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A fondo perduto
Draghi vara il Sostegni bis, con nuovi aiuti per la crescita. E risponde secco a Letta e Salvini. Iniziata la tregua a Gaza. Virus, zona bianca per tutte le regioni. Accordo con Tunisi sui migranti
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto Sostegni bis, che prevede fra l’altro una nuova dote di aiuti a fondo perduto per 15,4 miliardi. Si aprono le porte a 370mila imprese in più, che non hanno ricevuto i sostegni di marzo. Alla liquidità delle imprese vanno 9 miliardi, 4 al capitolo sul lavoro. Stop ai licenziamenti fino a fine agosto, per chi usa la cassa Covid a maggio e giugno. Mario Draghi nella conferenza stampa di ieri, dove ha illustrato queste misure, ha spiegato che sono le ultime decisioni prese in deficit. Come sempre, quando parla, Draghi fa la differenza, anche se affiora una sua determinazione decisionale, che non piace a tutti. Ha risposto secco a Letta (che aveva proposto di reintrodurre una tassa sull’eredità) e a Salvini. Il Fatto oggi lo ritrae come un despota settecentesco, un Re illuminato.
Letta ha le sue ragioni. Il Pd che ha ereditato aveva perso ogni connotazione di partito di sinistra e il suo sforzo è non abbandonare questi temi. Non sempre poi si possono fare proposte condivise, in tema fiscale poi è proprio difficile. Certo, colpisce il silenzio dei 5 Stelle di fronte alla proposta di Letta. Anche Salvini ha le sue ragioni. Il Nord è già sulle barricate all’idea che possa arrivare qualche migrante. Fatto il passo indietro, accettato Draghi, è dura per i partiti stare “zitti e buoni”, come già suggerivano i Maneskin a Sanremo e come ricorda la Vitale su Repubblica.
Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono stati somministrati 550 mila 577 vaccini. Bene! Oggi gli esperti dell’Iss ci diranno la situazione dell’epidemia, ma le previsioni è che presto tutta l’Italia diventerà bianca e ci dimenticheremo completamente del coprifuoco. Il Manifesto dà la notizia che al Parlamento europeo è passato un emendamento a favore della sospensione dei brevetti sui vaccini. Hanno votato sì Pd, 5Stelle e Leu, no Forza Italia e Fdi. La Lega si è astenuta.
Dall’una della scorsa notte è scattato il cessate il fuoco fra Hamas ed Israele, dopo undici giorni di guerra. Sproporzionato il bilancio delle vittime. Preoccupa la coda velenosa da guerra civile in alcuni centri dove arabi ed ebrei, cittadini israeliani, convivevano pacificamente, come racconta un bel reportage di Nigro su Repubblica. Da leggere anche la tecnica dell’aviazione israeliana, di “bussare sul tetto”, raccontata dal Fatto. Per la terza volta viene dato per morto il capo dei Boko Haram, lo annuncia Quirico su La Stampa. Importante anche l’accordo con la Tunisia raggiunto da Italia e Europa, potrebbe essere un modello sulla questione migranti. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Partiamo dai giornali economici, che ci fanno capire qual è la ciccia. Il Sole 24 Ore annuncia: Sostegni bis, ecco le nuove misure. Fondo perduto, aiuti per 15,5 miliardi e Italia Oggi: Il fondo perduto si fa in quattro. Il Corriere della Sera sintetizza così la conferenza stampa di Draghi sulle nuove misure di sostegno: Draghi: 40 miliardi per il futuro. Anche Avvenire sceglie la parola futuro: Sostegno al futuro. La Stampa si fa prendere la mano da una metafora ippica: Crescita, la frusta di Draghi. Il Messaggero sottolinea un aspetto sull’occupazione: Licenziamenti, alt fino ad agosto. Così come Il Mattino, che però aggiunge la decisione di Bruxelles sul turismo: Licenziamenti, alt ad agosto. Il pass per i viaggi in Europa. Il Domani ragiona sulla visione strategica del Governo: La scommessa di Draghi nella strettoia tra debito, inflazione e crescita. Poi ci sono i tanti titoli di apertura centrati sulla proposta di Letta di tassare la successione e sul no di Draghi. La Repubblica: Tassa sull’eredità. Il no di Draghi a Letta. Il Giornale: Ossessione patrimoniale. Il Quotidiano nazionale: Draghi boccia la nuova tassa del Pd. La Verità: Letta vuole tassarci, Draghi lo umilia. Il Fatto propone un foto montaggio in cui Draghi appare come un Re del Settecento, un despota illuminato: Il governo dei ricchi: «Oggi si dà e non si prende». Libero si occupa delle tensioni nel centro destra: La verità sulla sfida tra Salvini e Meloni. Mentre il Manifesto è l’unico giornale a titolare principalmente sul cessate il fuoco di Hamas e Israele, iniziato da poche ore, scattato all’una della scorsa notte: La tregua promessa.
DRAGHI FRENA LETTA E SALVINI
Ecco la sintesi della conferenza stampa in cui Draghi ha presentato ieri il nuovo Decreto Sostegni. Giovanna Vitale su Repubblica.
