romana, e il suo professore non sapeva se ammetterlo o no alle lezioni: si è verificato anche questo nel primo giorno di introduzione delle nuove regole previste dal ministero dell'Istruzione per la gestione delle quarantene, alla luce del decreto approvato dal governo lo scorso 2 febbraio e pubblicato in Gazzetta venerdì. Con una «coda» importante di precisazioni arrivate sabato: le novità sono applicate alle quarantene già in corso. Parliamo di 1.085.225 studenti coinvolti, una stima in difetto visto che l'ultimo monitoraggio sulle classi in dad è realizzato sul 78% delle scuole. «Non si possono introdurre novità così importanti prima del weekend: è stato un fine settimana di super lavoro per i dirigenti», nota Antonello Giannelli, a capo dell'Associazione nazionale presidi, che ieri ha passato la giornata a raccogliere le segnalazioni dei colleghi. In affanno soprattutto i presidi delle scuole dell'infanzia e primarie, per lo più chiuse il sabato, che hanno dovuto affrontare la mole di richieste arrivate in segreteria e gestire lo smistamento degli studenti tra didattica a distanza e in presenza. «Ancora una volta le decisioni sono prese senza tener conto dell'organizzazione scolastica». Lo dimostrerebbe anche la questione delle mascherine Ffp2, citata da Tuttoscuola: non è chiaro se le scuole possono acquistarle solo dalle farmacie, a 0,75 centesimi, o anche da altri rivenditori autorizzati, più convenienti. «E anche la regionalizzazione del sistema sanitario ha prodotto disomogeneità tra le Asl, che in certi casi ignorano i provvedimenti nazionali», aggiunge Giannelli. Lo confermano alcune incongruenze: la Regione Lazio, ad esempio, nelle regole per il rientro a scuola ieri sul sito citava l'obbligo del certificato medico, mentre il governo ha deciso che basta un tampone negativo. Non tutti sono riusciti ad adeguarsi: «Gli studenti che non sono riusciti a fare il tampone ieri sono stati messi in dad, in via eccezionale», spiega la rappresentante dei presidi nel Lazio, Cristina Costarelli. «Le nuove norme - dice - hanno creato confusione. Le famiglie sono disorientate» e «le scuole hanno bisogno di tempo per riallinearsi». Perplesso pure Pino Turi (Uil): «Trasformare i docenti e il personale in tracciatori è sbagliato». Ma il sottosegretario alla Salute Andrea Costa rivendica: «È una semplificazione importante. Per primaria e infanzia abbiamo portato a 5 i casi di positività in cui è prevista la dad, e i dati dicono che tutte le classi finite in dad avevano contemporaneamente non più 2 -3 casi. Sarà molto difficile avere 5 positivi in un'aula soprattutto di fronte a una platea di vaccinati in aumento. Si tutela la scuola in presenza». La verifica venerdì, quando il nuovo monitoraggio dovrebbe vedere dimezzate le classi in dad (erano il 17,2%). E dovrebbe frenare anche la corsa ai tamponi. Il decreto introduce quello «fai da te» per i più piccoli: se negativo, per rientrare in classe basterà l'autocertificazione. Intanto su due altri fronti caldi - alternanza scuola lavoro e maturità - il ministro Patrizio Bianchi incontrerà oggi gli studenti».

IL NODO GIUSTIZIA, LA RIFORMA INEVITABILE

Mario Draghi accelera sulla riforma del Csm ed ha un colloquio di tre ore con la ministra Marta Cartabia Palazzo Chigi. L’obiettivo è stringere sugli emendamenti alla futura legge sull'organo di autogoverno dei magistrati. Liana Milella per Repubblica.

«Potrebbe essere quello di giovedì il consiglio dei ministri "buono" per dare il via libera agli emendamenti per la futura legge sul Csm. Ma non è ancora detta l'ultima parola. La riforma, chiesta a gran voce alla Camera appena una settimana fa, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, potrebbe richiedere ancora tempo. Tutti applaudono il capo dello Stato, ma chiudere il cerchio sulle future regole per ostacolare il correntismo delle toghe assomiglia a un sudoku di difficile soluzione. Ancora ieri, a palazzo Chigi, e per oltre tre ore, ci hanno provato la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi. Nonché il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli che già era stato protagonista della difficile mediazione sulla riforma del processo penale e sulla questione dell'improcedibilità. Stavolta le tensioni riguardano la futura legge elettorale per selezionare i consiglieri togati del Csm, che passeranno da 16 a venti, nonché il destino dei magistrati che scendono in politica. Nelle ultime ore si è aggiunto il tema della sorte dei magistrati attualmente fuori ruolo. Su cui, alla Camera e nella legge sul Milleproroghe, sta per scatenare una tempesta il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Per un'intesa che si trova, quella sulle cosiddette "porte girevoli", altre grane si aprono. Al momento non ci sono dubbi sul fatto che non ci saranno più deroghe per chi si candida sia nelle amministrazioni locali che in quelle nazionali. Lo slogan ribadito è «mai più casi Maresca». La porta per rientrare in magistratura verrà chiusa definitivamente, proprio come prevedeva il disegno di legge presentato dall'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E su questo è d'accordo anche Draghi, come ha detto ieri Giuseppe Conte («Anche lui sul ritorno alla magistratura dalla politica ha forti dubbi»). In ballo c'è anche la legge elettorale per il Csm, su cui la Lega non fa sconti e chiede il sorteggio temperato, come vuole Forza Italia, mentre la ministra contrappone un maggioritario "binario", soluzione che, secondo i fan del sorteggio, non blocca le scelte correntizie, anzi le favorisce. Ma è sulle toghe fuori ruolo - soprattutto quelle impiegate nei ministeri - che si è aperta l'ultima querelle. E che Costa porterà dopodomani in aula a Montecitorio, con un emendamento al Milleproroghe in cui, come prima mossa, chiede di bloccare del tutto «fino alla fine dell'anno» l'autorizzazione ad altri fuori ruolo per tutte le magistrature, non solo le toghe ordinarie, ma anche quelle ammini-strative, contabili, militari, nonché gli avvocati e procuratori dello Stato. Costa aveva già chiesto, con un ordine del giorno del 2020 che i fuori ruolo fossero drasticamente ridotti. Visto anche il loro costo, 5mila euro al mese oltre al loro stipendio. Adesso la questione riguarda chi è già fuori ruolo e che potrebbe essere costretto a rientrare se il periodo fosse ridotto da 10 a 5 anni».

