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90 secondi per evitare l’apocalisse

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90 secondi per evitare l’apocalisse

Mai così vicini alla catastrofe nucleare secondo gli scienziati. Germania e Usa mandano i tank a Kiev. Zelensky ripulisce il governo dalla corruzione. Sì della Camera all'invio di armi. Oggi nuovo Csm

Alessandro Banfi
Jan 25
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90 secondi per evitare l’apocalisse

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Nel giorno in cui i giornali di mezzo mondo annunciano l’invio di carri armati a Kiev da parte di Stati Uniti e Germania, gli scienziati del Doomsday Clock, l’Orologio dell’Apocalisse, creato nel 1947 per quantificare il rischio di una catastrofe atomica, hanno avvisato che mai come ora siamo vicini alla catastrofe. Mancano solo 90 secondi alla mezzanotte della civiltà, rispetto ai 100 indicati lo scorso anno. E del resto i rischi dell’escalation del conflitto sono evidenti a tutti. Escalation, titola infatti Repubblica stamattina. Perché è atteso nelle prossime ore, probabilmente già per oggi, il via libera di Berlino all’invio di una trentina di carri armati Leopard 2, mossa accelerata dal fatto che è atteso un annuncio analogo dal presidente statunitense Biden per quanto riguarda gli Abrams, tanto richiesti dalla Difesa di Kiev. Il cancelliere Scholz avrebbe ottenuto la copertura americana ad una mossa che tutti temono possa segnare l’ingresso di fatto della Nato nel conflitto. La Germania manderà almeno 14 tank a Kiev e autorizzerà altri Paesi, come la Polonia, a inviare i loro. Il generale Valerij Gerasimov interviene da Mosca e si propone di “neutralizzare le minacce” dell’Alleanza atlantica. Tutto questo mentre c’è un violento repulisti del leader ucraino Zelensky sulla corruzione all’interno del suo governo. Dopo le accuse delle scorse settimane di tangenti su forniture militari, quattro viceministri, tra cui quello della Difesa, un consigliere presidenziale e cinque presidenti di regione sono stati costretti a dimettersi. In un’interessante intervista ad Henry Kissinger di Lucio Caracciolo sulla Stampa, l’esperto della diplomazia americana insiste sul concetto che la Russia è parte dell’Europa.   

Intanto a Roma, con 215 sì e 46 no, la Camera dei Deputati ha dato il via libera al decreto sulle armi per l’Ucraina. Hanno votato contro i rappresentanti dei 5 Stelle e di Verdi-Sinistra. Paolo Ciani, eletto con Demos, vicino alla Comunità di sant’Egidio, è stato l’unico deputato del gruppo democratico a votare anche lui contro il decreto, discostandosi dalla linea generale. Sintomo del disagio di tanti cattolici di fronte all’escalation bellicista. Mentre i ministri Tajani e Crosetto sono tornati a ribadire l’assoluta fedeltà alla linea atlantista più intransigente.

Il fronte energia. È iniziato ieri sera lo sciopero dei benzinai, provocato dalla mancata riduzione delle accise e per protestare contro oneri e controlli ai distributori. Chi ha fatto il pieno prima dell’agitazione si è reso conto di quanto siano lievitati i prezzi dei carburanti negli ultimi giorni.
Sul fronte del gas, l’ambizione italiana di diventare hub del Mediterraneo si scontra con una infrastruttura mancante: c’è un collo di bottiglia nel centro della nostra penisola, fino a che non sarà realizzato il gasdotto Bologna - L’Aquila progettato dal 2005 e mai realizzato.

Papa Francesco (attaccato violentemente da Mike Pompeo, ex capo della Cia ai tempi di Donald Trump) ha diffuso un Messaggio per la 57esima Giornata mondale delle comunicazioni sociali che sarà celebrata il prossimo 21 maggio. Il titolo della riflessione che trovate integrale nei pdf, pubblicata da Avvenire, è: Parlare col cuore. “Secondo verità nella carità”. Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ricorda il valore della memoria, alla vigilia del 27 gennaio, e dice: «Neutralizzare il rischio che quanto accaduto vada dimenticato. Il Giorno della Memoria non è un momento dedicato alla carezza compassionevole verso gli ebrei: è un giorno di assunzione di responsabilità per tutti, cittadini e istituzioni, centrali e locali».

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae il “Doomsday Clock”, l’Orologio dell’Apocalisse, secondo cui il mondo è a soli 90 secondi alla mezzanotte, ovvero ad un minuto e mezzo dalla catastrofe nucleare. È stato presentato ieri infatti il nuovo Bullettin of Atomic Scientists in inglese, russo e ucraino.

Foto: Anna Moneymaker di Getty Images

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

L’orologio dell’apocalisse indica che manca solo un minuto e mezzo alla catastrofe. Lo sottolinea Avvenire: Ultimi 90 secondi. Il Quotidiano Nazionale annuncia: A Kiev i tank tedeschi e americani. La Repubblica sceglie una sola parola: Escalation. La Stampa descrive: Usa e Germania, tank a Kiev. Tajani: “Subito armi e aiuti”. Del caso Nordio e del nuovo Csm si occupa Il Corriere della Sera: Giustizia, richiamo del Colle. Il Fatto insiste contro la modifica dell’uso delle intercettazioni: Nordio sbugiardato pure dal Garante: “Zero abusi”. Il Messaggero mette l’accento sulla presa di posizione di Mattarella: Giustizia, la linea del Colle. Il Giornale attacca Meloni di nuovo sulla benzina, perché è iniziato lo sciopero: Governo in riserva. Il Manifesto si occupa del “Jobs act” rilanciato dalle destre: State sereni. Il Mattino invece critica la riforma Calderoli: Autonomia, i nodi non risolti. Il Sole 24 Ore si concentra sui bilanci locali: Comuni, investimenti verso il record ma al Sud sono mille gli enti in deficit. Il Domani attacca sulla libertà di espressione: FdI vuole trasformare in legge gli attacchi di Meloni alla stampa. La Verità prosegue la campagna No Vax: Il Wall Street Journal accusa: «Sui vaccini ci hanno ingannato». Libero sbeffeggia l’Ue: No vino, sì vermi. Buon appetito.

I TANK A KIEV, BERLINO LI MANDA DOPO IL SÌ DEGLI USA

La Germania ottiene la copertura politica dagli Usa. La mossa di Washington, che dice sì ai carri armati Abrams, sblocca la decisione di Berlino. L’analisi di Paolo Valentino per il Corriere.

