Abbattuti due droni
Nave Duilio colpisce gli Houthi, che ci vedono in guerra. Hamas apre alla tregua. Raid russo di miliziani filo ucraini. 50 audizioni sui dossier. Regole Ue per le case green. La lezione di Bobbio
Scintille di guerra nel Mar Rosso, con due droni abbattuti da nave Duilio della nostra Marina militare, coinvolta nell’operazione Aspides. All’episodio ha fatto seguito un proclama degli Houthi contro il nostro Paese, in cui si sostiene che l’Italia si è schierata con il nemico. Hezbollah ha rivendicato il lancio di oltre 100 missili contro diversi siti militari israeliani. In risposta, Israele ha colpito “due centri di comando militare di Hezbollah" nella zona di Baalbek, nel nord-est del Libano. Sono state diffuse immagini choc della Bbc (vedi Foto del Giorno) in cui si vedono medici dell’ospedale Nasser di Khan Yunis denudati e ammanettati dall’esercito israeliano. Tre medici hanno denunciato di essere stati picchiati. Fonti arabe hanno accreditato l’idea che Hamas abbia accettato alcune condizioni Usa per aprire un negoziato ma mancano conferme. Alcuni leader dell’Ue hanno preparato un documento per una “pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile” a Gaza. Documento che deve essere approvato al prossimo Consiglio europeo. In un’intervista ad Avvenire Maurizio Martina, vicedirettore della FAO, spiega l’iniziativa umanitaria “Food for Gaza”, cui partecipa il governo italiano.
Sul fronte della guerra in Ucraina, ieri attacco di Kiev con droni e razzi in Russia. Tra gli obiettivi colpiti c'è anche una raffineria di petrolio. Tre gruppi paramilitari russi filo-ucraini hanno annunciato di essere riusciti a entrare nel territorio di Mosca e di star combattendo nelle regioni di Belgorod e Kursk. Il ministero della Difesa russo ha però smentito queste notizie. Mario Giro sul Domani torna a spiegare la posizione di Papa Francesco sulla necessità del negoziato.
La politica italiana sta ancora metabolizzando il voto dell’Abruzzo. A sinistra il cosiddetto campo largo è in crisi perché i 5 Stelle (che pure perdono vistosamente consensi anche nei sondaggi) pretendono la leadership della coalizione e di imporre veti e candidature. In più, sul versante opposto dello schieramento, Carlo Calenda tende a comportarsi in modo simile ed opposto, tanto da essere accusato di criticare più gli alleati dei competitori. Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, avverte: “Se il Pd non guida, la coalizione non c’è”. Nel centro destra i problemi riguardano soprattutto la Lega.
Sulla vicenda Dossieraggio illegale, la commissione Antimafia ascolterà 50 persone, fra cui lo stesso Carlo De Benedetti e i giornalisti del Domani, in diverse occasioni terminali ultimi delle soffiate della Guardia di Finanza. Il rischio è che se ne parli per settimane, senza giungere a conclusioni chiare.
Il nuovo fronte delle critiche di Repubblica a Giorgia Meloni riguarda le tasse, sull’onda delle nuove regole per le cartelle. A Strasburgo il Parlamento Ue ha approvato le regole delle nuove case green, ma è un testo meno talebano di quello iniziale e comunque spetterà agli Stati decidere come rispettare i parametri ambientali Ue per le abitazioni.
Per le altre notizie dall’estero, è drammatica la situazione ad Haiti. Dopo il colpo di stato delle gang il premier Ariel Henry si è dimesso. Avvenire rilancia l’appello delle Ong presenti sull’isola. Mentre non è chiaro che cosa farà la comunità internazionale.
La Versione si conclude con la recensione di un libro postumo di Norberto Bobbio, che contiene alcune lezioni del filosofo torinese sulla pace e sulla guerra. Mai come ora di attualità.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine riproduce il fermo immagine di un breve video ripreso il 16 febbraio in cui si vedono numerose persone - apparentemente membri del personale medico - in ginocchio, in mutande e con le mani dietro la testa detenute dalle forze israeliane davanti al pronto soccorso dell’ospedale Nasser di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. Tre medici palestinesi hanno riferito alla Bbc di essere stati bendati, costretti a spogliarsi e ripetutamente picchiati dalle truppe israeliane.
Fonte: BBC
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
In ordine sparso oggi i titoli dei giornali perché non c’è un solo tema che si imponga. Il Corriere della Sera punta sulla missione nel Mar Rosso: Alta tensione con gli Houthi. Nuovo terreno di critica contro il governo per La Repubblica sono le tasse: Fisco, lo Stato si arrende. Mentre La Stampa continua ad interessarsi ai guai della Lega: Governo, parabola Salvini a Forza Italia i voti leghisti. Il Domani accusa: Nomine di stato e commissioni. Dopo l’Abruzzo Meloni vuole tutto. Il Manifesto propone a Conte e Schlein il gioco delle categorie: Nomi, cose, città. Il riferimento è al nodo delle candidature alle regionali, lo stesso argomento di un non elegantissimo Libero: Il funerale del campo largo. Il Sole 24 Ore fa l’elenco: Case green, tutte le nuove regole Ue. Così come Il Messaggero, deluso dal Parlamento di Strasburgo: Case green, bonus cancellati. Sul dossieraggio tornano Il Giornale: Veleni e insulti nelle chat dei pm. E anche La Verità: Corvo e veleni, è bufera sul tribunale dei dossier. Il Fatto si lancia contro il Biscione: Pier Silvio ordina, Giorgia esegue: sconti a Mediaset. Avvenire valorizza la lotta anti droga del governo: Scudo anti Fentanyl.
2 DRONI ABBATTUTI. HAMAS TORNA A TRATTARE?
La nave militare Duilio abbatte due droni degli Houthi. Che dicono: «L’Italia è nemica». Nuova operazione nel Mar Rosso. I media arabi annunciano: Hamas torna a trattare, accetta lo schema Usa. Salpa da Cipro una nave con gli aiuti. Davide Frattini per il Corriere.
«La nave Duilio abbatte due droni lanciati dallo Yemen e questo basta agli Houthi per accusare l’Italia di «essere schierata con i nostri nemici», anche se in qualche modo non ci considerano ancora bersagli diretti. Fa poca differenza quando tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita armato dall’Iran. Così gli oltre duemila chilometri tra Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso, e gli stretti di Tiran si riducono allo stesso conflitto, così nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa scontro globale. Perché da queste acque passano le merci del mondo. La missione europea Aspides è stata decisa per proteggere la navigazione, gli americani assieme ai britannici estendono i raid alle basi degli Houthi nella parte dello Yemen dove spadroneggiano, agli armamenti e ai missili, ai droni sottomarini. Il caos nel Mar Rosso favorisce anche i pirati somali, una ventina di uomini ha abbordato e preso il controllo di un mercantile. Non c’è più una sola guerra, gli schieramenti vengono definiti pure da chi trae vantaggio dalle scaramucce a distanza. L’Iran di sicuro che muove le sue armate per procura e ancora una volta Vladimir Putin: il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez — scrive il quotidiano Financial Times — ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe, monopolio di proprietà dello Stato, qualunque vagone che passi sopra quei binari va a finanziare il Cremlino e quindi l’invasione dell’Ucraina. L’asse della Resistenza, come si autodefinisce, spera che il mese più sacro per i musulmani spinga ad aprire altri fronti contro Israele. A nord l’Hezbollah libanese ha intensificato i lanci di razzi, gli scontri quotidiani non sono ancora confronto totale ma si stanno avvicinando. Hamas incita i palestinesi alle proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania, il gruppo fondamentalista vuole presentarsi da protettore della Spianata delle Moschee, quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio. Gli americani continuano a negoziare — dichiara William Burns, il capo della Cia — verso una pausa nei combattimenti che permetta di raggiungere un’intesa per la liberazione del centinaio di ostaggi tenuti dai terroristi in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi: Hamas, secondo Al Arabiya , avrebbe accettato di riprendere la trattativa. Washington sembra meno convinti della tenuta al potere di Netanyahu: il documento dell’intelligence che contiene le previsioni per questo anno complicato considera improbabile la rielezione del primo ministro e la possibilità della «distruzione totale di Hamas» proclamata dal premier. I palestinesi uccisi nella Striscia in 158 giorni hanno superato i 31 mila, la situazione per la popolazione è disastrosa. Da Cipro è salpata una nave di Open Arms, deve percorrere le 210 miglia nautiche del corridoio marittimo sostenuto anche dall’Unione europea per portare al nord di Gaza — un molo di attracco viene costruito quasi nelle stesse ore — gli aiuti preparati da World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef José Andrés, che ha operato anche in Ucraina e altre zone di crisi».
“MEDICI ABUSATI PER ORE DALL’ESERCITO”
Orrore all’ospedale Nasser. La Bbc mostra un filmato in cui si vedono i medici dell’ospedale di Khan Yunis in mutande e inginocchiati con le mani dietro la testa e denuncia: «Sono stati abusati per ore da Israele». Michele Giorgio per Il Manifesto.