BORSE IN AGITAZIONE E SPREAD A 160

Turbolenza sui mercati e spread al top dal 2020. Le parole di Lagarde di giovedì fanno presagire la fine del sostegno Bce. Morya Longo per Il Sole 24 Ore.

«È come se i mercati fossero stati catapultati in una nuova dimensione. Improvvisamente. Come in un film. Da quando la Presidentessa della Bce Christine Lagarde, giovedì, ha ventilato per la prima volta l'ipotesi che già quest' anno la Banca centrale potrebbe alzare i tassi d'interesse e terminare gli acquisti di titoli di Stato, sui mercati europei è cambiato tutto. I rendimenti dei titoli di Stato hanno iniziato a salire velocemente, adeguandosi alla nuova realtà: sono lievitati i tassi dei Bund decennali (da circa zero pre-Bce allo 0,25% massimo toccato ieri), quelli dei titoli spagnoli (da 0,79% a 1,14%) e quelli portoghesi (da 0,71% a 1,07%). Ma più di tutti sono saliti i rendimenti dei BTp italiani: dall'1,42% pre-Bce al massimo di 1,90% toccato ieri. Questo ha spedito lo spread BTP-Bund fino a un massimo di 166 punti base (dai 139 pre-Bce), massimo dall'estate 2020, mandando Ko anche la Borsa di Milano. Infatti ieri è stata la peggiore d'Europa, con un calo dell'1,03%. Solo in serata, quando la stessa Lagarde ha un po' corretto il tiro (secondo alcune interpretazioni) parlando al Parlamento Ue, la "febbre" è calata: il rendimento dei BTp è tornato a 1,78% e lo spread a 156. Il motivo della tempesta Tutto è iniziato alle 14,30 di giovedì, con la conferenza stampa di Lagarde seguita alla solita riunione del consiglio della banca centrale. La Bce aveva sempre assicurato che non avrebbe alzato i tassi d'interesse nel 2022, ma giovedì la Presidentessa ha dato l'impressione di un possibile cambio di rotta. Non solo ha detto di non poter escludere rialzi dei tassi quest' anno, ma ha anche ricordato che prima di aumentarli la Bce dovrà terminare gli acquisti di titoli di Stato. Il mercato scontava un forte ridimensionamento del sostegno Bce a partire da marzo, quando finirà il piano pandemico Pepp, ma non si aspettava la fine prematura di tutti gli acquisti di bond da parte della Bce. Lo shock è stato dunque forte. E ha colpito, sul mercato, soprattutto l'Italia, che col suo elevato debito è stata la grande beneficiaria degli acquisti della Bce. Si pensi che nel 2021 l'Eurotower aveva comprato il 170% delle emissioni nette di titoli di Stato italiani, sostenendo il nostro debito pubblico. Nel 2022, secondo le stime di UniCredit, gli acquisti si sarebbero dovuti ridurre a 60 miliardi di euro, pari a circa il 75% delle emissioni nette di BTp: meno di prima, ma comunque non male. Se invece la Bce dovesse chiudere con gli acquisti prematuramente, allora la situazione cambierebbe in maniera significativa. Ma sarà davvero così? Il dibattito è acceso. C'è chi, come Goldman Sachs, prevede che la Bce alzerà i tassi due volte nel 2022, terminando gli acquisti già quest' estate. C'è invece chi, come Erik Nielsen di UniCredit, ritiene invece che Lagarde abbia probabilmente commesso un «errore di comunicazione». Ieri Lagarde non ha sciolto i dubbi: «I rischi sulle prospettive inflazionistiche aumentano», ha detto. Le aggravanti italiane Che la Bce alzi davvero i tassi o no, una cosa è però certa: la reazione del mercato è stata violenta e ha penalizzato soprattutto l'Italia. Questo - a prescindere da cosa farà la Bce - deve essere un monito e deve far riflettere. I motivi per cui l'Italia soffre sui mercati più di altri sono almeno due. Il primo è tecnico: l'Italia è l'unico Paese del Sud Europa ad avere un contratto future efficiente sui titoli di Stato. Questo la condanna ad essere sempre usata dagli investitori, quando vogliono coprirsi da un rischio generico legato al Sud Europa, come strumento principale. Il secondo motivo è più sostanziale: l'Italia ha un grande debito, che dà da pensare ogni volta che cambia il vento sui mercati. Soprattutto ora che il sostegno della Bce si riduce e il Paese avrà ancora più bisogno della fiducia degli investitori, è importante mostrare al mercato che la dinamica del debito resterà calante. Per farlo serve da un lato un certa disciplina di bilancio, dall'altro soprattutto serve la crescita economica. Calcola Goldman Sachs che un punto percentuale di crescita addizionale del Pil, riduce lo spread BTp-Bund di 15 punti base. Il problema è che questo sarà un anno delicato su entrambi i punti. Lo sarà per la crescita economica, minacciata dai rincari di energia e materie prime e dall'inflazione che erode il potere d'acquisto delle famiglie. Ma questo sarà un anno anche delicato per la disciplina di bilancio, come dimostra il dibattito attuale sullo scostamento: il Governo si trova nella difficile posizione di dover contrastare il caro-bollette, che pesa sulla crescita economica, senza però far crescere il debito pubblico. Tra l'altro questo è l'anno in cui viene rinegoziato il patto di Stabilità, e una certa disciplina può essere una carta importante per l'Italia da giocare sul tavolo europeo. Il sentiero è stretto e la Bce rischia di passare da grande alleata a rischio».