«A Enrico Letta, che qualche ora prima aveva lanciato l'idea di una dote per i 18enni da 10mila euro - finanziabile con l'aumento della tassa di successione sui patrimoni sopra il milione di euro, chiedendo «alla parte più ricca della popolazione, l'1%, di dare un contributo per aiutare i giovani» - l'ex banchiere centrale replica gelido: «Non ne abbiamo mai parlato, non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli. L'economia è ancora in recessione». A Matteo Salvini, che aveva invece rispolverato «la flat tax al 15%: tassa piatta, progressiva, che continui a prevedere che chi guadagna di più paghi di più e che chi guadagna di meno paghi di meno» (e pazienza per la contraddizione, ché se una tassa è piatta non può essere progressiva), il premier in conferenza stampa spiega paziente: «Il principio di progressività va preservato, l'ho detto e lo riaffermo, e la riforma fiscale deve contribuire alla crescita». Per poi aggiungere: «Non è tempo di politiche fiscali restrittive». Una risposta indiretta anche al partito di Roberto Speranza, secondo cui andrebbe introdotta una "patrimonialina" sulle proprietà mobiliari e immobiliari con franchigia di 250mila euro. Una presa di posizione netta, quella di Draghi, per nulla spaventato dalla cacofonia della sua strana coalizione «Il fatto che ci siano punti di vista diversi» per lui non è un problema. «Varie volte nella mia vita mi hanno detto: "Come pensi di farcela?"» sorride. «Abbastanza spesso ce l'ho fatta. Io e questa volta il governo ce la fa. Bisogna avere fiducia e contare sull'aiuto del Parlamento più che guardare alla sua diversità di opinioni come un ostacolo». Convinto che «quando si disegna una riforma fiscale» l'importante sia confezionare «un pacchetto di riforme coerente e che risponda agli scopi di politica economica». Senza spezzatini. Con calma e serenità. Ecco perché l'insistenza con cui Salvini continua a candidarlo al Quirinale lo infastidisce: «Trovo estremamente improprio, per essere gentile, che si discuta del Capo dello Stato quando è in carica», graffia il premier. «L'unico autorizzato a parlare del Capo dello Stato è il presidente della Repubblica».
Marco Travaglio nel commento in prima pagina sul Fatto, dice in sostanza: ha ragione Salvini, meglio votare.
«Stavolta Salvini ne ha detta una giusta: "Non può essere questo governo a fare le riforme". Parlava di giustizia, fisco e Pa. Ma ci sono pure Rai, conflitto d'interessi, salario minimo, transizione digitale ed ecologica. Qualunque questione affronti, l'attuale maggioranza-ammucchiata non va d'accordo su nulla. E i problemi vanno affrontati con scelte nette per risolverli, non con compromessi al ribasso per non scontentare nessuno. Quindi, spiace dirlo, ma l'unica soluzione è quella indicata da Salvini: un patto fra chi ci sta per eleggere un nuovo capo dello Stato decente e per cambiare la legge elettorale restituendo ai cittadini il potere di scegliere. E poi elezioni a inizio 2022, per avere subito una maggioranza omogenea (o meno disomogenea dell'attuale Armata Brancaleone) che imbocchi una direzione precisa, uscendo da questa vaga melassa. Che ieri ha toccato l'apice nella conferenza stampa di Draghi. Il premier s' è confermato un ottimo slalomista, ma anche il capo di un governo che ha esaurito la spinta propulsiva (ammesso che l'abbia mai avuta). Sistemate alla bell'e meglio le vaccinazioni, consegnato il Pnrr e varato il Sostegni-2, non si sa davvero che altro possa combinare di qui a fine anno. I 5Stelle sollevano lo scandalo Durigon, contestano le controriforme sulla giustizia della Cartabia e il finto ambientalismo di Cingolani ("mini-nucleare", "idrogeno blu", inceneritori e altre delizie): Draghi li ignora. Letta propone una dote ai giovani col ritorno della tassa di successione (misura liberale quant' altre mai: basta leggere Einaudi): Draghi lo liquida con una battuta ("È il momento di dare, non di prendere": ai ricchi, s' intende). E non potrebbe fare altrimenti. Se compisse anche una sola scelta, il governo crollerebbe. Oggi o nel semestre bianco dopo il 3 agosto. Intanto la Restaurazione avanza col ritorno dei vitalizi ai pregiudicati e prossimamente agli ex parlamentari: come possono M5S, Leu e Pd, che li avevano aboliti, restare alleati con Lega e FI che li stanno ripristinando? Idem per la legge Zan che, per quanto perfettibile, è già morta grazie alle destre. E si riparla persino di separazione delle carriere togate modello P2. Non c'è tema dello scibile umano che non veda i giallorosa lontani le mille miglia da Lega e Forza Italia Viva. E il ricatto "se il governo va a casa, niente riforme e niente soldi del Recovery" è una pistola scarica: l'Ue vuole riforme vere, non pateracchi per accontentare tutti. Meglio parlar chiaro all'Ue e rinviare tutto a un governo e a una maggioranza veri. L'iniziativa, prima che ci pensi Salvini dal Papeete Beach a Ferragosto, dovrebbero prenderla i giallorosa. Dando una scadenza a quest' agonia per portarci finalmente a votare».
Alessandro Sallusti dalle colonne di Libero polemizza con la proposta di Letta.
«Vola alto, Letta tra diritti umani e mondo migliore, intanto Virginia Raggi lo frega sulle canditure di Roma, Calenda lo snobba e Conte lo porta a spasso nelle praterie del grillismo. Non sapendo che fare per tenere su la sua segreteria, Letta rispolvera due vecchi e fallimentari cavalli di battaglia della sinistra. Il primo è quello di aumentare le tasse, a partire da quella di successione, non tenendo conto che anche i suoi elettori tengono famiglia. Il secondo è di demonizzare il nemico, in questo caso Salvini, arrivando ad augurarsi che esca al più presto dal governo (già professore, ma poi chi lo sostiene il governo?). Letta in queste settimane ha parlato più di Salvini che dei lavoratori, più di dove va la Lega che di dove vorrebbe portare il Pd, rifacendo gli stessi errori che i suoi predecessori fecero con Berlusconi. Negli ultimi vent' anni il Pd, e la sinistra in generale, ha avuto un solo programma politico: distruggere il nemico quando invece avrebbe dovuto costruire una alternativa credibile».