«Il raid delle truppe israeliane scattò il 15 febbraio. L’ospedale Nasser di Khan Yunis, il secondo per importanza della Striscia di Gaza e uno dei pochi ancora funzionanti, come lo Shifa di Gaza city era considerato un «covo di terroristi» e una «base operativa di Hamas» dai comandi militari israeliani. L’incursione veniva data per imminente. Molti degli sfollati che l’ospedale ospitava erano fuggiti nei giorni precedenti sfidando i bombardamenti e altrettanto avevano fatto i pazienti in grado di camminare. Nel Nasser restavano oltre 100 feriti e ammalati gravi e decine di medici ed infermieri. I soldati arrivarono all’improvviso. Alla ricerca, dissero, «degli ostaggi nelle mani di Hamas o dei loro corpi». Proclamarono di voler agire nel rispetto della struttura sanitaria. Le cose andarono in modo molto diverso. Chi quel giorno e in quelli successivi ebbe la sfortuna di trovarsi nell’ospedale di Khan Yunis, non dimenticherà quanto ha vissuto. «Sono state ore difficili. Fu aggredito chiunque aveva fatto anche solo un movimento», ci diceva ieri al telefono il dottor Atef Al Hout, direttore generale dell'ospedale e uno dei testimoni citati dalla Bbc nel suo servizio su quanto è accaduto nell’ospedale Nasser a febbraio. «Alcuni di noi sono stati fermati, fatti spogliare e lasciati per ore in posizioni umilianti» ha aggiunto Al Hout «non siamo stati trattati con rispetto, come si dovrebbe di fronte a medici e paramedici che lavoravano senza sosta, in condizioni molto difficili a causa della guerra, pur di assistere persone ammalate o ferite. Meritavamo protezione e invece siamo stati trattati come criminali. Ho impiegato giorni per riprendermi». Un filmato girato di nascosto all'interno dell'ospedale è arrivato alla Bbc. Il video mostra una fila di uomini lasciati in mutande fuori dall'edificio del pronto soccorso, inginocchiati con le mani dietro la testa. Alcuni avevano davanti a sé dei camici medici. La Bbc sottolinea che il personale sanitario è stato sottoposto a maltrattamenti e picchiato. Un altro medico Ahmed Abu Sabha ha raccontato all’emittente britannica di essere stato detenuto per una settimana, di aver subito aggressioni che gli hanno provocato la frattura di una mano e di essere stato morso da cani dell’esercito. Resoconti simili sono stati dati da altri due medici. Le forze armate israeliane sostengono di non aver maltrattato medici ed infermieri e che «qualsiasi abuso sui detenuti è contrario agli ordini dell’Esercito, quindi severamente vietato». Durante la procedura di arresto, affermano, è consuetudine che i sospettati consegnino i loro vestiti a scopo di perquisizione. Spiegazioni che i palestinesi respingono totalmente, denunciando abusi e violenze sistematiche sui detenuti. Altri medici, questa volta israeliani, invece avvertono che la crisi sanitaria nella Striscia di Gaza è grave ed inoltre costituisce una minaccia strategica per Israele. In un rapporto firmato dal professor Nadav Davidovich dell’Associazione per la sanità pubblica, e riferito ieri dalla tv pubblica Kan, i medici spiegano che le acque reflue provenienti da Gaza sfociano nel mare e possono causare l'inquinamento delle spiagge e danni agli impianti di desalinizzazione israeliani, oltre ad epidemie e varie malattie infettive. Sulla base dei dati diffusi dalle organizzazioni sanitarie internazionali, i medici israeliani riferiscono di 312.000 palestinesi affetti da polmonite e più comune, un hotspot per decine di persone. Dati che non turbano il premier israeliano Netanyahu che, intervenendo alla conferenza dell’organizzazione americana filo Israele, Aipac, ha ribadito per l’ennesima volta che l’esercito attaccherà anche la città di Rafah, sul confine con l’Egitto – nonostante l’opposizione dichiarata dall’Amministrazione Biden - dove si ammassano centinaia di migliaia di sfollati palestinesi. Ieri altre decine di morti e feriti tra i civili. Fonti palestinesi riferiscono di raid aerei a Deir Al Balah, Gaza city, Qarara. In Cisgiordania, coloni israeliani sono nel villaggio di Burin (Nablus) e hanno dato fuoco ad alcune automobili. Sempre nel distretto di Nablus, gruppi di coloni si preparano a stabilire nuovi «avamposti ebraici» sulle terre dei villaggi di Luban Sharqie, Sinjil e Qariut. Con il sostegno dei ministri dell’estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, e dal deputato del Likud Simha Rotman, i coloni continuano le proteste per l’autorizzazione data dall’esercito al trasferimento due giorni fa da Rafah a Betlemme (via Egitto) di 68 orfani palestinesi tra i due e i 14 anni di età affidati all’ong Sos Palestine. Secondo i coloni e i loro leader, l’arrivo in Cisgiordania di quei bambini di Gaza rappresenterebbe un «deterioramento dei valori» perché gli ostaggi israeliani restano a Gaza. «In guerra – ha detto Ben Gvir - si deve schiacciare il nemico e non essere sempre moralisti». Negli atenei non cessano sanzioni e punizioni contro le voci dissidenti. L’Università Ebraica di Gerusalemme ha sospeso la docente di criminologia Nadera Shalhoub-Kevorkian perché ha accusato Israele di genocidio a Gaza. Ieri, finalmente, è partita da Larnaca la nave Open Arms che rimorchia una chiatta con 200 tonnellate di cibo e generi di prima necessità destinati alla popolazione di Gaza. L’arrivo è previsto questa notte o domani mattina».
REPORTAGE SUI SIONISTI RELIGIOSI
ll reportage di Francesca Mannocchi per La Stampa sull’accademia rabbinica dove si formano i futuri ufficiali “sionisti religiosi”. Dicono: “È la lotta del bene contro il male, bisogna essere forti, a volte anche crudeli”. L’integrale è nei pdf.
«È la lotta tra il bene e il male, siamo bloccati nello stesso posto e solo il più forte sopravviverà». Il rabbino Yishai Tzur insegna nell'Accademia di preparazione militare Bnei David di Eli. È seduto nell'aula della scuola, circondato da libri. Al di là delle finestre l'insediamento di Eli. «Un ragazzo che si arruola a 18 anni non si è ancora posto le domande profonde su cosa significhi essere ebreo e servire l'esercito, sul perché è necessario fare parte della Difesa: uccidi sennò ti uccideranno, sul perché Israele deve essere forte, perché non abbiamo un altro posto dove andare. Perciò qui costruiamo un legame in loro tra Dio e l'esercito, e così costruiamo la società che vogliamo. Perché abbiamo una luce da portare nel mondo. È per noi una questione di moralità, che oggi, soprattutto in questa guerra è la lotta del bene contro il male». L'Accademia Bnei David è stata la prima scuola di preparazione militare in Israele. È stata fondata nel 1988 a Eli dai due rabbini Eli Sadan e Yi'gal Levinstein per incoraggiare i giovani religiosi-sionisti ad assumere ruoli apicali nell'esercito in un momento in cui i militari segnalavano un calo nella motivazione delle reclute. Oggi è parte vitale dell'insediamento, che ha più rabbini per metro quadrato di qualsiasi altro in Cisgiordania. Molti tra gli insegnanti, gli amministratori e gli studenti vivono a Eli, tra caravan dei nuovi coloni arrivati e grandi progetti edilizi per l'allargamento della colonia in cui oggi vivono un totale di 4500 persone. Uno dei fondatori, il rabbino Eli Sadan è una figura controversa in Israele: è da molti considerato la più importante e influente figura della comunità religiosa sionista degli ultimi trent'anni, ed è visto dai più liberali come un religioso militarizzato che forma i suoi studenti per aumentare il peso del sionismo religioso nella politica e nell'esercito. È a lui che si deve l'impatto che oggi ha il sionismo religioso nell'esercito e l'aumento delle scuole premilitari. Nato a Budapest nel 1948, Sadan, dopo il trasferimento in Israele, ha prestato servizio nella Brigata paracadutisti, ha studiato per 13 anni a Yeshivat Merkaz Harav, e poi ha fondato l'accademia. Da lì, negli anni, ha diffuso la sua influenza. Sebbene, infatti, il sionismo religioso onorasse il servizio militare, i soldati che sostenevano il sionismo religioso raramente diventavano ufficiali: non solo l'esercito era distante da quelle posizioni, ma pochi ufficiali consideravano i ragazzi della yeshivah validi per crescere nell'esercito. Sadan ha trovato la formula: un anno preparatorio che unisse lo studio della religione all'addestramento psicologico e fisico prima della leva, per aiutare i soldati religiosi a diventare ufficiali senza perdere la propria identità, considerando cioè il servizio militare come una grande mitzvah (editto ebraico). «Prestare servizio nell'esercito è un dovere civile – ha detto – ma anche una grande mitzvah della Torah». All'inizio, trentacinque anni fa, Sadan aveva promosso il suo piano ad alcuni diplomati delle scuole superiori, ai loro genitori e ai vertici dell'esercito, che accettarono di posticipare di un anno il servizio di leva obbligatorio delle reclute interessate, mentre finanziavano il programma di studi. Di tutti gli studenti dell'Accademia Bnei David, usualmente 500, circa e il 40% diventa ufficiale o entra a far parte di unità combattenti d'élite, tra gli ex studenti ci sono il generale Avi Bluth, comandante delle forze armate della divisione Giudea-Samaria, cioè le forze di occupazione in Cisgiordania, i capi delle brigate Givati ed Efraim nel Nord del Paese, e il ministro Bezalel Smotrich, molto vicino al rabbino Sadan, che ha vinto anche il Premio Israele – la più alta onorificenza civile del Paese – per il suo contributo all'istruzione. Oggi in Israele ci sono più di 50 scuole pre-militari, per un totale di tremila studenti, secondo studi accademici negli ultimi vent'anni il numero di ufficiali sionisti-religiosi nell'esercito ha visto un enorme aumento e da quando è iniziata la guerra le richieste per iscriversi alla scuola si sono moltiplicate, e il peso del sionismo religioso nell'esercito è sempre più significativo. In un filmato del 2019, il preside della scuola, il rabbino Eliezer Kashtiel parlando dei palestinesi li aveva definiva «geneticamente inferiori» ritenendo «necessario che fossero ridotti in schiavitù». L'altro fondatore dell'Accademia, il rabbino Yi'gal Levinstein l'anno scorso ha dichiarato che i palestinesi debbano «sentirsi minacciati ancor prima di agire». Sostenendo la necessità di continuare a costruire insediamenti e allargare quelli esistenti, ha detto «si fermeranno se costruiamo un nuovo insediamento dopo ogni attacco terroristico e se le loro famiglie vengono esiliate a Gaza». Non c'era stata la strage del 7 ottobre, non era iniziata la guerra in corso. Oggi, che le lezioni preparano i soldati che la combatteranno, il rabbino Yishai Tzur ha le idee molto chiare: «Gaza è un simbolo per noi. Nei miei sogni i palestinesi dovrebbero andarsene tutti, ne sarei molto felice, ma credo lo faranno». Ha imparato dai testi che Gaza «è sempre stata un luogo duro per gli ebrei, e questa – dice – è solo la continuazione di una guerra che va avanti da qualche migliaio di anni, che oggi è anche una guerra in cui Israele non deve discutere né internamente né con gli alleati». «Se cominciassimo a discutere se i nostri metodi siano giusti o meno, ci fermeremmo. Le cose nell'esercito, invece, devono essere molto chiare. Ci sono i buoni e i cattivi. Se fai parte dei buoni, vinci. Se invece cominciamo a farci domande su tutto, sui civili, sulla povera gente a Gaza, su cosa ne penserà il mondo, ci bloccheremo e dovremo prenderci cura di due milioni di persone. Invece dobbiamo andare avanti e vincere». La settimana scorsa il ministro della Difesa Yoav Gallant ha visitato l'accademia. Quindici ex studenti sono morti a Gaza, e Gallant è andato a Eli discutere con i giovani «dell'importanza di bilanciare il servizio militare con gli obblighi religiosi», così recita una nota del suo ufficio stampa. Gli studenti dell'accademia religiosa sionista, ha detto, sono la prova che «è possibile tenere un'arma in una mano e un libro (di studi ebraici) nell'altra». Ha detto loro che Israele darà la caccia a Hamas «ovunque, in tutto Israele e in tutto il Medio Oriente» e che la guerra a Gaza è sia l'inizio che la fine di un'era, un viaggio che «ci guiderà per gli anni a venire e il modo in cui vivremo in Medio Oriente». Ha ricordato agli studenti che studio e lotta sono i due ambiti che garantiscono il futuro dello Stato di Israele, e che in entrambi c'è la garanzia della sua protezione: «Penso che la fede e lo studio della Torah siano uno dei fondamenti più importanti del popolo di Israele, e quando vedo che avviene insieme a simili eccellenze sul campo di battaglia, voglio dirvi che come ministro sono orgoglioso che ci siano soldati come voi nell'Idf».
