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A Mosca ci odiano

alessandrobanfi.substack.com

A Mosca ci odiano

Dmitrij Medvedev sbrocca su Telegram contro gli occidentali che vorrebbe morti. Sorpresa relativa: la guerra chiama odio. Diplomazia al lavoro. La Ue per il salario minimo. Pro e contro sui referendum

Alessandro Banfi
Jun 8, 2022
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A Mosca ci odiano

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Dunque non siamo proprio benvoluti in Russia. In effetti la sorpresa è relativa, visto che noi “occidentali”, secondo l’espressione usata da Dmitrij Medvedev, abbiamo reagito duramente all’aggressione russa dell’Ucraina in questi 4 mesi. Con le sanzioni economiche (sei round della Ue, Turchia ed Israele non partecipano) e con l’invio di armi e aiuti a Kiev. Carri, bombe, missili. Siamo odiati. E ancora di più siamo additati all’odio dei Paesi africani e asiatici che già stanno pagando, con la carestia e l’inflazione, il prezzo di questo conflitto (illuminante l’analisi di Domenico Quirico sulla Stampa). I pochi inviati dei mass media occidentali che vanno in Libano o in Tunisia raccontano di un risentimento crescente nei nostri confronti. Altra osservazione: negli insulti di Medvedev non si fanno distinzioni fra Europa e Stati Uniti. Siamo accomunati nella generica espressione di occidentali. Nemici e basta. Viene in mente Emmanuel Macron che chiede di non “umiliare” Mosca e che viene duramente criticato per la sua prudenza. La guerra non ammette distinzioni e si alimenta delle parole che creano esse stesse schieramenti e divisioni. Anche noi mettiamo fuori concorso le violiniste russe perché sono russe…

Si creano muri invalicabili. Poi c’è il conflitto vissuto dalle singole persone e, come recita oggi una bella lettera riprodotta dal Manifesto, “i poveri vengono mandati a morire dai ricchi che vogliono strapparsi reciprocamente più potere, come è sempre successo nella storia”.

Eppure ci sono segnali di un’attività diplomatica che potrebbe portare, se non ad una pace, ad un cessate il fuoco. Importante innanzitutto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky abbia chiesto il coinvolgimento della Cina. È un punto su cui è tornato spesso Romano Prodi. Pechino può influenzare Mosca e spingerla al negoziato, visto che la globalizzazione sta entrando in una crisi profonda a causa del conflitto. E la Cina ha molto da perdere se finisce davvero la globalizzazione. Certo, l’interlocutore ideale di Pechino dovrebbe essere Washington. A proposito degli Usa, il Corriere della Sera segnala una forte attività del Vaticano in dialogo con l’amministrazione Biden, il che sembra una buona notizia. Oggi il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov è ad Ankara per parlare della crisi del grano. La pagina di cultura di Repubblica si apre con una bella e lunga intervista al filosofo Francis Fukuyama, che si interroga sul futuro del liberalismo.

È tutto da leggere il decalogo scritto dagli organizzatori della Marcia della pace a Kiev dell’11 luglio, in vista di un dibattito organizzato da Avvenire Vita.it. Mentre in Italia si polemizza ancora sulla lista dei “putiniani” pubblicata dal Corriere della Sera e che sarebbe stata redatta dai nostri servizi di sicurezza. Sul voto del 21 giugno alla Camera, Giuseppe Conte torna a sostenere che i 5 Stelle non vogliono la crisi di governo e che hanno differenti valutazioni dalla Lega. L’Istat taglia le stime di crescita dell’economia italiana: il Pil italiano aumenterà solo del 2,8% nel 2022 e dell’1,9% nel 2023. 

A proposito di voti, qui la guida ai referendum proposta dalla Versione. Avvenire presenta stamattina un pro e un contro. Ci sono pochi magistrati autorevoli in Italia come Armando Spataro, che è intervistato per spiegare le ragioni del No. Mentre il costituzionalista Giuseppe Guzzetta spiega i motivi per un Sì.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Dmitrij Medvedev mentre parla in un’occasione ufficiale nei palazzi del Cremlino. Ex presidente della Federazione russa, ed ex primo ministro, è attualmente Vice presidente del Consiglio di sicurezza. Ieri è stato protagonista di un attacco verbale agli “occidentali” che ha definito “bastardi ed imbranati”.

Foto Ansa/EPA

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Le parole sono importanti, ma è come se i giornali si fossero accorti solo oggi che siamo coinvolti a pieno titolo nella guerra contro Mosca. Il Corriere della Sera sceglie: Odio e minacce dalla Russia. La Stampa sintetizza: Delirio Medvedev: occidentali vi odio. Il titolo di Avvenire è più preoccupato: Parole pericolose. Il Giornale attacca: Mosca parla come l’Isis. Il Manifesto commenta con una sola parola la foto di Medvedev: L’odio. Il Mattino spiega: Minaccia choc di Mosca «Occidentali, sparirete». Per Libero: Mosca getta la maschera: «Morte agli occidentali». Il Domani si concentra sul ruolo della Turchia: Erdogan si comporta da mediatore per distrarre dai problemi interni. Il Fatto insiste nella polemica sulla lista dei putiniani: Lo scandalo dei dossier investe il Dis e il governo. La Repubblica intervista il ministro Orlando che, dopo la decisione Ue, dice: “Ora un patto per i salari”. Per il Quotidiano Nazionale: Salario minimo, rivoluzione a metà. Sempre sulle decisioni economiche prese a Bruxelles c’è Il Messaggero: L’auto elettrica divide la Ue. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sui dati dell’economia interna: Pil 2022 a +2,8%, ma con rischi di ribasso. Bene l’edilizia, l’Industria cede lo 0,9%. La Verità torna sul branco in azione il 2 giugno a Peschiera: Così la sinistra ha creato la bomba africani violenti.

Il TELEGRAM DI MEDVEDEV ALL’OCCIDENTE

Dmitrij Medvedev è diventato il falco che attacca gli occidentali da Mosca, grazie ad un post su Telegram. La cronaca e l’analisi di Rosalba Castelletti da Mosca per Repubblica.

«La parabola della colomba che diventò falco ha raggiunto il suo vertice con l'ultimo post su Telegram. «Li odio. Sono bastardi e degenerati. Vogliono la morte della Russia. Finché sarò vivo, farò di tutto per farli sparire», ha scritto l'ex premier e presidente russo Dmitrij Medvedev, oggi vicepresidente del Consiglio di Sicurezza, senza specificare l'obiettivo della sua bellicosa intemerata: se gli occidentali, gli ucraini o i "traditori" russi che si oppongono a quella che Mosca chiama "operazione militare speciale". Da quando, il 17 marzo, ha aperto un profilo Telegram, l'ex leader 65enne è emerso come uno dei più implacabili fautori del "partito della guerra" contrario a ogni negoziato con Kiev e tra i più rabbiosi saettatori contro i Paesi che hanno sanzionato la Russia. Dal suo palco virtuale tuona parole infuocate minacciando l'uso di armi nucleari contro l'Occidente o il ritorno in patria della pena di morte ora che Mosca si è ritirata dal Consiglio d'Europa e ieri anche dalla Corte europea per i diritti umani. Un tentativo di riguadagnare credito per riemergere dal limbo politico in cui è precipitato due anni fa o persino di riaccreditarsi come delfino di Vladimir Putin. «Medvedev naviga vicino al vento», ha commentato l'analista politico Andrej Pertsev. «Potrebbe tornare a essere un favorito alla presidenza, il genere di falco a cui Putin potrebbe lasciare la Russia». E dire che la sua parentesi al Cremlino dal 2008 al 2012 aveva fatto sperare all'amministrazione Obama in un "Reset" delle relazioni e agli elettori russi in un Paese più moderno e liberale. Tanto che dieci anni fa migliaia di moscoviti protestarono quando, invece di ricandidarsi per un secondo mandato, si fece da parte per lasciare nuovamente la poltrona a Putin e fare il suo obbediente premier. Rokirovka , arrocco, fu chiamato lo scambio di ruoli mutuando il lessico degli scacchi. Primo leader a non avere legami né con il Partito comunista, né con i siloviki dei servizi segreti, fan dei Deep Purple e dell'iPhone, l'ex avvocato sembrava un'alternativa più filo- occidentale e democratica. In realtà, come avevano visto bene i diplomatici statunitensi a Mosca in alcuni cabli diffusi da Wiki-Leaks nel 2010, Medvedev e Putin erano le due facce di una stessa medaglia, le due teste di un «sistema di potere bicefalo» dove Medvedev però era «il Robin del Putin-Batman». Nel 2020 il leader del Cremlino non esitò a sbarazzarsi del suo Robin diventato zavorra. Troppo inefficace e troppo impopolare. «Non è Dimon (diminutivo di Dmitrij, ndr ) », gridavano in piazza i russi che avevano aperto gli occhi grazie alla video-inchiesta di Aleksej Navalny sul suo smisurato patrimonio racimolato a suon di mazzette. Dopo il declassamento, due anni di oblio politico.
La metamorfosi non è stata repentina. Già lo scorso ottobre, in un vetriolico commento su Kommersant , Medvedev aveva definito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky «rivoltante ». Da allora i suoi scritti sono diventati sempre più virulenti. Da perfetto portavoce di una Russia che non perdona tentennamenti tanto che ieri anche il troppo "morbido" metropolita Hilarion è stato rimosso da capo delle Relazioni esterne della Chiesa russa ortodossa. «È disperato. Vuole sopravvivere, non risalire la vetta della verticale», sostiene la politologa Maria Snegovaja. Ma c'è anche chi, come Pertseev, crede che punti a riavere il ruolo supremo. Un obiettivo giudicato da alcuni irrealistico perché, oltre all'impopolarità, Medvedev sconta gli amici sbagliati: dai fratelli miliardari Magomedov all'ex ministro Uljukaev, tutti i suoi principali alleati sono finiti dietro le sbarre. Alle parlamentari di settembre, Putin azzoppò le sue ambizioni di capolista del partito al potere Russia Unita, di cui è formalmente capo, e di presidente della Duma. Ma nonostante quell'umiliazione che ancora brucia, come Robin, Medvedev ha un asso nella manica che lo rende prezioso agli occhi di "Batman": la sua incondizionata fedeltà».

PER POLITO È UNO SCONTRO DI CIVILTÀ

Sulla prima pagina del Corriere della Sera Antonio Polito sostiene che l’attacco di Medvedev confermi il giudizio, secondo cui questa guerra costituirebbe un nuovo “scontro di civiltà”.

