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A marzo uscita dall'emergenza
Draghi proroga lo stato di emergenza fino alla fine di marzo. Oggi lo vota il Cdm. Omicron e nuova ondata non danno tregua. Salvini apre le consultazioni per il Colle. Appello dei Nobel contro le armi
Ancora una volta, Draghi ha fatto il Draghi. E ha preso una decisione, sulla base di un quadro europeo della pandemia da Covid sempre più complicato. Oggi il Consiglio dei ministri approverà il decreto da lui proposto per prolungare lo stato d’emergenza in Italia fino alla fine di marzo. Non è il momento di dare l’impressione di abbassare la guardia. Gli scienziati prevedono il picco fra Natale e Capodanno e già diverse Regioni fanno i calcoli di quando dovranno passare in giallo. In più è partita una campagna vaccinale cruciale come quella per i bimbi dai 5 agli 11 anni. Come al solito, con decise differenze tra regioni: il Nord molto più convinto, il Sud più tiepido. Dunque chi pensava che il Premier volesse chiudere l’emergenza per interesse personale (in vista del Quirinale), ha dovuto ricredersi.
A proposito di corsa al Colle, l’iniziativa di Matteo Salvini per una consultazione sul voto di gennaio con i segretari di partito è subito partita, ma la sensazione è che non sia decollata. I più freddi? Meloni (con lei solo scambio di whatsapp) e Berlusconi. In genere gli interlocutori hanno risposto che se ne deve parlare dopo l’approvazione della legge finanziaria. Intanto Minzolini sul Giornale minaccia i grandi lettori: se non voteranno Berlusconi alla quarta votazione, il centro destra sarà finito. C’è ancora un mese…
Sicuramente a febbraio è rimandato l’esame della legge sul suicidio assistito, che ha mosso ieri i primi passi a Montecitorio in un’aula vuota. Su Repubblica il giurista Giovanni Maria Flick dice che, anche da cattolico, l’approva. E ricorda che una mediazione è necessaria, se non si vuole che faccia la fine del ddl Zan. Mentre Avvenire racconta che già in molte situazioni si espongono le lanterne verdi del Natale di solidarietà e di accoglienza ai migranti e sottolinea l’impegno di Draghi per i disabili.
Dall’estero: importante appello di cinquanta premi Nobel e accademici per la pace nel mondo e stop agli armamenti. Fra i sostenitori della proposta anche il Dalai Lama, Nobel per la Pace. L'umanità deve affrontare gravi sfide comuni come epidemie, riscaldamento globale e povertà estrema, ma per affrontarle servono risorse, difficili da reperire. La proposta è di usare i 2 mila miliardi di dollari all'anno, spesi invece per gli armamenti. Caos in Libia, sarà difficile votare davvero il 24 dicembre. Macron apre il dialogo con Orbán, in vista del semestre francese di presidenza Ue.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
La notizia principale è la proroga delle misure eccezionali decise dal governo fino alla prossima primavera. Il Corriere della Sera è secco: Emergenza fino a marzo. Il Quotidiano Nazionale è molto simile: Lo stato d’emergenza fino a marzo. La Repubblica punta sul numero: Emergenza, altri 3 mesi. Fotocopie nei titoli fra Il Mattino: Covid, emergenza fino a marzo. E Il Messaggero: Covid, emergenza fino a marzo. Il Giornale tradisce una speranza: Lo stato d’emergenza ostacola Draghi al Colle. La Verità conferma la malignità, attribuendo l’intenzione ai partiti: Ci tengono in emergenza per sgambettare Draghi. Per il Fatto è il turno di una nuova intervista a Crisanti che analizza i numeri dell’Iss e attacca la campagna vaccinale del governo: “Gli effetti sono il triplo”. E il Green pass fa flop. Della legge sul fine vita si occupano Il Manifesto che allude al rinvio di ieri: Una brutta morte. Mentre La Stampa è più diretta: Fine vita, la vergogna di quell’Aula vuota. Della Conferenza sulla disabilità si occupa Avvenire: Priorità disabili. Il Sole 24 Ore registra un nuovo dato sulle tasse: Fisco, evasione sotto i 100 miliardi. Domani offre un approfondimento sul fronte ambientale: L’ossessione per il nucleare minaccia la transizione ecologica. Libero mette insieme destini avversi di avversari: Grillo nei guai per violenza. Saviano nei guai per plagio.
STATO D’EMERGENZA FINO AL 31 MARZO
Mario Draghi ha scelto: lo stato di emergenza durerà fino al 31 marzo. Oggi il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare il decreto sulla proroga di tre mesi. Il parere degli scienziati è stato condizionato dall’allarme per la variante Omicron e dalle previsioni sugli assembramenti di Natale. La cronaca di Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«Con la stessa determinazione con cui aveva dato mandato agli uffici di Palazzo Chigi di stilare un possibile piano per spostare la struttura commissariale sotto la Protezione civile, Mario Draghi impone infine la proroga dello stato d'emergenza per altri tre mesi, fino al 31 marzo 2022. Il premier voleva voltare pagina, decide invece pragmaticamente - e in sostanziale solitaria - che non esistono le condizioni per annunciare il ritorno alla normalità. Come anticipato ieri da Repubblica, il Consiglio dei ministri varerà già in giornata un decreto ad hoc. Non è infatti possibile rinnovare automaticamente l'emergenza oltre il 31 gennaio 2022, data in cui si esauriscono i due anni dalla prima decretazione dello stato di eccezionalità, stabilita agli albori della pandemia dall'esecutivo di Giuseppe Conte. Il testo studiato a Palazzo Chigi si limita a congelare per un trimestre la situazione e le regole attuali. La scelta finale del premier matura al mattino. Draghi chiede al sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli di predisporre il testo del decreto. E lo fa prendendo atto soprattutto di due dati. Il primo: la corsa folle della variante Omicron in mezza Europa, che promette di diffondersi nelle prossime settimane anche in Italia. Il secondo: le imminenti vacanze di Natale, con tutti i rischi di assembramenti che comporta. Pesa, in particolare, l'attuale fotografia del Regno Unito, che ha portato Boris Johnson a parlare domenica sera alla nazione. In Gran Bretagna, infatti, il ceppo identificato per la prima volta in Africa è prossimo a diventare dominante. E non si vede come non possa accadere lo stesso in Italia. Nessuno conosce con esattezza la reale pericolosità della Omicron, al momento. E dunque un principio di precauzione impone massima cautela. Anche perché, nel frattempo, salgono i contagiati e il tasso di positività, e crescono i ricoveri ordinari e in terapia intensiva. Lo stesso ragionamento vale per le festività natalizie. La curva del virus continuerà presumibilmente a salire nelle prossime settimane. E di certo fino a Natale, quando si temono almeno trentamila positivi al giorno. Serve prudenza. Sarebbe dunque contraddittorio chiedere cautela nei comportamenti e, contestualmente, mandare al Paese un messaggio di normalità, con il rischio di far abbassare la guardia ai cittadini. Senza dimenticare l'obbligo di difendere la campagna per la terza dose, unico argine all'ondata in corso. E poi c'è ovviamente la politica. È evidente che chi è intenzionato a chiedere al presidente del Consiglio di restare a Palazzo Chigi fino al 2023 - abbandonando la tentazione del Quirinale - uscirà rafforzato dalla scelta di rinnovare una condizione emergenziale, che sconsiglia salti nel buio. Non a caso, è favorevole Forza Italia. Lo sono il Partito democratico e il Movimento. E sono d'accordo i governatori dem, a partire da Stefano Bonaccini e dai suoi colleghi azzurri. Un pressing partito da settimane che si è intensificato nelle ore successive alle indiscrezioni sul piano di Draghi per far transitare la struttura commissariale sotto la Protezione civile, ritagliando anche un ruolo per il generale Francesco Figliuolo, a breve a capo del Comando operativo interforze. E siamo a ieri, quando Enrico Letta si espone, convinto che non esista alternativa al rinnovo. «Credo che la decisione sia matura, è lo strumento che ci ha consentito di non trovarci come l'Olanda». A favore anche Giuseppe Conte, al termine di un colloquio avuto con Draghi. E ovviamente Roberto Speranza, da sempre convinto della necessità di non abbassare la guardia. Certo, il leghista Max Fedriga, alla guida della Conferenza delle Regioni, è ostile all'idea. Ma anche Matteo Salvini, proprio ieri, ha mostrato un atteggiamento morbido: «Decideremo in base ai dati». Il leghista potrebbe provare a rallentare oggi il percorso. Ma la decisione è ormai presa».