VIA DA GAZA, IN CERCA DI FUTURO
Diario da Gaza di Sami al-Ajrami per Repubblica. Che racconta: “Le mie figlie gemelle hanno ottenuto il visto e le ho accompagnate alla frontiera con l’Egitto. Il loro futuro è in Olanda”.
«Proprio quando stavamo per perdere ogni speranza, la notizia che aspettavamo da ormai 22 giorni è arrivata. Ruba e Bisan, le mie figlie gemelle di 18 anni, hanno ottenuto il permesso di lasciare Gaza. E in men che non si dica, ieri mattina sono partite. Lasciandomi col cuore infranto, ma felice. Lo confesso, ho paura per loro: è la prima volta che lasciano la Striscia e per di più lo fanno da sole. Non so quando – e nemmeno se – le rivedrò. Ma so che ad accoglierle al Cairo c’è mio cugino. Finalmente torneranno a mangiare pasti decenti. Potranno fare la doccia calda. Ricominceranno una vita che qui è ormai impossibile. Da quando le ho lasciate sono attaccato al telefono. Ne seguo ogni passo, ogni timbro sui documenti. E per fortuna hanno incontrato, tra la folla degli sfollati in partenza, un mio amico. Mi ha subito scritto, le ha prese sotto la sua protezione e non potevo sperare di meglio. È successo tutto molto in fretta e c’è mancato poco che per la stanchezza di questi ultimi giorni non mancassimo l’appuntamento cruciale. Avevamo pagato l’agenzia Hala - che per l’astronomica cifra di 5mila dollari a persona garantisce il visto e l’uscita di Gaza - già lo scorso 20 febbraio, dopo aver raccolto i soldi necessari con una colletta che ha coinvolto tanti amici, in Italia e in Olanda, a cui va la mia riconoscenza. Solitamente ci volevano 5 giorni per sbrigare le pratiche. Ma l’aumento vertiginoso di richieste ha rallentato tutto. Per tre settimane li ho chiamati tutti i giorni e ogni giorno mi rispondevano, domani, al massimo dopodomani. Non lo dicevo alle ragazze per non spaventarle e avvilirle, ma ormai non ci credevo quasi più, tanto che per una sola notte, temendo l’imminente invasione da terra di Rafah, le ho portate a dormire nella tendopoli che con altri amici abbiamo eretto a ovest di Khan Yunis. Mi sono però presto reso conto che restare lì voleva dire rischiare di perdere la chance di far uscire le ragazze. In quell’area non c’è campo, nessuna possibilità di controllare la lista online. E restare isolati in un momento così non era proprio possibile. Così, mi sono assunto il rischio di riportarle a Rafah, pronto a tornare indietro al primo movimento di guerra. La lista coi nomi degli autorizzati a partire viene pubblicata tutte le sere alle dieci. Ma ieri ha tardato. Dopo tante delusioni nessuno di noi si è preso la briga di aspettare oltre. Sfiniti, siamo andati a dormire. Intorno a mezzanotte, però, sono stato svegliato dal bip di alcuni messaggi. Ero così stanco che all’inizio non volevo aprire gli occhi. Ma i messaggi continuavano ad arrivare. Finalmente li ho letti: e ci ho messo qualche minuto a realizzare. Erano amici e parenti che avevano visto la lista online – ormai è il bollettino più letto di Gaza – e si congratulavano per l’imminente partenza delle ragazze con messaggi di buona fortuna. A quel punto, anche se era il cuore della notte, le ho svegliate. E non abbiamo più dormito un solo istante. Tutto era pronto, eppure ci sembrava mancasse sempre qualcosa. Abbiamo disfatto e rifatto le valige due volte. Abbiamo controllato che avessero tutti i documenti. Gli indirizzi, i numeri di telefono, il computer, i caricabatterie. Abbiamo iniziato a telefonare – sì, a quell’ora – alle persone da salutare. Hanno detto addio alla nonna che chissà se rivedranno. Alla mamma da cui sono separato, rifugiata a Khan Yunis. Ai cugini cui sono legatissime, rimasti a Nord. All’alba non hanno voluto sentir ragioni: sono corse ad abbracciare le loro migliori amiche, svegliandone le intere famiglie. Abbiamo fatto l’ultima colazione insieme: pane e thé senza zucchero, sparito dal mercato da tempo. Avevamo lo stomaco chiuso ma le ho costrette a mandar giù diversi bocconi. Sapevo che avevano una lunga giornata davanti e non potevano farlo a digiuno. Ci siamo presentati al cancello del confine alle 8.30, sapendo che avrebbero aperto i cancelli alle nove. E stavo per morire di crepacuore quando ho scoperto che a causa della troppa gente avevano aperto alle 8 e dunque non eravamo in anticipo, ma già in ritardo. Per fortuna la fila si muoveva lentamente. Solo per passare il confine palestinese ci hanno messo più di tre ore. E altrettante per uscire dal lato egiziano dove i loro documenti sono stati controllati minuziosamente. Anche perché i loro passaporti, come quelli di molti altri qui, erano scaduti. Li abbiamo dovuti far rinnovare a Ramallah per procura. Da lì sono stati spediti in Egitto perché ovviamente non c’era modo di farseli recapitare quaggiù. Per fortuna le autorità lo sanno bene, è diventata una sorta di prassi, anche questa molto dispendiosa. Un agente dell’agenzia Hala li porta al confine, andando incontro a chi ne è privo. Lo chiamano trattamento “Vip”. E ci mancherebbe, con quello che costa. Ho saputo che erano finalmente in territorio egiziano alle quattro di pomeriggio passate. Ad aspettarle un pulmino dove hanno trovato acqua e cibo – a chi viaggia, durante il Ramadan è permesso mangiare – sul quale hanno affrontato il viaggio attraverso il Sinai lungo sei ore. Mi hanno chiamato un’ultima volta, la voce tremante dall’emozione prima di salire a bordo. Sfinite, sul bus, si sono addormentate e lo stesso ho fatto io nel pomeriggio: un lungo sonno agitato. Un viaggio diretto, salvo qualche fisiologica fermata, insieme ad altre trenta persone. Tutte guardate a vista dagli uomini dell’agenzia, armati perché certi villaggi che attraversavano sono pericolosi. So già che mercoledì mio cugino le lascerà riposare. Torneranno a dormire in un letto dopo cinque mesi. Indosseranno abiti puliti. Hanno già il visto per entrare in Olanda, dove una collega e amica sta approntando per loro una nuova vita e un percorso di studi. Non so ancora quando partiranno. Io sono stordito. Euforico e disperato insieme. Non riesco a concentrarmi su nulla e mando loro messaggi continui da vero padre ansioso. Ora tornerò a concentrarmi sul mio lavoro e sul dramma della mia gente a Gaza. Ho potuto mettere le mie figlie in salvo grazie all’aiuto di tanti amici. Ma soffro sapendo che nessuno riuscirà a salvare tante altre ragazze e ragazzi e bambini come loro».
“GLI AIUTI DALL’ALTO? NON BASTANO”
«Gli aiuti paracadutati dall’alto non bastano, a Gaza servono corridoi umanitari sul terreno». Intervista a Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che spiega l’iniziativa “Food for Gaza”. Daniela Fassini per Avvenire.
«Siamo di fronte a una situazione drammatica e bisogna agire presto». Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, non è l’unico ad essere preoccupato. Come tutte le agenzie Onu in campo per fornire aiuti umanitari, anche lui non nasconde l’urgenza dell’intervento annunciato dall’Italia nella Striscia di Gaza. Si chiama “Food for Gaza” per sostenere la popolazione palestinese.
Di cosa si tratta?
Si tratta di un’iniziativa preziosa e doverosa per favorire l’accesso nella Striscia e la distribuzione degli aiuti umanitari per Gaza. Siamo grati all’Italia per l’impegno intrapreso da parte del ministro Tajani, in collaborazione con la Pam, la Croce rossa e la Mezzaluna rossa. Come Fao siamo già operativi nella Striscia con diversi operatori che, come si può immaginare, stanno lavorando con molta difficoltà. E siamo presenti anche nella West Bank. Ora con questo nuovo impegno speriamo di ottenere al più presto la possibilità di fornire tutto il nostro supporto.
A chi è rivolto?
A piccoli allevatori e agricoltori. Siamo riusciti a preparare una trentina di camion di foraggio che speriamo di far entrare al più presto nella Striscia, perché, come abbiamo fatto notare nei nostri ultimi report c’è una agricoltura di sussistenza fatta di piccole esperienze agricole di carattere familiare che può essere fondamentale per l’aiuto in questa fase drammatica.
Il vostro sostegno quindi va oltre i pacchi alimentari?