«Olaf Scholz voleva una copertura politica per prendere la decisione della vita, la fornitura all’Ucraina dei Leopard, l’arma che potrebbe cambiare il corso della guerra ma anche ampliare il conflitto innescando conseguenze imprevedibili. Non una copertura qualsiasi, ma quella degli Stati Uniti, principale alleato e potenza leader dell’Occidente. E alla fine, dopo aver tenuto il punto pur sommerso dalle critiche, il cancelliere tedesco l’ha spuntata. Poche ore dopo l’anticipazione del Wall Street Journal , secondo cui la Casa Bianca sta per annunciare l’invio a Kiev di un numero significativo dei suoi formidabili carri armati Abrams M1, il governo federale ha deciso ieri sera di rompere ogni indugio e dare il segnale verde a fornire all’Ucraina i propri tank pesanti. All’inizio, secondo Der Spiegel , si tratterebbe di almeno una compagnia di Leopard modello 2A6, normalmente composta di 14 carri. Contemporaneamente, Berlino darebbe l’autorizzazione a trasferirne altri contingenti da parte dei 12 Paesi che li posseggono, a cominciare da Polonia e Finlandia. Varsavia in particolare, che ha detto di voler dar vita a una «coalizione di Paesi che sostengono Kiev con i carri Leopard», ha già inviato una richiesta ufficiale al governo tedesco per averne il via libera, ricevendo l’assicurazione che sarà trattata con «l’urgenza del caso». Secondo gli esperti militari, una volta sul teatro del conflitto, i carri armati di fabbricazione tedesca darebbero alle forze ucraine una nuova capacità offensiva, mettendole in grado di bucare le difese russe e riprendere la loro avanzata. Anticipata dal quotidiano economico, confermata da altre fonti al New York Times , la scelta di Biden sugli Abrams, fatta secondo le voci in contrasto con il Pentagono, è stata quindi il deus ex machina che ha risolto un’impasse andato avanti per settimane. L’ultima trattativa tra il presidente americano e il cancelliere sarebbe iniziata con la telefonata del 17 gennaio scorso, ma il negoziato segreto si è intensificato negli ultimi giorni. Si spiegano così le arrabbiature degli americani, di fronte alle ripetute fughe di notizie sulle condizioni poste da Scholz, che subordinava l’invio dei Leopard a quello degli Abrams. Che un annuncio a Berlino fosse nell’aria, era già intuibile ieri mattina, nella conferenza stampa che ha chiuso l’incontro tra il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Pistorius, infatti, ha rivelato di «aver personalmente incoraggiato i Paesi alleati che posseggono i Leopard a iniziare l’addestramento delle forze ucraine per manovrarli». Ai soldati di Kiev, che finora hanno usato solo i T-72 di fabbricazione sovietica, occorrono infatti da quattro a otto settimane per acquisire dimestichezza con i sofisticati carri tedeschi. Quello di Pistorius era il segnale che qualcosa si stava muovendo nella posizione della Germania e Stoltenberg non ha mancato di notarlo, lodando il «chiaro messaggio» dell’anfitrione e dicendosi «fiducioso» che la soluzione sui carri da combattimento sarebbe stata trovata presto. Sollecitato da tutte le parti, all’esterno e all’interno del governo, il sì di Olaf Scholz alla cessione dei Leopard, si lascia però dietro molte macerie. In primo luogo, un avvelenamento dei rapporti interni alla coalizione di governo, dove Verdi e liberali non hanno risparmiato bordate e colpi bassi al cancelliere, il quale ancora una volta si è mostrato disastroso nella comunicazione. A suo merito va tuttavia il fatto di aver tenuto il punto su una questione centrale: per la sua Storia, il suo ruolo e il suo peso, la Germania non può e non deve decidere da sola ma sempre insieme agli alleati sulle questioni della pace e della guerra. Si può essere d’accordo o meno, ma è un argomento solido e fondato».

APOCALISSE, 90 SECONDI PRIMA DI MEZZANOTTE

Avanti le lancette dell’orologio dell’apocalisse: mai stato così alto il rischio di una catastrofe nucleare nel mondo. Lo dicono gli scienziati del “Bullettin of Atomic Scientists”. La notizia è da Avvenire.

«La guerra in Ucraina ha reso la fine del mondo più imminente. L’Armageddon segnato dall’Orologio dell’Apocalisse – il Doomsday Clock, creato nel 1947, durante la Guerra Fredda, che scandisce il tempo che l’umanità ha davanti a sé per evitare una catastrofe dovuta alle armi nucleari o ai cambiamenti climatici – è stato anticipato: mancano 90 secondi a mezzanotte, rispetto ai 100 indicati lo scorso anno. L’orologio viene aggiornato ogni anno, e con lo spostamento in avanti delle lancette gli esperti del “Bullettin of Atomic Scientists” hanno voluto segnalare che l’apocalisse non è mai stata così vicina. A contribuire al peggio sono anche il programma nucleare iraniano, i tentativi della Nord Corea di ottenere l’atomica, l’espansione del programma missilistico cinese e gli arsenali nucleari di India e Pakistan. «Il rischio di catastrofe oggi è più alto dello scorso anno», ha sottolineato Steve Fetter, membro del Bollettino. Mentre la presidente, Rachel Bronson, ha evidenziato che «proprio perché è stato l’uomo a creare queste minacce, l’uomo può ridurle». Nei decenni, le lancette dell’Orologio hanno subito fluttuazioni costanti, passando dai 7 minuti nel 1947 ai 17 minuti nel 1991, fino al calo costante che si è registrato da allora, giungendo ai 90 secondi odierni».

IL GENERALE RUSSO: “NEUTRALIZZEREMO LE MINACCE DELLA NATO”

Un linguaggio diretto, per niente diplomatico. La reazione di Mosca alla notizia dell’arrivo dei carri armati sul terreno bellico è affidata al generale Valerij Gerasimov, che vuole “neutralizzare le minacce della Nato”. Rosalba Castelletti per Repubblica.

«Il presentatore russo Dmitrij Kiseliov rimarrà deluso. Soltanto pochi giorni fa, durante il suo seguitissimo talk show della domenica sera Vesti Nedeli in onda sulla rete ammiraglia della tv di Stato Rossija1 , aveva rivendicato di conoscere il motivo per cui gli Stati Uniti sembravano riluttanti a inviare a Kiev i loro carri armati Abrams. «Sono inadatti all’inverno. Bastano pochi centimetri di neve a fermarli», aveva sentenziato arrivando a paragonarli a una «mucca sul ghiaccio». A riprova aveva mostrato alcuni secondi di un video in cui un Abrams veniva giù da una collinetta innevata. Peccato che si trattasse di una dimostrazione di una tecnica di guida estrema, lo “slittamento controllato”, e non di un tentativo fallito di scalare una piccola altura. Ora che l’amministrazione Biden, stando al Wall Street Journal , sembrerebbe essersi decisa a inviare i temibili tank in Ucraina e avrebbe così aperto la strada anche alla fornitura dei Leopard2 tedeschi, chissà che cosa s’inventerà Kiseliov. Da giorni le più alte cariche politiche russe fanno a gara a fare la voce più grossa minacciando, in caso di invio di armi occidentali più potenti a Kiev, “conflitti nucleari” e “catastrofi globali”. Ieri ha parlato persino Valerij Gerasimov, capo dello Stato Maggiore delle forze armate russe e viceministro della Difesa, solitamente defilato dai riflettori. In una rarissima intervista con Argumenty i Fakty , la prima da quando lo scorso 11 gennaio è stato nominato anche responsabile della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina, ha spiegato che la riforma militare annunciata lo scorso dicembre che amplierà e ristrutturerà l’esercito russo servirà a «neutralizzare le minacce dell’Alleanza Nord Atlantica » e, in particolare, «la sua volontà di espandersi a spese di Finlandia e Svezia», nonché di trasformare l’Ucraina in uno «strumento per condurre la guerra ibrida contro» Mosca. Per Gerasimov «la Russia moderna non aveva mai conosciuto un tale livello ed intensità di operazioni militari » da parte dei suoi avversari e si trova ad affrontare «virtualmente l’intero Occidente collettivo». L’agguerrito Dmitrij Medvedev, ex presidente e premier, oggi vice del Consiglio di Sicurezza, ieri non ha commentato le notizie arrivate da Washington e Berlino, ma ha risposto ai funzionari ucraini e occidentali che sottolineano che Mosca sarebbe a corto di armi. «I nostri avversari ci osservano, periodicamente affermano che non abbiamo questo o quello... Voglio deluderli. Abbiamo abbastanza di tutto», ha detto visitando una fabbrica di kalashnikov a Izhevsk, capoluogo dell’Udmurtia, ed elogiando in particolare l’efficacia dei droni. Ma persino tra le voci più allineate al Cremlino c’è chi invita a non fare troppo i gradassi. «L’Abrams statunitense è un veicolo eccellente», ha detto l’analista militare Igor Korotchenko, membro del Consiglio pubblico del ministero della Difesa, intervistato dal media online PolitRussia (che fa capo a Evgenij Prigozhin). «L’invio di questi carri armati alle forze armate ucraine in numero sufficiente e con l’addestramento di equipaggi tra il loro personale militare — ha concluso — creerà un problema per noi, che in un modo o nell’altro dovrà essere risolto». Bisogna vedere come».