LETTA VUOLE VIRARE A SINISTRA
E dopo la riposta ferma di Draghi, che cosa si dice dalle parti del Pd? Si ammette: Enrico Letta non aveva avvertito Draghi. Ma la proposta sulle tasse non va interpretata come una rottura dentro il Governo, piuttosto come una proposta “audace” per dare una visione al Pd. Silenzio dei 5 Stelle. Alessandro Trocino sul Corriere della Sera.
«“Rischiamo di essere giudicati dalla storia per aver condannato una generazione a privarsi del futuro. Per evitare la condanna, dobbiamo essere audaci”. E audace lo è stato davvero Letta, che nei primi passi della sua leadership nel Pd ha sorpreso molti ed è stato paragonato al presidente americano Joe Biden. Letta si è mosso subito con piglio decisionista per mettere a tacere le correnti interne ma poi ha lanciato iniziative politiche coraggiose, qualcuno dice temerarie, percorrendo parallelamente due strade: quella dei diritti civili, con il rilancio dello ius soli e del Ddl Zan, e ora quella dei diritti sociali, con la richiesta di alzare le tasse di successione per i ricchi, da destinare ai giovani dei ceti bassi e medi. A chi lo avverte della pericolosità della tattica per gli equilibri del governo, ribadisce che «il Pd è il partito più leale nel sostegno all'esecutivo di Draghi» e che la partecipazione alla coalizione non può essere incompatibile con le nuove battaglie: «Dobbiamo tornare a essere un partito di centrosinistra. Il Pd vuole essere portatore di una nuova idea di progresso per il ventunesimo secolo». L'ha esposta nel libro «Anima e Cacciavite» che uscirà per Solferino Editore il 27 maggio. Libro nel quale spiega che il Pd deve difendere «i nuovi vulnerabili, i giovani, le donne e quelli che non hanno una sufficiente protezione sociale, come le partite Iva, i piccoli commercianti e gli esercenti». La sterzata di Letta è stata preparata dal suo inner circle. La proposta l'hanno elaborata nel dettaglio Chiara Gribaudo e Antonio Misiani, con la supervisione dei due vice Irene Tinagli e Peppe Provenzano. L'idea serve anche a ridare una forte identità al Pd, separandone i destini dal Movimento, dopo un avvicinamento con la gestione Bettini-Zingaretti definito da molti eccessivo e in odore di subalternità. Non è un caso che i 5 Stelle, spiazzati, non abbiano commentato. Letta è un moderato ma proprio come Biden sembra voler spostare il baricentro del partito a sinistra. Erano anni che non si vedeva partire dal Pd una proposta di redistribuzione e di progressività fiscale. Molte delle iniziative lanciate finora erano rivolte a una platea universale. Ma Letta non è certo diventato un pericoloso sovversivo, tanto che ai suoi ha ripetuto in questi giorni di essersi ispirato, più che alla sinistra antagonista, al Fondo monetario internazionale e a Macron. Ricordando come economisti liberali o riformisti come Tito Boeri o Roberto Perotti considerino l'Italia «il paradiso fiscale delle successioni». È una proposta, ha raccontato Letta, che «sintetizza l'anima e il cacciavite», lo slogan che dà il titolo al libro in uscita. Nel quale si legge: «È il momento per quelli della mia generazione di impegnarsi non con lo spirito dell'accumulo, ma con quello della restituzione. La colpa non va rimossa. Abbiamo tutti, collettivamente, la responsabilità di aver costruito negli ultimi vent' anni un futuro fosco per i ragazzi. Dobbiamo restituirglielo, il futuro. Anche perché solo così salviamo anche noi stessi. E se ne saremo capaci la storia ci condonerà un giudizio di condanna che fin qui sembra per molti versi ineluttabile».
L’ ITALIA DIVENTA BIANCA? L’EUROPA CONTRO I BREVETTI
Come accade ogni venerdì, oggi l’Istituto superiore di sanità farà il punto sulla pandemia. Le eventuali decisioni del Ministro della Salute Speranza sui colori delle Regioni potrebbero arrivare dai nuovi numeri. Su La Stampa Paolo Russo raccoglie ottimismo fra gli esperti. Fra un mese l’Italia sarà zona bianca:
«Forti di una curva dei contagi che flette sempre più in basso, le Regioni provano a forzare la mano proponendo nelle loro linee guida sulle riaperture di cancellare sia il limite di 4 persone non conviventi al tavolo di bar e ristoranti, sia il possesso del Green pass per partecipare a banchetti e cerimonie, che probabilmente il Cts oggi inserirà nei protocolli senza prevedere limiti al numero degli invitati ma vietando di servirsi da soli. Regole che potrebbe essere però superate dai fatti, perché di questo passo da qui al 21 giugno, secondo le proiezioni del Cnr, tutta l'Italia sarà in fascia bianca, dove tutto riapre e restano soltanto distanziamento e mascherine. Il rapporto della Fondazione Gimbe dice che nell'ultima settimana i contagi sono calati di oltre il 30% mentre in sei settimane i ricoveri nei reparti di medicina sono diminuiti del 66% e quelli in terapia intensiva del 55%. Oggi il monitoraggio settimanale a cura dell'Iss certificherà che l'Italia da lunedì sarà tutta in giallo, con la piccola Valle d'Aosta sdoganata finalmente dalla fascia arancione, dove era confinata da sola. Ma basandosi sul trend di decrescita, il professor Giovanni Sebastiani, ricercatore all'istituto per le applicazioni del calcolo del Cnr, ha stilato il calendario da qui al 21 giugno delle riaperture totali da fascia bianca, dove l'ultimo decreto del governo colloca le regioni con un'incidenza dei casi settimanali inferiore a 50 ogni 100 mila abitanti. Calcolo che deve tener conto del fatto, come previsto dallo stesso provvedimento, che per varcare i cancelli dell'Eden dove tutto riapre quella incidenza occorre mantenerla per tre settimane di fila. Così, in linea con le previsioni dell'esecutivo, il 1° giugno sarà la volta di Molise, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, seguite il 7 da Liguria, Abruzzo e Veneto, che numeri da bianco li avrebbero già oggi. Ma nel calendario delle ritrovate libertà la data da cerchiare in rosso è quella del 14 giugno, quando in fascia bianca sono candidate a entrare in 10: Lazio, Sicilia, Calabria, Lombardia, Trentino, Emilia-Romagna, Piemonte, Puglia, Marche e Umbria. A chiudere, il 21 giugno, Valle d'Aosta, Toscana, Campania e probabilmente Basilicata. L'unica che rischia di restare fuori dal club dei blancos è la provincia di Bolzano».