Il punto sulla pandemia in Italia. Mariolina Iossa per il Corriere.
«Continua a salire il tasso di positività che già si era impennato nei giorni scorsi: siamo al 4%. Aumentano anche i ricoveri e i posti letto occupati nelle terapie intensive. Il Veneto si appresta a passare in giallo per la saturazione dei posti in ospedale mentre nel Regno Unito ieri una persona («almeno un paziente» ha detto il primo ministro Boris Johnson) colpita dalla variante Omicron è deceduta. Ieri il bollettino del ministero delle Salute ha riportato 12.712 nuovi casi, in diminuzione sul giorno precedente, ma i dati del lunedì si riferiscono alla domenica, giornata in cui si effettuano sempre meno test. E infatti gli oltre 12 mila nuovi positivi sono stati trovati dopo aver effettuato 313.536 test antigenici e molecolari, 188.279 in meno rispetto al bollettino di sabato. I morti sono 98, in forte risalita (il giorno prima 66), per un totale di 134.929 vittime dall'inizio della pandemia in Italia. Nei reparti Covid ordinari sono state ricoverate 254 persone in più e siamo a 6.951 pazienti Covid ospedalizzati, 27 in più i posti letto occupati in rianimazione, per un totale di 856 persone in gravi condizioni e con ben 60 nuovi ingressi. A rischio giallo sono almeno 6 regioni ma per il Veneto il rischio è più che concreto. La parola definitiva arriverà dal monitoraggio di venerdì prossimo ma lo stesso governatore Luca Zaia è consapevole che la sua regione «è appesa al dato di occupazione dell'area medica, penso che il bollettino di venerdì sarà da zona gialla - ha ammesso -. Siamo di fronte ad una tipica fase acuta e a breve non vi è sentore di un'inversione di tendenza. I dati ci dicono che il tasso di occupazione delle terapie intensive è del 12,8%, l'incidenza dei contagi è da zona gialla». Almeno una persona infettata dalla variante Omicron è morta in Gran Bretagna ieri. E ricoveri e decessi «aumenteranno drasticamente» nei prossimi giorni ha specificato il ministro della Sanità Sajid Javid».
VACCINI AI BIMBI, PARTE LA CAMPAGNA
Prenotazioni partite in tutto il Paese: meno di 5 su 100 hanno subito aderito alla campagna. Meglio il Nord che il Sud in un’Italia a due velocità sul vaccino dei bambini. Le differenze sono notevoli: in Lombardia già 40 mila sì, nel Lazio 22 mila, in Sicilia appena 250. Michele Bocci per Repubblica.
«Decine di migliaia di click in poche ore a certe latitudini ma anche una forte esitazione in altre zone del Paese. Le prenotazioni per la campagna vaccinale per i bambini tra i 5 e gli 11 anni sono partite e i risultati non sono omogenei. Alcune Regioni corrono più delle altre, in particolare al Nord si vede al momento una domanda più forte rispetto al Sud. Nelle realtà locali più grandi, quelle con oltre 3 milioni di abitanti, ieri sera avevano l'appuntamento fissato per la somministrazione in media il 4,5% dei bambini. Se si proietta il dato a livello nazionale si ottengono 165 mila appuntamenti presi per 3,6 milioni di persone. La campagna parte tra domani e giovedì. Siamo all'inizio: certe realtà, come il Lazio, hanno aperto le prenotazioni ieri, altre hanno anticipato pochi giorni fa. In generale, ancora una volta, si osserva una grande varietà organizzativa da parte delle amministrazioni locali. Nemmeno per la delicatissima campagna di vaccinazione sui più piccoli si è riusciti a trovare una strada comune. E così c'è chi appunto prende subito gli appuntamenti e chi invece raccoglie adesioni per poi richiamare le famiglie, chi va nelle scuole a vaccinare e chi utilizza gli studi dei pediatri. Qualcuno ha ricavato spazi destinati ai bambini negli hub degli adulti, altri invece hanno creato centri esclusivamente pediatrici. Anche per questo i dati vanno ancora presi con cautela. Solo i prossimi giorni faranno comprendere quante famiglie intendono vaccinare i propri figli. La Lombardia ieri sera ha fatto sapere con soddisfazione di aver superato le 40mila prenotazioni, su un totale di circa 600mila bambini da proteggere con il vaccino. Ha dati percentuali anche più alti la Toscana, dove le prenotazioni sono stimate in 20 mila su 210 mila bambini. Circa 15 mila sono arrivate al call center regionale, poi però vanno considerate le dosi prenotate dai pediatri, che fissano direttamente gli appuntamenti con i loro assistiti se questi preferiscono non andare negli hub. In più, 10 mila dosi sono state consegnate ai centri ospedalieri pediatrici, che chiameranno i pazienti fragili. L'Emilia-Romagna è partita un po' più lentamente. A ieri aveva raccolto circa 12 mila prenotazioni su una platea di 275 mila bambini. Qui è previsto che i pediatri vadano negli hub a dare una mano a fare le iniezioni. Il Lazio, che vuole fare il vaccino pediatrico prima di tutti, già il 15 dicembre, per mantenere il ruolo di Regione guida della campagna, ha hub dedicati ai più piccoli. Ieri ha aperto le agende e in mezzo pomeriggio ha raccolto circa 22 mila prenotazioni. I bambini da vaccinare sono 300 mila. Il Veneto è andato un po' peggio, partendo sempre ieri. Alle 18 aveva raccolto circa 6 mila prenotazioni su 300 mila. Il Piemonte usa un sistema diverso, prende cioè le adesioni dei genitori, che poi vengono ricontattati via sms e ricevono la data dell'appuntamento. Per ora sono 12 mila su 240 mila quelli che hanno avviato la procedura. In Campania hanno prenotato in pochi, cioà 3.300 su 300mila. Si punta però sull'accesso diretto e il 16 nei centri vaccinali sarà organizzata una giornata dedicata esclusivamente ai bambini. Inoltre si stanno coinvolgendo le scuole. Quest' ultima è la strada che ha imboccato anche la Puglia, dove a prenotare sono gli istituti. Sono 151 le scuole che hanno aderito e in alcune già il 50% delle famiglie ha detto sì al vaccino. La Sicilia ha dati bassissimi. Ieri sono stati prenotati circa 250 bambini su 310 mila. La Regione però promuove l'accesso diretto agli hub, senza prenotazioni. «Io - dice il ministro della Salute, Roberto Speranza - vaccinerò i miei figli. Fidiamoci dei nostri pediatri, non è una materia da bar, non è materia da talk show. E neanche da social network, come purtroppo troppo spesso avviene». Al ministero sarebbe considerato un successo raggiungere il 70% di copertura tra i bambini ma c'è chi teme sia difficile arrivare anche al 50%. «In questo momento - dice il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli - la fascia da 5 a 11 anni è quella che mostra l'incremento maggiore di diffusione del Covid, l'incidenza cumulativa stimata è di 200 casi ogni 100mila bambini sui 7 giorni. Il vaccino è sicuro e tutela i bambini».
DISABILI E MANOVRA, LE PREOCCUPAZIONI DI DRAGHI
Alla Conferenza nazionale sulla disabilità, il premier Draghi ricorda i 6 miliardi del Pnrr e smentisce il taglio di 200 milioni del fondo. Le associazioni di volontariato chiedono «massima attenzione» alle istituzioni sui servizi essenziali e sulle procedure di accertamento. Pino Ciociola per Avvenire.