MAZZETTE UCRAINE, CORRUZIONE ANCHE SUGLI AIUTI

La corruzione a Kiev: terremoto nei vertici del potere ucraino. Luigi De Biase sul Manifesto.

«Forse le cose stanno esattamente come ha scritto sul suo profilo Twitter Timofii Milovanov, che dirige la Scuola di Economia di Kiev e consiglia il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sulle questioni di finanza pubblica. «Nel nostro paese è in corso una grande svolta culturale: la corruzione è un fatto episodico, ma la lotta alla corruzione è diventata sistemica». Eppure, l’improvvisa sequenza di inchieste, richieste, indiscrezioni e dimissioni che scuote i palazzi del potere e arriva all’ufficio dello stesso Zelensky sembra avere riportato l’Ucraina alla lotta tra clan degli anni passati, una lotta alla quale Stati uniti e Unione europea hanno spesso preso parte. Domenica la polizia ha arrestato il viceministro delle Infrastrutture Vasyl Lozinskii. Secondo le accuse avrebbe intascato mazzette per 400mila euro sull’acquisto di generatori elettrici, un bene di assoluta necessità per i civili di fronte agli attacchi dell’esercito russo contro la rete energetica. Un altro vice, Oleksii Simonenko, della Procura generale, si è dimesso per una questione di carattere morale: foto scattate in una villa in Spagna nel bel mezzo della guerra. dopodiché è stata la volta del viceministro della Difesa Vyacheslav Shapovalov, travolto da quello che è già conosciuto, in termini ironici, come lo scandalo delle uova. La storia è vecchia, prezzi delle forniture per l’esercito gonfiati e contratti assegnati a società amiche. Sul punto, però, occorre discutere. Dall’inizio dell’invasione gli apparati dello stato ucraino sono stati letteralmente sommersi da aiuti militari e monetari. Secondo le ultime stime dell’Istituto Kiel per l’economia globale si parla nel complesso di 108 miliardi di dollari, circa la metà del Pil nazionale.
Che davanti a questa cifra qualcuno a Kiev si prenda la briga di verificare il prezzo delle uova acquistate dalla Difesa potrebbe essere il segno, come ha scritto Milovanov, di un grandioso cambiamento nelle vicende di un paese segnato da decenni di ruberie. Ma lo scandalo lambisce il ministro della Difesa, Oleksii Reznikov, uno degli uomini più in vista del governo, che è impegnato in affari ben più importanti per le sorti del paese, non ha mai avuto nulla a che fare con il contratto delle uova, e nelle ultime ore ha denunciato una «campagna diffamatoria» che avrebbe come obiettivo ridurre il suo prestigio agli occhi degli interlocutori stranieri. Il caso più problematico riguarda, tuttavia il numero due dell’Amministrazione Zelensky, Kirillo Timoshenko. Il suo nome è associato ormai da mesi a un’inchiesta dell’Ufficio anti corruzione (Nabu). Quel dossier sembra adesso sul punto di essere chiuso, e l’esito solleverebbe forti perplessità sulla gestione di fondi consistenti. Non a caso con Timoshenko hanno lasciato due viceministri dello Sviluppo regionale, Vyacheslav Negoda e Ivan Lukeria, e i governatori di cinque regioni: Kiev, Sumy, Dnipro, Zaporizhzhia, Kherson. La situazione delle ultime due è particolarmente problematica dal punto di vista militare, dato che sono in parte occupate dall’esercito russo. Alla catena di eventi è necessario aggiungere una tragedia, quella che la scorsa settimana è costata la vita al ministro dell’Interno, Denis Monastirkii, al suo vice, Evgeni Yenin, e al segretario di stato Yurii Lubkovic. I tre erano a bordo di un elicottero caduto a Brovary, nel distretto di Kiev. Sulle ragioni dell’incidente il riserbo è ancora massimo. Il ministero dell’Interno ha un peso notevole negli equilibri politici dell’Ucraina, il che dipende, da un lato, dalle relazioni con la Procura generale e con gli organismi anti-corruzione, dall’altro dal controllo diretto sui 90mila uomini della Guardia nazionale, di cui fanno parte anche i battaglioni Azov e Donbass. Monastirski, 42 anni, aveva assunto l’incarico nel luglio del 2021, dopo le dimissioni di Arsenii Avakov. Yenin, suo coetaneo, era entrato nella squadra dell’Interno un paio di mesi più tardi, dopo avere servito ai vertici della Procura generale e al ministero degli Esteri. Proprio Yenin aveva ideato e coordinato una delle iniziative più efficaci contro l’esercito russo. Piccole squadre di specialisti addestrate per colpire con i droni oltre le linee nemiche.
Nel suo ufficio teneva il conto dei carri armati distrutti. Era uno degli uomini che ha reso possibile la difesa di Kiev e la controffensiva nel settore di Kharkiv.
Visto il clima di scontro nelle istituzioni, la domanda in queste ore a Kiev è la seguente: chi sarà il prossimo? Fra i possibili obiettivi, scrive il portale di informazione Strana, una delle ultime voci indipendenti nel panorama della stampa ucraina, ci sarebbero due fedelissimi di Zelensky come il premier, Denys Shmyal, e il capo dell’amministrazione presidenziale, Andryi Yermak. Le ragioni di questa campagna non sono, tuttavia, del tutto chiare. Perché colpire intorno a Zelensky? E perché adesso? Sempre secondo Strana, la possibile soluzione passa per il Nabu, che è coinvolto in tutti i casi degli ultimi giorni ed è conosciuto per i rapporti con diversi governi stranieri. L’ipotesi, quindi, è che attori esterni cerchino di ottenere maggiori garanzie sugli investimenti miliardari compiuti negli ultimi mesi, anche a costo di limitare i poteri di Zelensky.
Non sarebbe la prima volta. Nel 2014 nel governo ucraino entrarono un ministro lituano, Aivaras Abromavicius, all’Economia, uno georgiano, Aleksander Kvitashvili, alla Sanità, e uno con passaporto americano, Natalia Yaresko, alle Finanze. Allora negli Stati Uniti Joe Biden era vicepresidente».