Il Consiglio dei ministri di giovedì potrebbe varare un nuovo intervento per le bollette di famiglie e per le piccole imprese ma non ci sarà scostamento di bilancio. Vittoria Puledda per Repubblica

«Il governo accelera sul caro- bollette. E pensa di portare in Consiglio dei ministri un nuovo decreto legge per calmierare i costi di luce e gas già questo giovedì. Un aiuto non generalizzato, piuttosto mirato ad aiutare le categorie più in difficoltà: famiglie a basso reddito e piccole imprese o imprese in settori particolarmente danneggiati. Il ministero dell'Economia sta facendo i conti e si muove in un'ottica di assoluta prudenza, senza per ora azionare la leva di un ulteriore scostamento di bilancio (più deficit), pur invocato da tutti i partiti, il cui pressing è ormai quotidiano. In base ai primi conteggi, si tratterebbe di un nuovo intervento da 5 miliardi, un'entità simile a quanto già stanziato nella legge di bilancio per il primo trimestre 2022. Questo ulteriore sostegno mirato andrebbe a coprire il secondo trimestre dell'anno. E si sommerebbe agli 11 miliardi che il governo ha già messo in campo tra la fine del 2021 e l'inizio del 2022, in diversi provvedimenti. Se fosse confermata l'entità, si andrebbe verso i 16 miliardi complessivi. Una cifra importante, ma lontana non solo dai desiderata politici (il leader della Lega Salvini chiede un impegno via deficit di 30 miliardi). Ma anche da quelli confindustriali, le cui proiezioni parlano di una spesa di 37 miliardi a carico delle industrie per quest' anno dai 20 dell'anno scorso e gli 8 miliardi del 2019. «L'aumento del prezzo dell'energia rischia di avere un costo totale l'anno prossimo superiore all'intero pacchetto del Piano nazionale di ripresa e resilienza: quindi non è che il Pnrr ci ha messo al sicuro da tutto», ammette il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. «D'altro canto io sono un tecnico, non un politico e quindi non chiedetemi se ci sarà un nuovo scostamento», per contrastare il caro-bollette. Interviene anche Silvio Berlusconi che ha fatto il punto sulle strategie contro i rincari in un pranzo di lavoro ad Arcore con lo stato maggiore di Forza Italia. «Abbiamo chiesto e chiediamo con forza al governo di contenere, di abbattere gli aumenti, trovando rapidamente le risorse per farlo», dice poi. «Le famiglie rischiano di non riuscire a farvi fronte e le imprese di rallentare le produzioni o qualcuna, addirittura, a chiudere». Anche il responsabile economico del Pd, Antonio Misiani, ritiene che «servono molti soldi, finora sono stati stanziati 5,5 miliardi per il primo trimestre 2022, rimangono altri 9 mesi da coprire». E quindi «se il governo riesce a recuperarli senza fare deficit aggiuntivo tanto meglio». Ci sono però altre vie: «Le aste Ets per la Co2: tutti i proventi vengano destinati a calmierare gli aumenti. E poi gli extra profitti: c'è già un primo intervento nel decreto Sostegni ter, se è necessario rafforzarlo, ragionando su meccanismi non punitivi per le aziende che li hanno maturati». Il M5S preme per «un nuovo scostamento di bilancio, da fare in fretta». Per Leu «lo scostamento da un punto di Pil - 17-18 miliardi - sarebbe il male minore», dice Stefano Fassina. Matteo Salvini, leader della Lega insiste per un «decreto sostanzioso».

UCRAINA, IL FRONTE DIPLOMATICO

È sempre l’Ucraina in primo piano dall’estero. Ieri il presidente francese Macron è stato a Mosca ed ha incontrato Putin. E ha detto: «Evitiamo la guerra: insieme». La replica russa: il Presidente francese ha presentato idee interessanti. La cronaca di Stefano Montefiori per il Corriere.

 «Siamo categoricamente contrari all'allargamento della Nato verso Est. Immaginate che l'Ucraina diventi parte della Nato e rivendichi la Crimea, che fa parte della Federazione russa: questo scatenerebbe una guerra tra Nato e Russia. Siamo contrari anche al dispiegamento dei sistemi di combattimento alle nostre frontiere. E se la Nato è davvero un'organizzazione pacifica, cosa c'è di male a farla tornare alla situazione del 1997? Ma sono riconoscente al presidente Macron per i suoi sforzi». Questa è stata la (non) risposta del presidente Putin alla prima domanda - «vuole invadere l'Ucraina?» - della conferenza stampa dopo quasi sei ore di colloquio con Macron. Il primo gesto di «de-escalation» nella crisi tra Russia e Ucraina non c'è stato, nonostante il lungo faccia a faccia i disaccordi tra Putin e Macron sono stati evidenti e sottolineati, soprattutto dal primo. Il processo è appena iniziato, molto dipenderà dal nuovo incontro di oggi a Kiev tra Macron e il presidente ucraino Zelensky. «Evitiamo la guerra, insieme, i prossimi giorni saranno determinanti», ha detto Macron, che sebbene si trovasse al Cremlino ha tenuto a elogiare il nemico di Putin di queste ore: «Vorrei ricordare che Zelensky è il presidente di un Paese che ha 125 mila soldati russi ammassati alle sue frontiere: questo rende nervosi. E invece Zelensky mostra un notevole sangue freddo, al quale voglio rendere omaggio». I due leader non hanno voluto comunicare alcun risultato concreto al di là della volontà di garantire gli equilibri di sicurezza in Europa, ma Putin ha concesso che «alcune delle idee, delle proposte di Macron possono gettare le basi per un progresso comune». Macron ha più volte ricordato le intense consultazioni con i partner europei, un modo per rivendicarne il sostegno e per parlare quindi a nome di tutta l'Ue. Putin e Macron si sono parlati - da soli - nella «sala delle rappresentazioni» del Cremlino a cominciare dalle 16 e 30. La scelta di lasciare gli interpreti fuori dalla stanza, collegati in remoto, voleva rafforzare il carattere personale, quasi intimo, del colloquio tra Putin e Macron, ma i presidenti si sono seduti alle estremità dell'immenso tavolo ovale bianco che da una settimana è il co-protagonista dei colloqui ufficiali: una distanza di sei metri, troppi per interagire valutando il linguaggio corporeo, cosa che secondo l'Eliseo era uno dei vantaggi di un incontro di persona. Non è stato uno sgarbo di Putin diretto al presidente francese, nei giorni scorsi anche il presidente ungherese Viktor Orban - che nella crisi russo-ucraina difende le ragioni del Cremlino - ha dovuto sottoporsi al rigido distanziamento sociale e alle altre misure anti-Covid. Ma certo quell'immagine ha raffreddato le speranze di chi contava su un incontro giocato sulla vicinanza anche fisica. I presidenti di Russia e Francia hanno discusso più a lungo del previsto, fino alle 22 circa, per quasi sei ore».