Interessante corrispondenza di Anna Maria Merlo del Manifesto. Il Parlamento Europeo ha votato un emendamento che spinge per la sospensione dei brevetti sui vaccini.
«Qualcosa si muove sul fronte della sospensione dei brevetti dei vaccini anti-Covid. L'Europarlamento voterà solo a giugno su una posizione definitiva, nella discussione in plenaria i gruppi politici hanno mostrato divisioni profonde, ma nella notte tra mercoledì e giovedì, a sorpresa, è passato a Bruxelles un emendamento della Gue (sinistra) che invita la Ue a «sostenere l'iniziativa presentata da India e Sudafrica al Wto per la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini, le attrezzature e le terapie per far fronte al Covid-19». Il risultato non è vincolante, l'appuntamento cruciale è a giugno, ma ci sono stati 293 voti a favore (con il gruppo Gue hanno votato S&D e Verdi), 284 contrari e 119 astensioni. Pd e M5s si sono espressi a favore, Fratelli d'Italia e Forza Italia contro, la Lega si è astenuta. Con una maggioranza molto più ampia (468 a favore) è passata anche la proposta di garantire un «accesso equo, tempestivo e a prezzi contenuti al vaccino per i Paesi in via di sviluppo, in particolare per quanti appartengono a gruppi vulnerabili e a alto rischio», come i malati di Aids. L'Europarlamento chiede a Big Pharma di «condividere le proprie conoscenze e i propri dati» seguendo le indicazioni dell'Oms. «Abbiamo vinto una battaglia culturale» afferma Manon Aubry, eurodeputata francese (France Insoumise), alla guida di questa battaglia. «Ma eravamo molto soli» aggiunge. Adesso la Ue deve «riconoscere l'errore» e prendere posizione per l'accesso di tutti ai vaccini, in modo «immediato, senza condizioni, integrale, durevole», la Ue e i suoi dirigenti devono «vergognarsi» per essere stati gli «idioti utili» di Big Pharma, avendo permesso che i vaccini fossero «beni privati mentre sono stati finanziati da soldi pubblici», commenta Aubry. Per la presidente del gruppo S&D, Iratxe Garcia Perez, il mantenimento dei «monopoli dei laboratori farmaceutici durante la pandemia» ha causato «inevitabilmente milioni di morti che avrebbero potuto essere evitati».
Altra novità da Bruxelles: si è trovato l’accordo finale sul pass europeo. Francesca Basso sul Corriere della Sera:
«In gioco c'era la credibilità dell'Unione davanti ai cittadini. Alla fine Parlamento Ue, Stati membri e Commissione hanno trovato il compromesso sull'Eu Digital Covid Certificate , il certificato digitale Covid, che dal primo luglio faciliterà la libera circolazione all'interno dell'Unione europea, che si era persa durante i mesi della pandemia a causa delle misure restrittive (quarantene e test obbligatori) imposte dagli Stati membri per ragioni di salute pubblica. L'intesa non era scontata. Ma l'urgenza della situazione ha costretto tutti a venirsi incontro e a trovare un compromesso in un negoziato che è stato definito «duro ed estenuante». «Stiamo mantenendo il nostro impegno ad avere il certificato Covid digitale dell'Ue attivo e funzionante prima dell'estate», ha commentato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. «Grazie ai negoziatori del parlamento Ue torna la libertà di circolare in sicurezza con un accesso ai test a prezzi equi», ha twittato il presidente dell'Eurocamera David Sassoli. Il certificato, che ha cambiato nome dall'originario Digital green certificate su richiesta del Parlamento Ue, sarà disponibile sia in formato digitale (con codice Qr) che cartaceo. Attesterà se una persona è stata vaccinata contro il Covid (due dosi se previste o una in caso di Janssen) o ha un risultato recente di test negativo o è guarita dalla malattia. Di fatto si tratta di tre certificati distinti. L'accordo permette ai Paesi Ue di emettere i certificati che saranno poi accettati negli altri Stati membri. Il certificato non sarà considerato un documento di viaggio e non va considerato come una precondizione per esercitare il diritto alla libera circolazione. Gli Stati membri non potranno imporre restrizioni di viaggio come la quarantena, l'autoisolamento o tamponi ulteriori: questo era uno dei punti di scontro nel negoziato perché i governi rivendicavano la competenza nazionale in materia di sanità e il Parlamento Ue chiedeva il pieno ripristino della libera circolazione».