CARACCIOLO INTERVISTA KISSINGER: LA RUSSIA È EUROPA

L’occasione del colloquio sono i vent’anni dalla morte dell’avvocato Gianni Agnelli. Henry Kissinger parla con Lucio Caracciolo per la Stampa di Torino. Oltre al ricordo dell’ “amico Gianni” c’è un quadro interessante delle relazione fra Europa e Russia.

«Henry Kissinger, cento anni a maggio, ricorda con emozione il suo amico Gianni Agnelli a vent'anni dalla scomparsa. Il più influente teorico e pratico della politica estera americana, tuttora attivo sulla scena pubblica internazionale con opinioni spesso controcorrente, ha fama di uomo freddo. Non le è. Certo non quando parla del presidente della Fiat, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia: «Gianni Agnelli era un uomo di visione, di grande umanità e apertura mentale. Aveva uno charme leggendario, a cui anche io – sulle prime – ho cercato di resistere. Ma non è stato lo charme a creare l'amicizia. È stata l'ampiezza dei suoi interessi. E così siamo diventati amici».

Quando?
«Ci siamo conosciuti nel 1969, quando accompagnai il presidente Nixon durante una visita a Roma. Ci fu una meravigliosa cerimonia al Quirinale, con molti politici e uomini d'affari italiani. La nostra amicizia si è cementata nei due anni successivi. Ogni volta che veniva in America mi chiamava. Ci siamo sempre tenuti in contatto, ma non mi ha mai chiesto nemmeno un favore. Non mi ha mai chiesto aiuto per la Fiat. Mi chiedeva di come andasse il mondo in generale. Parlavamo delle nostre vite, di quello che ci succedeva».

Lei ha definito l'Avvocato «un uomo del Rinascimento».
«Ho usato quell'espressione perché Gianni era un uomo curioso di tutto. Era appassionato di arte, di sport, non solo di politica. Ovviamente, era anche molto interessato all'industria italiana e, aggiungerei, europea. Gianni era capace di appassionarsi a tutto. Per questo i suoi interessi erano così ampi e intensi».

Agnelli era pro-americano nel senso più ampio del termine, un atlantista convinto. Come vedeva il rapporto fra Italia e Stati Uniti?
«Gianni pensava che il mondo stesse andando incontro a una profonda trasformazione. Era convinto che le nazioni atlantiche dovessero affrontare insieme quel cambiamento. Ma era anche convinto che fosse necessario cooperare con tutti i Paesi. Gianni era molto orgoglioso delle sue origini italiane. Credeva che l'Italia fosse qualcosa di speciale. Allo stesso tempo, pensava che l'Europa dovesse essere unita e fortemente legata all'America».

Non tutti i leader italiani del tempo, specialmente se politici, erano così atlantici. Non le sembra che l'Italia della guerra fredda tendesse verso il neutralismo?
«No. Secondo me l'Italia era un Paese completamente atlantico, sia in termini industriali che politici. Anche perché l'evoluzione della storia europea ha dato all'Italia un indirizzo particolare. Gianni si interessava di politica ed era in contatto con i massimi politici italiani. Ma non si interessava tanto dei problemi immediati. Gli interessava di più capire come i problemi potessero svilupparsi e impattare sulla società nel lungo termine. È per questo che si è impegnato a formare giovani leader, alcuni dei quali sono diventati molto importanti. Gianni è sempre stato aperto a discutere con qualsiasi leader politico. Certo, aveva le sue idee. All'epoca l'Europa era divisa in due. Lui era a favore della Nato, ma credeva che bisognasse sforzarsi di tenere insieme paesi e società diverse. Ed era sicuro che con la Russia – allora Urss - si potesse collaborare».

Viviamo un'epoca totalmente diversa. Come pensa che l'Avvocato avrebbe giudicato questo mondo in guerra?
«Gianni pensava ieri e penserebbe oggi che ogni nazione ha un impatto sulle altre. È molto importante non troncare mai il dialogo per far sì che ciascun paese, anche se coinvolto in un conflitto, abbia la certezza di poter tornare ad essere considerato buono».

Varrebbe anche per la Cina?
«Credo di sì. Alla fine della sua vita Gianni stava esplorando la possibilità di entrare in Cina. Vi aveva anche aperto qualche stabilimento. Ma non mi ha mai chiesto aiuto, nonostante io abbia ottime relazioni da quelle parti».

Forse è per questo che i cinesi alla fine degli anni Novanta hanno deciso di guidare Volkswagen (Kissinger ride e non commenta). Lei ha detto che Agnelli è stato «un leader che ha sempre tenuto conto delle relazioni internazionali». Un'eccezione nel mondo dell'industria?
«Gianni si è dedicato molto alla causa atlantica e a quella europea, ma credeva davvero nell'industria e nella nazione italiana. Una volta stavamo parlando delle grandi istituzioni internazionali. Eravamo d'accordo sul fatto che fossero utili, ma lui mi disse: "Io sono un'istituzione nazionale". Voleva che la sua impresa industriale avesse anzitutto un impatto nazionale. Italiano».

Oggi noi occidentali in Europa siamo in guerra con la Russia.
«Al tempo della nostra amicizia, l'Europa era ancora divisa in occidentale e orientale. E c'era meno contatto fra quelle due parti. Gianni aveva degli interessi in Russia sovietica e pensava che la Russia fosse a tutti gli effetti parte dell'Europa. Siamo stati anche qualche giorno insieme in Russia. Sfortunatamente oggi c'è la guerra in Ucraina a mettere insieme Europa orientale e occidentale. Io spero che questa cooperazione continuerà dopo la guerra».

Per lei la Russia è o non è parte dell'Europa?
«Il problema delle relazioni tra Russia ed Europa è dato dal fatto che la Russia ha sempre ammirato l'Europa, suo modello culturale, ma allo stesso tempo è sempre stata spaventata dall'Europa e dall'Occidente in generale, perché ne è stata invasa più volte. La Russia non è riuscita a decidere una volta per tutte se vuole vivere nella speranza o nella paura. Io credo che, comunque finisca in Ucraina, la Russia debba essere senza dubbio inclusa nel quadro europeo. So che in questo momento non sembra molto probabile, ma penso che il futuro sarà questo. E credo che Gianni avrebbe detto la stessa cosa».

Lei crede che oggi, nel mondo di Internet e dell'intelligenza artificiale abitato da oltre otto miliardi di umani, sia possibile costruire un nuovo ordine europeo e mondiale? Non è utopia?
«L'intelligenza artificiale cambierà il mondo. Siamo solo agli inizi. L'impatto sarà enorme. È come se fossimo nell'età dell'illuminismo: sta emergendo un nuovo concetto di realtà. Il problema, e la differenza con il XVIII secolo, è che l'intelligenza artificiale è totalmente distruttiva. Non ci sono più limiti alla capacità umana di distruggere. Ma ciò significa che, in un modo o nell'altro, l'umanità dovrà rendersi conto che la pace è necessaria. Duecentocinquanta anni fa, Kant disse che la pace sarebbe stata raggiunta o grazie alla coscienza umana della sua inevitabilità o a causa di catastrofi tali da non lasciare ulteriori opzioni. Lo penso anch'io. Gianni sarebbe stato meno filosofico e più pratico. Io ero più filosofico, ma penso che i nostri approcci fossero paralleli. Avremmo avuto lo stesso obiettivo».