«Se è con noi che ce l'aveva, Dmitry Medvedev non sarebbe davvero il primo a dichiarare il suo «odio» per gli occidentali, spinto fino al punto di volerli «veder sparire», perché «bastardi e degenerati». Appena ventuno anni fa, in tutt' altre circostanze, un gruppo di ragazzi arabi si imbarcò su quattro aerei di linea negli Stati Uniti, convinti di poterci distruggere perché abbiamo paura della morte, mentre loro, gli attentatori delle Torri gemelle, la desideravano fino al martirio. In singolare coincidenza, narrando mirabilie di un super missile che da Mosca potrebbe radere al suolo Parigi o Berlino in duecento secondi dal lancio, il conduttore di una tv russa ha di recente aggiunto: «Certo, poi moriremmo anche noi, ma noi andremmo in paradiso». Eravamo stati facili profeti, nel segnalare che la guerra all'Ucraina si sarebbe presto trasformata in un nuovo e sciagurato «scontro di civiltà». I discorsi di Putin, e quelli del patriarca Kirill, avevano anticipato ciò che ha detto ieri l'alter ego dell'autocrate di Mosca, Medvedev, ex presidente ed ex premier della Federazione russa. Se una «guerra per procura» è in corso in Ucraina, è questa: i russi puniscono gli ucraini perché non si sentono più russi, ma occidentali. Perciò è corretto dire che è una guerra mossa anche all'Europa. L'Occidente è del resto innanzitutto Europa, visto che questa è stata la culla dei suoi valori, della sua cultura, della sua tecnologia, esportatore di tutte le rivoluzioni industriali della storia, inventore dei Lumi della ragione, della libertà e dell'uguaglianza, ma anche dello schiavismo, del colonialismo e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Per i suoi formidabili successi, è da secoli temuto da tutti i suoi avversari. E per questo odiato. Ma anche ammirato e imitato. Il fondatore dell'impero zarista, Pietro il Grande, per riuscire a conquistare l'accesso al Mar d'Azov (anche lui, è una costante della storia russa), viaggiò due anni in Europa assumendo centinaia di maestri d'ascia olandesi e inglesi ed esperti d'armi austriaci, pur di portarseli in Russia a costruire la flotta che non aveva mai avuto. Molto tempo prima che nascesse la Nato, «la Russia diffidava già degli stranieri e degli occidentali», ha scritto lo storico Stephen Kotkin. Mentre l'Occidente trovava in America la sua nuova «frontiera», espandendosi a Ovest fino a raggiungere il Pacifico, la Russia, anch' essa società di frontiera, si lanciava nelle immense distese a Oriente, arrivando sull'altra sponda dello stesso oceano. Per secoli è riuscita ad espandersi a una media di cinquanta miglia quadrate al giorno, fino a coprire un sesto delle terre emerse del Pianeta e a competere con l'Occidente. Da sempre retta da autocrazie, ha rappresentato a lungo l'alternativa più formidabile alle democrazie liberali occidentali, fino a sfidarne la supremazia indossando la corazza ideologica del comunismo. Ed è proprio grazie a questa storia che attrae ancora oggi i nemici interni dell'Occidente. Li vediamo all'opera qui da noi, dai tardi epigoni della sinistra anti-capitalista e terzomondista, ancora ostaggio del feticismo del Cremlino, fino ai tradizionalisti che vedono in Mosca la Terza Roma, il faro di civiltà cristiana che non ha ceduto ai demoni dell'individualismo, dell'edonismo, e della libertà sessuale. È goffo, ma non è un caso, se Putin si è presentato come improbabile paladino della lotta alla teoria del gender, o se il patriarca Kirill ha identificato nelle sfilate gay il declino morale dell'Occidente che giustifica anche la guerra all'Ucraina. Sarà per questo che siamo «bastardi e degenerati». Ma sopravviveremo anche stavolta, se sapremo tener fede proprio ai valori che Putin, il suo ex numero due, il suo «chierichetto» Kirill e i suoi propagandisti in tv mostrano di disprezzare: il primo dei quali è la capacità di distinguere tra i popoli e i loro governanti. Loro si identificano con la Russia, suggerendo quell'unità spirituale tra sangue, suolo e nazione che tanti disastri ha provocato nel passato anche in Occidente. Da noi i popoli sono invece fatti di cittadini, e ognuno ha diritto alle sue idee, perfino i filorussi. Per questo non possiamo odiare i russi come Medvedev «odia» gli occidentali. Per questo non vogliamo «vederli sparire», ma piuttosto ci auguriamo di poterli riaccogliere un giorno in un sistema di sicurezza europeo e di garanzie reciproche, come era sembrato possibile per qualche anno dopo la caduta del Muro di Berlino. Per questo aiutiamo gli ucraini a difendersi. Loro sì, invece, temo che odino davvero i russi che hanno deciso l'invasione, che hanno ucciso civili inermi, stuprato donne, portato via bambini. Ma, proprio perciò, impedire la loro sconfitta e capitolazione sarebbe il più grande contributo a mettere fine alla spirale dell'odio, e a dare inizio alla pace».

TRE VIOLINISTE RUSSE ESCLUSE PERCHÉ SONO RUSSE

Nella sua rubrica sulla prima pagina del Corriere Massimo Gramellini si occupa delle tre musiciste russe escluse a Gorizia da un concorso internazionale.

«A Gorizia tre musiciste russe sono state escluse da un concorso internazionale di violino. Nulla di personale, si sono affrettati a spiegare gli organizzatori. Peggio mi sento. Quindi non le hanno escluse perché si erano schierate con Putin, ma in quanto cittadine russe. Come se l'essere nate a Mosca anziché a Gorizia fosse una colpa che si tramanda di madre in figlia e di violino in viola, per tacere del violoncello. Ma mica è finita. Dopo le proteste, è stata offerta la riammissione al concorso, a patto che le musiciste «disconoscano pubblicamente la politica estera di Putin e condannino fermamente la barbara aggressione». Mi si faccia capire. Un conto è suggerire alle violiniste di non presentarsi sul palco con la Z tatuata sulla carotide. Ma si pretende forse che siano anche delle eroine? Se il regime di Putin e di quel simpaticone di Medvedev è un'autocrazia che confina col dispotismo, chiedere a tre persone di rinnegarlo apertamente significa condannarle all'esilio o comunque a una esistenza molto rischiosa. Provino, gli organizzatori del concorso goriziano, a immaginarsi di entrare in un bar di San Pietroburgo dopo avere sputtanato Putin in mondovisione. Porterebbero alle labbra con serenità qualunque bicchiere venisse loro offerto? Nessuno ha diritto di chiedere agli altri di essere eroi. Uno degli aspetti più odiosi delle dittature è la smania di controllo. Una democrazia che ne imita lo zelo fa accapponare la pelle. Come la stecca di un violino».

DIPLOMAZIA 1. ZELENSKY CHIEDE AIUTO ALLA CINA

La guerra continua e si potrà arrivare ad un negoziato solo dopo che il terreno bellico darà il suo responso. Lo ha ribadito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che però per la prima volta chiede alla Cina di occuparsi del conflitto. È un passaggio importante. La cronaca di Repubblica.

«Lo stallo, dice Volodymyr Zelensky, non è un'opzione per l'Ucraina: «Serve una vittoria sul campo per sostenere i colloqui di pace». Il presidente degli aggrediti lo dice in una conferenza organizzata dal Financial Times e per la prima volta chiede che la Cina usi «la sua influenza sulla Russia per porre fine a questa guerra». Zelensky chiama in causa il partner più pesante di Mosca, che, pur mantenendo la linea di non interferenza, ha espresso preoccupazione per gli effetti destabilizzanti sull'economia globale. «Quanto accade può portare alla Terza guerra mondiale e questo rischio dovrebbe essere una priorità per tutti i leader». La resistenza sul terreno prosegue, però. Lo vuole il popolo ucraino e lo impongono le scelte aggressive di Putin. «È una guerra per l'indipendenza e la libertà del nostro Paese. Siamo inferiori in termini di equipaggiamento e quindi non riusciamo ad avanzare. Se lanciassimo controffensive profonde subiremmo altre perdite e le vite delle persone sono la mia priorità».
L'Ucraina si è trasformata in guerra di logoramento, di attrito, ma non sarà stallo. E neppure si può immaginare un accordo che includa perdite territoriali: «Riconquistare la sovranità e l'integrità territoriale sarà una vittoria giusta. Abbiamo già perso troppe persone per cedere semplicemente il nostro territorio». Zelensky allude al Donbass, ma più volte ha fatto capire che non mira al ritorno in patria della Crimea, annessa dalla Russia nel 2014. E la risposta di Mosca, affidata a Izvestia da «una fonte russa di alto rango», è raggelante: non solo le questioni Crimea e Donbass per Putin sono già chiuse, ma «le regioni di Kherson e Zaporizhzhia non saranno incluse nell'eventuale accordo con l'Ucraina». I due territori occupati per Mosca sono già nuova Russia. Il presidente ucraino ha ribadito di essere pronto a sedersi in qualsiasi momento al tavolo con Putin, perché «non c'è nessun altro con cui parlare» a Mosca, a condizione che siano colloqui mirati a porre fine alle ostilità. E agli alleati è tornato a chiedere fermezza. «Sono grato per le sanzioni imposte al nemico, ma abbiamo bisogno dell'embargo totale di petrolio e gas». Finora le misure punitive dell'Occidente «non hanno influenzato davvero la posizione della Russia». Anche perché, ha aggiunto, ci sono Paesi che «stanno sostenendo l'Ucraina, ma anche controllando cosa si può fare per indebolire le sanzioni in modo che gli affari non ne risentano». Pensa all'Ungheria di Orban e alla Germania di Scholz. Infine, il leader da Kiev ha critiche per Emmanuel Macron. Evocando le parole del presidente della Francia, Zelensky ha detto: «La Russia non ci sta umiliando, ci sta uccidendo».

DIPLOMAZIA 2. DRAGHI VA ALL’ELISEO

E Mario Draghi preme proprio su Emmanuel Macron per coinvolgere l’Ucraina in Europa. Oggi ci sarà un vertice bilaterale a Parigi. Il punto per la Stampa è di Alessandro Barbera.

«La guerra, la difesa comune, la riforma dei Trattati, ma soprattutto l'allargamento a est dell'Unione e la soluzione alla crisi energetica. Come avviene ormai con una certa regolarità, Mario Draghi approfitta di un appuntamento istituzionale a Parigi - all'Ocse - per un faccia a faccia con Emmanuel Macron.
Il presidente francese lo attende all'ora di cena all'Eliseo. Sarà l'occasione per coordinare le agende in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 giugno. Nelle ultime settimane l'atteggiamento di Roma e Parigi verso Mosca è stato diverso. Più conciliante Macron, fino al punto di attirarsi le critiche di Kiev, più fermo Draghi, e nonostante i problemi all'interno della maggioranza. I due si siederanno a tavola anche con punti di vista diversi su come trattare la questione politicamente più delicata del prossimo vertice: la richiesta di adesione all'Unione da parte dell'Ucraina.
Ieri, durante la visita a Palazzo Chigi della premier georgiana Salomé Zourabichvili, Draghi ha garantito supporto alla richiesta dell'ex repubblica sovietica. Un sostegno che per il premier italiano porta con sé quello all'Ucraina, alla Moldavia, e agli altri sei Paesi balcanici per i quali il processo è in atto da tempo: Serbia, Bosnia, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Albania. Macron ha una posizione molto più cauta. Per lui l'allargamento dovrebbe prendere la forma di una «comunità politica», un'antica formula coniata da François Mitterrand per costruire un cerchio esterno di Paesi attorno agli attuali partner. Su altri dossier l'intesa fra i due è invece solidissima. Non solo sulla riforma dei Trattati e il superamento del principio dell'unanimità - un tema al momento poco più che accademico - ma soprattutto su ciò che farà discutere i Ventisette al prossimo Consiglio. Il sì dell'Italia all'introduzione del nucleare fra le fonti rinnovabili ha ottenuto come contropartita il sostegno della Francia a un tetto al prezzo del gas, che invece interessa moltissimo Draghi. Infine la questione del debito comune in funzione anticrisi: entrambi sosterranno l'ipotesi di nuovi prestiti per finanziare le misure contro il caro energia. Una soluzione che eviterebbe a Draghi di dover fare debito pubblico ai prezzi ormai alti imposti dai mercati. Il premier sa che il no dei Paesi nordici è quasi invalicabile, ma quel no gli permetterà di negoziare un margine più ampio sul deficit nazionale fin qui concordato con la Commissione di Bruxelles. Il caso vuole che Draghi e Macron si siedano a cena con un problema simile: gli equilibri nei rispettivi Parlamenti. L'italiano ha una maggioranza che somiglia sempre più ad una maionese impazzita. Il francese, appena rieletto presidente, attende di sapere se l'ha ancora. Verificheranno la rispettiva tenuta politica fra due settimane a distanza di 48 ore: Macron il 19 giugno, quando si voterà il secondo turno delle elezioni delle Camere, Draghi il 21, quando farà le sue comunicazioni che precedono il Consiglio europeo. A Palazzo Chigi attendono l'appuntamento con relativa calma: se da un lato non sono ancora chiare le intenzioni dei Cinque Stelle, la linea atlantista del governo avrà probabilmente il sì dell'unico partito all'opposizione, quello di Giorgia Meloni. Macron sta affrontando l'appuntamento elettorale con toni sempre meno belligeranti. Ha ribadito più volte la richiesta di «non cercare l'umiliazione di Mosca», Draghi tiene con più convinzione la linea atlantista, forte del sostegno del Quirinale e di un contesto che rende impossibile ogni ipotesi di elezioni anticipate. Lo testimonia l'agenda internazionale dei prossimi trenta giorni, anch' essa oggetto di discussione nella cena con Macron. Il 13 e 14 giugno è prevista la visita di Stato in Israele, dove Draghi discuterà delle nuove rotte del gas. Subito dopo il vertice di Bruxelles il premier sarà al G7 in Baviera e al summit dei Paesi Nato a Madrid. L'appuntamento più delicato è però quello del 5 luglio con Recep Erdogan. I tempi del «dittatore» di Ankara - l'epiteto gli scappò ad aprile di un anno fa - sono lontanissimi. Durante il bilaterale verranno firmati nuovi accordi commerciali e di investimento. D'altra parte la guerra in Ucraina ha rilanciato il ruolo del leader turco nell'Alleanza atlantica. Due almeno i motivi: la naturale ambiguità verso Mosca. Ankara fornisce armi all'Ucraina e non applica le sanzioni. La seconda ragione - meno nota - è strettamente diplomatica: il trattato di Montreaux del 1936 affida tuttora ad Ankara il pieno controllo del Mar Nero in caso di guerra. Draghi - e con lui Macron e il tedesco Olaf Scholz - non possono che essere favorevoli ad affidargli la mediazione per sbloccare i carichi di grano ucraini destinati alle rotte sud del Mediterraneo, verso Libano e Nordafrica. Tutti e tre sperano che la visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ad Ankara sblocchi lo stallo ed eviti una crisi migratoria senza precedenti».