«Si può dare di più. Non soltanto a Natale, ma negli anni a venire, parola di premier: «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede oltre sei miliardi di euro per le persone con disabilità», spiega Mario Draghi, aprendo la sessione pomeridiana della 'Conferenza nazionale sulla disabilità', ieri. E va avanti: «Miglioriamo l'accessibilità ai trasporti e ai luoghi di cultura e abbattiamo barriere architettoniche, che impediscono alle persone con disabilità di usufruire dei servizi come gli altri cittadini, potenziamo l'assistenza di comunità, l'assistenza domiciliare e la telemedicina, per prevenire l'istituzionalizzazione». Ancora: «Ci impegniamo a garantire tutte le cure necessarie in un contesto autonomo e socialmente adeguato». Del resto 'Pnrr' è ripetutissimo da tutti durante la giornata di Conferenza: rappresentanti di governo e Parlamento e associazioni, esponenti della società civile, docenti universitari e rappresentanti dell'Osservatorio nazionale disabilità. Anzi, certamente l'acronimo più citato, insieme alle parole 'occasione storica' e 'cambiamento'. Impossibile andasse diversamente, la Conferenza stessa - nelle intenzioni dell'esecutivo - deve servire a presentare le politiche per la disabilità proprio nel Pnrr, partendo dalla Legge delega, appena approvata a Montecitorio, che «segna un passaggio decisivo» - dice il presidente del Consiglio - e la cui approvazione «è tra i traguardi che ci siamo impegnati con la Commissione Europea a raggiungere entro fine anno». L'approccio potrebbe essere nuovo, i nodi da sciogliere sono quelli di sempre: «Dobbiamo favorire la legittima aspettativa di vivere pienamente la propria vita, i propri sogni, le proprie speranze» per chiunque - annota il premier -, tenendo conto che «ogni disabilità è diversa e ha bisogno di un sostegno specifico», quindi servono «progetti di vita personalizzati e indipendenti». Serve soprattutto «progettare interventi di lungo periodo, per migliorare in modo permanente la vita delle persone disabili». E infine, quei 200 milioni che sembravano ballare, anzi svanire dal Fondo disabilità? Draghi garantisce che «le risorse non utilizzate nel 2021 saranno destinate, già nel 2022, ad aiuti economici per le persone con disabilità e interventi per rafforzare la rete di assistenza». Anzi, chiarisce, «si parla di 200 milioni spostati su un'altra cosa e non è così. Le risorse rimangono e se è necessario si farà di più, la volontà del governo è molto chiara in tal senso». Hanno parlato in tanti alla Conferenza voluta soprattutto dalla ministra per le Disabilità, Erika Stefani. Come Vincenzo Falabella, presidente della Fish, per il quale «mai come adesso è richiesta la massima attenzione perché continuino a essere assicurati tutti i servizi essenziali e le libertà fondamentali delle persone con disabilità e delle famiglie». Come Nazaro Pagano, presidente Fand, secondo cui «l'attenzione dev' essere soprattutto alle procedure di accertamento: occorrono rapidità e semplicità». Ma anche come il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, «Il Pnrr prevede percorsi di trasformazione profonda perché si affermi il principio autonomia delle persone con disabilità e del sostegno alle famiglie. Vogliamo garantire servizi per tutti e trovare poi spazio per riconoscere e valorizzare il ruolo dei caregiver familiari».
Andrea Ducci per il Corriere fa il punto sulla legge di bilancio e il dialogo con i sindacati. Il governo accelera sulla manovra ma non c’è nessuna mediazione sullo sciopero. Lungo incontro fra Draghi e Conte. Domani il maxiemendamento. La Moratti chiede un atto concreto per la medicina territoriale.
«Una corsa contro il tempo. La prima tappa per indirizzare la legge di Bilancio verso la dirittura di arrivo è la presentazione da parte del governo del pacchetto di emendamenti su temi cruciali della manovra come taglio delle tasse, caro bollette, enti locali e scuola. Il deposito in commissione Bilancio del Senato delle modifiche partorite dall'esecutivo dovrebbe avvenire domani, sebbene non sia scontato. L'intero iter di approvazione della manovra, del resto, è in forte ritardo o lo stesso premier Mario Draghi si sta adoperando per evitare passaggi a vuoto e ulteriori slittamenti. Ieri l'incontro di quasi due ore tra l'attuale presidente del Consiglio e il suo predecessore, Giuseppe Conte, in veste di leader del M5S, è servito a recepire le istanze definitive del Movimento sul tema manovra. Le priorità illustrate da Conte riguardano il super bonus e la rimozione del vincolo Isee per le case monofamiliari e le villette per il 2022, la proroga di un ulteriore trimestre delle agevolazioni sulla Tosap, la tassa sui tavolini di bar e ristoranti, oltre che la rottamazione quater. L'altro versante caldo per Draghi è quello sindacale in vista dello sciopero del 16 dicembre, al momento, peraltro, non è prevista nessuna convocazione dei sindacati a Palazzo Chigi prima di quella data, la chiamata dei leader di Cgil, Cisl e Uil è in agenda infatti per la prossima settimana. L'urgenza è, come detto, l'iter della manovra con le votazioni in commissione Bilancio al Senato che inizieranno nel fine settimana, tanto che il provvedimento non arriverà in aula prima del 21 dicembre. Nel calendario dei lavori l'obiettivo era la trasmissione del testo alla Camera entro il 21, nei fatti avverrà dopo il 26 Dicembre. Tempi serrati, insomma, per scongiurare l'esercizio provvisorio. Le prossime ore serviranno a trovare un'intesa tra le forze di maggioranza sui dettagli delle misure da inserire nell'emendamento del governo. Sulla destinazione esatta dei 3,8 miliardi stanziati contro il caro bollette, per esempio, è ancora in corso una discussione: per il gas è previsto un taglio di tipo lineare, portando l'Iva al 5% per famiglie e imprese, ma sul come fare fronte agli aumenti della bolletta elettrica delle imprese manca un'intesa. Un ulteriore approfondimento è in corso su una misura che sblocca dei fondi per i grandi comuni in dissesto. Un intervento che in prima battuta andrebbe in soccorso del Comune di Napoli, alle prese con una situazione prossima al default. Oltre all'atteso emendamento del governo i prossimi giorni saranno cruciali per la riformulazione degli emendamenti parlamentari. Le modifiche principali riguardano superbonus, pensioni (abbassamento dell'età contributiva per gli edili). In queste ore a sollecitare il governo è anche Letizia Moratti, assessore Welfare e vice presidente Regione Lombardia, che chiede con urgenza un intervento di riordino della medicina generale. «Dovremmo firmare con il Governo un accordo di programma entro il primo trimestre 2022, impegno importante che ci aiuta a ridisegnare la sanità territoriale».
QUIRINALE 1. LA RICOGNIZIONE DI “SALVINI KINGMAKER”
A giudicare dai giornali di oggi l’iniziativa del segretario della Lega per trovare una soluzione condivisa per il Colle sembra rimandata a dopo l’approvazione della legge finanziaria. La cronaca di De Caro e Cremonesi per il Corriere della Sera.