IL PARLAMENTO VOTA IL NUOVO INVIO DI ARMI

L’unico deputato eletto col Pd a votare ieri contro l’invio delle armi in Ucraina è stato Paolo Ciani, di Demos, emanazione della Comunità di Sant’Egidio. Lorenzo Giarrelli per Il Fatto.

«Non c’è tema che unisca il Parlamento come l’invio di armi all’Ucraina. A parte il Movimento 5 Stelle, l’alleanza Verdi-Sinistra e qualche eccezione del Pd, ieri tutti i deputati hanno votato a favore del decreto che proroga al 31 dicembre 2023 la possibilità di spedire nuovi aiuti militari a Kiev attraverso atti interministeriali. Cioè senza che si passi di volta in volta dal Parlamento. Il tabellone di Montecitorio racconta di 215 sì e 46 contrari. Renziani e calendiani votano col centrodestra e lo stesso fa il Pd. Si defilano solo Laura Boldrini e i due esponenti di Articolo 1 Nicola Stumpo e Arturo Scotto, che non votano. L’unico dem a votare contro il decreto è Paolo Ciani, rappresentante di Demos e della Comunità di Sant’Egidio: “Abbiamo visto che il continuare a mandare armi protrae la guerra – dice al Fatto uscendo dall’aula – e ne potrebbe anche alzare la portata. E ricordo che l’aggressore ha armi nucleari”. Ciani interpreta un malessere diffuso nelle varie forme dell’associazionismo cattolico. Non a caso ieri Avvenire ha ospitato una lunga intervista al cardinale Zuppi sulla pace. Ciani ricorda che “Papa Francesco fin da subito ha posto grande attenzione sulla pace, subendo per questo umiliazioni e dinieghi”. L’auspicio è che le diverse declinazioni dei movimenti cattolici possano ora avere più peso, anche nel centrosinistra impegnato nel congresso: “Ho grande rispetto per il percorso dei miei colleghi e non mi va di giudicare – è la versione di Ciani – Ma quando ho fatto campagna elettorale ho percepito che i cittadini sentono con grande forza l’esigenza della pace. Nei prossimi mesi sarà necessario approfondire in maniera più libera questo tema. Dopo un anno, siamo in una fase diversa”. Il resto dello spartito segue i pronostici. Mentre il ministro Guido Crosetto annuncia “il sesto decreto di aiuti nelle prossime settimane”, la destra mette l’elmetto. La Lega, essendo giorno pari, ritrova l’amore per le armi. Giorgio Mulè spiega il sì di FI con un sillogismo: “Se le condizioni politiche internazionali non sono mutate, perché dovrebbe mutare la posizione dell’Italia?”. Forse proprio perché le condizioni politiche internazionali non sono mutate, dopo un anno di armi. È questo il ragionamento del M5S: “La logica del supporto militare a oltranza – avverte Marco Pellegrini – potrebbe condurci presto a parlare di invio di truppe”. A sinistra, Nicola Fratoianni protesta anche per il “no” a un suo ordine del giorno: “Chiedevamo solo che ogni volta che il governo decide di inviare armi passasse per il Parlamento. Pura democrazia parlamentare, bocciata”».

MATTARELLA DIFENDE L’INDIPENDENZA DEI GIUDICI

Oggi ci sarà il rinnovo del Csm, Sergio Mattarella ieri ha pronunciato un discorso di saluto a vecchi e nuovi componenti del Consiglio. Senza polemizzare con il ministro Carlo Nordio, il Presidente ha fissato alcuni paletti. L’articolo per La Stampa è di Ugo Magri.

«Il «Parlamento» dei giudici volta pagina, anche simbolicamente, con lo scambio di consegne ieri al Quirinale tra i «vecchi» membri del Csm e i nuovi. Questa mattina Sergio Mattarella presiederà il «plenum» che eleggerà il suo vice, di fatto il numero uno. Dopodiché l'organo di autogoverno della magistratura sarà operativo giusto in tempo per le inaugurazioni dell'anno giudiziario (inizieranno domani a partire dalla Corte di Cassazione) e, soprattutto, potrà assolvere una quantità di compiti che definire delicati è poco: nomine, trasferimenti, carriere, provvedimenti disciplinari nel confronti delle toghe, ma anche pareri sulle future riforme della giustizia, più tutte le altre iniziative necessarie per difendersi dalle aggressioni della politica. A tale proposito Mattarella ha pronunciato un discorso breve ma denso. Un richiamo in particolare: sull'importanza che la magistratura goda di piena autonomia. La tutela non una legge qualsiasi, segnala il presidente, ma la stessa Costituzione. Definisce l'indipendenza del potere giudiziario un «pilastro della democrazia». E questa sottolineatura di sicuro non è casuale. Suona come un avviso ai naviganti, come un altolà preventivo casomai qualcuno intendesse tagliare le unghie ai tutori della legalità. Scorgervi una polemica con il ministro Guardasigilli, tra l'altro presente alla cerimonia, sarebbe fuori luogo: sul Colle sono molto netti al riguardo. Ma il largo dibattito che si è aperto in tema di giustizia, nella prospettiva di renderla più efficiente, dovrà evitare pericolose fughe in avanti e rispettare i confini fissati dalla Carta costituzionale. Tra questi, appunto, l'autonomia della giurisdizione. A sua volta il Csm dovrà mostrare uno spirito costruttivo, senza sterili contrapposizioni. «Sono certo che il nuovo Consiglio saprà svolgere le sue funzioni», mette in chiaro il presidente con tono fiducioso, «nel quadro di corretti rapporti istituzionali, nell'interesse preminente della Repubblica». Le tensioni tra politica e giustizia fanno solo male all'Italia. Certo: il Csm non vive la sua stagione migliore. Polemiche e scandali ne hanno trascinato la credibilità al punto più basso. All'indomani del «caso Palamara» si dimisero 6 consiglieri togati. Venne rimproverato al Colle, specie da destra, di non averne approfittato per un «repulisti» generale, azzerando l'intero organo dello Stato. Ma sarebbe stata una forzatura, una violazione di legge. Tra le pieghe del discorso, Mattarella rivendica la scelta di allora. Per ben due volte ha ringraziato i consiglieri uscenti del lavoro svolto, con una speciale menzione dedicata al vice-presidente David Ermini del quale ha lodato «responsabilità» e «alto senso delle istituzioni» dimostrati nei passaggi più burrascosi. Nonostante sia stata «una consiliatura complessa, segnata da gravi episodi», riconosce Mattarella, il Csm ha fatto quanto poteva per garantire lo svolgimento dell'attività giudiziaria, anche durante l'emergenza Covid. Dunque massimo rispetto per i consiglieri uscenti, ai quali va riconosciuto quantomeno l'onore delle armi; e rispetto più in generale per tutti i magistrati «che svolgono con impegno e dedizione la loro attività, anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose», rimarca il presidente della Repubblica. Anche qui il messaggio è trasparente. Guai a delegittimare giudici e Pm specialmente ora che si stanno raccogliendo i frutti della lotta alle mafie».

GAS, MANCA UN TUBO PER DIVENTARE UN VERO HUB

Il gasdotto tra l’Aquila e Bologna è necessario per fare davvero diventare l’Italia un hub del metano nel Mediterraneo, come detto da Meloni ad Algeri. Presentato nel 2005, non è stato mai realizzato. Il governo potrebbe decidere di commissariare le procedure. Luca Pagni per Repubblica.