Il nostro intervento è diretto a supportare, come detto, appunto, i sistemi agricoli alimentari locali perché non vengano completamente distrutti come è già successo ad esempio a Nord di Gaza. Si darebbe un colpo devastante alla sicurezza alimentare di migliaia e migliaia di persone. Ci sono piccoli allevamenti e piccole coltivazioni che garantiscono la sussistenza di intere famiglie. Se vengono completamente distrutti come accaduto, vengono private migliaia e migliaia di persone di prodotti alimentari dignitosi. Oltre il 50% dei terreni agricoli nella striscia sono andati distrutti. I soli interventi umanitari ad esempio via aereo non sono assolutamente sufficienti. Serve un corridoio da Cipro.
Quale sarà il primo passo?
Dalla prima riunione è uscita l’idea di un tavolo permanente di coordinamento tecnico aperto dall’Italia a tutti coloro che sono desiderosi di dare il proprio contributo e che vedrà anche la nostra partecipazione come Fao. Abbiamo un piano di lavoro che punta a supportare circa 3mila agricoltori per un totale di 70mila persone. Fino ad oggi purtroppo per la drammaticità della situazione non siamo riusciti ad assicurare loro supporto. Tutto questo lavoro preparatorio che abbiamo fatto per trasportare in particolare nella Striscia acqua, vaccini per gli animali, foraggio per gli animali e strutture di servizio per questa piccola agricoltura di prossimità è stato impossibile da portare a termine. Noi speriamo e ci aspettiamo che ci possano essere rapidissimamente segnali che garantiscano l’entrata in sicurezza degli aiuti umanitari. Noi insieme a tanti altri chiediamo da tempo un cessate il fuoco che consenta la circolazione in sicurezza dentro la Striscia di tutti questi strumenti di intervento umanitario.
Il corridoio come inizio per costruire la pace?
Noi ce lo auguriamo. Il diritto al cibo è un diritto umano inalienabile e senza la pace non c’è nessuna possibilità di diritto al cibo. È importante quindi creare il presupposto perché possa essere esercitato questo diritto. Diversamente è impossibile».
MILIZIANI FILO UCRAINI ATTACCANO IN RUSSIA
La guerra in Ucraina. Azioni di guerriglia delle legioni russe anti Putin sul territorio di mosca. Il Cremlino nega ma a Kursk le scuole sono chiuse e a Belgorod vige la massima allerta. Sabato Angieri per il Manifesto.
«I miliziani russi filo-ucraini sono tornati. La Legione «Libertà per la Russia» e il Battaglione Siberiano hanno rivendicato nuovi attacchi in territorio russo. «Strapperemo la nostra terra al regime centimetro per centimetro» hanno scritto su Telegram e, nonostante in un primo momento le autorità di Mosca avessero negato, le scuole nella regione di Kursk hanno chiuso e nella confinante regione di Belgorod vige la massima allerta. Contemporaneamente le forze armate ucraine hanno lanciato il più massiccio attacco di droni in territorio russo da mesi colpendo diverse regioni e danneggiando un’importante raffineria petrolifera. Ad aggravare un giorno nero per le difese aree russe, un aereo militare con 15 persone a bordo si è schiantato al suolo nella regione di Ivanovo per cause ancora da chiarire e un caccia militare russo Su-27 sarebbe stato abbattuto nei cieli di Belgorod. Il Ministero della Difesa di Mosca ha dichiarato che «formazioni terroristiche» ucraine sostenute da carri armati e veicoli corazzati hanno tentato di invadere in tre direzioni separate la regione russa di Belgorod la scorsa notte, intorno alle 3 del mattino. Altri quattro attacchi di «gruppi di sabotaggio e ricognizione» ucraini «sono stati respinti» intorno alle 8 nella regione russa di Kursk. Tuttavia, la Legione in mattinata ha dichiarato di aver preso il controllo totale del villaggio di Tetkino, nella regione di Kursk, e l’Rdk ha pubblicato video (non verificati) di soldati russi in fuga. La responsabilità dei raid è stata rivendicata dalla Legione «Libertà della Russia» e dal Battaglione Siberiano. Lo scorso 23 maggio, la Legione era stata protagonista di un’azione eclatante oltreconfine con l’ausilio del Corpo dei volontari russi (Rdk), un gruppo guidato dal noto estremista di destra russo Denis Kasputin. Nell’operazione di ieri, meno riuscita di quella dell’anno scorso, la comunicazione delle formazioni coinvolte ha inoltre posto l’accento sulle imminenti elezioni presidenziali russe, scrivendo su internet «il popolo voterà per chi vuole, non per chi deve. I russi vivranno liberamente» e «facciamo appello agli abitanti della Federazione Russa affinché ignorino le elezioni. Le schede elettorali e i seggi elettorali in questo caso sono una finzione». Il Cremlino ha sempre definito queste formazioni come «burattini di Kiev» e della Cia, che secondo Mosca sta cercando di fomentare il caos in Russia. Andriy Yusov, portavoce dell’intelligence militare ucraina, ha tuttavia sottolineato a Channel 24 che «i gruppi stavano conducendo l’operazione in territorio russo indipendentemente dall’Ucraina» e che anche il Corpo dei volontari russi ha partecipato all’operazione. Al momento non disponiamo di dati affidabili sul numero di caduti nei due schieramenti e su eventuali obiettivi colpiti. Nelle stesse ore i droni e i missili ucraini erano in volo verso obiettivi in territorio russo. Mosca ha dichiarato di aver abbattuto 25 droni ucraini in diverse regioni russe, tra cui Mosca, Leningrado, Belgorod, Kursk, Bryansk, Tula e Orel ma sono stati segnalati molti altri attacchi. Intervistato su questi attacchi e sugli incidenti al confine, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha dichiarato: «I nostri militari stanno facendo tutto il necessario, i sistemi di difesa aerea funzionano». Ad ogni modo, non hanno funzionato molto bene nella regione di Nizhny Novgorod, dove lo stesso governatore locale, Gleb Nikitin, ha pubblicato una foto della raffineria Norsi della Lukoil in fiamme. Secondo alcune fonti anonime dell’agenzia di stampa Reuters, la principale unità di distillazione del greggio della Norsi è stata danneggiata nell’attacco, «il che significa che almeno metà della produzione della raffineria è bloccata». Lukoil non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Si noti che la Norsi raffina circa 15,8 milioni di tonnellate di greggio russo all'anno, pari al 5,8% del greggio raffinato in Russia in totale. Altri canali russi hanno riferito di un drone nemico distrutto alla periferia della città di Kirishi, sede della seconda più grande raffineria di petrolio della Russia. Rispetto agli aerei dell’aeronautica russa precipitati, il ministero della Difesa ha dichiarato che nel caso del cargo Il-76 la causa sarebbe un incendio scoppiato nel motore durante il decollo e i morti sarebbero 8 membri dell’equipaggio e 7 passeggeri. Sul Sukoi che figura in alcuni video diffusi ieri, invece, i servizi ucraini stanno «ancora verificando» e Mosca non ha commentato».
“IL POTERE SI CONTENDE CON LE ARMI”
Marta Serafini per il Corriere intervista un vice comandante della legione “Russia Libera”.
«Per i russi è un estremista e un nazista traditore della patria. Per i suoi seguaci è il liberatore della Russia. Maximilian Andronikov (alias Cesar) è il vicecomandante della legione Russia Libera che conduce incursioni dal territorio ucraino in quello russo e che ieri avrebbe avviato un’operazione su Belgorod e Kursk, come annunciato in un video apparso in rete. Ha risposto al Corriere via messaggio.
Chi è lei prima di diventare un miliziano?
«Ho 49 anni, sono nato a Sochi. Negli ultimi 20 anni ho vissuto a San Pietroburgo, sono laureato in pedagogia, ho lavorato come istruttore di palestra e fisioterapista. Sono sposato e ho 4 figli».
L’accusano di essere un estremista di destra...
«Sono piuttosto conservatore. I miei valori sono la democrazia e la libertà, e sono pronto a lottare per essi. Non sono un uomo sovietico, sono russo e cristiano. Sono un oppositore del regime di Putin. Credo che lo si possa combattere solo con metodi radicali. All’inizio della scorsa estate ero già in Ucraina, e all’inizio dell’autunno eravamo al fronte».
Dicono che ci siano molti prigionieri di guerra russi nella legione...
«È un fake di propaganda diffuso dal Cremlino. I primi legionari erano militari dell’esercito russo che avevano deciso di passare dalla parte dell’Ucraina. Nessuno di noi è costretto a combattere».
Crede davvero di rappresentare una seria minaccia per il Cremlino?
«Non sono naïf. Ma sono abbastanza realista da sapere che il potere in Russia può essere cambiato solo con le armi».
Avete condotto incursioni sul territorio della regione di Belgorod e di Kursk. Come si è comportata la popolazione?
«Quei pochi che abbiamo incontrato non hanno mostrato alcuna aggressività nei nostri confronti, si sono comportati in modo neutrale o amichevole. Li abbiamo protetti dagli attacchi lanciati dai russi».».
KHODORKOVSKY: “SOGNO UNA RUSSIA NON AGGRESSIVA”
Parla da Londra Mikhail Khodorkovsky, l’ex oligarca diventato arci-nemico dello zar del Cremlino nonché principale animatore dell’opposizione russa in esilio. L’Occidente punti sull’illegittimità di Vladimir Putin. Luigi Ippolito per il Corriere.