«Pacificare». «Svelenire». «Sminare». Sono alcune delle parole chiave della ricognizione di Matteo Salvini con tutti i leader politici del Parlamento. Obiettivo dichiarato, costruire un clima parlamentare che consenta di arrivare all'elezione del nuovo capo dello Stato senza «liberi tutti» dall'esito imprevedibile. Obiettivo implicito, il diventare regista, finalmente non divisivo, di un'operazione che porti il centrodestra, mai così forte nei numeri sulla carta, a non finire fuorigioco. O a pezzi. Nella consapevolezza che la sfida non è semplice: «Non ho la presunzione di convincere tutti - spiegava ai suoi a metà pomeriggio - ma il clima politico non può essere quello che abbiamo visto negli ultimi mesi». E chissà che non ci sia, nel leader leghista, anche un messaggio per Mario Draghi che mai ha voluto, in questi mesi, un incontro con i leader di partito. Non si dice sull'elezione del nuovo presidente della Repubblica, ma neppure sulla manovra: «Con la politica devi fare i conti - brontolava ieri un salviniano - e non trattarci tutti da portatori d'acqua». Detto questo, il problema sembra avere il nome e il cognome di Silvio Berlusconi: «C'è una contraddizione stridente - osserva un leghista di rango - tra il dire che il centrodestra può finalmente dire la sua sul capo dello Stato, e il dire Silvio Berlusconi». C'è il tema dei numeri, certo: nemmeno con i voti renziani la soglia potrebbe dirsi raggiunta. Ma c'è anche quello del profilo politico: «Ma qualcuno si ricorda che il capo dello Stato è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura? Io tifo Silvio, ma è veramente dura». Le mosse di Salvini sono viste con un misto di scetticismo e quasi di indifferenza dagli alleati. Giorgia Meloni con l'alleato si è scambiata alcuni whatsapp per dirsi che ogni riflessione più profonda potrà essere fatta solo dopo l'approvazione della manovra, adesso «è presto». Non esattamente un abbraccio caloroso, visto che Salvini si pone come kingmaker dell'operazione Quirinale che dovrebbe portare ad una «pacificazione» fra le forze politiche, mentre la leader di FdI ha esplicitamente rivendicato il ruolo determinante del centrodestra con un brutale «è finita la pacchia» per il centrosinistra. Anche per questo, in Forza Italia leggono l'attivismo di Salvini come una risposta alla Meloni e al suo fortunato Atreju: «Matteo cerca visibilità e centralità, come è normale in politica». Ma, nella sostanza, nell'entourage di Berlusconi si continua a rimandare ogni iniziativa all'imminenza del voto per il Colle. Primo, perché - e Salvini come la stessa Meloni ne sono ben consci - andrà capita fino in fondo la volontà del convitato di pietra, Mario Draghi, che se aspirasse davvero al Quirinale sarebbe «il candidato a cui nessuno può dire di no». Secondo, perché qualunque patto di «tutti» indebolirebbe la candidatura di Berlusconi, uomo comunque «di parte». «Se solo si ipotizzasse un altro esponente del centrodestra al suo posto, quello del Cavaliere sarebbe un nome bruciato», ripetono gli azzurri, ammettendo che c'è chi comunque, come Verdini, sta lavorando anche su altre ipotesi, come quella di Marcello Pera. Ma Berlusconi, che con Salvini al telefono non ha escluso un vertice imminente, non cede di un millimetro: si potrà parlare di un nome diverso dal suo solo nel momento in cui sarà sancito che a suo favore non esiste una maggioranza possibile, al primo o al quarto scrutinio. Fino a quel momento, ci proverà con ogni mezzo e conta che gli alleati abbiano interesse a seguirlo. Draghi permettendo, si intende».
QUIRINALE 2. LA MINACCIA DI MINZOLINI SUL QUARTO VOTO
Poche allusioni, pochi giri di parole: c’è un avvertimento diretto stamattina dalle colonne del Giornale. Draghi si deve togliere il “capriccio” di andare al Quirinale visto che proroga lo stato d’emergenza sul Covid. E il centro destra deve votare compatto Silvio Berlusconi, altrimenti ci sarà “l’esplosione del centro destra”. Parola di Augusto Minzolini nell’editoriale del Giornale.
«Un'indubbia qualità in politica è quella di cogliere l'attimo fuggente, perché spesso l'incapacità di sfruttare una grande opportunità è seguita da una crisi di identità. Poi, a volte, capita di sbagliare il momento, cioè di osare quando non si dovrebbe, ma questo appartiene più al campo delle ambizioni individuali che non alle categorie della politica. Alla seconda fattispecie appartiene il desiderio, sicuramente legittimo, di Mario Draghi di lasciare Palazzo Chigi per il Quirinale. Un simile tentativo di fronte all'esigenza di prorogare lo stato d'emergenza con il perdurare della pandemia e alle incognite che incombono sulla nostra economia, rischia infatti di essere mal interpretato: malgrado la sua indubbia abilità quando, secondo un copione studiato nei particolari, Mario Draghi porrà nel suo stile felpato la questione nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, rischia di far passare il suo disegno più che per un'esigenza del Paese per un capriccio personale. Alla prima categoria, invece, appartiene l'eventualità che il centro-destra non riesca, pure avendo l'opportunità, a portare un suo esponente al Colle. All'indomani delle ultime amministrative quando Fi, Lega e Fratelli d'Italia per colpa della competizione interna e degli egoismi di partito presero una batosta storica perdendo tutte le grandi città, scrissi che se avessero avuto lo stesso comportamento masochista nell'elezione del Capo dello Stato, di fatto, avrebbero dimostrato che la coalizione non esiste più, che ne è rimasto solo un sepolcro imbiancato. Ora, almeno in pubblico, l'alleanza punta su Berlusconi, ma spesso le parole di Salvini e della Meloni sono corredate da una serie di «ma» e di «subordinate». Tante riserve che esigono una riflessione: se la candidatura del Cavaliere messa in campo al quarto scrutinio, quello che richiede solo la maggioranza assoluta, sarà stoppata dall'impossibilità di conquistare voti al di fuori della coalizione, «nulla quaestio»; ma se per caso verranno a mancare i consensi del centro-destra allora si aprirà un problema di non poco conto. Verificarlo sarà semplice con le tecniche di voto: basterà per scoprirlo che i «Silvio Berlusconi» nelle urne non corrispondano al numero dei grandi elettori azzurri, che i «Berlusconi Silvio» a quelli dei leghisti e che i «S. Berlusconi» a quelli della Meloni. Se qualche scheda mancherà all'appello qualcuno sarà venuto meno alla parola. E la storia insegna che le conseguenze non saranno indolori: la fine dei partiti della prima Repubblica, ad esempio, fu determinata da quei 100 voti che nel 1992 Andreotti fece mancare a Forlani per l'ascesa al Quirinale; ma per non andare troppo in là nel tempo, basta pensare ai 101 voti del Pd che nella corsa al Colle del 2013 silurarono Prodi e mandarono a pezzi il centro-sinistra. E forse i primi che dovrebbero scongiurare in ogni modo l'esplosione del centro-destra sono proprio Salvini e Meloni: se la coalizione andasse in crisi verrebbe a mancare ad entrambi l'unico strumento che hanno a disposizione per arrivare a Palazzo Chigi».
SUICIDIO ASSISTITO, LA CAMERA È DESERTA
Inizia, ma è subito rinviata a febbraio, la discussione alla Camera sulla legge che riguarda il suicidio assistito. Centro destra contrario, Italia viva lascia libertà di coscienza. Il punto di Federico Capurso per La Stampa.