 «Dal Sud Italia possono arrivare al massimo 126 milioni di metri cubi di gas al giorno: questo è il collo di bottiglia che dobbiamo superare perché il nostro Paese diventi l’hub energetico per tutta l’Unione europea, un’occasione che non dobbiamo perdere». È il cruccio di Claudio Descalzi, ripetuto anche l’altro giorno ad Algeri - durante la visita ufficiale al fianco della premier Giorgia Meloni così come lo ha raccontato in un colloquio con Repubblica. Ma di quale collo di bottiglia si tratta e come può essere superato? L’amministratore delegato di Eni ha indicato già dall’anno scorso - con l’inizio dell’emergenza dovuta alla guerra russo-ucraina - la strada per superare la dipendenza dalle forniture di Mosca: consolidare i rapporti con i partner storici dell’Italia nel Nord Africa. Dall’Algeria all’Egitto, passando per la Libia, possono arrivare anche 12-15 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno, rispetto ai livelli attuali. Oggi è il gas, ma un domani con lo sviluppo delle rinnovabili - in particolare degli impianti fotovoltaici - sarà possibile ricevere anche idrogeno green , che potrà essere trasportato attraverso i gasdotti dove ora passa il metano destinato al nostro Paese. E da qui gas naturale e idrogeno - possono arrivare a tutto il Nord Europa. Ma tra il dire e il fare non c’è di mezzo solo il Mediterraneo. Bisogna anche disporre delle infrastrutture necessarie. Come prima cosa occorre potenziare i gasdotti esistenti tra la costa africana e la Sicilia, quello tra la Libia e Gela, ma anche tra l’Algeria e Mazara del Vallo (via Tunisia). Così come la Ue potrebbe sostenere la realizzazione di impianti per la liquefazione del gas da spedire via nave, in particolare sulla costa algerina, sfruttando le enorme potenzialità di metano presenti nel sottosuolo e ancora da estrarre. Ma bisogna anche fare in modo che la materia prima possa risalire tutta la penisola e oltrepassare le Alpi. Cosa che, in questo momento, non sarebbe possibile anche se fossero disponibili maggiori quantità di gas. L’ostacolo si trova in Italia Centrale, tra Sulmona (in provincia dell’Aquila) e Minerbio (in provincia di Bologna), un gasdotto di 400 chilometri per ora solo sulla carta, diviso in tre tronconi di cui sono stati autorizzati solo i primi due. È questo il collo di bottiglia che non permette all’Italia di sviluppare tutte le sue potenzialità di hub del gas del Sud Europa e di cui ha parlato Descalzi ad Algeri. Mancano le ultime autorizzazioni regionali e solo da poco l’Arera (l’ex Authority dell’energia) ha iniziato le consultazioni pubbliche per raccogliere eventuali osservazioni al progetto. Il gasdotto si rende necessario perché (come si vede dalla cartina) le due infrastrutture esistenti che corrono parallele alla costa del Tirreno e dell’Adriatico hanno una portata limitata. Per questo il gruppo Snam deve completare la parte finale del progetto di una nuova dorsale che in realtà parte dalla Puglia, in provincia di Taranto, e per il momento si ferma proprio in Abruzzo. Come si legge dai documenti Snam, dai tre punti di ingresso del Sud Italia (i due in Sicilia a cui si deve aggiungere l’approdo dal Tap in Salento) entrano circa 126 milioni di metri cubi di gas al giorno, ma potrebbero potenzialmente salire fino a 190 milioni. Con l’ultimo tratto del gasdotto in costruzione ci sarebbe subito spazio fino a 150 milioni al giorno, per poi salire. Per accelerare la costruzione dell’infrastruttura il governo potrebbe pensare anche a commissariare le procedure, considerandola come “opera strategica”. Così come avvenuto per i poteri assegnati ai presidenti delle Regioni per le opere legate ai rigassificatori di Piombino (che dovrebbe entrare in esercizio per la fine di maggio) e di Ravenna (la cui inaugurazione è fissata invece per il terzo trimestre del 2024). Solo allora, dopo che se ne parla da 20 anni, il disegno di hub del gas per il Sud Europa potrebbe raggiungere il suo contorno definitivo».

Editoriale di Riccardo Redaelli per Avvenire: se si vuole diventare centrali nel Mediterraneo, va ripensato il rapporto fra Europa ed Africa.

«Ma quanto Mediterraneo in questi giorni nella politica italiana… Incontri ufficiali dei nostri ministri degli Esteri e dell’Interno a Tunisi, in Turchia, in Egitto e soprattutto la recentissima visita di Stato della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Algeria. Un Paese ritornato prepotentemente centrale per la nostra strategia energetica con la guerra in Ucraina. Non a caso, è riecheggiata continuamente la visione di Enrico Mattei, il padre del gasdotto che ci lega ad Algeri e che potrebbe fare dell’Italia – come è stato auspicato – un nuovo hub per il mercato del gas europeo, in vista dal distacco totale dalla Russia. Un’attenzione verso questo bacino che può sorprendere, se si ripensa alla retorica sovranista che i principali partiti oggi al governo hanno usato e alimentato verso la Sponda Sud del Mediterraneo, dipinta troppo spesso solo come fonte di problemi e non come anche di opportunità. Se è consentito scomodare Hegel, è noto come i fatti siano la dura replica della storia alle idee. E oggi appare assolutamente manifesto come per l’Italia sia di prioritario interesse interagire con i Paesi della sponda sud di questo mare. È tuttavia fondamentale non farlo solo in modo reattivo, esclusivamente al fine di governare dinamiche immediate, per la necessità di ottenere forniture di gas naturale o per gestire meglio i flussi di profughi e migranti che lo interessano; un tema quest’ultimo oltremodo complesso e sistemico, che certo non si risolve con la demonizzazione delle Ong, come dimostrano gli arrivi di questi mesi. L’attuale governo legittimamente fissa le sue priorità e stabilisce la sua linea di difesa dell’«interesse nazionale»; ma si può notare che su diversi dossier, di fatto, si sta muovendo in linea con le scelte dei governi precedenti. Una maggiore attenzione al Mediterraneo e alle aree ad esso collegate (quella subsahariana in particolare) significa avere la capacità di immaginare una nuova architettura delle relazioni fra Europa e Africa, che vada oltre alle esperienze deludenti delle politiche euromediterranee sinora realizzate dall’Unione Europea. E soprattutto capire che la guerra in Ucraina sta facendo sorgere un nuovo ordine europeo, che rischia di essere ancor meno favorevole all’Italia rispetto agli ultimi decenni. Quali che siano il risultato e la durata di quel conflitto, è inevitabile che vi sia uno slittamento del baricentro strategico verso Est: il riarmo tedesco, la crescita militare e politica della Polonia, l’influenza dei Paesi baltici, il ruolo dell’Ucraina come potenza militare armata dall’Occidente, sono tutte trasformazioni geopolitiche che impatteranno sulla visione che Unione Europea e Nato hanno del nostro sistema macroregionale. È quindi essenziale che i Paesi mediterranei tengano “agganciata” l’Europa al Mediterraneo. Ma per riuscire a innescare questa dinamica è necessario un cambio di percezione: bisogna smettere di trattare i problemi (e le potenzialità) del nostro essere al centro di questo mare come un tema strumentale o di polemica fra i partiti. Avere una visione euromediterranea impone uno sforzo per passare dalle “onde corte” di breve periodo della politica quotidiana, a quelle lunghe di una vera visione strategica. Significa difendere il proprio interesse nazionale non contro quello di altri, in particolare rispetto alla Francia, con cui abbiamo da anni incomprensioni e rivalità che hanno danneggiato entrambi. Bensì impone alla politica di elaborare una architettura regionale sistemica che vada oltre il gioco a somma zero (se tu vinci, io perdo; e viceversa), ma che sia in qualche modo inclusiva e condivisa. Tanto fra i Paesi rivali lungo la Sponda Nord e quanto con quelli della Sponda Sud. Qualcosa che le politiche dell’Unione, come ad esempio il “Partenariato Euromediterraneo” o la fallimentare “Unione per il Mediterraneo” non hanno mai saputo fare. Un modo nuovo di guardare a una regione che si sta trasformando sia per le sue dinamiche interne (da quelle politico-economiche a quelle sociodemografiche), sia per le trasformazioni del sistema internazionale nel suo complesso. Quali, ad esempio, la crescente stabile presenza della Cina e della stessa Russia o l’attivismo unilaterale delle medie potenze regionali, come Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti. Mattei, dopo la seconda guerra mondiale, aveva saputo proporre visioni e formule di relazioni del tutto innovative per il mondo arabo e per l’Africa, come è stato ricordato da Meloni ad Algeri. Senza velleitarismi e guardando al lungo periodo, è importante che l’Italia avvii e sostenga nuovamente questa riflessione e sviluppi questa azione».