DIPLOMAZIA 3. PAROLIN E BLINKEN IN CAMPO

Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera racconta del protagonismo vaticano nelle trattative diplomatiche.

«Diplomazia vaticana in campo per il grano ucraino. Lunedì 6 giugno il Segretario di Stato della Santa sede, il cardinale Pietro Parolin, ha avuto una lunga conversazione telefonica con Antony Blinken, il numero uno del Dipartimento di Stato americano. I due sono in stretto contatto da diverse settimane, grazie anche all'opera di raccordo del Nunzio apostolico a Washington (di fatto l'ambasciatore), l'Arcivescovo Christophe Pierre. Ned Price, il portavoce di Blinken, ha diffuso una nota in cui ha elencato i temi in discussione. La prima parte del colloquio è stata dedicata alla crisi in Venezuela, «all'importanza dei negoziati tra il regime e la Piattaforma unitaria dell'opposizione». Ma l'argomento principale è stata «l'emergenza alimentare» innescata dalla guerra in Ucraina. Parolin ha offerto la sponda del Vaticano per cercare un compromesso sull'esportazione del grano, in coordinamento innanzitutto con l'Onu. Inoltre Stati Uniti e Santa Sede, si legge nel comunicato ufficiale, «riaffermano il loro impegno per sostenere coloro che stanno soffrendo a causa della guerra». Nessun cenno, dunque, ai temi politici e militari. Nessun riferimento alla fornitura di armi alla resistenza ucraina, né a possibili formule per arrivare almeno al «cessate il fuoco». Ancora sabato 5 giugno, Papa Francesco, conversando con alcuni bambini ucraini, aveva espresso il desiderio di poter presto visitare Kiev. Il presidente Volodymyr Zelenksy , il sindaco della capitale Vitaliy Klitschko, l'arcivescovo cattolico di rito bizantino Sviatoslav Shechuck nonché l'ambasciatore ucraino Andriy Yurash lo hanno invitato più volte. Il pontefice, però, ha detto che «è difficile scegliere il momento giusto». Bergoglio ha aggiunto che questa settimana riceverà «alcuni rappresentanti del governo ucraino». Si parlerà anche di un'eventuale visita nel Paese aggredito dai russi. In questa fase, però, l'attenzione del Papa è concentrata soprattutto sul grano, come dimostrano, tra l'altro, le parole pronunciate nell'udienza generale di mercoledì 1° giugno: «Desta grande preoccupazione il blocco dell'esportazione del grano dall'Ucraina... Rivolgo un accorato appello affinché si faccia ogni sforzo per risolvere la questione... Per favore, non si usi il grano, alimento di base, come arma di guerra». Finora il governo americano è rimasto un passo indietro. L'Amministrazione di Joe Biden, però, sta incoraggiando tutte le possibili iniziative politiche. È ciò che Blinken ha detto a Parolin. Gli Stati Uniti stanno seguendo anche il tentativo della Turchia. Ieri, per altro, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov è arrivato ad Ankara, dove oggi vedrà il pari grado turco, Mevlut Cavusoglu. L'incontro è stato preparato da una telefonata tra i ministri della Difesa dei due Paesi, Sergey Shoygu e Hulusi Akar. Si starebbe lavorando a questo schema: la marina turca sarebbe pronta a sminare le acque di accesso al porto ucraino di Odessa; le navi russe, poi, scorterebbero i cargo lungo una rotta protetta nel Mar Nero. Su un altro fronte, infine, va registrata la posizione di Olaf Scholz. Il cancelliere tedesco ha respinto la proposta di Alexander Lukashenko: il presidente della Bielorussia aveva chiesto la rimozione delle sanzioni in cambio del via libera al transito dei cereali ucraini».

ORA LA FAME IN AFRICA SCUOTE L’OCCIDENTE

L'analisi di Domenico Quirico sulla Stampa. Molti Paesi subsahariani e asiatici rischiano adesso la rivoluzione per la mancanza di cibo, provocata dal conflitto.

«Dannato Putin! In Occidente cercavamo di durare il più possibile, nel dolce tepore del benessere e della pace. Il convincimento era smottato nel profondo di noi stessi, che la globalizzazione non fosse un vantaggio solo per questa scaglia del pianeta ma stesse rendendo tutto il mondo più ricco, anche quello dei diseredati chiamati così a partecipare al grande banchetto dei consumi e delle occasioni universali. Era questo che ci ha tenuto al riparo perfino dagli scrupoli e dai rimorsi anche se si intravedevano pallori. Libero mercato e democrazia non viaggiavano forse a passo obbligatoriamente eguale? Per le autocrazie prima o poi sarebbe suonata la campana a morto. Non ci turbavamo più, facevamo allegramente gli illuministi. Lui, l'autocrate, un mattino dichiara la guerra, distrugge, invade, separa, ci iberna in un nuovo pessimismo. E nella sua furia di scombinare il mondo che non gli aggrada interrompe subdolamente anche il commercio del grano. Così ci costringe a una inusuale ricognizione nel repertorio delle cose dimenticate, una presenza che pensavamo scomparsa: il povero di stampo biblico, l'affamato, chi muore di inedia, il pezzente assoluto. Ci costringe a riadottare l'angoscia per la povertà tangibile, biologica, psicologica e storica. La povertà si tocca. Con questi poveri non si può eccepire, storicizzare, girare intorno, ignorare e negligere. Sgomitolano subito le nostre proposizioni bizantine. I titoli recitano dando voce all'allarme dell'Onu: si rischia la più grande emergenza umanitaria della storia. Intendiamoci: i poveri, i nostri poveri, li conosciamo bene, perché sono in mezzo a noi, inciampiamo nei loro giacigli anche nei luoghi più chic delle capitali d'Occidente. Ma sono quelli che pudicamente chiamiamo i poveri «nuovi», come se l'esser specie finora sconosciuta giustificasse lo scandalo che esistano. Un problema di welfare zoppicante , di ristori e redditi minimi, di classi medie in crisi, il Covid lungo, per cui ci sono mille formule miracolose per dare assistenza e riportarli a medie numeriche accettabili. In fondo, ci si consola sociologicamente, ci saranno poveri finché ci saranno ricchi. Evitando di aggiungere il comma successivo, che nessuno dovrebbe avere il diritto di esser ricco fino a quando ci sarà un povero. Ma con il raddoppio del prezzo del grano, le esportazioni ucraine bloccate nei porti, i noli marittimi che crescono per la guerra (il grano viaggia per mare come ai tempi di Cesare), parti intere del mondo ora rischiano di non poter sfamare la quota predominante dei propri cittadini, gli indigenti per cui il pane sotto innumerevoli forme e nomi costituisce (venduto a prezzo politico o donato) il fragile, quotidiano contatto con la possibilità di sopravvivere. Gli uomini che conoscono le vie del niente. (Ri)scopriamo creature assolutamente diverse, che non dovrebbero esistere per come si è andata configurando la nostra idea del mondo che punta sul tornaconto , il successo, la garanzia. Invece sono lì. Sono sole, incomprese, contraddette, derubate, clandestine. Nel terzo millennio come invano ci hanno raccontato con voce sempre più flebile per la delusione del silenzio samaritani tutt' altro che dispersi e smarriti, soltanto rimasti desolatamente soli, milioni di uomini sopravvivono appesi a un pezzo di pane, al prezzo di un pezzo di pane. La guerra civile europea, guerra sciagurata e criminale in un luogo di cui non hanno mai sentito parlare, e i cui pretesti (la denazificazione, il Donbass, la guerra fredda) risulterebbero loro del tutto incomprensibili se mai qualcuno tentasse di spiegarli, a migliaia di chilometri di distanza taglia il filo della sopravvivenza, li getta nel buio preistorico della fame. Ieri il governo americano ordinava ai governi africani di non comprare il grano portato da navi russe, perché sarebbe stato saccheggiato nei silos ucraini. Raramente ho avvertito così forte la bruciante, implacabile distanza che separa il nostro mondo, quello delle sanzioni, della geopolitica, dei bilanciamenti di potenza, dalle eterne periferie geografiche e umane. Penso agli affamati che nulla sanno delle nostre mischie, capolinea umani dove l'agricoltura è infima, le capanne spoglie, la morte familiare , la resa data per certa. Migliaia di bidonvilles e villaggi in Africa e in Asia ciascuno con la sua pena. Notizie come quella della strage in una chiesa della Nigeria, che si avvia a essere la nuova Somalia africana, acquistano in questa emergenza del grano un disperazione diversa. Qui è la lotta primitiva eterna tra pastori e contadini in una terra morta che si arroventa sotto una luce, che grida, lotta per sopravvivere, e risale in una disperata ferocia a qualcosa che viene prima addirittura delle fedi e dei fanatismo. La crisi nel commercio del grano ancora non c'entra. È la desertificazione che avanza, si lotta per una pozza d'acqua ancora umida, o i campi o il bestiame. Se il blocco e i prezzi resteranno alti tutto questo si aggraverà e moltiplicherà, toccherà le metropoli africane dove cercano rifugio e assistenza gli sconfitti della desertificazione. Scoppieranno le guerre più feroci, quelle della fame. La prepotenza di Putin ha capovolto dunque la nostra luccicante globalizzazione, l'ha rovesciata, con il ricatto del grano, nel suo contrario: la globalizzazione della fame. Riscopriamo l'uomo più povero del mondo, uno sterpaio di storie definite insolubili. L'uomo più povero del mondo è certamente l'abitante di uno di questi Paesi africani su cui incombe l'ombra scura di una nuova carestia. Anzi probabilmente è una donna, una donna africana. Ecco la sua vita quotidiana: cammina per ore, porta sulla testa un carico che può pesare fino a 50 chilogrammi, sulle spalle il suo ultimo nato e in grembo spesso un altro che deve ancora nascere. Dall'età di dieci anni pesta la manioca e si occupa dei fratelli più piccoli. A quattordici l'hanno fatta sposare, anzi violare, altre volte è semplicemente venduta come prostituta senza esitazioni. Pensiamo a lei quando dobbiamo giudicare la smisurata e colpevole inutilità di questa guerra».

LA GUERRA RACCONTATA DALLA BADANTE

Il Manifesto stamattina pubblica una lettera da Napoli, in cui la badante ucraina Oxana, ma il nome è di fantasia, racconta la guerra dal suo punto di vista. E il conflitto, visto da vicino, assume i contorni reali di una tragedia senza senso.