«La legge sul suicidio assistito è ferma da tre anni alla Camera. Pd, M5S e Leu ne chiedono l'approvazione dall'inizio della legislatura. La Corte Costituzionale invita il Parlamento ad occuparsi del tema da due anni. Persino il centrodestra, pur rimanendo contrario al testo partorito dalle commissioni parlamentari, ammette la necessità di affrontare la questione. Eppure, all'approdo in Aula del testo, sono meno di quindici i parlamentari presenti. A metà discussione, il numero scende sotto la decina. «Se la telecamera potesse inquadrare l'emiciclo - interviene il deputato Giorgio Trizzino, del Misto, durante la discussione generale -, farebbe apprezzare un'Aula quasi completamente vuota, sancendo ancora una volta la distanza siderale tra la politica e i diritti civili dei cittadini». Un'immagine avvilente, richiamata indirettamente anche da Walter Verini, del Pd, che prende la parola per chiedere al Parlamento «una prova di maturità, che richiede senso di responsabilità, volontà e capacità di dialogo». Il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, l'unico leader a intervenire nella giornata di ieri, si limita ad augurarsi «che ci sia una discussione aperta, concreta, senza pregiudizi ideologici». E viene seguito dalle dichiarazioni festanti delle truppe pentastellate, che di fronte all'arrivo in Aula del testo parlano già di «giorno storico per i diritti civili», di «passo avanti per il Paese», come se il passaggio della legge fosse scontato, una questione di ore. Ma passeranno dei mesi. Probabilmente, se ne riparlerà dopo l'elezione del Capo dello Stato, a febbraio. Un tempo nel quale gli sherpa di Pd e M5S sperano di riuscire a smussare ulteriormente gli angoli che rendono indigesta la legge al centrodestra, o quantomeno alle forze più moderate di quel fronte. I segnali che arrivano dal dibattito a Montecitorio però non sono confortanti. Pd, Leu e M5S contavano di avere l'appoggio di Italia viva e speravano di trovare in Forza Italia un alleato, contando sul fatto che Silvio Berlusconi non avrebbe dato indicazioni di voto ai suoi. Ma sono i renziani a smarcarsi: «Lasceremo libertà di coscienza», annuncia la deputata di Italia viva Lucia Annibali durante la discussione, mentre gli Azzurri si schierano in difesa del «valore supremo della vita». Il centrodestra appare compatto, pur con le dovute sfumature al suo interno. La Lega apprezza lo sforzo di mediazione, ma si dichiara insoddisfatta del testo e dunque contraria. Dai banchi di Fratelli d'Italia, poi, emergono posizioni ancora più dure: «Riteniamo pericolose le aperture della Consulta», dichiara Carolina Varchi, capogruppo di FdI in commissione Giustizia, «e rifiutiamo totalmente questa cultura dello scarto». Fuori da Montecitorio, interviene Beppino Englaro, padre di Eluana, per constatare ancora una volta come «i cittadini sul tema del fine-vita e il diritto all'autodeterminazione siano avanti rispetto alla politica». E cita Sciascia: «Ad un certo punto della vita, non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire è l'ultima speranza. È questo che andrebbe essenzialmente capito». Gli fa eco Mina Welby, copresidente dell'associazione Coscioni e vedova di Piergiorgio Welby: «È un'occasione che non va sprecata. Per questo vanno messi da parte pregiudizi ideologici a favore di una discussione aperta su un tema molto sentito dai cittadini. Lo dimostrano - aggiunge - le firme raccolte, oltre 1 milione, per il referendum sull'eutanasia legale».
Repubblica intervista l’ex presidente della Corte Giovanni Maria Flick che dice: “Da cattolico sono per questa legge sul fine vita”.
«Promossa. E da approvare assolutamente. «Perché rende più concreti i quattro paletti della Consulta attraverso una formula più generale e non legata al caso specifico ». Ecco il giudizio dell'ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick sul "suicidio medicalmente assistito" su cui la Camera dovrà votare. Sul caso Cappato-Dj Fabo, la Corte aveva detto che la patologia doveva essere irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili, per un malato che può vivere solo attraverso trattamenti di sostegno vitale, però capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Le stesse condizioni, con «maggiore concretezza e specificità », si ritrovano oggi nella legge. «Meglio una legge che nessuna legge» dice Mario Perantoni di M5S. Pure lei la vede così? «Senz' altro. E mi lascia perplesso la singolare convergenza tra i fautori di una libertà totale da un lato e gli oppositori altrettanto radicali dall'altro nel voler demolire la legge faticosamente costruita alla Camera. Un obiettivo comune per finalità opposte». Un sì convinto il suo? «Ci lamentiamo tutti perché da anni si stava lavorando inutilmente per arrivare a una legge sul fine vita. Adesso che c'è la proposta ciascuno la tira per la giacca chiedendo o paletti più rigidi che la rendano, di fatto, inapplicabile, o all'opposto, la demolizione totale dei paletti che già ci sono». Lei è un cattolico praticante, va a Messa ogni domenica, il Papa l'ha scelta come avvocato per il caso del palazzo di Londra. Non teme una scomunica se dice sì alla legge? «È vero, sono un cattolico praticante, ma sono anche laico costituzionalmente (quindi non laicista). Credo che in una società pluralista una soluzione come quella elaborata faticosamente dalla Consulta non sia un compromesso, ma un risultato accettabile, anche se tuttora nutro delle perplessità sul passo che la Corte ha compiuto». Ha valicato il confine tra giudice delle leggi e legislatore? «Sì, ma la Corte lo ha fatto con delle buone ragioni in una società pluralista. Ha ritenuto, ferma restando la necessità di tutelare il soggetto debole per ragioni di solidarietà umana, che si potesse escludere la punibilità dell'aiuto al suicidio. Ma solo quando la sofferenza è irreversibile, intollerabile, e la vita dipende da un presidio medico, senza il quale la persona non può neppure sopravvivere». Sono le quattro condizioni della Consulta? «Sì, certo. Proprio quelle. La Corte ha ritenuto che in quei casi non sia punibile l'accelerazione della morte considerandola di fatto eguale a quanto già prevedeva la legge del 2017 sul fine vita, e cioè la sedazione senza un accanimento terapeutico per contrastare la morte che sta per arrivare». Il centrodestra però non la vota. «È un atteggiamento dettato solo da valutazioni di carattere politico. Invece non si può più tornare indietro di fronte a un risultato acquisito dall'ordinamento». Per l'Associazione Luca Coscioni la legge non va bene perché consente l'obiezione di coscienza ai medici. «Riconoscerla è fondamentale per il rispetto dell'autodeterminazione di un medico chiamato a partecipare a quel processo, e non a fare solo lo spettatore. Chi critica i paletti vuole eliminarli del tutto per affermare la totale libertà e autodeterminazione». Vogliono bloccare la legge per portare voti al referendum? «Non so cosa faranno gli italiani, ma sono contrario a cancellare i paletti per rendere libera l'autodeterminazione della persona che vuole la morte attraverso l'intervento di un altro». In Germania hanno deciso che basta la volontà individuale di morire. «Per me una legge senza paletti diventa la chiave per qualsiasi soluzione, anche quella di una persona giovane e sana, che per una delusione amorosa, dice all'amico "premi tu il grilletto perché io non ho il coraggio di farlo"». Il fantasma della legge Zan incombe sulla legge. Farebbe un appello per votarla? «Il mio mestiere non è quello di fare appelli. Però, come cittadino, ritengo che il Parlamento abbia cercato di trovare per la prima volta un equilibrio tra esigenze entrambe fondate, ma tra loro opposte. E comunque non dimentichiamoci che la legge Zan è saltata proprio per la mancanza di una maggiore disponibilità a cercare un punto d'incontro».
IL NATALE DELLE LANTERNE VERDI
Mobilitazione in tutta Italia per la campagna “Io accolgo” e l’appello dell’Avvenire ad accendere lanterne verdi, come gesto simbolico per ricordare le luci colorate accese nelle case vicino al confine bielorusso dalle famiglie polacche. Daniela Fassini.