SCATTA IL CESSATE IL FUOCO A GAZA
All’una di notte è iniziata la tregua fra Hamas e Israele, dopo undici giorni di guerra. Bilancio provvisorio: 232 morti palestinesi, 12 israeliani. La cronaca di Davide Frattini da Gerusalemme per il Corriere della Sera.
«I capi di Hamas confermano lo stop «reciproco e simultaneo». Il governo israeliano vuole la fine del bersagliamento sulle città - oltre 4400 tra razzi e colpi di mortaio in 11 giorni, quanti quelli sparati nei due mesi di confitto del 2014 -, che Hamas smetta di costruire tunnel verso i villaggi israeliani e fermi le proteste sul confine, compresi i lanci di aquiloni incendiari. È possibile che in futuro venga permesso l'ingresso di aiuti e materiali, soprattutto sia concesso il via libera alla ripresa delle erogazioni da parte del Qatar, centinaia di milioni di dollari in contati consegnati ai capi fondamentalisti dall'ambasciatore del piccolo emirato. Di fatto si torna alla situazione di prima. Prima della distruzione, dei 232 morti palestinesi e dei 12 israeliani. Con un avvertimento lanciato dal ministro Tzahi Hanegbi, da sempre molto vicino a Netanyahu: «Non accettiamo più la formula calma per la calma, adesso pretendiamo che Hamas rinunci a ricostruire gli arsenali, altrimenti riprenderemo gli attacchi». A Heiko Maas, il ministro degli Esteri tedesco, arrivato a Gerusalemme per premere a favore di una tregua Netanyahu ha mostrato nel pomeriggio il drone armato di esplosivo e ha accusato i Pasdaran iraniani di averlo telepilotato dalla Siria dentro l'area di Beit Shean. È stato il primo segnale che il premier vuole riportare l'attenzione e la retorica bellica verso il nemico di sempre: gli ayatollah. È quello che gli ricorda Yair Lapid, il capo dell'opposizione: «Non possiamo permetterci di ignorare Joe Biden. Avremo bisogno del sostegno americano di fronte a sfide più grandi di Gaza: il programma atomico e l'espansionismo iraniani». Dalla Casa Bianca il presidente parla degli sforzi fatti per raggiungere la calma, ringrazia l'Egitto e promette che continuerà a impegnarsi perché «israeliani e palestinesi possano vivere in sicurezza». Precisa che gli aiuti a Gaza arriveranno attraverso Abu Mazen e non Hamas. Già giovedì Biden aveva alzato la pressione e aveva chiesto una «riduzione da subito del conflitto verso una tregua». I bombardamenti dell'aviazione e i lanci di razzi dalla Striscia non sono diminuiti nella notte: come in passato, quando cominciano a circolare le voci di una possibile fine delle ostilità i due contendenti intensificano le operazioni per dimostrare di essere arrivati in fondo da vincitori».
Vincenzo Nigro propone su Repubblica un reportage da Lod, la cittadina dove è scoppiato un focolaio di guerra civile fra arabi ed ebrei.
«”Sono stati gli arabi ad attaccarci, hanno iniziato a protestare con armi e bastoni, hanno incendiato le nostre auto, le case e anche le sinagoghe”. “Sono stati gli ebrei, i coloni arrivati armati dagli insediamenti in Cisgiordania a provare ad attaccare le nostre moschee, a sparare sui nostri giovani, sono loro che hanno ucciso Moussa Hassouna il nostro primo martire”. Arriverà la tregua dei missili, ma non ci sarà pace fra i popoli di Israele. Le ferite aperte dagli scontri fra ebrei-israeliani e arabo-israeliani non si richiudono. Continuerà a correre il veleno che in questi anni si è infiltrato nei corpi e nelle menti di due popoli con lo stesso passaporto, quello israeliano. Un veleno che nessuno aveva visto arrivare così micidiale. Lod è una città nel centro di Israele, a 20 minuti da Tel Aviv. Un sobborgo povero e scalcinato della capitale. È il comune entro cui sorge Ben Gurion, l'aeroporto di Tel Aviv. In Israele gli arabi israeliani sono 1,9 milioni su circa 10 milioni di cittadini. Quelli che vivono in questo paesone sono stati fra i primi a scendere in strada per protestare. Assieme a quelli di Ramla, di Acri, di Jaffa e Umm al Fahm. «A Lod 30 anni fa gli ebrei erano l'80% cento della popolazione, e gli arabi il 20. Oggi gli arabi sono il 70%, ma per noi ebrei vivere con loro era normale. C'era rivalità, ma non c'era timore», dice Ayelet Chen, una professoressa ebrea, 44 anni e 4 figli. Quella dove parliamo è la "mechina", una scuola premilitare in un compound dove ci sono altre scuole e un asilo per i bambini. È stato uno dei primi luoghi ebraici devastato dai manifestanti arabi. Adesso ci sono i volontari arrivati dal Kibbutz Benjamin in Cisgiordania, con le armi per proteggere e i mattoni per ricostruire. Tutte le versioni concordano: i primi giovani arabi sono scesi in strada quando hanno visto le immagini della moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, violata dai poliziotti della polizia di frontiera israeliana, con i candelotti lacrimogeni che finivano anche nella sala della preghiera. «Ero al telefono con una mia amica, stavamo organizzando le cose da fare all'indomani, quando ho sentito urla e voci dalla strada», dice Michal Avram 32 anni, 4 figli, arrivata a Lod anni fa da Gerusalemme. «Nel mio palazzo vivono famiglie ebree e palestinesi. Ho sentito gli stessi vicini arabi che mi aiutavano a portare la spesa, con cui discutevamo dei figli e delle loro scuole, indicare ai teppisti che quelle erano le auto degli ebrei da bruciare eravamo terrorizzati, nel palazzo non c'è un rifugio per