Il Cancelliere tedesco Scholz intanto è stato in visita a Washington. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

 «Se la Russia invaderà l'Ucraina, il gasdotto Nord Stream 2 non ci sarà più e Mosca pagherà un prezzo altissimo». Il presidente Joe Biden ha lanciato l'avvertimento più diretto possibile a Vladimir Putin, sollecitando anche i cittadini americani a lasciare il territorio di Kiev. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ancora una volta ha evitato di nominare il gasdotto, ma ha garantito che «se ci sarà l'invasione, saremo uniti nella risposta». Il vertice di ieri alla Casa Bianca tra i leader di Washington e Berlino era arrivato sulla scia di polemiche e sospetti, tanto che nei giorni scorsi anche l'ambasciatrice tedesca negli Stati Uniti aveva inviato un preoccupato rapporto al ministero, avvertendo che la debolezza con cui il suo paese ha finora risposto alle minacce russe ne stava mettendo a rischio la credibilità in America. Alcune differenze restano, ma dopo l'incontro è stato proprio Biden a sottolineare più volte che «la Germania è un alleato affidabile, non abbiamo alcun dubbio a riguardo ». Il capo della Casa Bianca ha definito l'incontro «molto produttivo. Siamo uniti davanti alla minaccia russa contro l'Ucraina. Germania e Usa lavorano insieme per una soluzione diplomatica, che resta la via migliore, anche per Mosca. Continueremo i colloqui in buona fede. Ma se la Russia invaderà, tutta la Nato sarà unita, e garantirà il rispetto dell'Articolo 5 in difesa degli alleati. Abbiamo un forte pacchetto di sanzioni, che produrrà severe conseguenze ». Scholz ha confermato così: «La presenza delle truppe russe minaccia la sicurezza europea. Perciò dobbiamo essere uniti. Se ci sarà l'aggressione militare, le conseguenze saranno severe. Adotteremo insieme sanzioni dure e la Russia pagherà un prezzo alto». Alla domanda se Scholz gli ha dato garanzie sul blocco del gasdotto, Biden ha risposto così: «Se la Russia invade, con i carri armati e le truppe, non ci sarà più Nord Stream 2». Il problema diventa però quale sarà la reazione, se invece l'aggressione sarà limitata. Anche perché Scholz ha mancato ancora una volta l'occasione per citare il gasdotto: «Se ci sarà l'aggressione militare saremo uniti. Agiremo insieme e prenderemo tutte le misure necessarie». Un altro problema è la resistenza tedesca a fornire armi all'Ucraina, ma quando i giornalisti hanno chiesto a Scholz se così compromette l'affidabilità di Berlino a Washington, è stato lo stesso Biden ad intervenire per difenderlo: «Abbiamo completa fiducia nella Germania. I dubbi avanzati dai media non esistono». Discorso analogo per Scholz: «L'alleanza con gli Usa è un pilastro». Biden non è sicuro se Putin attaccherà: «Credo che non lo sappia neppure lui. Ma deve capire che sarebbe un errore gigantesco ». Nello stesso tempo, però, ha sollecitato i civili americani a lasciare l'Ucraina: «Sarebbe saggio farlo, non vorrei che restassero in mezzo al fuoco». La percezione di Berlino come anello debole non c'è solo a Washington. Ieri il presidente ucraino Volodimir Zelenskij ha annullato il suo incontro con la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, segnalando l'insoddisfazione di Kiev. Parlando col Washington Post prima di andare alla Casa Bianca, Scholz aveva risposto così alle critiche sulla debolezza della Germania: «La realtà è più importante delle voci. La Germania è il più grande partner della Nato nell'Europa continentale ». Quindi aveva commentato così su Nord Stream 2: «Siamo pronti a compiere insieme ai nostri alleati tutti i passi necessari. E abbiamo un accordo molto chiaro con gli Usa sul transito del gas e sulla sovranità energetica in Europa. Abbiamo anche convenuto che sosterremo l'Ucraina, lotteremo intensamente per il transito del gas attraverso il suo territorio, e saremo molto duri se questo transito sarà messo in pericolo». Infine aveva replicato alle critiche di avere mandato in Ucraina solo 5.000 elmetti, invece di armi: «Ci sono severi criteri che seguiamo per l'esportazione di armi nelle regioni in crisi. Su questo c'è solo continuità col governo precedente».

UCRAINA, IL FRONTE MILITARE

A proposito di armi, ecco l'analisi sul piano militare di Gianluca Di Feo su Repubblica. C’è un’armata che pesa sul negoziato: la Russia sposta verso l'Ucraina incrociatori e pretoriani ceceni.