«Sulla guerra in Ucraina, ho cominciato a tralasciare i commenti di generali, politici ed esperti vari. Per sapere come stanno veramente le cose e capire meglio la realtà, ascolto con attenzione le analisi e le riflessioni di Oxana - uso per motivi di sua sicurezza un nome inventato -, la badante ucraina che assiste una coppia di anziani, di cui uno disabile, che lavora in Italia da 15 anni per mantenere la famiglia laggiù e che ogni giorno telefona a sua figlia. Riassumo i suoi ragionamenti: «Ben prima della guerra sono stata costretta a migrare perché in Ucraina c'era (e c'è) miseria. L'Ucraina è ricca ma tutte le ricchezze sono state "rubate" al popolo dai nostri oligarchi. Anche in Russia, dove vive mio fratello, gli oligarchi affamano il loro popolo. Siamo nelle stesse condizioni. Mio fratello, che vive in Russia da tanti anni, ha un giovane figlio militare di professione il quale teme di essere mandato al fronte in Ucraina a combattere contro l'esercito del Paese d'origine di suo padre. Un altro mio nipote, il figlio di mia figlia, che vive nell'Ovest dell'Ucraina, a breve verrà chiamato a militare per andare a combattere. Potrebbe succedere quindi che questi miei due nipoti, che sono cugini , un giorno dovranno sparare uno contro l'altro, come "nemici". Il figlio di una mia amica ucraina e russofona è stato chiamato come riservista per andare a combattere contro i soldati della Russia, cioè la patria dove sono nati i genitori di sua mamma. Prima della guerra, gli ucraini-ucraini e gli ucraini-russi convivevano pacificamente, perché siamo tutti come "fratelli". Anche a guerra finita non saremo mai più "fratelli" ma ci odieremo.
I giovani di Ucraina e di Russia che provengono dal popolo vengono mandati al macello dagli oligarchi che comandano sia da noi che in Russia.
In sostanza, i poveri vengono mandati a morire dai ricchi che vogliono strapparsi reciprocamente più potere, come è sempre successo nella storia». Oxana piange tutti i giorni mentre accudisce i suoi anziani ma lo fa chiusa nella sua camera, perché non vuole intristirli. Piange pensando ai suoi due nipoti. E parla degli ucraini ricchi che scappano dalle zone di guerra e si rifugiano a Leopoli: «Arrivano su macchinoni neri e alloggiano in alberghi di lusso. I loro figli in età per combattere sono stati mandati all'estero, al sicuro. L'Ucraina, come la Russia, è corrotta. Con i soldi compri tutto, anche la salvezza dalla guerra. Le donne semplici, del popolo, la sera invece si ritrovano a cucire le reti mimetiche per i militari e hanno i loro figli al fronte...». Firmato Franco Contini (Napoli)».

IL DOSSIER SUI PUTINIANI D’ITALIA

Polemica ancora viva sulla lista dei “putiniani d’Italia” pubblicata nei giorni scorsi dal Corriere della Sera. Il Fatto sostiene che sia farina del sacco dei servizi, nonostante le smentite del Copasir. La cronaca di Valeria Pacelli.

«Un rapporto del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza presieduto da Elisabetta Belloni, con notizie raccolte da fonti aperte e redatto nell'ambito di un tavolo aperto che si riunisce da tempo per discutere di eventuali rischi di quella che ritengono essere disinformazione. È questo il documento sui cosiddetti "putiniani d'Italia". Sul quale ieri è intervenuto anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Franco Gabrielli, che ha escluso l'esistenza di una lista di politici, giornalisti o commentatori, come pure di attività di dossieraggi in corso. Ma dove nasce il dossier pubblicato domenica dal Corriere della Sera che raccoglierebbe le opinioni sulla guerra di alcuni, come il fotoreporter Giorgio Bianchi, il docente Alessandro Orsini o l'ex presidente della commissione Esteri, Vito Petrocelli? Il documento è stato prodotto nel corso di un tavolo aperto al quale hanno partecipato diversi soggetti: oltre al Dis - ossia l'organo di cui si avvale la Presidenza del Consiglio e che coordina l'attività di informazione per la sicurezza - rappresentanti del ministero dell'Interno, degli Esteri come pure dell'Agcom, l'autorità garante delle comunicazioni. Una riunione c'è stata anche la scorsa settimana (probabilmente venerdì), al termine della quale il Dis ha creato il rapporto che contiene notizie raccolte su fonti aperte: i canali Telegram, i profili Facebook, le ospitate televisive. Non è un documento che rappresenta un caso isolato: ne vengono prodotti in continuazione anche su altri temi. Ieri Gabrielli, l'autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, relativamente alla riunione con il Dis ha spiegato che si tratta di un tavolo "di confronto istituito sin dal 2019 e al quale partecipano le diverse amministrazioni competenti per materia, la cui attività, svolta esclusivamente sulla base di fonti aperte, mira non all'individuazione di singoli soggetti, bensì alla disamina di contenuti riconducibili al fenomeno della disinformazione". Tema del quale si era discusso anche in altri momenti, come nel pieno dell'emergenza Covid, quando invece a preoccupare erano le campagne No-vax che tanto venivano spinte sui social. "Questi fenomeni - spiega una qualificata fonte al Fatto - non possono essere ignorati: nel caso del vaccino potevano avere conseguenze sociali come quella di creare disordini o anche di indurre molti a non vaccinarsi e a non vaccinare i propri figli, con tutto quello che poteva significare in un momento di pandemia preoccupante". Conclusa la pandemia, il tema ora è l'invasione russa dell'Ucraina. Al termine delle ultime riunioni è stato redatto dal Dis il rapporto pubblicato domenica scorsa. E ieri su questo Gabrielli ha assicurato: l'intelligence italiana "non ha mai stilato alcuna lista di politici, giornalisti, opinionisti o commentatori, né ha mai svolto attività di dossieraggio".
a ogni modo, lunedì scorso quel documento è stato trasmesso dal Dis al Copasir, il comitato parlamentare che si dovrebbe occupare di controllare l'operato dei servizi segreti. Eppure Federica Dieni, esponente del M5S e vicepresidente del Copasir, in un'intervista al Corriere ieri ha spiegato che "sulla disinformazione faremo approfondimenti a 360 gradi". Nelle scorse settimane il Comitato ha audito il presidente dell'Agcom, Giacomo Lasorella, e l'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes. Ieri sul caso è intervenuto anche un altro membro del Copasir, il deputato Pd Enrico Borghi, secondo il quale "sono in atto delle attività di ingerenza straniere, come ha peraltro acclarato anche il Parlamento europeo. Attività di manipolazione delle informazione, di disinformazione pianificata che è finalizzata a una falsa rappresentazione dei fatti". Diversa la posizione del senatore del M5S Primo Di Nicola: "È inaccettabile - ha detto - che in Italia si scateni una caccia alle streghe su chi esprime opinioni sui problemi sollevati dall'inammissibile aggressione russa all'Ucraina"».

IL DECALOGO DELLA MARCIA A KIEV

Lunedì 13 giugno alle 17 ci sarà un webinar organizzato da Avvenire e Vita.it, dal titolo “Kiev. La pace in cammino”. Tra gli ospiti il cardinal Matteo Maria Zuppi presidente della Conferenza episcopale italiana, Marco Tarquinio direttore di Avvenire, Luigi Manconi, sociologo e politico, Angelo Moretti portavoce di Mean, Francesco Vignarca della Rete italiana Pace e disarmo. Da Kiev Marianella Sclavi, sociologa e attivista della Fondazione Langer con rappresentanti della società civile ucraina, coordinati da Riccardo Bonacina. Nell’occasione i promotori della marcia per la pace hanno scritto un decalogo in vista dell’11 luglio.

«1. Andiamo a Kiev perché abbiamo deciso di non acconsentire alla guerra come evento e come pensiero totalitario che, come un veleno, conquista teste a cuori. La guerra alimenta lo schema binario amico-nemico, buono-cattivo, armi-non armi e man mano disegna un mondo senza possibilità di intesa. Abbiamo deciso di uscire da questo schema e da questa logica alla ricerca di pensieri e di relazioni in cui l’intesa sia almeno augurabile.

2. L’Ucraina non è il palcoscenico né dei nostri ragionamenti né dei nostri sentimenti. Non andiamo in Ucraina per dire che siamo buoni e pacifici. Andiamo per essere accanto agli ucraini aggrediti e martirizzati da tante, troppe, settimane. Siamo lì per abbracciarli e condividere il loro dolore.

3. La nostra azione non arriva dall’alto ma è preparata, condivisa, discussa con la società civile ucraina, con le sue organizzazioni e istituzioni. Siamo con loro e accanto a loro per chiedere il silenzio delle armi e il ritiro dell’aggressore e per offrire una mano concreta ai più fragili e ai minori.

4. La nostra azione è anche ispirata, e condivisa, dalle tantissime organizzazioni impegnate in Italia e in tutta Europa, a partire da quelle nei Paesi confinanti, che da oltre 100 giorni accolgono e aiutano i profughi ucraini e gli sfollati interni: milioni e milioni di persone, donne, bambini, anziani. La nostra azione non si sostituisce alla loro ma vuole esaltarla come concreto gesto di pace che oggi va invocata e chiesta urlando.

5. La nostra azione vuole proporre la nonviolenza come arma per la pacificazione. Lo diceva anche Gandhi: “La nonviolenza è la più grande forza a disposizione del genere umano. Più potente della più potente arma di distruzione che il genere umano possa concepire”. I nostri corpi insieme a quelli di tanti ucraini ed europei in marcia verso Kiev e poi a Leopoli, Kharkiv , Černivci vogliono essere un’arma di costruzione di massa: “More arms for hugs, no more war, we Mean it - Più braccia per gli abbracci, niente più guerra, lo vogliamo sul serio”.

6. Il 9 maggio 1950 Robert Schuman, allora ministro degli esteri francese, nella nascente Europa post bellica, disse. “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Un invito quanto mai attuale. Per questo la nostra non vuole essere un’iniziativa simbolica, ma di massa, pur in un contesto che imporrà una presenza diluita nel tempo e nello spazio. Un’iniziativa di massa di cui nessuno è proprietario ma che tutti contribuiscono a creare e sostenere;

7. Riteniamo che nel panorama politico internazionale l'Europa debba porsi come un attore più autonomo e deciso in grado, in quanto tale, di porre fine al conflitto e che la mobilitazione delle società civili europee sia decisiva per mettere in primo piano questa rivendicazione;

8. Riteniamo in particolare che non sia casuale che questo movimento europeo nasca da una iniziativa italiana. Infatti, dalla nostra storia ed elaborazione politica possiamo attingere due idee oggi più attuali che mai relative alla Gestione Creativa delle divergenze e dei conflitti. La prima è la stesura della nostra Costituzione nella quale posizioni politiche opposte hanno dialogato e sono giunte a dichiarare il ripudio della guerra come strumento di soluzione dei conflitti fra stati. La seconda è la proposta dei Corpi Civili di Pace avanzata da Alex Langer nel1994 al Parlamento europeo come dispositivo d'intervento nelle zone di conflitto in grado d'impedire l'escalation e ricostruire tessuti di cooperazione. L’Italia e l’Europa debbono con forza e decisione rilanciare l’esistenza dei Corpi civili di pace. Lo chiederemo dall’Ucraina.

9. Per ripensare la pace dobbiamo oggi ripensare l'Europa. Per questo la nostra iniziativa si svolge l’11 luglio. Una data significativa per due ricorrenze. È il giorno di San Benedetto patrono d’Europa. Come disse Paolo VI quando lo proclamò patrono, Benedetto seppe infondere “unità spirituale in Europa in forza della quale popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire un unico popolo”. Ma l’11 luglio è anche l’anniversario di Srebrenica, il peggior massacro in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, avvenuto tra l’11 e il 19 luglio del 1995, quando le forze serbe di Bosnia massacrano 8.000 ragazzi e uomini musulmani sotto gli occhi dell’Onu e dell’Europa. L’11 luglio è data quindi di un fallimento storico e di una tenace speranza.

10. Pensare la pace, oggi, significa prima di tutto avere un’idea di futuro desiderabile per l'umanità contro i tanti futuri distopici a cui narrazioni e rappresentazioni ci preparano da decenni. Mettere in atto nuove forme e nuove tecniche del dialogo non ha nulla a che vedere con la rappresentazione di pacifisti e nonviolenti come anime belle intente “a giocare alla pace” o a dichiararsi “neutralisti” mentre gli ucraini sono costretti a far volare i missili anticarro. Pensare la pace vuol dire prepararla con un'Europa dei cittadini, come diceva Altiero Spinelli, un’Europa dei popoli e non dei nazionalismi, come diceva Giorgio La Pira. È ora per noi di salire sulle spalle dei giganti».