«Dichiarare Vladimir Putin presidente illegittimo e non riconoscere le imminenti elezioni presidenziali in Russia: è l’obiettivo della campagna lanciata ieri da Mikhail Khodorkovsky, l’ex oligarca diventato arci-nemico dello zar del Cremlino nonché principale animatore dell’opposizione russa in esilio. Khodorkovsky ha parlato ieri sera da un’aula del Parlamento di Westminster, dove è stato presentato il rapporto, redatto dalla Henry Jackson Society (un think tank neoconservatore) in cui si delinea la strategia per privare Putin della legittimità cui agogna. «La società russa guarda all’Occidente con attenzione - spiega Khodorkovsky — e il fatto che l’Occidente ha riconosciuto le elezioni del 2017 ha fortemente stabilizzato il regime di Putin». Ma sarebbe un errore, secondo l’ex oligarca, pensare che la Russia collasserebbe se Putin andasse via o che il risultato immediato sarebbe una Russia democratica. Qual è dunque l'obiettivo da perseguire? «Una Russia non aggressiva — sostiene Khodorkovsky — una Russia che non cerca un nemico esterno. E perché la Russia cerca un nemico esterno? Perché un sistema altamente centralizzato ne ha bisogno: perciò il nostro obiettivo deve essere la federalizzazione della Russia. Come la dichiarazione che il regime di Putin è illegale può aiutare a questo scopo? Un suo successore dovrà ottenere legittimità dalle regioni, il che implica la federalizzazione: e questo risulterà nel non cercare più un nemico esterno». L’opposizione russa, ammette l’ex oligarca. è divisa al suo interno fra democratici, comunisti e nazionalisti: e per i democratici come lui sarebbe strano cercare una collaborazione con le altre due fazioni. E anche se i gruppi democratici spesso litigano fra di loro, «tutti sono d’accordo sulla non legittimità di Putin». Cosa può fare dunque l’Occidente? «Innanzitutto smetterla di cercare un leader per la Russia. In Occidente hanno questa mania: prima gli piaceva Gorbaciov, poi gli piaceva Eltsin, poi gli piaceva Putin. Ma si arriva sempre alla stessa conclusione: per un sistema centralizzato ci sarà sempre la ricerca di un nemico esterno, perché è l’unico modo per sopravvivere. Cosa bisognerebbe fare è cambiare il sistema, ma per farlo abbiamo bisogno di alcuni strumenti: l’illegittimità di Putin non è un grande, ma almeno è un utile strumento». Questo però, secondo Khodorkovsky, non significa tagliare tutti i canali di comunicazione col Cremlino: «Dichiarare Putin illegittimo e avere colloqui con lui sono due cose diverse — fa notare —: quando dei banditi prendono degli ostaggi si negozia con loro, ma comunque li si considera illegittimi». Nel frattempo, occorre fare pressione sulla società russa attraverso quella che Khodorkovsky chiama «contro-propaganda»: bisogna innanzitutto spiegare che «il collasso e la disgregazione della Russia non sono l’obiettivo dell’Occidente». Lo sforzo di contropropaganda è importante, perché in Russia c’è già un 17% della popolazione che vorrebbe fermare la guerra e restituire i territori all’Ucraina, mentre quelli che vogliono semplicemente fermare la guerra sono il 52%: «Ma li si può spostare a poco a poco», confida Khodorkovsky. I promotori della campagna sottolineano anche che dichiarare Putin illegittimo aiuterebbe a canalizzare un maggior aiuto verso l’Ucraina e verso gli Stati confinanti con la Russia, come ad esempio la Moldavia: ma soprattutto manderebbe un forte messaggio alle élite russe, con le quali bisogna parlare per staccarle dal Cremlino. Il passo successivo dovrebbe essere l’elezione di un Consiglio in Esilio della diaspora russa, che dovrebbe essere riconosciuto come la legittima entità statale della Russia. E la speranza, a Londra, è che il governo britannico si faccia ancora una volta capofila di questa azione».
GIRO: “I PAPI NON SI SCHIERANO E IL MONDO LI ATTACCA”
Mario Giro per il Domani torna a difendere la posizione di papa Francesco per la pace e il negoziato.
«Le parole di papa Francesco hanno provocato reazioni a non finire. Non diversamente andò per la nota di Benedetto XV che nel 1917 fece un appello per la cessazione delle ostilità e definì la Grande guerra “inutile strage”. Anche all’epoca le reazioni furono negative e i giornali francesi lo definirono “le pape boche” (il papa crucco) o “Pilato XV”. Ma i papi non si schierano, né chiamano alla resa di una parte rispetto all’altra: chiedono sempre e soltanto la cessazione delle ostilità e che si torni a parlare. Il gesto di coraggio che Francesco domanda agli ucraini è di iniziare a parlare finché si è in tempo, senza porre condizioni. Ciò ha un costo, soprattutto per gli ucraini, ma la pace vale di più. Per il papa pace non fa rima con vittoria: la guerra è inutile e la pace non dipende solo dall’avversario, anche se è l’aggressore. Lungo il XX° secolo è cresciuta nel papato di Roma l’avversità teologica e pastorale per la guerra, al punto da dichiarare che non esiste “guerra giusta”. Scandalizzarsi delle parole di Francesco significa non conoscere la storia della visione del papato romano sulla guerra: ogni conflitto è considerato sempre una guerra civile, e per ciò stesso una situazione impossibile per la Chiesa. Il papa chiede il coraggio di negoziare, e ciò suona scandaloso, controcorrente alla mentalità dominante tutta basata su guerra a oltranza rivolta a un’illusoria vittoria. In tale corsa feroce che dissangua i popoli, la differenza tra aggressore e aggredito stinge dietro la cortina di fumo della retorica guerriera. La Russia, che ha la responsabilità primaria del conflitto, sta attirando l’occidente in un gorgo infinito di risentimento e odio. Chi parla per i morti, per le vittime civili, per chi morirà molto presto? Se lo chiede Domenico Quirico sostenendo che «era ora che qualcuno prendesse la parola per i morti, quelli già spazzati via e quelli che verranno». Non si tratta di utopia pacifista: il papa sente il rischio reale che si avvicini il punto di rottura della difesa ucraina. Meglio negoziare finché si è in tempo. Significa resa? No: significa prudente e lucido calcolo prima di perdere tutto. Quale leader occidentale ha ammesso i propri sbagli quando ha consigliato agli ucraini di non negoziare? Ipocrita dire ora che sono loro a dover decidere... O quale dirigente ha riconosciuto di aver fallito preannunciando una rapida vittoria? È forse venuta l’ora di dire la verità e di uscire dall’equivoco: la vittoria non è l’unica soluzione per ottenere la pace, ci sono possibilità intermedie. Il pericolo è tutto per gli ucraini che si stanno dissanguando senza che si veda la fine di tale massacro. La Russia ha tempo e risorse (umane e materiali) in abbondanza: ha riconvertito la propria economia e si è adattata. Occorre poi che qualcuno parli anche per i russi: non per Putin o per i suoi oligarchi, ma per il popolo russo, i cui figli vanno a morire senza spiegazioni. Il papa parla anche per i russi senza diritto di parola, sottoposti al giogo della retorica patriottarda e dell’autoritarismo. Parla per quelle madri e quelle donne russe coraggiose che vanno a mettere un fiore sulla tomba di Navalny rischiando il carcere. Papa Francesco si sgola da due anni contro questa guerra assurda a protezione dell’Ucraina. Ora usa parole ancora più forti per risvegliare le nostre coscienze. Qualcuno sospetta che sia antioccidentale o antiamericano. Si tratta di una lettura superficiale e sbagliata, ma c’è un aspetto da tener presente: il papa non si fida dei potenti che incitano alla guerra e poi abbandonano chi combatte al proprio destino. È la storia dell’Afghanistan ma anche di tanti altri Paesi. Lo sappiamo bene noi occidentali: chi ha chiesto scusa per le menzogne della guerra in Iraq? O per ciò che è accaduto a Kabul? Non si è riusciti a chiudere nemmeno la questione della Bosnia e del Kosovo, per non parlare dell’Armenia cristiana abbandonata perché nessuno osa dire nulla a Baku. Ciò significa forse che il papa preferisce il regime della Russia di Putin? No di certo, ma a quel regime non si può chiedere nessuna verità, mentre alle democrazie sì che si può. La conclusione è forse che tutte le colpe sono degli occidentali? No davvero, ma è il proprio delle democrazie interrogarsi e parlare senza infingimenti. Il papa scuote la coscienza dell’occidente. Come scrive Andrea Riccardi: «Il discorso della bandiera bianca ha rotto un po’ il linguaggio stanco e conformista degli ultimi tempi». Il papa teme che gli ucraini siano prima o poi abbandonati, e sappiamo di quanto è capace l’egoismo occidentale. Troppe sono state le delusioni per credere alla retorica della vittoria rapida e della guerra giusta. Con le parole ruvide della profezia, il papa ha spezzato un tabù: quello dell’ossequio conformista alla retorica bellica. È il suo modo di resistere al fondo pagano dell’uomo che sorge nuovamente dalle profondità della storia e pretende sacrifici umani. Basta riascoltare i testimoni delle nostre guerre del passato per rammentarlo: è la coscienza del “never again!”. Che nessuno si stupisca allora se il papa si oppone: meglio la bandiera bianca che quella intrisa del sangue degli innocenti».
NAHUM LASCIA IL PD. TROPPI PARLANO DI “GENOCIDIO”
Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano eletto col Pd, ha deciso di lasciare i Dem con un clamoroso atto d’accusa sui comportamenti e le parole dei compagni di partito. L’intervista è del Giornale.
«Un addio pesante il suo. Daniele Nahum è stato vicepresidente della Comunità ebraica di Milano e presidente dei Giovani ebrei italiani. Oggi è fra i pochissimi esponenti del mondo ebraico nelle istituzioni (fra Camere ed enti locali). Consigliere a Milano, eletto col Pd, ha deciso di lasciarlo con un clamoroso atto d’accusa sulle sue ambiguità.
Nahum, la sua decisione è stata improvvisa?
«No, l’ho comunicato all’ultimo per evitare il giro di telefonate dei “rimani”, ma è stata meditata. Da quando è iniziata tutta questa “cagnara” delle manifestazioni».
I cortei o l’evento anti-Israele dei Giovani?
«Entrambe le cose. A livello nazionale nessuno li ha redarguiti, e parliamo di esponenti importanti del giovanile, che hanno partecipato a manifestazioni in cui si urlava “Palestina dal fiume al mare”. Nessuno ha detto: “Se andate è un problema”. Io da segretario io li avrei “ribaltati” al telefono, dicendo pubblicamente: “Se andate siete fuori”».
Un corteo anche nel Giorno della memoria.
«Pensi che io sono andato alla presentazione di un bellissimo libro sulla Shoah, protetta da non so quanti agenti, che non finirò mai di ringraziare. Vi pare normale come clima?».
Che clima è?
«Pessimo. Eppure sembro io il rompicoglioni, per cose da matti, allucinanti, come quel convegno dei giovani in cui si parlava di apartheid e colonialismo. Io ho fatto quel casino e lo hanno spostato. Ma hanno sputtanato tutto il lavoro fatto, non da me, ma da Napolitano, Fassino e altri, sui rapporti fra sinistra e Israele. Fassino mi ha telefonato».