MIKLE POMPEO ATTACCA LA UE E IL PAPA

Accuse violente del sottosegretario di Stato Usa dell’era Trump Mike Pompeo, che è stato anche direttore della Cia, in un libro di memorie fresco di stampa. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«È molto duro l’attacco che Mike Pompeo, ex direttore della Cia, segretario di Stato e probabile candidato alla Casa Bianca, lancia contro Papa Francesco, l’Unione europea e in parte il nostro Paese, nel suo libro Never Give an Inch pubblicato ieri. Il politico repubblicano, che si era congratulato con Giorgia Meloni per l’ingresso a Palazzo Chigi perché «l’Italia merita e ha bisogno di una forte leadership conservatrice », rimprovera al Vaticano e a Roma la debolezza verso la Cina, e accusa Bruxelles di fare gli interessi di Germania e Francia contro l’Italia e altri Paesi. Nel capitoletto intitolato L’ipocrisia della Santa Sede, Pompeo scrive che «ho speso una considerevole quantità di tempo ed energia per cercare di convincere una delle istituzioni religiose mondiali più influenti a sostenere la libertà di religione». L’ex segretario di Stato descrive le persecuzioni di Pechino contro leader cattolici come il vescovo Cui Tai, e nota che «alla luce di questi abusi, uno penserebbe che Papa Francesco sarebbe stato veloce nel tenere fede alle sue parole del 2013: “I cristiani devono rispondere al male con il bene, e prendere la Croce come fece Gesù”. Eppure lui e molti suoi cardinali hanno fatto l’opposto. La politica estera del Vaticano ha sempre propeso verso sinistra, ma non succedeva dai tempi dell’appoggio di Giovanni XXIII per la teologia della liberazione che andasse così contro la libertà, come oggi in Cina». Si riferisce all’accordo segreto firmato dalla Santa Sede con la Repubblica popolare per la nomina dei vescovi, che boccia come «massiccio fallimento del suo dovere e della testimonianza morale». Perché la Chiesa «credeva che adottando l’ appeasement col Partito comunista cinese, Pechino avrebbe allentato la campagna di persecuzione contro i cattolici che non si prostravano a Xi. Ma la situazione non è migliorata affatto». Pompeo nota che «Reagan aveva avuto come alleato Giovanni Paolo II, noi eravamo incartati con Papa Francesco». L’ex segretario dice di aver cercato di convincere il Vaticano a rinunciare all’accordo, e rivela che «uno dei miei grandi alleati era il cardinale Joseph Zen». Perché «anche sulla protezione delle libertà civili ad Hong Kong, la Chiesa è stata pusillanime. Zen durante una telefonata mi ha detto che il fallimento del Vaticano è stato peggiore della guerra, perché “il nemico è diventato il leader del nostro paese”». Pompeo rivela di aver «sollevato la questione con il Papa, quando ebbi il privilegio di un’udienza con lui nel 2019. Riconobbe che le persone nel mondo erano perseguitate. Ma poi cambiò soggetto, sollecitando gli Usa ad allineare le loro politiche sul confine meridionale alla chiamata cristiana di aiutare i più deboli. Proprio non capiva l’argomento». Quindi ricorda con fastidio la visita del 2020, quando Francesco si era rifiutato di vederlo, dopo che lui aveva scritto sulla rivista First Things un articolo per chiedere alla Santa Sede di cancellare l’accordo. Così si fa portavoce delle critiche dei conservatori cattolici americani contro il pontefice, e infatti cita l’ex ambasciatrice Mary Ann Glendon, di cui era stato assistente all’università di Harvard: «Il Papa e il Vaticano sanno che il loro accordo è moralmente ingiustificabile, perché non lo hanno mai pubblicato». Pompeo scrive che «avere a che fare con l’Unione europea è stato uno dei compiti più spiacevoli del mio mandato. Ho lavorato con due controparti ministeriali. La prima era Federica Mogherini, ex membro della Federazione dei giovani comunisti italiani. Il secondo Josep Borrell, socialista. Entrambi mi disprezzavano. E Trump gli piaceva anche meno. Credevano che noi fossimo noiosi e stupidi. Io pensavo fossero agenti ingenui della sinistra». Le divergenze erano su Pechino, l’accordo nucleare con l’Iran, i commerci, ma anche l’intera istituzione comunitaria: «C’è molto da dire sulla Ue, la sua configurazione, e l’autonomia che ha succhiato a nazioni come Grecia, Ungheria, Italia, Polonia. Germania e Francia abusano del loro potere contro questi paesi, e l’Europa sta peggio a causa di ciò». La «triste verità è che la maggior parte dei leader europei non ha l’istinto di vedere la Cina come una minaccia», e qui arriva un rimprovero anche per Roma: «L’Italia è stata debole nel tenere Huawei fuori dai suoi network» delle comunicazioni. Al proprio paese d’origine Mike riserva solo un ricordo di colore, quando venne a visitare Pacentro, terra dei suoi avi e di un’altra celebrità: «Mi consegnarono un pacco da recapitare a Louise Ciccone, anche nota come Madonna. Pensavano che avendo le stesse radici, fossimo amici. Ovviamente era una cugina, molto distante».

MIGLIAIA DI LICENZIAMENTI NELLE BIG TECH

Licenziamenti di massa nel sistema delle Big Tech. Dopo Microsoft, Amazon e Google, anche Spotify licenzia migliaia di addetti. I perché di una crisi globale. Cinzia Arena per Avvenire.