IL LIBERALISMO VINCERÀ MA LA STORIA NON È FINITA

Anna Lombardi ha intervistato per Repubblica il filosofo americano Francis Fukuyama, colui che nell’entusiasmo della caduta del Muro, aveva scritto a proposito della “fine della storia”. Oggi Fukuyama confida ancora nel liberalismo, che vede però non più trionfante, anche se ancora valido, ma minacciato dai Putin e dai Trump. E dalla cancel culture di certa sinistra.

«"Il liberalismo è l'unica dottrina politica che ha successo sulla lunga durata: nato dopo le guerre di religione, rilanciato alla fine delle Guerre mondiali, si basa sull'idea che c'è diversità all'interno della società e bisogna trovare il modo di dialogare e convivere. Oggi è però in pericolo. Nei decenni di pace che ci ha garantito, da destra e da sinistra c'è chi si è impadronito cinicamente dei suoi valori, estremizzandoli". Francis Fukuyama, 69 anni, è il politologo di Stanford autore del celebre La Fine della Storia e l'ultimo uomo: il saggio scritto nel 1992, dopo lo sgretolamento dell'Unione Sovietica, dove sosteneva che il liberalismo democratico - che nell’accezione americana è l’innesto tra dottrina classica e democrazia - non aveva più rivali: "Capolinea dell'evoluzione ideologica dell'umanità". Trent'anni dopo ammette: "Le cose sono più complicate". Col suo nuovo Il liberalismo e i suoi oppositori, edito da Utet, prova a dimostrare che quella dottrina è ancora il fondamento della democrazia: e va difeso a livello politico e culturale. Lei sostiene che il liberalismo classico è stato particolarmente deformato negli ultimi decenni. "Da destra i sostenitori dell'economia neoliberista hanno trasformato il libero mercato in dogma, distorcendo l'economia fino a renderla instabile mentre l'individualismo è diventato opposizione a tutte le regole che limitano il sé, anche quando imposte per il bene collettivo. Da sinistra, convinti che il liberalismo è un sistema elitario che opprime determinati gruppi in base a etnia, genere, orientamento sessuale si è arrivati a rivendicazioni identitarie che stanno trasformando il bisogno di rispetto insito nel politicamente corretto in intolleranza".

Come affrancarsi dalle estremizzazioni, senza minare i diritti di individui o gruppi che patiscono effettivamente ingiustizie?
"Per garantire equità e democrazia serve vigilanza, dibattito, un approccio che ne rivitalizzi costantemente i valori moderandone le depravazioni. Solo la buona politica sconfigge gli estremismi. La società è troppo eterogenea per pretendere che funzioni sostenendo solo gli interessi di alcuni: individui o gruppi che siano. Per sopravvivere deve essere aperta e accogliere la diversità che esiste al suo interno".

Lo ha detto lei stesso: "Il liberalismo oggi è in pericolo".
"I suoi principi base, ovvero tolleranza delle differenze, rispetto dei diritti individuali, stato di diritto, sono oggi effettivamente minacciati. Lo conferma un rapporto di Freedom House, secondo cui fra la fine degli anni '70 e il 2008 il numero di democrazie nel mondo è passato da 35 a oltre 100 mentre oggi quel numero è in declino: se non nominalmente, certo per qualità del sistema. D'altronde, basta pensare agli scossoni subiti di recente dalle due democrazie più grandi del mondo, Stati Uniti e India. E all'arroganza di autocrazie come Cina e Russia".

Già nel 2019, parlandone al "Financial Times", il presidente russo Vladimir Putin attaccò duramente il liberalismo definendolo "sorpassato".
"Putin è da tempo motore di una campagna anti-liberale globale, condotta con l'aiuto di leader populisti come Viktor Orbán in Ungheria e Donald Trump in America. Figure che, dopo essere state elette democraticamente, hanno minato proprio il sistema che li ha portati al potere. Di sicuro con l'invasione dell'Ucraina, Putin ha fatto chiarezza morale: mostrando qual è l'alternativa al liberalismo e quanto questa sia brutale. Terribile che sia accaduto ma utile lezione per tanti".

Lei scrive: "La democrazia non sopravvive se i cittadini non credono di far parte di uno stesso sistema politico". La crisi ucraina ci restituirà il senso di istituzioni come l'Unione Europea, fino a poco tempo fa duramente criticata dai sovranisti?
"Il lungo periodo di pace e prosperità seguito alla caduta dell'Urss ha spinto tanti a dare il liberalismo democratico per scontato. Putin ha invaso il suo vicino proprio perché convinto che l'Occidente fosse troppo diviso e non credesse più in niente. È stato smentito. Le istituzioni europee sono generalmente sane. Certo più di quelle americane".

È molto duro nei confronti degli Stati Uniti...
"La democrazia americana è sotto stress. I liberali secondo la mia definizione, politici come Joe Biden per intenderci, credono nella legge e in un sistema giudiziario indipendente, non partigiano. Proprio ciò che Donald Trump ha attaccato fin dalla sua elezione, arrivando, ad esempio, al totale sbilanciamento della Corte Suprema. Ci salva, per ora, il check and balance, il meccanismo che mantiene l'equilibrio dei poteri. Ma ha funzionato perché all'interno del sistema c'erano dei liberal democratici veri. Purtroppo, coloro che vorrebbero comportarsi come Putin a dispetto della legge, aumentano".

Trump lo ha ripetuto più volte: con lui alla Casa Bianca, non ci sarebbe guerra in Ucraina...
"Quando Putin dichiarò l'indipendenza delle due repubbliche in Donbass, Trump lo definì "genio" e disse: "Vorrei poter fare lo stesso al confine col Messico". L'illiberalismo è quel che vorrebbe per l'America. Per questo temo la possibilità di una sua rielezione nel 2024".

Se la Storia non è finita, dove siamo?
"La "Storia universale" tende verso il progresso. Ma quella delle nazioni non è lineare né va in una sola direzione. In tal senso, siamo in un momento di regresso. Se guardiamo al lungo termine scopriamo però che è già accaduto e che i sistemi illiberali sono destinati a fallire".

Lei non è l'unico pensatore a riflettere oggi sul liberalismo classico. Yascha Mounk ne ha appena scritto, Michael Walzer lo sta facendo. Tanta necessità di riscoprirlo, non è forse l'ammissione della sua crisi?
"Morirà solo se la gente smetterà di crederci. E questo accadrà se non ne sostanziamo l'importanza. Ecco cosa mi ha spinto a scrivere questo libro: e forse vale anche per altri. Finora abbiamo vissuto in una società democratica senza interrogarci sulle sua fondamenta e sulle alternative. Bisogna ricordare alla gente che il liberalismo ha ottimi motivi e vale la pena difenderlo. Non sta in piedi da solo, serve l'impegno di tutti"».

LA VERSIONE DI DON MATTEO ZUPPI

Il Foglio pubblica oggi una paginata intera di riflessioni del nuovo capo dei vescovi italiani, il cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Zuppi, l'8 aprile scorso, quando non era ancora presidente della Cei, è intervenuto alla scuola di formazione per giovani della Fondazione “Costruiamo il Futuro”, rispondendo alle domande dei partecipanti. Ecco un passaggio del suo intervento, nei pdf l’integrale, pubblicato a cura di Ubaldo Casotto.

«La mia generazione è figlia di una generazione che era stata travolta dalla pandemia della guerra e ha scelto di non guardare indietro, di non lamentarsi, di non maledire questo nostro tempo, di "non invidiare chi nascerà domani e potrà vivere in un mondo felice senza sporcarsi l'anima e le mani" (come recitava una canzone dei Gufi) ma di guardare al futuro. Per vent' anni non si son voltati indietro, non si sono preoccupati per sé, per il proprio benessere ma per "l'uomo che verrà" (come l'omonimo e bellissimo film sull'eccidio di Marzabotto). Non si sono interpretati, lamentati, guardati allo specchio. Hanno costruito, guardato in avanti e così realizzato dal 1945 al 1965 quello che si chiama il miracolo italiano, che è economico, certamente, ma anche antropologico, umano, di valori. L'hanno fatto perché? Per noi, per l'uomo che verrà. Forse è un parlare un po' da vecchio, ma avevano l'idea del sacrificio. Anche perché il futuro non è un tasto che schiacci, una furbata che ottieni perché fai subito e pensi di non avere problemi, ma è un sacrificio, come la vita vera e non quella caricatura per cui stiamo bene quando ci conserviamo, quando non facciamo fatica. La chiave è: per chi lo fai? Quella generazione l'ha fatto per noi. Noi abbiamo consumato tanto futuro di altri, lo abbiamo portato via agli uomini che non verranno e non lasciamo futuro per noi. Lo dico anche come autocritica di una generazione che pensava di avere sempre tempo e "anche il lusso di sprecarlo", come cantava un poeta, e ne abbiamo sprecato tanto, abbiamo sprecato tante opportunità. Oggi, travolti dalle pandemie del Covid e della guerra, si tratta di mettersi seriamente a costruire il futuro e con molta responsabilità lasciare in eredità la stessa determinazione di cui abbiamo goduto tanto».

ACCORDO NELLA UE PER IL SALARIO MINIMO

Salario minimo, via libera dell'Europa. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio parla di accordo storico. Il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti teme che danneggi la contrattazione. Francesca Basso da Bruxelles per il Corriere.

«Strasburgo Alle 3.15 del mattino di ieri è stato raggiunto l'accordo tra il Parlamento Ue e gli Stati membri sulla direttiva relativa ai salari minimi adeguati nell'Unione, proposta dalla Commissione nell'ottobre 2020. Un negoziato durato oltre un anno e mezzo che si è concluso con una maratona notturna. «Le nuove regole tuteleranno la dignità del lavoro e faranno in modo che il lavoro paghi», ha twittato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Per il commissario Ue al Lavoro, Nicolas Schmit, è «un messaggio forte e chiaro ai cittadini europei: nessuno dovrebbe trovarsi in povertà mentre lavora». La direttiva per essere approvata ora deve essere votata dalla plenaria del Parlamento Ue e dal Consiglio e pubblicata in Gazzetta Ufficiale. I Paesi Ue avranno poi due anni di tempo per recepirla. La direttiva non impone di cambiare i sistemi nazionali esistenti sul salario minimo, ma nel rispetto delle differenze dei modelli in uso nei Paesi Ue, stabilisce un quadro procedurale per promuovere salari minimi «adeguati ed equi». Il testo però è vincolante nell'obiettivo, ovvero l'esistenza di un salario dignitoso in tutta l'Ue. Il salario minimo legale esiste in 21 Stati membri mentre negli altri sei vige la contrattazione collettiva. Tra questi c'è l'Italia. Gli altri sono Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia, Cipro. La direttiva prevede che gli Stati rafforzino la contrattazione collettiva. Se meno dell'80% della forza lavoro è protetta da un contratto collettivo i Paesi dovranno creare un piano d'azione per aumentare questa copertura coinvolgendo le parti sociali. Dovranno informare la Commissione delle misure adottate e rendere pubblico il piano. Invece nei Paesi Ue in cui esiste il salario minimo legale, lo Stato dovrà valutare se il salario minimo legale esistente, cioè il più basso consentito dalla legge, è adeguato per garantire un tenore di vita dignitoso, tenendo conto delle condizioni socioeconomiche, del potere d'acquisto o del livello e sviluppo della produttività nazionale a lungo termine. Per la valutazione di adeguatezza, gli Stati potranno scegliere se istituire un paniere di beni e servizi a prezzi reali o applicare valori di riferimento indicativi comunemente usati a livello internazionale, come il 60% del salario mediano lordo nazionale e il 50% del salario medio lordo nazionale. I Paesi sono inoltre obbligati a istituire un sistema di monitoraggio e dovranno garantire il diritto al ricorso per i lavoratori i cui diritti sono stati violati. Infine le detrazioni o variazioni del salario minimo dovranno essere non discriminatorie e proporzionate. «È stato raggiunto un accordo storico sul salario minimo per evitare concorrenza sleale tra Stati e dumping salariale», ha commentato il ministro degli Esteri pentastellato Luigi Di Maio. E per il ministro del Lavoro Andrea Orlando del Pd «bisogna tenere insieme salario minimo e contrattazione», ma soprattutto «dobbiamo stare saldamente in Europa investendo sulle competenze, sul welfare, sulla qualità del lavoro e sulla qualità delle produzioni. Questa mi sembra la via maestra». Il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti della Lega ha osservato che il salario minimo Ue «lascia grandi margini ai Paesi»: «Noi abbiamo una contrattazione molto avanzata, anche di secondo livello - ha sottolineato - e questo strumento non deve penalizzare delle forme che abbiamo sperimentato con successo». Per il coordinatore nazionale di FI Antonio Tajani la direttiva Ue «non affronta la questione salariale italiana».