«La lanterna verde appesa e accesa sopra il portone d'ingresso della chiesa, mentre sul sagrato prende vita un presepe a grandezza naturale molto particolare: le figure della Natività sono statue che impersonano migranti. La stalla di Betlemme diventa così una tenda di fortuna, Giuseppe e Maria sono avvolti nelle coperte argentate che di solito si usano per soccorrere e scaldare i migranti; non ci sono il bue e l'asinello, ma per scaldarsi c'è un fuocherello da campo con una pentola rimediata alla bell'e meglio per cucinare. Nessuna pecorella, ma l'immagine di un cane, «perché è più facile che sia questa la scena che si incontra tra i migranti bloccati ai confini», raccontano gli allestitori del particolare presepe. Ovvero, i parrocchiani di San Bartolomeo della Beverara di Bologna. «L'idea è venuta da loro», conferma il parroco, don Maurizio Mattarelli. C'è chi la accende a ore, chi tutte le sere e chi ancora nei luoghi della sofferenza, della cura e del dolore. Negli edifici pubblici e in case private. O ancora, come ha fatto Lerici, all'ingresso del porto, su iniziativa della Società Marittima di Mutuo Soccorso. Si allunga, giorno dopo giorno, l'elenco di chi ha accolto l'appello di Avvenire. Le luci della speranza si sono così accese, oltre che sul portone d'ingresso della chiesa bolognese anche, nei giorni scorsi, nelle vie del centro di San Casciano, nel Fiorentino o a Imola, dove la Cgil, nel ruolo di promotori della campagna 'Io accolgo', invita tutti a fare insieme un gesto simbolico. «Accendiamo alle finestre una lanterna verde, come simbolo di solidarietà e accoglienza per i migranti bloccati a tutte le frontiere d'Europa». Altrettanto ha fatto il Comune di Cascina, nel Pisano, dove, riprendendo anche l'invito del vicepresidente del consiglio regionale Antonio Mazzeo, il sindaco Michelangelo Betti, fra le diverse altre iniziative in occasione della Festa della Toscana ha lanciato il segnale di solidarietà. «Abbiamo deciso di illuminare, oltre al Municipio con i colori della bandiera della Regione, anche il Palazzo Pretorio di verde, come le lanterne che illuminano le case al confine della Polonia per ospitare i profughi in arrivo da oltre confine, dalla Bielorussia. Per lanciare un ulteriore messaggio - ha spiegato Betti - l'illuminazione verde andrà avanti per alcuni giorni, per ricordare che nel mondo c'è bisogno di maggior giustizia e di maggior giustizia sociale». Anche la Cisl Emilia-Romagna aderisce alla campagna promossa da Avvenire: le sue strutture sono chiamate ad esporre una lanterna o luce verde, in un luogo visibile interno e esterno. Invito allargato agli iscritti per le loro case, alle istituzioni, alla comunità politica, economica e sociale. «Mentre continua la campagna Iscos, Cisl e Anolf 'I walk the line. Presidi di solidarietà lungo la rotta balcanica', vogliamo unirci simbolicamente a questa ennesima battaglia per i diritti umani e per la garanzia del diritto d'asilo, con un piccolo ma importante segno che è vicinanza, ma anche responsabilità di tutti noi che non vogliamo essere indifferenti », afferma il segretario Cisl dell'Emilia- Romagna Filippo Pieri. Sui social, anche l'associazione romana Baobab Experience condivide la sua 'lanterna verde'. Dal 2015 in strada come hub informale di prima accoglienza per migranti, 'Baobab Experience è una lanterna verde!' si legge sul tweet postato dall'associazione, mentre la Cooperativa Auxilium «aderisce alla campagna lanciata da Avvenire (e ripresa anche dal settimanale L'Espresso) di accendere una luce verde nei presepi, nelle case, nei luoghi di lavoro, per far sentire che non vogliamo rassegnarci a quello che Papa Francesco ha definito un 'naufragio di civiltà'». Ogni struttura dove opera Auxilium in Italia (Rsa, Case di riposo, ospedali, residenze psichiatriche riabilitative, case famiglia per minori, centri educativi, centri accoglienza, uffici) si sta illuminando del colore della speranza. «Salvare vite, dare protezione e rifugio viene prima di ogni calcolo e di ogni strategia politica. Si tratta di persone e non di numeri» dichiara il fondatore della Cooperativa Auxilium, Angelo Chiorazzo. Anche Reggio Emilia, infine, si accende di verde: da ieri e per tutta la settimana la fontana davanti al Teatro Valli sarà illuminata di verde. Ad oggi, hanno risposto all'appello 65 tra associazioni ed enti, più numerose singole persone e famiglie. «Vogliamo unirci al messaggio internazionale, per dire la città che siamo: capace di costruire ponti e abbattere muri. Vogliamo ribadire che Reggio Emilia è città dei diritti della persona, accogliente e sicura verso nuovi cittadini e parimenti per quei migranti che già sono qui con noi» dice l'assessore a Welfare e Politiche per i Migranti, Daniele Marchi. Ma ci sono anche i tweet di Rosella, di Gigi e di Maurizio che accendono la lanterna verde della speranza e la fanno risplendere in bella vista alla propria finestra e sui social, invitando gli amici a fare altrettanto».
NUOVO APPELLO PER LA PACE
«È ora di ridurre le spese per le armi». L'appello è di cinquanta premi Nobel e accademici ai governi: fermiamo la corsa verso la guerra. C’è anche il sostegno del Dalai Lama, Nobel per la Pace. La proposta dei cinquanta Nobel è di spendere per lo sviluppo i 2 mila miliardi di dollari all'anno stanziati dai singoli governi per la corsa agli armamenti. Ecco il testo, pubblicato oggi dal Corriere:
«La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all'anno. Inoltre, è in aumento in tutte le aree del mondo. I singoli governi sono sotto pressione e incrementano la spesa militare per stare al passo con gli altri Paesi. Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale, il che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori. In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto a un'unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Noi vogliamo presentare una semplice proposta per l'umanità: che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnino ad avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni. La nostra proposta si basa su una logica elementare: le nazioni nemiche ridurranno la spesa militare, e così facendo rafforzeranno la sicurezza dei rispettivi Paesi, pur conservando l'equilibrio delle forze e dei deterrenti. L'accordo siglato servirà a contenere le ostilità, riducendo il rischio di futuri conflitti. - Enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto «dividendo della pace», pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030. La metà delle risorse sbloccate da questo accordo verrà convogliata in un fondo globale, sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, per far fronte alle istanze più pressanti dell'umanità: pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L'altra metà resterà a disposizione dei singoli governi. Così facendo, tutti i Paesi potranno attingere a nuove e ingenti risorse, che in parte si potranno utilizzare per reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell'industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza. La storia dimostra che è possibile siglare accordi per limitare la proliferazione degli armamenti: grazie ai trattati Salt e Start, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica hanno ridotto i loro arsenali nucleari del 90 percento dagli anni Ottanta ad oggi. I negoziati da noi proposti avranno una buona possibilità di successo, perché fondati su un ragionamento logico: ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l'intera umanità. In questo momento, il genere umano si ritrova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci».
IL VIAGGIO DI BENNETT: “CUGINI CON GLI EMIRATI”
Stretta di mano fra Bennett e Bin Zayed nello storico viaggio del premier dello Stato ebraico. Il principe arabo visiterà Gerusalemme. Rossella Tercatin per Repubblica.
«Il messaggio che desidero trasmettere ai leader e ai cittadini degli Emirati è che la collaborazione e l'amicizia reciproche sono naturali. Siamo vicini e cugini». Naftali Bennett, primo ministro israeliano nella storia a visitare gli Emirati Arabi, incontra il principe reggente, lo sceicco Mohammed bin Zayed al Nahyan, portando parole di fratellanza. I due leader sono stati protagonisti di un lungo faccia a faccia che nella dichiarazione congiunta al termine del pomeriggio hanno definito "un successo." Al centro del colloquio a porte chiuse tra Bennett e bin Zayed anche la questione del nucleare iraniano. Entrambi i paesi considerano Teheran una minaccia, ma negli ultimi mesi Abu Dhabi è stata protagonista di un (tiepido) riavvicinamento con il regime degli Ayatollah. Alti funzionari dei due Paesi si sono incontrati di recente e anche il nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi è stato invitato ad Abu Dhabi. Tuttavia, nelle dichiarazioni pubbliche Bennett e bin Zayed hanno scelto di lasciare le tensioni regionali ai margini e di concentrarsi sulla volontà di rafforzare la cooperazione economica e tecnologica, annunciando la creazione di un fondo congiunto di ricerca e sviluppo a questo scopo. «Abbiamo portato avanti un dialogo significativo, approfondito e diretto sui nostri due Paesi, sulla regione, sulla nostra economia e tecnologia e su cosa possiamo fare insieme», ha detto Bennett prima di ripartire alla volta di Gerusalemme. «Torno in Israele molto ottimista sul fatto che queste relazioni possano rappresentare un esempio di come possiamo fare la pace qui in Medio Oriente». Da parte sua, bin Zayed ha espresso la speranza che la visita possa favorire ulteriore cooperazione a beneficio dei popoli dei due Paesi e della regione, sottolineando che l'importanza dei valori di convivenza e pace come modo migliore per realizzare le aspirazioni dei popoli, come riportato dall'agenzia di stampa degli Emirati Wam. Secondo la televisione pubblica israeliana Kan, lo sceicco avrebbe anche accettato l'invito di Bennett a visitare Israele, una visita che se confermata avrebbe risvolti fondamentali per gli equilibri mediorientali. Il primo ministro israeliano è arrivato negli Emirati domenica sera, accolto con tutti gli onori, con un messaggio forte per tutto il mondo arabo. La visita ad Abu Dhabi, a lungo rimandata per via del Covid - anche dal predecessore di Bennett Benjamin Netanyahu - arriva un anno e quattro mesi dopo gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele e diversi Stati arabi normalizzare le proprie relazioni diplomatiche. Da allora, tra Gerusalemme e Abu Dhabi, è iniziata una nuova stagione che ha visto le due nazioni allacciare strette relazioni diplomatiche, economiche e culturali. «La visita manda un messaggio chiaro: Israele fa parte della regione», ha commentato Yoel Guzansky, analista all'Institute for National Security Studies (Inss) affiliato all'Università di Tel Aviv. «Ritengo che questo punto rappresenti il grande successo degli Accordi di Abramo, su cui però è necessario continuare a lavorare, altrimenti si rischiano passi indietro». Per questa ragione, secondo Guzansky, il risultato più importante dell'incontro tra i due leader consiste nell'incontro stesso, «il fatto che abbiamo posato insieme per una fotografia, si siano stretti la mano e abbiano parlato di pace di fronte al mondo e al Medio Oriente».