Importante. Anche altri?
«Pinotti, Fiano, Quartapelle, Maran...molti messaggi».
Le hanno scritto dei leader nazionali.
«Non Elly Schlein».
Nel Pd non sarà il solo a pensare queste cose.
«Sono l’unico a dirle. C’è disagio vero. Per me questa cosa ha a che fare con un fatto anche d’identità e non ne potevo davvero più».
Il suo caso ricorda quello recente di un’altra personalità importante a Milano: Roberto Cenati, presidente dell’Anpi che si è dimesso. Ha inciso?
«Avevo già deciso ma certo tutto fa parte di un clima. È preoccupante il clima nell’Anpi, e nel sindacato che parla di genocidio».
Lei non è certo un «falco», cosa chiede?
«Io? Un cessate il fuoco contestuale al rilascio degli ostaggi israeliani. Sono per la linea di due popoli due Stati. Aggiungerei “due democrazie”. Ma si vedono solo le ragioni dei palestinesi. Non si parla mai della mancata accettazione, da parte dei Paesi arabi, di Israele».
E c’è il grande alibi globale di Bibi Netanyahu.
«Un alibi sì. Io lo considero una iattura per carità, però sta dentro uno schema democratico, di pluralismo, di pesi e contrappesi».
A sinistra, se va bene, dicono che è come Hamas.
«Hamas vuole lo sterminio degli ebrei. Il problema è la sua natura totalitaria. Netanyahu non ci piace? Ok, va male nei sondaggi, non sarà più premier. In Israele il terzo partito è il partito arabo. Di che parliamo?».
Non esiste il genocidio?
«Assolutamente no. Non c’è alcuna volontà di sterminare il popolo palestinese. C’è un’operazione militare che si può contestare, ma l’uso di questa parola sta scatenando un’ondata antisemita allucinate. Sionismo razzismo? Attenzione, il clima ricorda l’82, con le bare lasciate davanti alle sinagoghe. L’antisemitismo di destra sono quattro smandrappati, macchiette che alzano il braccio. Li condanno finché ho voce ma sono meno e meno infiltranti di quelli che dicono “sionismo=nazismo”. È molto più preoccupante l’antisemitismo di sinistra».
Il tema del riformismo del Pd è legato a questo?
«Molto. Penso che il riformismo sia esaurito e che non torni con posizioni per cui il principale alleato è Conte, che vuole abbandonare gli ucraini. Un alleato del genere non lo vorrei. I 5 Stelle sono populisti. Il tema è costruire una forza riformista».
Senza la quale la sinistra al governo non torna.
«Certo. Lavorerò su questo. Con i cortei di quel tipo prendi consensi personali in città e poi perdi le elezioni. Le politiche le vinci coi voti di chi aveva scelto gli altri. L’elettorato si sposta. Se dimentichi partita iva e imprese le regali agli altri. Il nostro blocco sociale qual è? Elettorato benestante della Ztl? Per le Politiche e per Milano, non so se basterà».
CAMPO LARGO, C’È IL NODO BASILICATA
Dopo la bocciatura di Angelo Chiorazzo da parte di Giuseppe Conte, in Basilicata l’intesa è a rischio. Il campo largo aveva quasi trovato l’accordo, ma Azione di Carlo Calenda (non avvisata e non coinvolta) medita un blitz. Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Elly Schlein insiste: «Uniti si vince o si perde, ma divisi non si gioca proprio la partita. E io preferisco avere perso con una coalizione unita perché non abbiamo preso abbastanza voti, piuttosto che perdere per le divisioni nel campo delle opposizioni». Dopo la sconfitta in Abruzzo, però, il futuro del campo largo non è roseo. Come si arguisce chiaramente dallo sfogo del leader di Azione Carlo Calenda: «Ne ho piene le balle di questo campo», sbotta l’ex ministro. E adesso, in Basilicata, l’intesa tra tutti i partiti dell’opposizione appare improbabile. Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno cercato di trovare la quadra — tra di loro e con Angelo Chiorazzo, candidato formalmente ancora in campo — su un nome che vada bene a tutti e tre. È stato individuato quello di Nicola Valluzzi, sindaco di Castelmezzano ed ex esponente del Partito democratico. La sua è una candidatura che ha il via libera dei dem, dei 5 Stelle e di Chiorazzo medesimo, visto che Valluzzi è un fedelissimo dell’imprenditore di Senise di cui ha sostenuto la discesa in campo con il movimento cattolico «Basilicata casa comune». Tutto risolto? Giammai. Perché nell’ansia di trovare un accordo tra di loro, Pd e M5S non hanno consultato Azione, che, in Basilicata è guidata da Marcello Pittella, ex presidente di quella Regione. Un errore che adesso Conte e Schlein rischiano di pagare caro. Già, perché a questo punto Calenda medita di proporre a entrambi la candidatura di Pittella e, di fronte a un loro rifiuto (che si dà per scontato), Azione potrebbe rompere e decidere di appoggiare il governatore uscente, Vito Bardi, del centrodestra. Le parole pronunciate ieri da Matteo Richetti a Tagadà , su La 7, sono indicative in questo senso: «Un nome per far vincere le opposizioni ci sarebbe ed è quello di Pittella, ma nella coalizione che hanno in mente Schlein e Conte non è previsto che il candidato non sia di loro espressione». Se la partita finisse veramente così, con la rottura e l’appoggio di Azione a Bardi, giudicato da Calenda «un moderato», Pd e 5 Stelle rischierebbero di perdere anche queste elezioni regionali dopo quelle abruzzesi. E due sconfitte di seguito prima delle elezioni europee e amministrative non costituirebbero certo un buon viatico per Schlein e Conte. Tanto più che anche in Piemonte l’intesa di tutte le forze dell’opposizione si profila tutt’altro che facile. In quella regione, infatti, i 5 Stelle locali resistono all’intesa e Azione non ha ancora deciso se sostenere o meno l’attuale governatore della regione Alberto Cirio, di Forza Italia. Dunque, la situazione in Basilicata è a dir poco tesa. In molti, nel Partito democratico, ma anche nei 5 Stelle, imputano a Roberto Speranza le difficoltà attuali: «Pur di non candidarsi lui si è impuntato su Chiorazzo che non andava bene ai 5 Stelle e così ci siamo ritrovati in mezzo a questo delirio», sono i commenti degli esponenti locali del Pd e del M5S. Ma raccontano che anche al Nazareno non abbiano gradito l’atteggiamento dell’ex ministro della Salute. E a sera suonava alquanto surreale la dichiarazione di Chiorazzo: «L’accordo non c’è, non ci sta la sintesi, ma c’è un dialogo aperto». Tradotto: siamo in altissimo mare. E c’è chi sospetta che alla fine della festa quello di Valluzzi sia solo un nome da bruciare nella trattativa per tornare poi all’imprenditore di Senise. Chi ha sentito con le proprie orecchie Speranza ripetere ancora ieri sera che quella di Chiorazzo «è una candidatura autorevole» per la Basilicata, nutre proprio questo dubbio».
“LA COALIZIONE DEV’ESSERE GUIDATA DAL PD”
Parla Matteo Ricci, Sindaco di Pesaro. I 5 Stelle non devono avere come obiettivo la leadership e Calenda non può fare da stampella al centro destra. Adriana Logroscino sul Corriere.
«Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, componente della direzione nazionale del Pd, dalla sconfitta in Abruzzo trae una lezione: «Ancor di più la strada resta quella dell’unità del nuovo centrosinistra».
Sindaco Ricci, dopo la Sardegna, voi confidavate in un bis che confermasse la strategia del campo largo.
«Dopo la vittoria in Sardegna ci siamo buttati anima e corpo nella nuova competizione. Buon lavoro a Marsilio che ha vinto in maniera netta. Nonostante la sconfitta, però, vedo elementi positivi».
Quali?
«Noi siamo stati in campo fino all’ultimo secondo. E poi il Pd si è dimostrato in salute, crescendo nei consensi. Quindi il nuovo centrosinistra sarà a guida Pd.».
La sconfitta non mina il disegno dell’alleanza di tutte le forze di opposizione?
«Non credo. È stata l’alleanza larga a renderci competitivi in Abruzzo. Siamo 1 a 1. Si riparte dalla Basilicata».
Forse anche per effetto del risultato in Abruzzo, però, in Basilicata fate fatica a raggiungere la tanto inseguita unità. Speranza, ieri, ha ribadito il sostegno a Chiorazzo, sgradito ai Cinque Stelle.
«Io sono fiducioso. La strada è tracciata. Poi se qualcuno pensa di andare alle elezioni con Conte che parla male di Calenda e Calenda che dice no a Conte, e con tutti che se la prendono col Pd, esiste solo un orizzonte: Meloni continua a vincere. In Basilicata e nel Paese».
Ma Azione in Basilicata ora sembra più vicina al candidato di centrodestra Vito Bardi che all’alleanza con voi.
«Calenda sta facendo un buon lavoro, un’opposizione chiara, con noi, in Parlamento. Questo buon lavoro va fatto a tutti i livelli. Non c’è un’altra opzione rispetto all’alleanza larga di chi si oppone al governo Meloni. Poi se invece si vuol fare la stampella al centrodestra...».
Questa ultima osservazione non agevola il dialogo. Il suo è un sospetto?
«Nessun sospetto. Ma se si sostiene Bardi in Basilicata, si depotenzia l’azione comune contro il premierato, contro l’autonomia differenziata, per il salario minimo e per la sanità. Tutte battaglie in cui Azione è impegnata con noi. O siamo uniti e mostriamo agli elettori che siamo l’alternativa o favoriamo la vittoria delle destre. Sia chiaro a tutti che una terza via non c’è».
A giugno ci sono le Europee: il sistema proporzionale non esalterà le divisioni?
«Alle Europee serve una competizione collaborativa: ognuno per il suo simbolo e parallelamente insieme per mettere in difficoltà il governo e coltivare l’alternativa. Siamo diversi? Anche gli avversari lo sono. Ma poi alle elezioni — oltre alle Regioni ci sono migliaia di Comuni al voto — si resta uniti».
Il M5S in Abruzzo non è andato bene: non pensa che, più che collaborare, competerà?