«Un corto-circuito ha mandato in tilt il sistema delle Big Tech, generando un’onda di “licenziamenti di massa” che secondo gli analisti continuerà per tutto il 2023. Le motivazioni sono diverse, da un lato lo scoppio della bolla prodotta dalla pandemia con un aumento del volume d’affari e delle assunzioni, dall’altra la grande incertezza economica con la contrazione degli utili, il crollo in Borsa e il freno a mano dell’inflazione che ha ridotto i consumi. I numeri di questo fenomeno, che ha il suo epicentro negli Usa ma rischia di avere ripercussioni anche nel vecchio continente, sono preoccupanti. Il 2022 è stato un anno da dimenticare. I licenziamenti annunciati sono stati 155mila, da parte di oltre mille aziende, secondo la startup Layoffs.fyi nata con l’obiettivo di monitorare la crisi del digitale. Oltre 97mila sono negli Usa, secondo la società di consulenza Challenger, Gray & Christmas. E il conto sta salendo rapidamente in questo scorcio di inizio anno. Nelle prime tre settimane di gennaio Microsoft ha annunciato 10mila esuberi entro marzo, Amazon ha fatto sapere che il suo piano di ristrutturazione è più ampio del previsto e riguarderà 18mila dipendenti, il produttore di software Salesforce ha previsto una riduzione della forza lavoro di 8mila, Google ha deciso di lasciare a casa 12mila dei suoi dipendenti e per finire Spotify ha annunciato un taglio di quasi 600 dipendenti. A conti fatti si arriva a oltre 200mila dipendenti in meno dall’inizio del 2022. La piattaforma di streaming musicale ridurrà del 6% i suoi 9.808 dipendenti. Nelle parole del ceo Daniel Ek il mea culpa per aver esagerato con l’ottimismo. «Sono stato troppo ambizioso ad investire oltre la nostra crescita dei ricavi» ha detto Ek, soprattutto in un contesto sfidante come quello attuale. I tagli sono stati accolti come una buona notizia dalla Borsa con il titolo che ha guadagnato il 4,5%. Le spiegazioni arrivate dai vertici delle Big Tech sono uniformi: la crescita economica sta rallentando, l’inflazione è alle stelle e i consumi in e-commerce e tecnologia si sono ridimensionati. La conclusione è che il personale aggiuntivo reclutato tra il 2020 e il 2021 non serve più. Emblematico il caso di Amazon, che tra il 2019 e il 2021 ha quasi raddoppiato il numero di dipendenti portandolo a 1,5 milioni. Nel terzo trimestre 2022 il risultato operativo si è dimezzato rispetto allo stesso periodo del 2021 (da 4,9 miliardi a 2,5 miliardi) innescando una serie di contro-misure sul personale, dal blocco delle assunzioni al piano di licenziamenti record. Tralasciando gli errori di valutazione è vero che il mutato quadro geo-politico, con la guerra in Ucraina, il caro-energia e l’inflazione, ha instillato la paura di una recessione economica. I tassi di interesse non sono più convenienti come prima e investire è molto più rischioso. Nel 2022 le Big Tech quotate in borsa (Amazon, Alphabet, Meta, Apple e Microsoft) hanno perso più di 3mila miliardi di dollari del loro valore. I ricavi pubblicitari sono crollati. Ad incidere anche la politica delle banche centrali con l’aumento dei tassi di interesse e il ritiro delle misure di acquisto di titoli pubblici e privati. I tagli di personale possono essere interpretati come una strategia per contenere il costo del personale davanti ai rialzi degli stipendi necessari per mantenere i dipendenti motivati in tempi di alta inflazione. Da Meta a Netflix, da Twitter a Disney Plus, da Booking a Cisco, la lista delle grandi società in crisi si estende in tutti gli ambiti dell’economia digitale con la vistosa eccezione di Apple. La società madre di Facebook, Instagram e WhatsApp ha annunciato a novembre un massiccio piano di licenziamenti che coinvolgerà 11mila dei suoi 87mila dipendenti, scelta dettata da un forte calo di ricavi e profitti e dalla stagnazione del numero di utenti. Sotto i riflettori è finito il nuovo proprietario di Twitter Elon Musk che ha mandato a casa la metà dei 7.500 dipendenti. Licenziamenti a tripla cifra per Groupon con 2800 addetti, Uber con 6700 e Getir con altri 4800. Anche le aziende più piccole hanno usato la forbice: mille dipendenti in meno per la società di pagamenti Stripe, l’app per il fitness Noom e la borsa delle criptovalute Kraken».

MEMORIA SIGNIFICA NON BANALIZZARE

Sempre più rare le testimonianze dei sopravvissuti, sempre in agguato il rischio di assuefazione. Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni interviene alla vigilia del 27 gennaio e dice: non dimenticare è solo il primo passo. Andrea Cassisi per Avvenire.

«Misure corrette per celebrare e non banalizzare. Alla vigilia del 27 gennaio, Giornata della Memoria, Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, si rivolge ai giovani. «Da loro può arrivare un contributo» dice e condivide l’appello delle comunità in Italia: «Neutralizzare il rischio che quanto accaduto vada dimenticato. Il Giorno della Memoria non è un momento dedicato alla carezza compassionevole verso gli ebrei: è un giorno di assunzione di responsabilità per tutti, cittadini e istituzioni, centrali e locali». «Non dimenticare è solo il primo passo per redigere e continuamente rinnovare il codice di condotta della nostra “umanità” ancora sottoposto a minacce distruttive » le parole del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dalla Piazza dove 85 anni fa, il 18 settembre 1938, Mussolini annunciò le leggi razziali, suonano come un monito che deve «sempre accompagnarsi alla comprensione delle dinamiche che si sviluppano oggi intorno a noi, nelle comunità in cui viviamo» ha evidenziato. Il titolare del Viminale ha assicurato «attenzione massima» sui casi registrati di antisemitismo, un fenomeno che «esiste ed è minoritario» avverte. Piantedosi ha quindi rivendicato la «puntuale e articolata attività di monitoraggio e analisi da parte dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori presso il ministero dell’Interno». Dalla capogruppo dem Debora Serracchiani l’invito ad «un sincero esame di coscienza etico e storico», perché «il male – dice – non è venuto solo da fuori». «L’istruzione combatte ogni forma di distorsione dell’Olocausto » le fa eco Valentina Grippo (Azione- Italia Viva). E proprio la scuola sarà protagonista, acconto ad associazioni, comunità, parrocchie, in migliaia di iniziative previste in tutta Italia per testimoniare la Shoah. In quest’ottica, torna anche a viaggiare il Treno della Memoria, che in diciotto edizioni ha accompagnato più di 60 mila persone a visitare i campi di Auschwitz e Birkenau. Fino al 5 marzo prossimo infatti oltre 6 mila passeggeri provenienti da diverse regioni d’Italia, compiranno un vero e proprio “pellegrinaggio laico” a Cracovia e a Berlino, per visitare tra gli altri, il Ghetto Ebraico, la Fabbrica di Schindler, i vicini campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, Ravensbruck ed il Memoriale Sovietico di Treptower Park. Il Treno della Memoria, promosso dall’omonima associazione nazionale impegnata nel sostegno ai percorsi di cittadinanza attiva e nella difesa della dignità e i diritti delle persone, è un percorso di conoscenza, un viaggio nella storia e nella memoria che coniuga attività artistiche, testimonianze dirette della storia con i sopravvissuti, incontri e laboratori. «Quest’anno sarà l’edizione più partecipata di sempre del nostro progetto: il mondo della scuola, le amministrazioni locali, le famiglie e le nuove generazioni sanno bene quanto sia importante conoscere la Storia per costruire Cittadinanza» dice Paolo Paticchio, presidente dell’associazione Treno della Memoria».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi  mercoledì 25 gennaio:

Articoli di mercoledì 25 gennaio

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