MACRON IN UNGHERIA “SDOGANA” ORBÁN
Il presidente francese Macron incontra i capi dei governi di Visegrad a Budapest, in vista del semestre francese della Ue. Migrazioni, sovranità, energia nucleare e investimenti militari: questi i temi trattati. Daniele Zappalà per Avvenire.
«Avversari politici, ma partner europei ». Così, ieri, si sono reciprocamente definiti il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente francese Emmanuel Macron, a tu per tu a Budapest nel quadro di una trasferta del capo dell'Eliseo in vista dell'imminente semestre di presidenza francese dell'Ue. In generale, un viaggio per dialogare d'un colpo con i leader dei quattro Paesi del Gruppo di Viségrad, riuniti per l'occasione. Divenuti entrambi figure continentali di riferimento di due visioni antagoniste dell'Europa, Macron e Orbán hanno nondimeno esibito la volontà di trovare un canale costruttivo di dialogo, enfatizzando la necessità di un'Europa della Difesa e di una «sovranità energetica». Si è molto discusso pure di questioni migratorie, ha riferito Macron, assicurando di ricercare con Budapest e il gruppo di Visegrád «un'organizzazione comune per meglio prevenire i flussi migratori, proteggere le nostre frontiere esterne e riuscire a trovare i mezzi e le vie di una cooperazione più efficace fra europei su questo tema». La Francia promuove la creazione di un meccanismo di sostegno (agenti e mezzi di polizia, non solo di Frontex) per gli Stati che vivono situazioni critiche alle frontiere, come nel caso drammatico della Polonia. Ma ieri, i toni impiegati dai leader di Visegrád hanno confermato una volontà di chiusura, fino ad esaltare le barriere «anti-migranti» innalzate nell'Est. L'Europa «deve proteggere le nostre frontiere esterne», ha martellato il capo dell'esecutivo ceco, Andrej Babis, nel corso di una conferenza stampa comune dei cinque. Di fatto, si è ben compreso, la posta in gioco delle evoluzioni promosse da Parigi riguarderà una definizione comune, ancora tutta da costruire, del concetto di «sovranità ». Lo stesso divenuto a Budapest, a parole, un comune denominatore fra tutti i partecipanti. «Occorre assolutamente essere capaci di combattere la tratta umana e i traffici illegali, occorre una legislazione chiara e netta sulla protezione delle nostre frontiere », ha detto il premier polacco Mateusz Morawiecki. Ieri, il confronto è stato solo rilanciato, mentre ben più forti sono parsi i margini di convergenza e forse d'intesa su due altri punti. Innanzitutto, la cooperazione sul nucleare, ambito nel quale la Francia detiene un know-how riconosciuto a livello internazionale. Tutti i partecipanti hanno sottolineato la necessità d'allentare quanto più la dipendenza dalle forniture di gas russo e dunque il persistente potenziale ricattatorio nelle mani di Mosca. Il secondo pilastro riguarda l'Europa della Difesa. In proposito, Macron ha negato che si sia discusso ieri pure di vendite in vista d'armi francesi, come quelle recenti alla Grecia. Ma anche in questo caso, le capacità dell'industria militare transalpina potrebbero divenire un fattore d'avvicinamento. Fra un'evocazione e l'altra delle manovre di Mosca e Pechino, parole come «sicurezza», «integrità territoriale», «minacce » sono rimbalzate in tutti gli interventi, mostrando ancora una volta il livello raggiunto dall'apprensione che serpeggia fra le cancellerie dell'Est. «Quando parlo di sovranità europea, parlo di questo», ha garantito Macron. A più riprese, il capo dell'Eliseo ha ricordato la questione dello «Stato di diritto» e dei progressi che l'Ungheria in particolare non sembra ancora disposta a compiere su diritti umani, pluralismo dei media, rispetto delle minoranze. Ma anche su questo, Orbán ha auspicato «un dibattito di qualità», rilanciando al contempo, come i suoi colleghi di Visegrád, sulla necessità di «più solidarietà» dal resto dell'Ue».
VOTO IN LIBIA ANCORA NEL CAOS
Si voterà davvero in Libia fra 10 giorni? Sembra molto difficile. Il quadro della caotica situazione nell’articolo di Roberta Zunini per il Fatto.
«Mentre si avvicina il 24 dicembre, si allontana la probabilità che la Libia vada al voto in questa data suggerita l'anno scorso dalla roadmap dell'Onu e ribadita un mese fa a Parigi al termine della conferenza indetta dall'Eliseo con Italia e Germania. I motivi per cui difficilmente si terranno le elezioni presidenziali la vigilia di Natale sono quelli per cui la Libia è rimasta una nazione destabilizzata nonostante il cessate il fuoco tra le forze della Cirenaica guidate da Khalifa Haftar e quelle di Tripoli (queste ultime riconosciute con il governo di transizione dalle Nazioni Unite, ndr) scattato l'anno scorso. Se sullo sfondo, ma non per questo meno importante, rimangono i problemi relativi alla distribuzione dei proventi del greggio da parte della Banca centrale; l'assimilazione di entrambi gli eserciti in uno nazionale; la fuoriuscita dei mercenari russi della Wagner e delle armi egiziane ed emiratine a sostegno di Haftar e di quelli inviati dalla Turchia per aiutare il governo di Tripoli, per fare alcuni esempi, altri se ne sono aggiunti in queste ultime settimane. L'Alta Commissione elettorale nazionale libica (Hnec) ha annunciato ieri il rinvio sine die della pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali. L'Hnec aveva chiuso ieri la registrazione delle candidature per le elezioni presidenziali dopo che oltre 80 candidati avevano presentato i documenti. Solo nella giornata di ieri avevano esposto la propria candidatura ben 14 persone, tra uomini d'affari rientrati da poco in Libia dopo anni di auto esilio per paura dei propri scheletri nell'armadio collezionati durante l'era Gheddafi. L'ultimo degli aspiranti presidenti della Repubblica a registrarsi è stato Sulaiman Al-Buwaidi, presso un ufficio Hnec di Tripoli. L'Hnec ha rinviato la conferenza stampa finale citando l'ingombrante numero di candidati l'ultimo giorno di registrazione. Di conseguenza la campagna elettorale avviene in modo dimezzato e senza punti fermi. Vale la pena ricordare che anche l'attuale primo ministro ad interim Abdul-Hamid Dbeibah ha presentato la propria candidatura alle elezioni presidenziali nonostante le molte riserve su questa mossa da parte di diversi partiti. Dbeibah per essere nominato premier di transizione dovette rinunciare alla prospettiva di candidarsi alle elezioni, ma come sempre in Libia, le promesse non valgono. Nel frattempo l'Alto consiglio di Stato (Hsc), una sorta di Senato, con sede a Tripoli che fa da contrappeso al Parlamento di Tobruk ha proposto di far svolgere le Presidenziali in contemporanea con le Legislative a febbraio, con un sistema di liste composte da un candidato presidente, due vice e un premier. L'equivalente del Senato ha suggerito che il voto presidenziale dovrebbe tenersi più avanti per evitare di minacciare ulteriormente la transizione politica del Paese. "Portare avanti le elezioni presidenziali senza alcuna norma costituzionale o legale formale, con una legge elettorale decisa unilateralmente dal presidente del Parlamento, Aqila Saleh, a sua volta candidatosi alle Presidenziali, in mezzo a tensione, sfiducia tra gli attori (libici) e interferenze straniere, potrebbe distruggere l'intero processo politico", si legge in una nota. Omar Boshah, primo vicepresidente del Consiglio, ha detto ai giornalisti a Tripoli che se il voto si terrà comunque il 24 dicembre, "i risultati non saranno accettati". A ottobre il Parlamento di Tobruk aveva deciso che il voto legislativo era stato posticipato dal 24 dicembre a gennaio. Ma la missione delle Nazioni Unite in Libia ha esortato i leader a rispettare la data di dicembre. Il Consiglio dopo aver indicato febbraio per le parlamentari ha detto che il primo compito degli eletti sarebbe quello di redigere una nuova costituzione, la prima da quando il dittatore Muhammar Gheddafi annullò l'ultima nel lontano 1969. Proprio la candidatura del figlio, Saif-al Islam Gheddafi, prima bocciata quindi accettata in appello ha già screditato di per sé il processo elettorale essendo il rampollo ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell'Aja per crimini contro l'umanità. L'ex membro del Congresso nazionale generale ( GNC ), Mahmoud Abdulaziz, ha sottolineato che le elezioni del 24 dicembre saranno "letteralmente catastrofiche" se si celebrassero come previsto e non raggiungeranno l'obiettivo. Abdulaziz ha spiegato che il voto non può andare avanti in un ambiente così teso. Dulcis in fundo centinaia di migliaia di persone che non si sono iscritte alle elezioni hanno trovato il proprio nome tra gli elettori. D'altra parte, altri hanno affermato che i propri nomi non sono stati elencati nella registrazione del voto, mentre alcuni sono stati registrati in un seggio elettorale a distanza, lontano dalla regione di residenza. Per finire, vi è il "biglietto di voto fraudolento", come riportato da molti che hanno confermato che tessere elettorali vengono emesse per persone decedute, mentre alcuni vendono le proprie per poche migliaia di dinari».