difenderci dai razzi, dovevamo scendere nei rifugi con gli arabi, siamo andati in strada. Urlavano Netanyahu cane, “col sangue e col fuoco libereremo la Palestina”. Quella notte oltre alla scuola militare del quartiere di Ramat Eskol sono state lanciate molotov contro alcune sinagoghe. È partito quello che in diretta alle tv il sindaco ebreo di Lod ha definito urlando «un pogrom, ormai è tutto fuori controllo, la polizia non controlla la piazza». In poche ore dalla Cisgiordania, dagli insediamenti in terra palestinese in cui fronteggiano ogni giorno gli arabi con le armi, sono arrivati nella notte decine e decine di coloni. Squadre armate che hanno iniziato ad organizzarsi per dare la caccia agli arabi. Il 12 maggio una di queste squadre di vigilantes ha incrociato una grossa manifestazione araba: da lontano hanno iniziato a sparare mentre quelli lanciavano sassi. È morto Moussa Hassouna, un palestinese-israeliano, la prima vittima a Lod. Poche ore, e gli arabi hanno fermato un'auto per strada, c'era dentro Yigal Yehoshua: lo hanno tirato fuori e lo hanno bersagliato di pietre. Era un elettricista amato da tutti, che girava nel paese facendo lavori in case ebree e palestinesi. È morto 4 giorni più tardi in ospedale: la famiglia ha donato i suoi organi. Un rene anche a una donna palestinese. «Quella notte i coloni armati sono arrivati attorno a questa moschea, davanti alla chiesa di St. George», racconta A., uno studente arabo di ingegneria meccanica all'università di Tel Aviv: «Volevano attaccare la moschea, li abbiano respinti. Hanno cercato di incendiare altre moschee, ma noi le abbiamo protette tutte, abbiamo dormito giorno e notte davanti alle moschee, anche chi non era molto religioso era qui con gli altri». Gli ebrei di Lod accusano lo sheikh, la prima autorità musulmana: «Invece di calmare gli animi, ha aizzato, ha detto «uccidete gli ebrei diventate martiri». I palestinesi di Lod accusano i coloni arrivati da fuori: «Ci hanno sparato addosso da lontano, appena ci vedevano sparavano, e la polizia non faceva nulla». Nelle ore più violente, mentre gli scontri impazzavano in città miste senza il controllo della polizia, i deputati dei partiti della destra israeliana hanno invitato alla guerra. Itamar Ben Gvir, deputato del partito razzista "Potere ebraico" ha detto in tv «la polizia non fa nulla, dobbiamo difenderci». E perfino il ministro di Polizia Amir Ohana da Tel Aviv ha detto «i cittadini che hanno armi devono lavorare per le autorità, per neutralizzare le minacce e i pericoli». A., lo studente di ingegneria, ha paura di rientrare a Tel Aviv, «sanno che sono di Lod, mi odieranno ». Ha paura Michal, la madre di 4 figli: «Come faremo a tornare a vivere nel mio palazzo? Ci odiano». La guerra dentro è davvero quella che fa più paura a Israele. È la guerra dell'odio».
Nelle cronache di questa guerra sporca, ricorreva la notizia di telefonate da parte degli israeliani che avvertivano degli imminenti bombardamenti. Fabio Scuto sul Fatto racconta che cosa accadeva. Titolo: "Bussa Sul Tetto". L'sms da Tel Aviv avvisa dei missili in arrivo in casa.
«Per evitare le recenti polemiche sul numero di vittime palestinesi civili a Gaza, l'Aviazione israeliana (Iaf) sta adottando una tattica messa a punto già nella guerra del 2014 nella Striscia. Nel primo caso tutti gli abitanti di uno stabile preso come bersaglio - nel caso vi abiti un miliziano di Hamas conosciuto dall'intelligence israeliana - ricevono un sms da un telefonino che li avverte di lasciare il palazzo entro 10 minuti perché verrà bombardato. Solo il miliziano e la sua famiglia - il vero bersaglio - non ricevono il messaggio. Nel secondo caso il custode del palazzo - o chi si occupa della sua manutenzione - riceve una chiamata nella quale una voce che si qualifica come un ufficiale Idf e che parla correntemente arabo chiede di avvertire i residenti della zona che il palazzo entro un tempo determinato sarà distrutto, quindi sono invitati a uscire con la massima rapidità. Poi un caccia F-16 passa a volo radente e sgancia 1 o 2 missili a basso potenziale che colpiscono un lato del tetto. È il segnale che al secondo passaggio, il jet sgancerà una bomba ad alto potenziale. La tecnica dell'Iaf è stata battezzata "Kocking the roof", bussa sul tetto. La gente di Gaza reagisce nel modo più diverso. Ci sono quelli - come nel quartiere Rimal l'altra sera - che sono saliti in blocco sul terrazzo sventolando lenzuola bianche, impedendo così l'attacco che avrebbe distrutto le loro abitazioni e certamente provocato una strage. Ci sono quelli che in fretta e furia mettono quel che possono in una due borse, anche in quelle della spesa in plastica, documenti, tessere Unrwa e in silenzio ma di corsa con i figli per mano scendono le scale incontrando i loro vicini che stano facendo la stessa cosa. Ma c'è anche chi reagisce e appena ricevuto l'sms o la chiamata spalanca la finestra e spara in aria un intero caricatore di Kalashnikov o di pistola: è il segnale d'allarme per tutta la strada, che in pochi minuti si riempie di gente in fuga che ringrazia calorosamente l'eroe della notte, perché le bombe "intelligenti" non distruggono solo lo stabile preso di mira con tutto quel che c'è dentro, ma a essere scosso dalle esplosioni conseguenti con effetti devastanti è un raggio di almeno 500 metri».