«L'incrociatore Ustinov è entrato l'altra notte nello Stretto di Gibilterra. Si pensava fosse diretto in Irlanda; invece ha cambiato rotta e si è infilato nel Mediterraneo con il suo carico di missili progettati per distruggere le portaerei. Subito il caccia americano Roosevelt si è messo all'inseguimento, per tenere sotto pressione l'equipaggio russo. Questa non è un'esercitazione. La frase più temuta, quella che gela il sangue anche agli ufficiali più esperti, comincia a circolare in tutti i comandi della Nato. Ogni giorno che passa, i movimenti dell'armata di Mosca rendono concreto il timore di essere davanti a qualcosa di molto più serio delle grandi manovre. Su una scacchiera che va dal Baltico alla Siria, il Cremlino sta schierando le sue pedine secondo uno schema che non lascia dubbi: non c'è soltanto la preparazione a un'invasione, ma pure il dispositivo per fronteggiare ogni possibile reazione. La spada e lo scudo, come nello stemma del Kgb: quello che ha segnato il potere di Vladimir Putin. Lo dimostrano le operazioni marittime nel Mediterraneo. Poche ore prima che apparisse l'Ustinov, da Suez è spuntato il Varjag, l'ammiraglia della flotta del Pacifico: i due incrociatori sono i pesi massimi della Marina russa, varati all'acme della Guerra Fredda e rimodernati di recente. Convergono sulle acque tra Cipro e la Siria, dove si uniranno a due caccia, tre corvette e tre sottomarini armati dei cruise ipersonici Kalibr. Una posizione strategica: in caso di conflitto, saranno lo scudo missilistico che sbarrerà il Bosforo. La spada sono invece le sei navi da sbarco giunte venerdì nel porto siriano di Tartus. La propaganda ha diffuso il video dell'approdo, evidenziando le scorte di uova e verdura fresca portate a bordo dopo tre settimane di burrasche: un messaggio rassicurante per le famiglie dei marinai. Ora sono salpate di nuovo: puntano sui Dardanelli. Secondo notizie non confermate, avrebbero chiesto alla Turchia il permesso di entrare nel Mar Nero. In Crimea le aspettano altre otto unità simili: insieme possono rovesciare sulle spiagge 140 veicoli corazzati e oltre quattromila fanti, creando una testa di ponte micidiale alle spalle delle difese ucraine. Questa non è un'esercitazione. E lo confermano gli ultimi schieramenti sulla frontiera ucraina, anche questi con la duplice valenza: forze d'attacco e altre per difendere le posizioni. Non si spiegherebbe altrimenti la scelta di fare affluire le colonne della Rosgvardia, la guardia nazionale creata da Putin e da lui comandata. Sono i pretoriani del Cremlino, equipaggiati per soffocare rivolte e guerriglie: non servono per combattere in prima linea, ma per imporre l'ordine nelle città. Dalle foto sui social sono stati identificati persino due reparti della Rosgvardia venuti dalla Cecenia: i fedelissimi del despota filorusso Ramzan Kadyrov, noti per la loro ferocia. Contrariamente ai soldati regolari, non hanno tende: si stanno sistemando nelle scuole o negli edifici pubblici. Il massiccio afflusso di questi miliziani è un interrogativo inquietante, con una sola interpretazione plausibile: se ci sarà un'offensiva, avranno il compito di "pacificare" i territori occupati. Segnali altrettanto preoccupanti vengono dai trasferimenti dell'esercito. Intorno all'Ucraina si contano adesso 83 Btg, i gruppi tattici corazzati, mentre altri 14 sono in viaggio: costituiscono la massa d'urto dell'intera armata. Mosca da venerdì ha cominciato a spostare anche le unità dislocate nel Daghestan, considerato "il posto più pericoloso d'Europa" perché da secoli è il fulcro della resistenza musulmana: non verrebbe mai sguarnito per un normale addestramento. Ieri sono stati notati nell'area di crisi i parà della 76ma divisione, all'avanguardia in tutte le operazioni dell'ultimo decennio: Putin li ha premiati per il coraggio dimostrato in Crimea nel 2014; Kiev li ha accusati di essersi poi infiltrati nel Donbass. I semoventi della 47ma divisione della Guardia, che durante la Guerra Fredda vigilava sul Muro di Berlino, sono apparsi a Kursk. Un luogo altamente simbolico: è stato il terreno della più grande battaglia di tank della storia, che nell'estate 1943 segnò l'inizio della ritirata hitleriana e della vittoria sovietica. Lo hanno sottolineato i servizi televisivi, che cercano di trasmettere al popolo russo un parallelismo tra la guerra patriottica contro il nazismo e la necessità di opporsi all'espansione della Nato. Non tutti ne sono convinti. Secondo la Cnn, l'intelligence americana ha intercettato le discussioni tra ufficiali di Mosca, preoccupati perché un'invasione su larga scala dell'Ucraina sarebbe più difficile e costosa di quanto preventivato dal Cremlino. Ma la macchina bellica non si ferma. Putin vuole mostrare al mondo che la Russia è di nuovo una grande potenza. La domanda è: fino a che punto è disposto a spingersi?».

Il Manifesto sostiene: i media hanno i titoli già pronti, ma l'invasione ancora non c'è. Anche Kiev reagisce ai rapporti Usa che prefigurano 50mila vittime: no a versioni apocalittiche. Luigi De Biase.