IL PAPA E GLI ABUSI DELLA CHIESA FRANCESE
Giuliano Ferrara sul Foglio torna sulla vicenda del rapporto choc sugli abusi della Chiesa in Francia e si dice ora soddisfatto della prudenza di papa Francesco.
«La Conferenza episcopale di Francia, con la poca eccezione di un terzo dei confratelli in opposizione alla giunta governante di Eric des Moulins- Beaufort, ha dato tre milioni e mezzo di euro a una scelta compagnia di sociologi e statistici, con qualche teologo di servizio al seguito, e l'ha incaricata, sotto la guida di una degna personalità massonica del laicato nazionale, di dirle la verità sulla pedocriminalità negli ultimi settant' anni di vita della cattolicità e del clero francese. Risultato: 330 mila vittime. Una spacconata mediatica (…). Il Papa ora riceve per una strigliata i vescovi della figlia maggiore della Chiesa di Roma, ma ha rifiutato di ricevere il presidente della Commissione con i suoi membri decostruzionisti, dopo avere con imprudenza avallato le sciocchezze statistiche insinuate a viva forza nell'opinione generale con titoli e testi di tutto il mondo che fanno vergogna al sistema della informazione e comunicazione ( ma chi ha il Papa nel suo staff per giudicare tanto malamente?). Infatti sedici membri dell'accademia cattolica di Francia si sono dimessi per protesta contro il metodo socio- giacobino, scientificamente grottesco, con cui si è arrivati alla famosa cifra criminale su menzionata. Tra loro il pensatore cattolico rispettato, il laico e nostro amico Pierre Manent, uno che non ha alcuna tendenza negazionista, e sarebbe ridicolo, verso i peccati del clero e i silenzi della gerarchia più intenta alla cura delle anime che alla tolleranza zero in nome delle vittime. C'è voluto un po' di tempo, molta sofferenza della verità poliedrica tanto cara a Francesco, c'è voluto l'atto di coraggio di uomini liberi, ma alla fine anche nella cara Francia cattolica sono arrivati a conclusioni che fu facile tirare qui subito dopo il varo del rapporto della Commissione, bastava leggerlo. Per la falsa accusa, vabbè, chissà quando si risolleveranno dal peccato dei peccati che è la stupidità, chissà quando verrà restituito al 97 per cento del clero francese l'onore morale. Ma la vera accusa è quella che ora il Papa, dall'aereo che lo riportava da Lesbo, ha cominciato a elevare verso una congrega arcivescovile che meriterebbe visitatori apostolici e un rinnovo radicale per effetto delle sue scelte demenziali e inferiorizzanti: l'accusa di anacronismo. (…) Ecco, travolti da cattive letture di testi ambigui, i vescovi francesi hanno affidato a un circolo di cancel culture fitto di giuristi, sociologi, statistici, psicologi, ricercatori di ogni conio, praticone o vittima della teoria dell'anacronismo fa lo stesso, la storia della loro Chiesa. Con un risultato probabilistico, ma nemmeno, neanche possibilistico, che riflette in sé l'errore dell'anacronismo, trattare la storia degli ultimi settant' anni con gli occhiali di quella dei prossimi, a partire dalle acquisizioni più maldestre del presente. Qualche gesuita avvertito deve aver fatto capire al Papa gesuita, ma argentino, che quando aveva coperto commissione e gerarchia di Francia in quest' opera malata di distruzione autolesionista della Chiesa aveva fatto la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Alleluja!».
“LIETI DEL GIUSTO PASSO”
Umberto Folena su Avvenire dà notizia oggi (il lunedì il giornale non esce) dell’articolo domenicale di Antonio Socci su Libero in cui ha ritirato alcune critiche a papa Francesco. Folena registra il cambiamento e pone una domanda sul seguito dell’ “arcicattolico polemista”.
«Qualcuno forse ricorderà Antonio Socci, bella penna e bella testa, divenuto negli ultimi anni l'arcicattolico polemista fustigatore di papa Francesco, che sarebbe stato eletto in modo irregolare, un antipapa, un eretico, un satanasso che avrebbe distrutto la Chiesa. Su queste pagine - per sempre confermata e mai scontata decisione del direttore - se ne è parlato molto poco, per pura e semplice carità verso un collega veemente e intelligente, incredibilmente tramutatosi in un energumeno dello spirito che scatenava quasi ogni giorno l'inferno contro il Papa. Ma bisogna pur registrare, fino a prova contraria, che quel Socci non c'è più. Ed eccoci a scriverne. È risorto un Socci fedele, a modo suo, come tanti di noi. Un Socci che su "Libero" (12/12) esordisce: «È gravoso guidare la Chiesa nella tempesta di questi anni». Poi confessa: «Chi scrive in passato non ha lesinato critiche (anche troppo dure, talora con poca carità)». Infine l'ammissione: «Spazzando via tanti dettagli secondari bisogna riconoscere che la cifra originaria di questo papato è molto bella e delinea l'unico grande compito della Chiesa nel III millennio cristiano. Si potrebbe sintetizzare così: Dio ha pietà di tutti e si è fatto uomo per venire a cercarci, uno per uno, per salvar, pagando sulla croce il riscatto per ognuno di noi». Socci ricorda anche una «lettera autografa del Papa», giuntagli anni fa, in cui Francesco lo ringraziava anche delle critiche e prometteva di pregare per lui e la sua famiglia: «Un gesto di paternità che mi commosse», evidentemente non abbastanza se sono passati anni prima dell'articolo di domenica scorsa. E adesso? Siamo lieti che Socci abbia compiuto il giusto passo. Ma i suoi fan? Quelli che rilanciavano esultanti le sue esternazioni sui social, ricoprendo di improperi Francesco e invocandone persino la morte? E i suoi libri? I suoi post? Ripida è la via del ritorno a casa. Il Papa lo aveva perdonato già anni fa; il Padreterno ha sempre le braccia spalancate; ma quella "banda" lo perdonerà mai?».
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