MIGRANTI, L’ ACCORDO CON LA TUNISIA
L’opinione pubblica europea è ancora scossa dalle immagini degli sbarchi dei marocchini a Ceuta, l’enclave spagnola (ma la stragrande maggioranza dei migranti sono stati respinti). Ieri la nostra Ministra degli Interni Lamorgese è stata in Tunisia con la collega europea Johansson, per firmare un accordo che ha “l’ambizione di essere un modello”.
«Il nuovo approccio europeo all'immigrazione comincia dalla Tunisia. Al Palazzo di Cartagine, ieri, sono state gettate le fondamenta del primo accordo globale tra un Paese africano e l'Unione Europea. Un accordo che poggia su quattro gambe: investimenti, aumento dei visti e degli ingressi legali, rimpatri più facili e la riduzione delle partenze dei barchini dalle coste tunisine. L'Italia è in prima linea. Il negoziato è ben avviato e dovrebbe perfezionarsi entro l'anno, con l'ambizione di diventare un modello. Più visti e sostegno all'export. A Cartagine il presidente Kais Saied e il primo ministro Hichem Mechichi hanno incontrato la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson e la ministra dell'Interno italiana. «Ho manifestato loro la vicinanza dell'Italia e dell'Ue, li aiuteremo ad affrontare la sfida che riguarda il futuro dei giovani che legittimamente aspirano, come i loro coetanei europei, a soddisfacenti condizioni lavorative e di vita», ha detto, a colloqui finiti, Luciana Lamorgese. La visita congiunta, la seconda dopo quella del 17 agosto scorso, è il frutto del lavoro durato mesi della nostra diplomazia a Tunisi. La proposta di partenariato strategico illustrata da Johansson è piaciuta e ha ottenuto il via libera politico: l'idea è pompare soldi europei nella disastrata economia della Repubblica dei gelsomini per finanziare aziende e progetti per i giovani. La cifra non è stata messa nero su bianco, ma sarà consistente e - stando a fonti vicine al dossier - ammonterà alla quota degli introiti persi dalla Tunisia nel settore turistico. Previste anche misure di sostegno alle esportazioni. Contemporaneamente le maglie dell'ingresso legale in Europa saranno allargate, concedendo più visti e permessi di soggiorno a chi intenda lavorare nel circuito della legalità. In cambio, il governo di Mechichi si impegna a ridurre il più possibile, fino ad azzerarlo, il flusso delle partenze via mare. E ad accettare che tutti i connazionali rintracciati sul suolo europeo privi di titolo vengano rimpatriati».
Nelle polemiche sulla redistribuzione in Italia dei migranti che sbarcano in Sicilia, non desiderati al Nord, interviene l’arcivescovo di Torino Nosiglia dalle colonne de La Stampa.
«Ha reagito subito, l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, alla presa di posizione dell'assessore leghista all'Immigrazione della Regione Piemonte Fabrizio Ricca contro la decisione del ministro Lamorgese di inviare nelle regioni del Nord alcune decine di migranti. Ieri, dopo aver letto parole come «Abbiamo già fatto molto in passato», Nosiglia ha risposto: «L'impegno profuso in passato non solo non è scusante per un ritiro nel presente, ma è stimolo a costruire l'oggi e il domani in continuità con scelte che hanno dato qualità al vivere civile, al sentire umano, alla percezione religiosa della nostra regione».Eccellenza, la politica continua ad usare i migranti per conquistare consensi. Tanti immigrati respinti - almeno a parole - tanti voti? «I fenomeni sociali che più direttamente interpellano la vita delle persone e delle comunità sono avvertiti da tutti come questioni dirimenti, che si tratti di immigrazione, povertà, esclusione, violenza. La politica è chiamata ad educare ed indirizzare la reazione a queste questioni. Invece la logica partitica enfatizza visuali particolari, spesso perdendo di vista il tutto. In questo senso c'è rischio di strumentalizzazione». L'assessore ha dato voce a un sentimento di ostilità veramente diffuso, magari facilitato dall'impoverimento causato dalla pandemia? «La gente del Piemonte è sempre stata molto attenta alle persone, specie agli ultimi. Basti ricordare i grandi movimenti missionari di annuncio e di promozione umana partiti da Torino. E sono convinto che sia ancora così. La paura causata dalle diverse crisi che abbiamo sperimentato negli ultimi anni e che stiamo vivendo in questa pandemia aumenta la preoccupazione in parte della società. Questa va rispettata e accolta, ma anche aiutata a produrre frutti di futuro e non chiusure che soffocano. Non vedo ostilità, difficile da vincere. Vedo apprensione, che può essere alleviata». Lei ha suggerito alle istituzioni di «definire bene modi e strumenti per promuovere la dignità di tutti». In passato ci sono stati errori? «A problemi complessi non si possono dare risposte semplificatorie. Non si possono trovare soluzioni guardando solo ad una parte della questione, o vedendola solo come problema e non anche come opportunità. Serve approfondire il dialogo tra i soggetti coinvolti, occorre dare continuità alle decisioni assunte, è necessario non rispondere solo alla emergenza ma rendere strutturali le azioni. Una buona decisione è quella che sa tenere conto di tutti, pur mettendo il carico soprattutto sui soggetti più fragili. Non siamo qui a fare la classifica di quanto abbiamo fatto. Chiediamoci quanto ancora dobbiamo e possiamo fare di meglio e di più».