«Il M5S lavorerà per farsi traino della coalizione. Il Pd farà lo stesso. L’errore sarebbe giocare a fregarci lo 0,5% l’un l’altro».
PIERSILVIO, TENTAZIONE PER LE EUROPEE
Pier Silvio Berlusconi apprezza il lavoro di Antonio Tajani. Ma dopo gli ultimi risultati di Forza Italia, che pare in risalita, organizza il ricordo tv del padre e guarda al prossimo voto delle Europee. Antonio Fraschilla per Repubblica.
«Una tentazione, sempre più forte, di avvicinarsi alla politica in un futuro prossimo. E nel frattempo un guardare al partito sempre più intenso e con «grande soddisfazione » assicura chi, e sono pochissimi, ha scambiato due chiacchiere con lui. «Certo è, che se fino a qualche mese fa Pier Silvio Berlusconi quando ci incontrava a noi di Forza Italia che lo conosciamo da anni ci diceva che per lui la politica era la cosa più lontana, ultimamente invece ci ha detto quanto è importante il partito per la famiglia, e per lui personalmente, come eredità politica del padre», dice un alto dirigente forzista che recentemente ha parlato con il figlio di Silvio Berlusconi. Nessuna intenzione di candidarsi in prima persona, al momento. Ma la tentazione, questo sì, di essere sempre più vicino al partito e al segretario Antonio Tajani: «Sta facendo un ottimo lavoro», ha sussurrato il figlio del fondatore ai suoi stretti collaboratori che hanno fatto arrivare «il verbo dell’amministratore delegato Mediaset» alle orecchie dei dirigenti azzurri. Pier Silvio guarda adesso con molta attenzione, assicurano da Cologno Monzese, al prossimo giugno: non solo per organizzare in grande stile sulle reti Mediaset il ricordo del padre nel primo anno dalla scomparsa, ma anche per vedere «l’effetto che fa» Forza Italia alle urne nelle Europee dell’8 e 9 giugno. Un atteggiamento molto diverso da quello della famiglia solo un anno fa, quando sul groppone si è trovata quasi 100 milioni di euro di fideiussioni firmate dal padre e ha stretto i cordoni della borsa verso un partito che veleggiava intorno al 6 per cento e sembrava destinato a restare la terza gamba, la più piccola e ininfluente, della coalizione di destracentro guidata da Giorgia Meloni. In casa Berlusconi, e in Pier Silvio soprattutto, il più tentato dalla politica rispetto alla sorella Marina che lo frena in qualsiasi “tentazione” di questo tipo, la possibilità di vedere un partito in crescita e che potrebbe superare anche la Lega, piace: perché consentirebbe un nuovo approccio nel rapporto con la premier. Una occasione per certi versi non prevista, da qui la voglia ritrovata di investire in Forza Italia e sostenere il lavoro di Tajani in vista delle Europee. E guardando al futuro tornano utili i sondaggi chiesti lo scorso anno da Pier Silvio sulla sua popolarità come imprenditore. In questi mesi lui, che ha sempre lesinato interviste e conferenze stampa, è più presente sui media: ha risposto a tutte le domande durante al conferenza stampa di presentazione dei palinsesti Mediaset, ha scritto una lettera finita sui giornali per ringraziare i dipendenti e farà altre uscite sulla stampa per parlare di Mediaset. Una inedita voglia comunicativa. Intanto proprio il segretario Tajani, dopo i buoni risultati in Sardegna e in Abruzzo, ha fissato la soglia per fare il salto di livello alle Europee che auspica anche Pier Silvio: «Siamo già al lavoro, oggi (ieri, ndr ) abbiamo la prima riunione sulle liste alle Europee e sulle regionali in Basilicata. Il nostro obiettivo è superare il 10 per cento alle Europee», dice il ministro degli Esteri, che sa di giocarsi una partita importante per diventare l’unico vero e forte riferimento della famiglia. Nonostante i dubbi di Fedele Confalonieri, che ha chiesto sostegno a Letizia Moratti, non a caso. Al momento Pier Silvio e Marina sono «molto contenti» per come stanno andando le cose. Dopo le Europee e il ricordo del padre che stanno preparando in grande stile si vedrà. Di certo Forza Italia oggi non è più il ramo secco degli asset di famiglia, soprattutto nella mente di Pier Silvio».
DOSSIERAGGIO. LE AUDIZIONI DELL’ANTIMAFIA
Da De Benedetti a Nordio, l’Antimafia ascolterà 50 persone sul dossieraggio illegale della Guardia di Finanza. Fabio Tonacci e Giuliano Foschini per Repubblica.
«Parlategli dei dossieraggi. A giudicare dalle dichiarazioni che gli esponenti di governo, Salvini in primis, continuano a rilasciare sull’indagine di Perugia, e ancor più dalla lenzuolata di convocazioni messe in calendario dalla Commissione parlamentare Antimafia (dai vertici delle forze dell’ordine ai giornalisti), il centrodestra sta seguendo una precisa strategia mediatica: parlare di dossieraggi. Di spionaggio ai danni dei loro politici e, dunque, di “mandanti”. In altre parole: tenere le presunte scorribande nei database del finanziere Pasquale Striano all’ordine del giorno, producendo rumore di fondo che vorrebbe anestetizzare gli scandali scoperti negli anni dalla stampa e incolpare l’opposizione. Solo in quest’ottica acquista un senso la lista di 50 e più nomi che i parlamentari hanno deciso di convocare alla Commissione Antimafia, dove, non più tardi di una settimana fa, erano stati sentiti il procuratore della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo e il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, titolare dell’inchiesta sugli accessi abusivi alle banche dati interrogate inserendo i nominativi dei potenti e dei vip. La richiesta di essere ascoltati era arrivata dai due magistrati, preoccupati, appunto, dal rischio di strumentalizzazione. Ora sono stati chiamati un po’ tutti, si farebbe prima a dire chi non hanno chiamato. Sfileranno davanti alla Commissione il comandante della Guardia di Finanza Andrea De Gennaro, il direttore della Dia Michele Carbone e il direttore dell’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia Enzo Serata. La loro audizione, decisa dall’ufficio della presidente Chiara Colosimo sentiti i gruppi, è stata calendarizzata. Ma nell’elenco, senza ancora una data, ci sono anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio e quello della Difesa Guido Crosetto, dal cui esposto due anni fa è nata l’indagine sulla fuga di notizie, finita a Perugia per il coinvolgimento del pm Antonio Laudiati. E ancora: saranno ascoltati non meglio precisati rappresentanti della procura di Roma, dell’Ordine dei Giornalisti, della Federazione nazionale della stampa, del Garante Privacy e di Sogei, la società di informatica controllata dall’Economia. Nella lista figurano anche Emiliano Fittipaldi e Carlo De Benedetti, il direttore e l’editore del Domani , il quotidiano che ha pubblicato molti dei documenti di natura finanziaria su politici e uomini di governo, secondo gli inquirenti frutto delle ricerche illegali di Striano. Tre giornalisti del Domani sono indagati: la Lega voleva convocare anche loro, insieme con gli altri indagati, ma Colosimo ha deciso che, a fascicolo aperto, era davvero troppo. Cosa la Commissione Antimafia si aspetta da queste audizioni non si capisce, anche perché nessuno dei convocati ha conoscenza diretta delle indagini in corso. Né potrebbero violare il segreto istruttorio. Sembra piuttosto un modo per riesumare informalmente la commissione d’inchiesta sul caso Striano, voluta da Nordio ma bocciata da Giorgia Meloni. «Lasciamo lavorare la Commissione Antimafia, poi vedremo se servono altri strumenti», è la linea della premier. La sfilata di personalità e vertici di apparati un effetto lo avrà in ogni caso: si parlerà ancora, per tanto, di «dossieraggi ai danni del centro-destra».
TASSE E STATO SECONDO MELONI
La premier Giorgia Meloni a Bolzano e Trento rivendica i successi economici del governo in vista delle elezioni europee di giugno. E lancia una nuova deregulation: “Ricordiamoci che non è lo Stato a produrre ricchezza. Se vessa il cittadino è visto come un nemico”. Giampaolo Visetti per Repubblica.