«La questione l'ha sollevata per la prima volta il Washington Post, sulla base di anonime fonti dell'intelligence. «I movimenti di truppe russe vicino al confine ucraino destano preoccupazione». Era il 30 ottobre del 2021. Questo vuol dire che gli allarmi dei servizi segreti americani su una guerra imminente in Europa dell'est circolano da cento giorni esatti; da cento giorni sono ripresi in certi casi in modo per così dire allegro dalla stampa internazionale; e da cento giorni sono smentiti dall'unico fatto concreto di tutta questa vicenda. Il fatto è il seguente: l'esercito russo non attraversa il confine con l'Ucraina. L'invasione non avviene. Più tempo passa, meno risulta credibile. «L'ipotesi è semplicemente senza senso», ha scritto Sergei Karaganov del Consiglio russo di Difesa e Politica estera. Per Karaganov «conquistare un Paese devastato dai suoi stessi governanti, antinazionali e corrotti, rappresenta uno degli scenari peggiori. Le truppe sono lì per impedire un assalto alle repubbliche del Donbass. Se quell'assalto dovesse avvenire, allora l'esercito ucraino verrebbe distrutto, e con esso quel che rimane di uno stato già fallito». Il commento di Karaganov ha una storia interessante. Glielo aveva commissionato il Financial Times, che, però, non lo ha potuto pubblicare «per ragioni di spazio». Così è comparso ieri sul sito della rivista specialistica "La Russia negli affari globali". Degli allarmi americani non dubitano semplicemente i russi, la cui opinione dovrebbe essere comunque tenuta nel giusto conto. Anche il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha chiesto ai cittadini di ignorare i rapporti «apocalittici» su una guerra imminente. Prima di lui lo avevano fatto il presidente, Volodymyr Zelensky, e il responsabile della Difesa, Oleksii Reznikov. L'Ucraina sta assumendo, insomma, una posizione sempre più distante da quella degli Stati Uniti. Le parole di Kuleba sono arrivate poche ore dopo l'inquietante rapporto con cui il dipartimento della Difesa americano aveva avanzato una stima delle vittime che l'ipotetica invasione dovrebbe provocare: da 25.000 a 50.000 fra i civili, da 5.000 a 25.000 fra i militari ucraini, da 3.000 a 10.000 nei ranghi delle forze armate russe. Con le tensioni a mezzo stampa prosegue il ponte aereo di aiuti militari a Kiev. Sinora, sempre secondo Kuleba, sono arrivati fondi per un miliardo e mezzo di dollari e mille tonnellate di armi e munizioni. Proseguono anche i movimenti militari nel Mediterraneo. Nel fine settimana caccia americani sono stati avvistati in Sicilia».

NIGERIA, RAPITO UN SACERDOTE

Nigeria, l'escalation silenziosa sequestrato un altro sacerdote: un commando di Boko Haram ha fatto irruzione nella parrocchia di Ikulu Faria Chawai. Matteo Fraschini per Avvenire.

«Ancora una volta un religioso vittima di sequestro nel nord della Nigeria. Un gruppo di uomini armati ha attaccato la parrocchia di Ikulu Fari a Chawai, una località nello Stato federale nordoccidentale di Kaduna. Il sacerdote è stato rapito mentre il cuoco è rimasto ucciso durante l'irruzione. «Con grande dolore vi annunciamo che fra Joseph Shekari è stato preso dai terroristi - ha confermato ieri alla stampa fra Emanuel Okolo, funzionario della diocesi di Kafanchan -. Un suo collaboratore è invece morto in seguito all'attacco dei banditi». Il sequestro è avvenuto domenica poco prima della mezzanotte. Secondo le prime ricostruzioni, alcuni individui armati sono entrati sparando nella casa parrocchiale di Shekari chiamata Santa Monica e in poco tempo sono riusciti ad allontanarsi con il religioso prima di scomparire nella boscaglia. Le forze di sicurezza sono arrivate troppo tardi ma hanno affermato che faranno di tutto per «un rilascio rapido e sicuro» del religioso. «Supporteremo le autorità competenti per assicurare che la liberazione avvenga nella legalità - ha continuato Okolo -. Non vogliamo che si cerchi di fare giustizia da soli in maniera violenta». Lo Stato di Kaduna è da oltre due anni teatro di uccisioni e sequestri. Lo scorso 31 gennaio almeno 11 perso- ne sono rimaste uccise dopo l'assalto da parte di terroristi al villaggio di Kurmin Masara nell'area di Zangon Kataf. Civili, religiosi e studenti in gran parte minorenni spesso sono stati presi di mira da gruppi di criminali che agiscono di loro iniziativa o rispondono ai jihadisti di Boko Haram con la complicità di uomini d'affari e politici. Settimana scorsa, infatti, sono state indicate decine di individui accusati di corruzione e collusione con il terrorismo. «Secondo l'Unità di intelligence per la finanza nigeriana (Nfiu) ci sono almeno 96 figure della politica e del mondo degli affari che hanno finanziato il terrorismo per anni - ha confermato in televisione Emmanuel Ojukwu, ex commissario della polizia nigeriana -. Il governo ha comunque preferito non procedere con le inchieste e i processi». Secondo il quotidiano nigeriano "The Premium Times", alcuni funzionari governativi di alto livello sono riusciti a beneficiare della «letargia del potere» evitando così di essere perseguiti e giudicati per i loro crimini. Nonostante il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, abbia promesso di migliorare la sicurezza nel Paese, i jihadisti di Boko Haram nel nordest e le varie bande di criminali nel nord-ovest continuano a terrorizzare la popolazione. «Purtroppo le forze di sicurezza nigeriane hanno da tempo pochi fondi per contrastare il terrorismo di qualsiasi genere - spiegano gli esperti -. Bisognerebbe aumentare il loro budget e procurare l'equipaggiamento adatto per eseguire certe operazioni di sicurezza». Alcuni Paesi occidentali come gli Stati Uniti, Israele, e Francia continuano ad assistere le autorità locali nella lotta al terrorismo. La corruzione dell'esercito e del sistema di intelligence nigeriano è troppo radicata per avere degli effetti positivi. «Ad ogni posto di blocco nel nord del Paese i militari ti chiedono soldi per farti passare senza problemi - commentano i giornalisti che lavorano regolarmente nella regione -. Se hai denaro importa poco chi tu sia, cittadino comune o terrorista, e ti lasciano andare avanti». Di recente l'esercito ha lanciato una serie di operazioni nel Nord-Ovest per arrestare le violenze. I banditi, sebbene in ritirata, hanno reagito con ulteriore violenza, uccidendo e sequestrando chiunque trovassero sul loro tragitto.».

GIORNATA CONTRO LA TRATTA DELLE PERSONE

Oggi è la Giornata nazionale contro la tratta, l’ottava da quando Papa Francesco l’ha istituita. Per Avvenire Lucia Capuzzi.