UCCISO IL CAPO DEI BOKO HARAM?
Non è la prima volta che viene data questa notizia, anzi è la terza. Domenico Quirico su La Stampa scrive del nuovo annuncio dell’uccisione del capo dei Boko Haram.
«Moribondo? Morto? Con Abubakar Shekau capo dei Boko Haram, i taleban d'Africa, è meglio esser cauti. La prima volta che il governo nigeriano annunciò di essersi sbarazzato del suo nemico più sanguinario, fondatore del Califfato islamico dell'Africa dell'Ovest, era il 2014, sette anni fa. L'esercito diffuse, trionfalmente, la notizia, certificando «con assoluta certezza» che il micidiale guerrigliero, finalmente, era defunto. Già. Lui riapparve aggressivo, beffardo con il kalashnikov a tracolla e un berretto tribale in testa pochi giorni dopo in un video di trentasei minuti: «Eccomi qua! Morirò nel giorno in cui Allah lo vorrà». I «concorrenti» L'anno dopo i governanti di Abuja ci riprovarono: è morto! Alleluja. Anche questa volta si sbagliarono. C'è una variazione importante, che fa riflettere: ad ucciderlo ieri non sarebbero state le scalcinate truppe nigeriane note per poltronaggine, corruzione e capacità combattiva dispiegata soltanto nel compiere razzie e violenze ai danni della popolazione del nord del Paese. A eliminare l'uomo che nel 2014 aveva annunciato nella città conquistata di Gwoza nello Stato del Borno la creazione di una dipendenza del Califfato siriano che in quel momento era al massimo del suo lugubre potere, sarebbero stati altri fanatici concorrenti nella jihad, i dissidenti di Iswap, lo Stato islamico della provincia dell'Africa occidentale, che si presentano come i veri rappresentanti locali dell'Isis. L'uccisione di Shekau non sarebbe un favore fatto al detestato governo degli apostati, ma la eliminazione di un «eretico» che aveva abbandonato la giusta via del paradiso terrestre islamista».
CHIUSO IL PRE-SEMINARIO DEI CHIERICHETTI DEL PAPA
Carlo Melato su La Verità racconta la decisione drastica di Francesco sul Pre-Seminario dei chierichetti del Papa, finito nell’occhio del ciclone per accuse di pedofilia.
«Per i «chierichetti del Papa» la messa è finita: Francesco ha deciso di sfrattare dal Vaticano il Preseminario San Pio X, al centro del primo processo per presunti abusi sessuali su minori avvenuti all'interno dello Stato pontificio. Entro l'estate i locali di Palazzo San Carlo - l'edificio noto ai più per il cosiddetto «super attico» del cardinal Tarcisio Bertone - dovranno essere liberati per lasciare spazio alla Gendarmeria. Più che a un trasloco, la decisione somiglia a una vera e propria soppressione dell'istituto di orientamento vocazionale fondato nel 1956 per volontà di Pio XII. Anche perché l'Opera don Folci non ha una seconda casa romana fuori dalle mura leonine (si vocifera solo di una soluzione di ripiego, non troppo lontana dai sacri palazzi) e da 65 anni ha sede all'ombra della Cupola di San Pietro, vivendo in simbiosi con la Basilica. Il provvedimento non è ancora stato ufficializzato dal Vaticano, ma alcune fonti interne alla Santa Sede rivelano alla Verità che ieri si è consumato l'ultimo atto. Il Pontefice, poco prima di mezzogiorno, ha incontrato nel Palazzo apostolico l'attuale rettore, don Angelo Magistrelli (anche se l'udienza non è stata segnalata nel bollettino della sala stampa), che aveva chiesto di poter ascoltare direttamente dalla voce del Santo Padre le motivazioni di una scelta drammatica per i 26ragazzi che attualmente vivono l'esperienza del Preseminario. E Jorge Mario Bergoglio non ha fatto altro che confermare, condito con parole di incoraggiamento, l'accompagnamento alla porta già anticipato, due volte, dal Segretario di Stato, Pietro Parolin. I segnali d'altra parte non erano mancati, tanto che chi frequenta la comunità dice che ormai l'allontanamento era diventato un «segreto di Pulcinella». (…) Occorre tornare sullo scandalo che ha macchiato la reputazione dell'istituto, che dipende dalla diocesi di Como. La vicenda dei presunti abusi riguarda don Gabriele Martinelli (28 anni) - che deve rispondere al presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, dell'accusa di violenze sessuali su un compagno di Preseminario, avvenute tra il 2007 e il 2012 - e l'ex rettore, monsignor Enrico Radice (71 anni), accusato di aver intralciato le indagini. Già dal 2013 erano iniziate a circolare lettere e accuse anonime. Poi nel 2017 un'inchiesta delle Iene, con le testimonianze inedite degli accusatori, aveva fatto esplodere il caso a livello mondiale. Dopodiché era stato lo stesso papa Francesco a intervenire rimuovendo la causa di improcedibilità, dato che i fatti denunciati risalivano ad anni in cui la legge in vigore nello Stato pontificio impediva il processo in assenza di querela entro un anno dai fatti. Il 7 giugno si terrà l'undicesima udienza e il verdetto finale al momento non appare del tuttoscontato. Di certo però riguarderà solo le persone che risulteranno eventualmente colpevoli di violenze o depistaggi. Come si può immaginare, gli ultimi nove anni non sono stati facili per i chierichetti del Papa».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Stasera non perdetevi la Versione del Venerdì.