PARLA ORLANDO: “MISURE SUI SALARI ENTRO L’ESTATE”

Intervista di Repubblica al ministro del Lavoro Andrea Orlando. Che promette: "Entro l'estate una spinta ai salari bassi, poi abbasseremo il cuneo fiscale".

«Si può arrivare entro l'estate a un intervento «sul lavoro povero», primo tassello di una risposta articolata per alzare i salari, da sviluppare poi con un'azione «sistematica sulla contrattazione» e un taglio del cuneo fiscale «su base pluriennale». È la strategia che il ministro del Lavoro Andrea Orlando illustra al telefono, raggiunto a Parigi in una pausa della riunione ministeriale Ocse.

Un salario minimo oggi manca solo in sei Paesi Ue, tra cui l'Italia: la direttiva europea sul tema ci aiuterà a introdurlo?
«La direttiva può aiutare a costruire in Italia un equilibrio tra contrattazione e salario minimo, indicando i criteri di un livello equo. Se ne discuterà quando arriverà la fase del recepimento, ma intanto ci offre spunti per iniziare a fare passi avanti subito».

Iniziare da dove? Stando all'Ocse, in Italia gli stipendi sono calati rispetto al 1990.
«Sono dati di trent' anni, non della settimana scorsa: si è ritenuto di risolvere tutto rendendo più flessibile il lavoro, ma non è stato così. Ora la cosa più importante è iniziare a dare un po' di fiato ai lavoratori e discutere di precarietà, perché rischiamo si sommino più effetti: salari bassi, curva demografica negativa ed emigrazione di molti giovani. Una dinamica che può incidere a sua volta negativamente sulla produttività. Rischiamo di perdere un'intera generazione. È una discussione che non riguarda solo l'Italia, ma l'Europa e il mondo occidentale».

Ma il governo come vuole agire?
«Tenendo insieme tre livelli. Nell'immediato, dare fiato ai salari più bassi con un intervento sul lavoro povero. Poi un'azione sistematica sulla contrattazione che garantisca un rinnovo tempestivo dei contratti e meccanismi che tengano conto, senza automatismi, dell'inflazione. E infine un intervento pluriennale di taglio delle tasse sul lavoro, a partire dalla prossima manovra. Questi tre livelli si tengono insieme, non vanno contrapposti come fa qualcuno».

Sono elementi del patto sociale evocato dal presidente Draghi?
«Avevamo già avviato un percorso in tal senso, che è stato purtroppo spiazzato dalla guerra. Ma intanto stiamo lavorando per traguardare un accordo più specifico contro il lavoro povero».

Di che si tratta?
«Ho avanzato alle parti sociali in via ufficiosa un'ipotesi: prendere come salario minimo il Trattamento economico complessivo (Tec) dei contratti maggiormente rappresentativi, settore per settore.
Basterebbe una norma semplice di recepimento di questo principio
. L'effetto sarebbe alzare il livello dei salari più bassi».

Ma Confindustria ha forti dubbi sul Tec, le posizioni con i sindacati sembrano distanti.
«Non vedo impraticabilità assolute, penso possa essere una prima risposta per sottrarre centinaia di migliaia di lavoratori al rischio povertà».

In che tempi pensate di riuscire?
«La proposta è sul tavolo, penso sia ragionevole arrivare ad alcuni punti condivisi prima della pausa estiva, ma è chiaro che i tempi sono definiti anche dalla disponibilità delle parti a convergere, anche con eventuali modifiche».

Carlo Bonomi dice che il tema non riguarda Confindustria, perché ha contratti con soglie superiori ai 9 euro. Dice di più: che lei non ascolta le imprese.
«Non è del tutto vero perché alcuni contratti sono stati rinnovati a un livello superiore, ma ci sono ancora contratti non rinnovati che stanno sotto quella soglia, soprattutto nei servizi. La questione, che riguarda tutti, però, è un'altra: come si dà più forza a quei contratti e si consente di intervenire anche nelle imprese dove il "contratto buono" non produce i suoi effetti. In questi mesi, sulla base dell'ascolto, abbiamo modificato molte proposte e fatto diversi accordi. Credo che Bonomi voglia solo fare polemica».

Salvini, Tajani, Meloni chiedono di tagliare il cuneo fiscale, come gli industriali, più che parlare di salario minimo.
«Chi guadagna 700-800 euro al mese ha bisogno di risposte, non di benaltrismo. Parliamo di salari, poi di cuneo fiscale e vediamo come interagiscono le due cose, invece di inventarci ricostruzioni fantastiche delle cause dei bassi salari».

Si riferisce alle accuse al Reddito di cittadinanza?
«Si può alimentare l'idea - non sorretta però dai numeri - che il Reddito crei vuoti di occupazione in alcune filiere, ma nessun economista si spinge a ritenerlo la causa dei bassi salari. L'altro giorno Meloni ha detto che i lavoratori immigrati determinano un dumping salariale verso gli italiani: è una fantasia, non ci sono per fortuna nel nostro Paese contratti su base etnica».

Ma state lavorando per correggere ancora il Reddito?
«No, stiamo dando corso alle modifiche definite con la legge di bilancio. Un ulteriore intervento allo studio è finalizzato a rendere più compatibile percepire per alcuni mesi un reddito da lavoro con il Reddito di cittadinanza. Ci stiamo confrontando con i ministri Garavaglia e Franco».

La campagna per le comunali preannuncia un clima incandescente in vista delle prossime elezioni politiche: ci sono rischi per la tenuta del governo?
«Certo che ci sono, bisogna scongiurarli. Aiuterebbe molto ancorare la discussione a dati di fatto, perché veniamo da anni in cui il veleno populista ha introdotto fake news come basi della discussione, anche per chi si dice antipopulista. Inoltre si ha la sensazione che alcuni politici prendano le decisioni in base a quello che dicono loro le persone che li avvicinano per un selfie. Ecco perché c'è voluta l'inflazione a mettere tutti di fronte al fatto che i salari non crescono».

CONTE DA PALERMO: NIENTE CRISI DI GOVERNO

Colloquio con il leader del M5S. Giuseppe Conte rassicura: "No al riarmo ma siamo distanti dalla Lega e non faremo cadere il governo di Mario Draghi". Carmelo Lopapa per Repubblica.

«Nessuno qui ha voglia di mettere in crisi il governo Draghi, guai a confondere le nostre legittime richieste con le posizioni strumentali di altre forze che sostengono il governo. Sia chiaro: noi siamo contro il riarmo, vogliamo una svolta verso un vero negoziato di pace, ma non facciamo il gioco di Matteo Salvini, noi non siamo la Lega». Giuseppe Conte è seduto al tavolo del ristorante multietnico "Moltivolti", nel cuore dell'Albergheria di Palermo. Il mercato di Ballarò è lì fuori, il leader del M5S - camicia bianca, maniche risvoltate, accaldatissimo - è reduce da un bagno di folla che lo ha accompagnato per tutti i quartieri più popolari. Lo ringraziano, lo fermano, lo chiamano "papà", protettore del reddito di cittadinanza con il quale in centomila qui vivono. La campagna elettorale in sostegno del candidato "giallorosso" Franco Miceli resta ai margini per il tempo di un pranzo. «Col voto del 21 non cadrà il governo, non almeno per mano del Movimento», racconta l'ex presidente del Consiglio al fianco del sottosegretario Giancarlo Cancelleri e dei grillini di Sicilia, il piatto di anelletti al forno sul piatto. «La battaglia contro il riarmo che stiamo portando avanti è nel dna dei 5 Stelle. Se volessimo far cadere l'esecutivo o metterlo in difficoltà presenteremmo un atto parlamentare, una risoluzione con l'obiettivo di cercare consensi paralleli. Ma io non lavoro per una maggioranza nuova o diversa, spero invece che la nostra posizione possa diventare quella dell'intera maggioranza che sostiene il governo. L'Italia deve guidare il processo di pace, deve intestarsi questa battaglia». Il piano avanzato anche a Mosca nelle scorse settimane non è sufficiente? «Un contributo che va nella giusta direzione, bisogna continuare a lavorare senza risparmio. E un appunto lo muovo - prosegue Conte nel suo ragionamento - vorremmo che l'Italia fosse protagonista in Europa nel perseguire una soluzione diplomatica per uscire da questo dannato conflitto ». Non una mano tesa allo "zar", marca subito le distanze il capo del Movimento. «È una sciocchezza sostenere che abbiamo posizioni filo-Putin, abbiamo sempre condannato l'aggressione della Russia all'Ucraina, siamo altrettanto convinti che la via d'uscita non possa essere il riarmo, l'ulteriore aumento delle dotazioni destinate alle forze di resistenza di Kiev, ne usciamo solo con la sigla di un accordo di pace». Perseguire al contrario la strada degli armamenti, è la tesi dell'ex premier, equivarrebbe a fare gli interessi delle lobby delle armi «che già hanno i loro sponsor in Parlamento ». Conte chiama in causa in maniera esplicita Fratelli d'Italia. «Il partito della Meloni - sostiene mentre sorseggia un calice di bianco - non a caso si è attestato su posizioni molto belligeranti. Ha al suo interno persone legate a quel mondo». Il riferimento neanche tanto velato è a Guido Crosetto, è così? «È una persona degnissima, legata a incarichi di rappresentanza di quegli interessi, quindi si può anche comprendere come una forza politica si orienti verso investimenti militari a tutta birra, ma l'interesse degli italiani è completamente diverso ed è quello di porre fine alla guerra». Nel ristorante in cui a servire sono ragazzi e ragazze arrivati in Italia da mezzo Nordafrica, è tutto un vociare. In tanti si avvicinano, mostrano la tessera del reddito di cittadinanza, chiedono una foto. Accade qui quel che a Conte non succede da nessuna parte, forse nemmeno nella sua Puglia. «Lancio un appello alle altre forze politiche e in primo luogo al Pd - dice tra un selfie e l'altro - Il salario minimo va approvato subito. Noi ci battiamo da anni per questo. In Senato c'è la nostra proposta. Basta con le paghe da fame per i lavoratori, ora "ce lo chiede l'Europa" possiamo dirlo noi. Fino a qualche anno fa ce lo ripetevano gli altri, ma allora soffiava il vento dell'austerità. Chi da destra si accanisce contro il reddito di cittadinanza, come fa Matteo Salvini, si accanisce contro la povera gente, i bambini, i pensionati, gli inabili al lavoro. Altro che devolvere le risorse alle imprese, non si sono accorti che per gli imprenditori del Mezzogiorno abbiamo introdotto sotto il governo Conte la decontribuzione al 30 per cento. Non cerchino alibi, ora serve il salario minimo per tutti». Il candidato sindaco Franco Miceli attende a pochi metri. Col Pd c'è un asse destinato a consolidarsi con le primarie per la scelta del candidato governatore, si terranno a luglio. I dem vogliono i gazebo, i 5 stelle spingono per la svolta digitale al voto. «La Sicilia sarà un esperimento nuovo, dobbiamo trovare un compromesso sulle regole - conclude il leader - consapevoli che solo insieme si può sconfiggere questa destra».

SCINTILLE TRA MELONI E SALVINI

A proposito di destra, ci sono ancora acqua agitate in vista delle prossime amministrative. La cronaca di Tommaso Montesano per Libero.