«Le mani di Giuseppina Bakhita afferrano con forza la maniglia. Le braccia sono tese nel gesto di tirarlo verso di sé e di aprire il portellone da cui, uno dopo l'altro, balzano fuori donne e uomini. Con lo sguardo rivolto verso l'alto, guardano il cielo. Finalmente liberi. Let the oppressed go free, "Lasciate che gli oppressi siano liberi" è il nome scelto dall'artista Timothy Schmaltz per la statua di bronzo da lui realizzata per la Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta, coordinato da Talitha Kum e promosso dalle Unioni internazionali delle superiore e dei superiori generali, che oggi si celebra in tutto il mondo. L'ottava dal 2015, quando papa Francesco volle istituirla nella memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, l'ex baby-schiava sudanese che divenne religiosa canossiana e nel Vangelo scoprì la vera libertà. La schiavitù è ovunque illegale. Eppure nel mondo ci sono tuttora almeno - secondo le stime, al ribasso, delle Nazioni Unite - 40 milioni di esseri umani in catene. Il business da 32 miliardi di dollari l'anno rappresenta la terza attività illegale più redditizia, dopo il traffico di droga e di armi. E, con il Covid, la sua entità è cresciuta esponenzialmente. «Una ferita profonda, inferta dalla ricerca vergognosa di interessi economici senza alcun rispetto per la persona umana», ha detto il Pontefice, domenica, al termine dell'Angelus. Il 72 per cento delle vittime sono donne e bambine. Per questo, stavolta, la Giornata si concentra specialmente sul volto femminile della tratta. "La forza della cura. Donne, economia, tratta di persone" è il tema scelto con il proposito di focalizzare l'attenzione sulle sofferenze delle donne ma anche sul loro protagonismo nel riscatto proprio e altrui. «Cura vuol dire preoccuparsi per il mondo - spiega Marcella Corsi, economista dell'Università di Manchester e della Sapienza di Roma - . Come dice la teologa svizzera Ina Praetorius, "l'economia è cura", l'opposto del modello neoliberista dominante che mette il profitto al di sopra di tutto. E, in questo modo, genera le condizioni per lo sfruttamento». O, per parafrasare Giulio Guarini, economista dell'Università della Tuscia, il «divorzio della libertà economica dalle libertà civili, sociali e politiche fabbrica catene». L'accademico, collaboratore di Talitha Kum, ne individua almeno quattro. C'è la «catena dell'individualismo sfrenato», basato sulla competizione e sul disprezzo di chi resta indietro poiché "se lo è meritato". E quella del «sottocosto ». «Da una parte, il sistema produttivo è sempre più governato da una finanza globalizzata e speculativa che esige guadagni immediati e detta alle imprese strategie di breve termine orientate a una competizione verso il basso, incentrate sulla riduzione del costo del lavoro e sempre meno sugli investimenti nella qualità e nella valorizzazione del capitale umano. Dall'altra, i consumatori di fronte alla riduzione del potere d'acquisto reagiscono andando alla ricerca del minor costo che quasi mani corrisponde al prezzo giusto», sottolinea Guarini. A questa «alleanza di irresponsabilità » si aggancia la «catena della precarietà», quando la flessibilità diviene lo strumento per ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e liberare il capitale finanziario dai vincoli sociali e ambientali. Vi è, infine, la catena dell'austerità: i tagli indiscriminati alla spesa pubblica diventano pesi insostenibili sulle spalle dei settori più fragili, specie in tempo di Covid. E, in particolare, delle donne, che hanno visto le faticose conquiste degli ultimi decenni messe gravemente a rischio dalla pandemia. Denise Lobato, economista della Universidade federal di Rio de Janeiro, ha calcolato che in Brasile il 57 per cento dei disoccupati è di genere femminile e il profilo di chi ha perso l'impiego a causa della crisi innescata dal Covid è quello di una giovane nera tra i 14 e i 32 anni. Molte di loro hanno dovuto dare le dimissioni durante l'emergenza sanitaria per badare ai bambini e assistere i familiari malati. Le donne, però, non sono sono vittime. Sono anche - e forse soprattutto - agenti di trasformazione per innescare un cambiamento di paradigma. Per trasformare l'economia che uccide in economia samaritana, della cura. Oggi, la forza fragile, solo in apparenza, femminile sarà protagonista della maratona di preghiera che, dalle 9 alle 17, riunirà virtualmente testimoni di oltre trenta Paesi, dal Bangladesh a El Salvador, dal Ghana alla Nuova Zelanda. Tra loro sopravvissute, attiviste, volontarie, ricercatrici, imprenditrici. E, ovviamente, le tremila religiose di Talitha Kum che accompagnano milioni di donne nel lungo cammino verso la libertà. Perché, come diceva il grande liberale ottocentesco John Stuar Mill, non può essere lasciata la libertà a un essere umano di rendersi schiavo né può essere lasciata la libertà ad alcuni di considerare altri uomini e donne come schiavi».

I DANNATI DELLA LIBIA

Dopo la denuncia di Papa Francesco da Fazio, che si è appellato alla Ue, Francesca Mannocchi della Stampa torna sui “dannati della Libia”. Nel 2021 sono stati intercettati e riportati indietro 32 mila migranti: sono persone che spesso spariscono nei centri di detenzione gestiti dalle milizie con i soldi dell'Europa, tra abusi e violenze.