«Matteo Salvini e Giorgia Meloni, nuovo round. E nuove scintille. Quella di ieri è stata una giornata di battibecchi tra il leader della Lega e la presidente di Fratelli d'Italia. Un botta e risposta iniziato addirittura nella tarda serata di lunedì, quando l'ex ministro dell'Interno, dalle telecamere di Quarta repubblica, ha punzecchiato la collega di coalizione a proposito delle imminenti elezioni amministrative: «Io lavoro per unire. In qualche Comune Fratelli d'Italia ha scelto di dividere il centrodestra e andare da solo. A Parma probabilmente ci impedirà di vincere al primo turno. Mi auguro che siano errori di percorso: conto che nei prossimi mesi il centrodestra governi insieme». Parole a cui Meloni ha risposto a mente fredda, nel primo pomeriggio di ieri, facendo notare come il riferimento di Salvini sia frutto di una «lettura un po' distorta, diciamo un po' strabica». E non solo perché Fratelli d'Italia, tra le città più grandi chiamate al voto, si presenta con un candidato autonomo solo a Catanzaro e Parma. È vero che in queste due realtà «Fratelli d'Italia ha fatto una scelta diversa da Lega e Forza Italia», ma è altrettanto vero che lo stesso è accaduto per gli alleati. «Allora qualcuno mi dica di Forza Italia a Verona o della Lega a Messina... Non mi pare che si possano trattare le questioni così. Che si scarichi sempre la colpa su Fratelli d'Italia non lo accetto», replica Giorgia. Frizioni, divergenze, che hanno contribuito a invelenire il clima all'interno della coalizione, i cui leader non a caso non hanno previsto alcun evento insieme per la chiusura di una campagna elettorale che poi domenica porterà al voto quasi nove milioni di italiani. IL GIUDIZIO SUL GOVERNO Altro giro sui numeri dei sondaggi che gonfiano le vele di Fratelli d'Italia. Per Salvini è tutto merito della rendita di posizione assicurata dall'opposizione in solitaria al governo Draghi: «Meloni ha scelto la via dell'opposizione e questa legittima scelta nel breve periodo paga più che stare al governo con Letta, Renzi e Conte...». Scelta, peraltro, che il leader del Carroccio conferma anche per l'ultimo annodi legislatura: «Certo... siamo entrati in questo governo mettendo l'interesse del Paese davanti all'interesse del partito. Io la Lega all'opposizione, che cresce nei sondaggi, ma lascia campo libero alla sinistra al governo per tassare e tassare, non l'ho voluta». E anche questa, a ben guardare, pare una stilettata a Giorgia, che infatti replica, stavolta dalle telecamere di Porta a Porta: «Mi permetto di dissentire. Quando Fratelli d'Italia decise di non sostenere Draghi, si disse che saremmo scomparsi. Si parlò di scelta suicida. Oggi si dice l'esatto contrario. Io penso che non paghi l'opposizione di Fratelli d'Italia, ma paghi il fatto che se diciamo una cosa la facciamo. Un'affidabilità che ci sta premiando». E per rendere ancora più chiaro il concetto- per il quale è facile scorgere un riferimento all'alleato leghista - ecco l'assicurazione agli elettori sull'impossibilità di vedere FdI al governo col Pd (cosa che invece succede con il Carroccio): «Possibilità zero, non vedo questo scenario». DUELLO SUI QUESITI Anche sul referendum sulla giustizia, partita nella quale Salvini ha impegnato la Lega, Meloni ha qualcosa da puntualizzare. Certo, Giorgia concorda con Matteo sulla «curiosa cappa di silenzio» calata sui quesiti, ma poi emergono le differenze. Se Salvini invita a barrare cinque Sì sulla scheda, Meloni puntualizza che su due temi (custodia cautelare e legge Severino) lei non ci sta: «Se noi aboliamo tout court la possibilità di una custodia cautelare, in caso di rischio di reiterazione del reato significa non dare più uno strumento per tenere in carcere uno spacciatore o un responsabile di furto in appartamento». Quanto alla legge Severino, «va riformata profondamente, ma abolirla completamente secondo me non è un bel segnale». Non proprio musica per le orecchie di Salvini, impegnato a mobilitare la base elettorale per centrare l'obiettivo del quorum. Fortuna che almeno su un punto i due sono - al momento - d'accordo: il premier lo esprimerà «chi prende un voto in più. Ha sempre funzionato così» (Salvini, in conferenza alla sede della Stampa estera in Italia). E magari dopo le elezioni il Capitano potrà contare sull'appoggio di Forza Italia, con la quale «di fusioni non abbiamo mai parlato», ma di «accordi o di federazioni o di collaborazioni, sì».

UN COMITATO VATICANO PER GLI INVESTIMENTI

Nuovo comitato in Vaticano che si occuperà degli investimenti finanziari della Santa Sede. Dopo lo scandalo per l’acquisto del palazzo di Londra, il Papa si affida ai laici e al cardinal Farrell. Per Repubblica Paolo Rodari.

«Dopo aver varato il codice degli appalti e la centralizzazione della cassa, il Vaticano istituisce un comitato che vigilerà sulla natura degli investimenti, come previsto dalla nuova Costituzione apostolica sulla riforma della Curia, la "Praedicate Evangelium", voluta da Papa Francesco ed entrata in vigore il 5 giugno. Presidente del comitato, i cui membri resteranno in carica per 5 anni, è il cardinale Kevin Joseph Farrell, prefetto dei laici, statunitense, uomo di fiducia del Papa che negli ultimi tempi ha gestito la difficile "conversione" dei movimenti ecclesiali da organizzazioni autoreferenziali a comunità aperte a tutti nello Spirito di accoglienza proprio del Vangelo. Dopo il caso che ancora fa parlare di sé dell'investimento della Segreteria di Stato vaticana di un immobile a Londra per il quale un processo è ancora in corso entro le mura leonine, ecco un organismo chiamato a garantire la natura etica degli investimenti in conformità con quanto la dottrina sociale della Chiesa afferma. I membri del comitato, cardinale Farrell a parte, sono tutti laici ed esperti di finanza ed economia, radicati in una vita di fede ed anche con posizioni conservatrici. Ne è un esempio Jean Pierre Casey, nipote del filosofo tedesco antinazista von Hildebrand, fondatore e amministratore delegato di RegHedge in Gran Bretagna.
Quattro anni fa, infatti, fu lui a firmare una lettera aperta indirizzata ai vescovi cattolici di Inghilterra e Galles nella quale disse senza mezzi termini: «Mi vergogno di essere un cattolico inglese ». Casey criticò i vescovi per il loro atteggiamento di sostegno all'Alder Hey Hospital nella vicenda di Alfie Evans, il bambino di Liverpool ricoverato dal dicembre 2016 a causa di una malattia neuro-degenerativa associata ad una grave forma di epilessia e poi deceduto nel 2018. Secondo Casey i vescovi furono troppo deboli nei confronti dell'ospedale che decise successivamente per l'interruzione del supporto vitale.
Altri membri del comitato sono gli esperti di economia e finanza, nonché cattolici, Giovanni Christian Michael Gay, direttore gestionale dell'Union Investment Privatfonds GmbH in Germania, David Harris, portfolio manager di Skagen Funds in Norvegia e John J. Zona, responsabile degli investimenti del Boston College negli Stati Uniti, ateneo in mano ai gesuiti. Sono tutte figure della galassia cattolica, che nelle speranze della Santa Sede dovranno garantire la giusta valutazione su dove e come investire le risorse economiche vaticane. Quando venne eletto al soglio di Pietro, Francesco iniziò a riformare la curia partendo dallo Ior. Il bilancio pubblicato ieri è nel segno anche della trasparenza da tempo messo in campo. Secondo il bilancio annuale certificato con criteri internazionali, la banca vaticana ha registrato 18,1 milioni di euro di utili netti, con un dimezzamento rispetto al 2020 quando gli utili furono 36,4 milioni. Il 25 per cento degli utili saranno posti a riserva, mentre il dividendo distribuito sarà di soli 2 milioni e cinquecentomila euro. Dal 2013 lo Ior ha cassato diversi conti sospetti. E l'attività è proseguita anche l'anno scorso, quando l'Istituto ne ha chiusi altri 400 perché, spiegano, «siamo stati più selettivi con la clientela».

NIGERIA, PRIMO BILANCIO UFFICIALE

A tre giorni dal terribile attentato nella chiesa di San Francesco ad Owo, nel sud ovest della Nigeria, c’è il primo bilancio ufficiale della strage di Pentecoste: i morti sono stati 22. Matteo Fraschini per Avvenire.

«Ventidue persone uccise e 50 ferite: questo il primo bilancio diffuso da un ente pubblico della Nigeria, la National Emergency Management Agency, dopo l'attentato di domenica nella chiesa di San Francesco nella città di Owo. Nei giorni scorsi testimoni avevano parlato di «molti morti », in qualche caso di almeno 50 vittime, tra le quali diversi bambini. Secondo ricostruzioni diffuse dalla polizia, a compiere l'attentato è stato un gruppo di uomini che aveva con sé armi da fuoco ed esplosivi. Detonazioni e spari sarebbero cominciati verso la fine del servizio religioso, nella domenica di Pentecoste. Non ci sono però certezze sui responsabili del brutale massacro. Pastori dell'etnia semi-nomade dei fulani, jihadisti di Boko Haram o una banda di criminali, sono tutte ipotesi credibili non essendoci stata alcuna rivendicazione da un gruppo armato particolare. Intanto a Owo, una città di oltre 300mila anime fino ad ora risparmiata dal terrorismo, la gente ha paura. «Condanniamo fermamente questo atto di aggressione del tutto gratuito, disumano e atroce - ha riferito in un comunicato l'associazione islamica Muslim rights concern (Muric), secondo cui l'attacco avrebbe una matrice jihadista -. Chiediamo protezione per tutte le chiese e le moschee della regione». Gli assalitori si sono mimetizzati tra la folla dentro la chiesa e hanno iniziato a sparare anche da fuori. «Abbiamo trovato un ordigno che non era ancora esploso - hanno confermato ieri fonti della polizia locali -, e abbiamo recuperato dei proiettili usati da dei fucili Kalashnikov ». Episodi di questa violenza stanno purtroppo aumentando in tutto il territorio e sono destinati a ripetersi nei prossimi mesi. Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali del prossimo anno la tensione è sempre più alta».

TRIPOLI È COME KIEV?

Nello Scavo nell’editoriale di Avvenire affronta il tema difficile della diversa percezione, in Italia, fra profughi ucraini e profughi africani. Anche la sensibilità per la violazione dei diritti umani è diversa. Eppure Tripoli è più vicina a Roma di Kiev.

«Ci sono profughi e profughi. Dipende dalla geografia? O da certe variabili cromatiche? Più l'epidermide è scura e più le loro sorti ci sembrano lontane, al punto da pagare di tasca nostra chi si incarica di tenerceli fuori dai piedi? Mohamed era un profugo. Era scappato dal Darfur, non esattamente un posto tranquillo. Sognava l'Europa, ma si sarebbe accontentato anche di un trasferimento in un altro Paese africano sicuro individuato dall'Onu. Invece è rimasto incastrato in Libia. Torturato e abusato, come molti. Mohamed non se l'è più sentita di prestarsi ai giochi degli aguzzini di Stato stipendiati in euro. Ha preso una corda, ha fatto un giro intorno al collo. E si è lasciato andare. Aveva 19 anni. Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All'Ucraina l'Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l'esercito che combatte l'aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste. Mohamed era uno di loro. Veniva da una provincia del Darfur, regione di mattanze per le quali a marzo, nel pieno della crisi ucraina, si è aperto un processo davanti alla Corte penale internazionale dell'Aja. Mohamed era nel campo di prigionia di Ain Zara, uno di quelli tenuti in piedi dalle autorità generosamente sostenute da Roma e Bruxelles. Anche la giustizia internazionale è gradita a giorni alterni. Quando Karim Khan, il nuovo procuratore dell'Aja, ha inviato gli investigatori in Ucraina, gli uffici stampa di leader politici e capi di governo europei hanno dovuto fare gli straordinari per inviare dichiarazioni alle agenzie di stampa, inondare i social di commenti, rilasciare interviste a sostegno della giusta causa contro i crimini di guerra commessi in Ucraina. Quando, negli stessi giorni, sempre Khan consegnava al Consiglio di sicurezza Onu il suo rapporto sulla Libia, la reazione è stata il silenzio. Non per indifferenza. Ma per lasciar cadere le accuse. Eppure era solo aprile: «Gli abusi contro i migranti - si leggeva nel report dell'Aja - possono essere qualificati come crimini di guerra e crimini contro l'umanità ». Perché non ci fossero dubbi sulla corretta interpretazione, Khan parlava di «crimini commessi nei centri di detenzione». Strutture ufficiali sotto il controllo del governo. Quello di Ain Zara è tra i principali. Sono rinchiusi a migliaia, rastrellati dalla sbirraglia e consegnati al Dipartimento per il contrasto dell'immigrazione. Uomini, donne e bambini. Non fa differenza. E non c'è tempo per scandalizzarsi davanti ai soprusi subiti dagli ultimi della fila. Anche le loro guerre ci sembrano lontane. Poco importa se le armi usate pure lì hanno marchi che ci sono familiari. Prendete proprio il Darfur, la regione del Sudan occidentale che dal 2003 non conosce un solo giorno di pace. Non che prima di allora le cose andassero meglio, ma la guerra dichiarata alle minoranze dal regime prevalentemente arabo del presidente Bashir - ricercato dall'Aja, catturato dal nuovo governo di Khartoum ma non ancora consegnato al tribunale - è stata iscritta d'ufficio tra i conflitti dimenticati. «Perdonaci, Mohamed, se abbiamo tradito la fraternità verso te e tutte le altre persone migranti, respinte in Libia e deportate nei lager con la nostra responsabilità», ha commentato don Mattia Ferrari, il sacerdote modenese finito sotto tutela delle forze dell'ordine a causa delle minacce ricevute da ambienti vicini ai trafficanti e alle autorità libiche. Chissà se la sua morte potrà «scuotere le nostre coscienze da questo sonno forzato», si domanda don Mattia. E sarebbe già qualcosa se Kiev e Tripoli, ai nostri occhi, ci sembrassero alla stessa distanza».

INTANTO LA GERMANIA PENSA AL FUTURO

Start up e innovazione, la Germania prepara il futuro e stanzia 30 miliardi di fondi per le start up tecnologiche in un piano pubblico – privato. Assicurazioni e fondi pensione potranno investire nel capitale di rischio. Isabella Bufacchi per il Sole 24 Ore da Francoforte.

«Rivoluzionare il capitale di rischio per finanziare con più fondi pubblici e privati le start-up tedesche e potenziare così uno dei motori della trasformazione digitale, climatica, tecnologica e nella medicina. Mira a tanto la nuova strategia per le start-up messa a punto dall'ambizioso ministro dell'Economia e del Clima, il verde Robert Habeck. Il piano, illustrato in una bozza di 28 pagine che andrà all'esame del consiglio dei ministri venerdì, dovrebbe essere approvato entro l'estate, se tutto andrà bene. La strategia prevede la costituzione di uno speciale Fondo pubblico per il Futuro da 10 miliardi che, abbinato ai fondi privati, dovrebbe mobilitare fino a 30 miliardi di capitale pubblico e privato al 2030 concentrato sulle start-up in questi settori: «tecnologia climatica, intelligenza artificiale, tecnologia quantistica, idrogeno, medicina, mobilità sostenibile, bioeconomia ed economia circolare». La forza lavoro delle start-up tedesche, grazie a questo piano strategico, dovrebbe aumentare da 415.000 dipendenti nel 2020 a 974.000 per il 2030. Il piano è costituito da un ampio ventaglio di interventi, in un mix di nuove misure e vecchi strumenti rispolverati, per migliorare l'accesso delle start up al mercato dei capitali, per alleggerirne il trattamento fiscale (esonerando questo tipo di capitale di rischio dall'IVA), per facilitarne la partecipazione agli appalti pubblici, per liberalizzarne i contratti di lavoro al fine di poter assumere più facilmente anche dall'estero. Il progetto intende anche aumentare la partecipazione delle donne nelle start-up tedesche, al momento decisamente sottodimensionate e sotto finanziate rispetto agli uomini. L'obiettivo dichiarato del ministero è essenzialmente uno: fare in modo che le start-up trovino velocemente i capitali, i finanziamenti e il personale specializzato di cui hanno bisogno.
La strategia dirompente di Habeck punta innanzitutto ad attingere risorse finanziarie dall'enorme bacino di liquidità nei portafogli delle compagnie di assicurazione e dei fondi pensione: una percentuale fissa minima potrà in futuro essere destinata al capitale di rischio per le start-up. Questo consentirà di ampliare, e molto, la liquidità disponibile per il venture capital in Germania che al momento è dominato da i fondi statunitensi. Le dimensioni dei fondi tedeschi specializzati negli investimenti nel capitale di rischio sono limitate. La strategia di Habeck conta anche sulle risorse note e già disponibili della KfW (la Cdp tedesca) e del fondo Fei della Bei
. Tra le altre misure, il ministero mira a facilitare la partecipazione delle start-up agli appalti pubblici, che a livello federale, regionale e comunale ammontano a 100 miliardi circa l'anno. «Il 10% degli appalti pubblici dipende dall'innovazione e quindi ha bisogno della partecipazione delle start-up che sarà facilitata in futuro», si legge nella bozza del documento. Altri interventi propongono la sburocratizzazione nell'avvio e nelle IPO delle start-up, con sgravi fiscali ad hoc come quelli che piacciono a Christian Lindner, ministro delle Finanze liberale e leader dell'Fdp. «Queste giovani imprese sono motori del dinamismo economico e del rinnovamento. Sviluppano nuovi mercati, sfidano le aziende consolidate e stimolano la concorrenza. Le start-up sono quindi importanti per la crescita e la competitività a lungo termine della nostra economia», si legge nel documento. Le prime reazioni tra gli addetti ai lavori che hanno studiato la bozza della strategia sono state positive. Il documento ha già avuto l'approvazione del presidente dell'Associazione tedesca delle start-up Christian Miele: «il progetto stabilisce le giuste priorità per migliorare le condizioni del mercato delle start-up in Germania». La Start-up Verband vede con favore le novità introdotte nel mercato del lavoro, per velocizzare e facilitare le assunzioni dall'estero. Secondo Miele, va invece ulteriormente migliorata la riforma che intende facilitare la partecipazione dei dipendenti nel capitale delle start-up».

REFERENDUM, LE RAGIONI DEL SÌ E DEL NO

Domenica prossima si vota per i cinque referendum che riguardano la giustizia. I lettori della Versione possono leggere qui una guida ai quesiti. Oggi Avvenire, con Vincenzo R. Spagnolo, propone due interviste parallele: pro e contro. Il costituzionalista Giovanni Guzzetta è pro e spiega: “La vittoria del sì sarebbe un bel segno contro il giustizialismo”.

«Intanto, mi lasci dire una cosa: il primo problema, rispetto ai referendum, è che non si sta facendo sufficiente informazione. Diverse persone che incontro, a parte la comprensione o meno dei contenuti, non sono a conoscenza del fatto che si voti sui referendum sulla giustizia. In più, limitare il voto alla giornata di domenica è penalizzante per il raggiungimento del quorum». Giovanni Guzzetta, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico all'università romana Tor Vergata e convinto sostenitore dell'istituto referendario, è nel Comitato per il Sì: «Ritengo che i 5 quesiti tocchino questioni importanti per il funzionamento della macchina della giustizia».

E abrogare la Legge Severino quale miglioramento potrebbe portare, professore?
È un testo intriso della cultura giustizialista, in base al quale sindaci o consiglieri regionali, condannati in primo grado, sono stati comunque sospesi dall'incarico. E poi ci hanno messo anni, per i tempi della giustizia, per avere una sentenza di assoluzione, ma nessuno ha potuto risarcire loro di quanto avevano patito, né i cittadini che avevano diritto a essere amministrati da chi avevano scelto con le elezioni. Il Parlamento avrebbe potuto riscrivere quella norma ma, in 10 anni non lo ha ancora fatto.


Rispetto al secondo quesito, qual è la posta in gioco secondo lei?
Chi ha proposto il referendum ritiene che ci sia stato un uso eccessivo della custodia cautelare in carcere. In ogni caso, se dovesse vincere il Sì, non verrebbero cancellate le misure cautelari preventive, che sarebbero comunque applicabili in caso di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o in casi di crimine organizzato.

Un referendum su cui il dibattito è acceso riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati.

Qui il nodo è chiaro. Il quesito punta a ottenere che chi funge da pubblica accusa non possa poi diventare giudice o viceversa. Oggi sono concessi 4 passaggi. E ciò, a mio modo di vedere, può alterare l'attitudine a essere 'super partes' del giudice, la sua equidistanza, poiché potrebbe risentire di una forma mentis maturata durante l'esperienza da pubblico ministero.

Sulla possibilità di valutare le toghe da parte di giuristi e avvocati nei Consigli giudiziari, il sì cosa cambierebbe?

Sarebbe coerente con la soluzione mista (togati-laici) che i padri costituenti hanno immaginato a livello centrale, nel Csm. E, a chi opina che ciò possa comportare da parte degli avvocati un pregiudizio, ribatto che esiste pure la possibilità che i magistrati valutino 'corporativamente' i propri colleghi.

Il quesito sull'abolizione delle firme per la candidatura al Csm non sarebbe superato dalla riforma Cartabia?

La riforma è ancora al vaglio del Parlamento. E perciò un Sì sarebbe importante per dare un segnale, aprendo la strada a candidature al Csm anche a chi non è appoggiato dalle correnti».

Armando Spataro è sicuramente uno dei più stimati giudici italiani. Dice all’Avvenire: «No ai quesiti, tre sono dannosi e due inutili: il frutto della voglia di punire la magistratura»

«Io credo profondamente nell'istituto costituzionale del referendum. Ma stavolta ho sentito di impegnarmi per il No, perché ritengo i 5 quesiti frutto di una spinta populista e rispondenti a una volontà punitiva verso la magistratura, dipinta come un gruppo criminale di cui il Csm sarebbe una sorta di cupola...». Armando Spataro, magistrato per oltre 40 anni e già procuratore di Torino e consigliere del Csm, è schierato insieme ad altri giuristi nel Comitato per il No: «Su 5 quesiti, i primi tre li reputo dannosi e gli ultimi due inutili».

Andiamo con ordine. Il primo perché sarebbe dannoso?

Perché abrogherebbe in toto il decreto legislativo Severino, che dal 2012 prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza per parlamentari, esponenti di governo amministratori regionali e sindaci che siano condannati con sentenza definitiva per alcuni gravi reati.

Ma c'è pure la sospensione dopo condanna in primo grado per gli amministratori locali...

Ma i sostenitori del Sì puntano ad abrogare tutto il testo. E io chiedo a loro: perché, invece di esigere che i partiti non candidino pregiudicati, si rivolgono ai cittadini per ottenere che ciò sia possibile?

Andiamo al quesito sui limiti per la custodia cautelare. Da ex procuratore, cosa ne pensa?

Si chiede la cancellazione, tranne che in caso di reati gravissimi, di uno dei tre presupposti che legittimano l'emissione di misure cautelari - che non sono solo la custodia in carcere, lo ricordo, ma pure gli arresti domiciliari o l'obbligo di firma, ad esempio -, ossia il pericolo di reiterazione del reato per cui si sta procedendo. È giusto pretendere dalla magistratura serietà e professionalità, ma se vincesse il Sì, si indebolirebbe la possibilità di contrastare reati 'seriali', come la corruzione - compreso il finanziamento illecito ai partiti -, ma anche crimini persecutori, come lo stalking, perché non si potrebbe prevedere una misura preventiva. E, mi passi la battuta amara, sono certo che al primo caso di criminale seriale che torna a colpire, appiopperebbero la colpa alla magistratura.

Veniamo alla vexata quaestio della separazione delle funzioni. Da decenni i magistrati fanno muro. Perché?

Intanto, non è vero che questa separazione sia prevalente nelle democrazie avanzate: chi le ha studiate, sa che questa affermazione è priva di fondamento. Ma soprattutto, il quesito punta alla separazione delle carriere, non delle funzioni, e rischia di scardinare l'assetto costituzionale della magistratura. Mi riferisco alla necessità di un'omogenea 'cultura giurisdizionale' che accomuni giudici e pubblici ministeri, garantendo a entrambi un analogo percorso per l'affermazione della verità: le loro valutazioni possono essere divergenti, i canoni con cui valutare le prove debbono essere comuni.

Gli ultimi due quesiti, lei dice, sono «inutili». Per quali ragioni?

Perché in entrambi i casi, interviene la riforma Cartabia, ora al vaglio del Senato, proponendo soluzioni di compromesso, certo, ma più coerenti col sistema».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 8 giugno:

Articoli di mercoledì 8 giugno

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