«Tra il 23 e il 29 gennaio 872 migranti sono stati intercettati in mare e riportati in Libia». «Tra il 16 e il 22 gennaio 604 migranti sono stati intercettati in mare e riportati in Libia». Sono solo due dei recenti bollettini della sede libica di Oim, l'Organizzazione internazionale per le Migrazioni. Il report precedente chiudeva l'anno 2021 con questi numeri: 650 morti in mare, 600 dispersi, 32 mila «intercettati e riportati indietro» in un anno. Trentaduemila significa tre volte i migranti riportati indietro l'anno prima, nel 2020. Riportati indietro significa riportati nei centri di detenzione, quelli gestiti dalle autorità, una decina, e quelli gestiti dalle milizie, centinaia. A questi numeri in mare, a quei numeri a terra faceva riferimento Papa Francesco parlando di lager, due sere fa, durante la sua intervista tv a Fabio Fazio. «Persone che soffrono per rischiare di attraversare il Mediterraneo e soffrono ancora quando vengono respinte», ha detto il Pontefice chiedendo una gestione più dignitosa del fenomeno migratorio. Caso ha voluto che le parole del Papa arrivassero pochi giorni dopo il 5° anniversario della firma del Memorandum d'Intesa siglato nel febbraio 2017 dall'allora governo Gentiloni, l'accordo sponsorizzato dall'Unione europea che sanciva l'aiuto alla guardia costiera libica, fornendo risorse tecniche e finanziamenti. Tanti. Solo l'Italia dal 2017 ha destinato 33 milioni di euro a supporto della Guardia Costiera libica. Dal Fondo fiduciario Ue destinato all'Africa, in sette anni, ne sono arrivati 455, una parte cospicua finita a finanziare la gestione militare delle frontiere. Soldi stanziati per finanziare l'esternalizzazione dei confini, transitati in Libia e finiti nelle tasche di chi quel fenomeno migratorio lo gestiva prima e continua a gestirlo ora. Non è la prima volta che Papa Francesco spende parole severe sulla condizione dei centri di detenzione libici, a novembre disse: «Non dimentico gli uomini, le donne e i bambini sottoposti a violenze insensate e disumane in Libia, sento le vostre grida». Sento le vostre grida, parole anche più significative perché da quando il fenomeno migratorio non è più oggetto di contese politiche e terreno di opposte tifoserie, il destino delle persone detenute in Libia è scomparso dal radar del dibattito pubblico. Gli accordi si rinnovano nel silenzio (assenso) delle istituzioni che del resto non hanno mai discusso il Memorandum in parlamento, e a fare resistenza, ricordare gli abusi, ascoltare le grida che arrivano dalle gabbie, restano le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite. Anche nel loro caso le parole sono severe, ma inascoltate, da anni. Nell'estate del 2020, dopo l'ennesimo recupero finito in tragedia (la guardia costiera sparò, uccidendolo, a un giovane recuperato in mare che cercava di fuggire) Federico Soda, capo missione dell'Oim in Libia scrisse: «L'utilizzo di una violenza eccessiva ha causato ancora una volta morti senza senso, in un contesto non in grado di assicurare alcun tipo di protezione». Intollerabile. Violenza eccessiva. Morti senza senso. Parole senza appello, senza ambiguità. Un mese prima l'Asgi, l'associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione, aveva pubblicato un rapporto sull'uso dei sei milioni di euro destinati dall'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) a migliorare i centri di detenzione. Dice l'Asgi, con una chiarezza disarmante, che «la detenzione (a tempo indeterminato) dei cittadini stranieri nei centri non è soggetta al vaglio di autorità giurisdizionali». Come dire che i fondi che l'Europa continua a erogare, i soldi dei contribuenti, non sono vincolati a nessun impegno da parte del governo libico, nessuna garanzia del miglioramento delle strutture, nessuna sanzione se questo non avviene. Tant' è che i soldi, negli anni, continuino ad aumentare. Le Nazioni Unite, dal canto loro, continuano a definire la Libia un porto non sicuro. E' così nei rapporti, numerosi, pubblicati in questi anni: «Lungo la rotta del Mediterraneo Centrale le persone cadono vittime di episodi di inenarrabili brutalità per mano di trafficanti, miliziani e, in alcuni casi perfino di funzionari pubblici», (Unhcr, 2020), è così nelle dichiarazioni ripetute dei vertici Onu, «sono preoccupato per l'impunità con cui il traffico di migranti e la tratta continuino attraverso e al largo della Libia», (Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, aprile 2021). E ancora, sempre Guterres, il 17 gennaio, meno di un mese fa, invitava gli Stati membri a «riesaminare le politiche a sostegno del rimpatrio dei rifugiati in Libia». Parole rimaste, come sempre, lettera morta. Negli ultimi anni sono state presentate tre richieste alla Corte Penale Internazionale per chiedere che i funzionari libici, i trafficanti, i miliziani siano indagati per crimini contro l'umanità, ma non c'è nessuno, in Libia, a sanzionare gli abusi. Perché in Libia la legge la fanno le connivenze e le armi. E tutti possono essere contemporaneamente trafficanti e guardia coste. L'ultimo caso, eclatante, è la nomina da parte del governo libico di unità nazionale (sì, quello acclamato dalla comunità internazionale come il primo governo unitario dopo Gheddafi) di Mohamed al-Khoja a capo del Dipartimento del ministero dell'Interno libico responsabile dei centri di detenzione. Al-Khoja è il leader di una milizia implicata in casi di torture a danni di migranti nei centri di detenzione illegali ed è stato capo del centro di detenzione di Tariq al Sikka, sede di documentati abusi. Sono le nebbie libiche, tutto triangola, tutto si tiene, tutti guadagnano sulla pelle di chi fugge. Poche settimane fa AP (Associated Press) ha consultato un rapporto militare confidenziale dell'Ue sull'addestramento della guardia costiera libica, compilato dal contrammiraglio della marina italiana Stefano Turchetto, capo missione di Irini. Il rapporto parla di «uso eccessivo della forza» da parte dei libici. Come dire: l'Europa ha speso 450 milioni per insegnare alla guardia costiera libica gli «standard comportamentali e i diritti umani», ma per loro i migranti restano quello che erano: bancomat. Nonostante la preoccupazione, tuttavia, l'Europa non fa un passo indietro, continuando a destinare fondi alla Guardia Costiera, e alle strutture detentive. E, dunque, di fatto alle milizie che raddoppiano, triplicano, i guadagni. Perché continuano a speculare su chi paga per partire, le persone migranti, e su chi paga, profumatamente, affinché non partano, gli Stati europei. Da quando sono stati firmati gli accordi con la Libia, cinque anni fa, sono state riportate indietro, in un porto non sicuro, da mezzi finanziati dai contribuenti europei, 82 mila persone. Sento il vostro grido, aveva detto Papa Francesco. Loro però sanno che l'attenzione sta sbiadendo. Che sono rimasti in pochi a battersi per loro. Che è sempre più difficile accedere nei centri, ascoltare le loro testimonianze, in una parola: vederli. E che finiremo, non vedendoli, per diffidare persino che esistano».

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