«Non si disturba chi produce ricchezza. Uno Stato che vessa, che è visto come nemico, che non collabora quando ti vede in difficoltà, è uno Stato di cui è più difficile fidarsi». Giorgia Meloni toglie l’allarmato elmetto operaio pre-voto in Abruzzo e calza il compiaciuto tocco liberal post-vittoria marsicana. Con Salvini ormai nell’angolo e Tajani da marcare per scongiurare terremoti di coalizione, la premier risfodera così il vecchio vocabolario berlusconiano. Non si spinge fino a promettere di non “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”, ma sceglie il profondo Nordest di Pil e disoccupazione norvegesi per lanciare il suo manifesto della deregulation economica e fiscale. Trento e Bolzano non sono un caso. Le due efficienti province autonome, culla dell’autonomia degasperiana generatrice della Ue, sono i luoghi ideali per lanciare la personale volata verso le elezioni europee di giugno. Qui l’accordo Svp-FI per rieleggere il parlamentare europeo Dorfmann, benedetto dalla stessa Meloni, è già chiuso. «Il governo sta attuando la riforma sul fisco con un nuovo approccio — rivendica la presidente del Consiglio — ed è anche grazie a questo se nel 2023 abbiamo avuto il record di recupero dell’evasione fiscale, ma con un aumento del gettito da 26 miliardi». In Trentino, provincia guidata dalla Lega, si permette invece un’entrata a gamba tesa sui temi più cari a Salvini: «Una nazione seria — scandisce davanti al governatore Maurizio Fugatti — deve ricordarsi che non è lo Stato che produce ricchezza, ma le aziende con i loro lavoratori. Lo Stato deve solo metterle nella condizione di farlo al meglio». La svolta economica da bocconiana leader moderata, al giro della quattordicesima tappa del tour regionale per firmare gli accordi per lo sviluppo e la coesione, ora che le ansie post Sardegna sono alle spalle, riemerge ad ogni passaggio. Appena toccati, e solo su domande dirette, i temi di rovente attualità: dalla commissione parlamentare sul presunto dossieraggio («lasciamo lavorare l’Antimafia prima di valutare se c’è bisogno di qualcos’altro») al generale Vannacci capolista in pectore di Salvini per le Europee (liquidato con un laconico «non è un problema»). Sulle Dolomiti, dove per la prima volta dalla caduta del fascismo la destra di FdI è in entrambi i governi locali e piazza due vicepresidenti, soffia già il vento del 9 giugno. La premier punta così dritto sulla rivendicazione di quelli che definisce «i record economici dell’Italia ». Dalla crescita del Pil passa «all’aumentato potere d’acquisto delle famiglie», dai fondi liberati dal Pnrr salta sui «dati macroeconomici incoraggianti che fotografano la solidità dell’Italia». «A fronte di 10 miliardi di titoli di Stato disponibili — dice tra gli applausi degli imprenditori sudtirolesi di lingua tedesca — i mercati esteri ne hanno chiesti 155. I Btp Valore in tre emissioni hanno raggiunto il primato di 53 miliardi. Gli italiani hanno di nuovo fiducia nel proprio Paese: l’obiettivo, per non dipendere dagli stranieri, è rimettere il più possibile il debito pubblico n elle mani italiane». Un ritratto di nazione-paradiso, tutta successi e ottimismo. «Anche sul Pnrr — esulta a Trento — l’Italia è un modello. Siamo i primi in Europa ad aver richiesto la quinta rata, soldi non ne abbiamo persi e tra lo scetticismo di molti abbiamo strappato alla Ue la rinegoziazione perché il contesto è mutato». Exploit anche sui fondi di coesione. «Una volta al governo — trasecola attaccando le Regioni definite irresponsabili — abbiamo scoperto che di 126 miliardi ne erano stati spesi solo 47. Mi chiedo come sia possibile rinunciare a spendere risorse fondamentali». Fra Trento e Bolzano è come sfondare una porta aperta. La diligenza autonoma incassa da Roma circa 200 milioni per scuole e viabilità. I soldi li spende e li rendiconta «in anticipo e al centesimo » e il governatore altoatesino Arno Kompatscher osa addirittura scherzare: «Se agli altri ne avanzano — ride — noi siamo qui». Le grane, tutte alla fine. Meloni ammette che il dossier Tim «è molto complesso» e assicura che al nuovo Statuto d’autonomia «sta lavorando Calderoli secondo i patti». Contestata la giunta altoatesina Svp-FdI? «Io sono cintura nera di contestazioni — chiude la premier — ma i governi nascono dai risultati elettorali». Non cita il 9 giugno, ma con la testa è già a Bruxelles».
EREDITÀ AGNELLI, UN TESORO NEL DELAWARE
Eredità Agnelli: un altro trust degli Elkann è nel Delaware. Tre documenti rinvenuti nello studio Ferrero (datati 2020-21-22) rivelano la offshore legata alla Tremaco, il cuore della cassaforte in Liechtenstein. Ettore Boffano e Marco Grasso per Il Fatto.
«La caccia al tesoro offshore degli Agnelli porta gli inquirenti nello Stato americano del Delaware, fra i paradisi fiscali più discreti al mondo. Qui ha sede la “Kan texo Inc.”, nome finora mai pervenuto in questa storia, che potrebbe avere in pancia investimenti esteri. La Kantexo è saltata fuori dalle perquisizioni della Guardia di Finanza nello studio di Gianluca Ferrero, il commercialista di famiglia indagato insieme a John Elkann per la frode fiscale sulla residenza svizzera della nonna Marella. Questa società potrebbe ricondurre ancora una volta gli inquirenti in Europa, nel cuore più segreto della cassaforte degli Agnelli: il Liechtenstein. Nel suo studio Ferrero conservava tre cartelline intitolate “Kantexo” e il riferimento a tre annualità: 2020, 2021, 2022. I documenti sono stati acquisiti dai finanzieri del nucleo di polizia economico e finanziaria di Torino insieme a una quarta cartellina, denominata “Dancing Tree Ag 2020”. La Dancing Tree, con la Blue Dragons, è una delle due società spuntate fuori nell’ormai nota integrazione alla dichiarazione dei redditi di John Elkann alla fine di ottobre del 2023. Siamo agli albori dell’inchiesta torinese, che ipotizza un’articolata evasione fiscale ai danni del Fisco italiano, a cui gli Agnelli avrebbero nascosto un gigantesco patrimonio offshore. Pochi mesi prima, a luglio del 2023, la Finanza era andata a rovistare nella sede torinese di P fiduciaria, collegata alla banca svizzera Pictet. Durante l’ispezione, i militari scovano le due fiduciarie riconducibili a John Elkann; le stesse che pochi mesi dopo, quindi solo dopo la visita delle Fiamme Gialle, Elkann “integra” al 730 nella sezione dedicata ai redditi esteri. Blue Dragons e Dancing Tree hanno in comune la sede: entrambe sono gestite dal family office Tremaco, al numero 91 di Essanestrasse, a Eschen, un paesino di 4 mila abitanti del Liechtenstein, una piccola isola del tesoro che porta a conti nei paradisi fiscali di mezzo mondo. Tremaco è il nodo cruciale di questa indagine, perché qui sembrano darsi appuntamento molte società offshore riconducibili alla famiglia Agnelli. Qui era domiciliata la Bundeena Consulting, fiduciaria delle British Virgin Islands che aveva in pancia 900 milioni di dollari e come beneficiaria Marella Caracciolo. Gli investigatori italiani notano che dopo la morte di Marella, nel 2019, un patrimonio simile, 734 milioni di euro, riemerge nella disponibilità dei tre nipoti, John, Lapo e Ginevra Elkann, soldi che la Procura ritiene un’eredità transitata estero su estero. A Tremaco sembra collegata anche Kantexo, la società del Delaware: direttore e presidente di Kantexo è Daniel Tschikof, un avvocato del Principato; direttrice e segretaria è Waltraud Beltrams, funzionaria di Tremaco. In Tremaco, creata nel 2004, si incrociano protagonisti della saga Agnelli di oggi e di ieri. La fiduciaria ha due direttori: Johannes Matt, il fondatore, e Christian Bolleter; i due nel 2014 hanno dato vita insieme a una società di gestione, Fidares Asset Management, entrata poi nell’orbita di Tremaco. Matt è quello che nel gergo della finanza viene definito il classico “gnomo di Vaduz”: un professionista che presta il suo nome a decine di fiduciarie offshore, che custodiscono i segreti finanziari di mezzo mondo. Il suo nome è comparso nei Panama Papers e, pur senza essere indagato, è stato sfiorato da più di uno scandalo. Bolleter è l’anello di congiunzione con la saga degli Agnelli: per anni è stato un fidato collaboratore di Siegfried Maron, lo storico amministratore dei conti esteri di Gianni Agnelli; Bolleter e Maron sono stati soci nella Dragon consulting, che prima di essere chiusa nel 2017, ha amministrato la Fima, una delle società estere riconducibili alla famiglia torinese. Maron è stato amministratore di Exor Group e del vecchio family office di Ginevra, che attraverso le due fiduciarie Sadeco e Sacofint, operava su conti Morgan Stanley. Successivamente diventa uno dei quattro “protectors” (gli altri sono l’avvocato Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e lo stesso Gianni Agnelli) della fondazione Alkyone, una sorta di salvadanaio di casa Agnelli: in caso di morte dell’Avvocato, i tre protector erano vincolati dallo statuto ad agire nell’interesse della moglie Marella. Tutte queste cose, erano una sorta di segreto di famiglia che Margherita Agnelli, figlia di Gianni e Marella, scopre solo grazie a indagini private condotte dopo la morte del padre: a suo dire sarebbe stata ingannata e indotta a firmare un accordo ereditario in cui le avrebbero nascosto i soldi offshore. Le indagini torinesi partono da un suo esposto e mirano a un altro obiettivo: se la famiglia ha celato dei soldi a Margherita, li ha sottratti anche all’imposizione fiscale italiana. Molti di questi intrecci potrebbero sembrare archeologia, ma Alkyone (il nome deriva dalla casa di St. Moritz dell’Avvocato), è riapparsa in una lista di “47 documenti” su società offshore relativi alla causa svizzera intentata da Margherita, sequestrati dalla Finanza nel caveau della villa torinese di John Elkann».
MURO BIPARTISAN PER TENERE STELLANTIS IN ITALIA
L’obiettivo è di produrre un milione di automobili in Italia e c’è un muro bipartisan per ottenere il risultato. Maggioranza e opposizione d’accordo contro la delocalizzazione dei siti di Stellantis. Pierluigi Bonora per il Giornale.
«Sul fatto che il governo si debba adoperare «affinché Stellantis mantenga in Italia non solo la produzione, ma anche i settori di progettazione», maggioranza e opposizione si trovano sulla stessa lunghezza d’onda. No unanime, dunque, a possibili delocalizzazioni. L’ipotesi era stata fatta balenare tempo fa, tirando in ballo gli impianti di Mirafiori e Pomigliano d’Arco, dall’ad Carlos Tavares nel momento di massima tensione con l’esecutivo. Sul tavolo la richiesta, da parte del gruppo, di congrui sussidi per lo sviluppo della mobilità elettrica. La risposta del ministro Adolfo Urso: il Governo supporterà solo le produzioni in Italia che dovranno tornare oltre un milione di unità l’anno. «Quando l’attenzione si sposta su problemi concreti, i pensieri rigidi legati a posizioni ideologiche e faziose vengono meno, ed è quindi facile trovare una condivisione in aula. Nell’interesse del Paese, inoltre, non penso ci sia qualcuno che si opponga a contrastare possibili fenomeni di delocalizzazione», dichiara al Giornale Luca Squeri, capogruppo di Forza Italia alla Commissione attività produttive della Camera e responsabile del Dipartimento energia. A Montecitorio, ieri, era in programma la discussione sulla mozione della maggioranza, poi approvata, riguardante le iniziative utili al rilancio del settore automotive (quasi 300 miliardi di fatturato nel suo complesso, il 18,1% del Pil) e per la salvaguardia dei livelli occupazionali (in tutto 5.500 imprese con 273mila addetti che salgono a 1,2 milioni se si include l’indotto). Il governo si è impegnato, tra i vari punti all’ordine del giorno, a promuovere misure di sostegno della filiera, se necessario con il potenziamento del «Fondo Automotive», destinando specifici supporti a progetti di riconversione delle imprese, allo scopo di accompagnarle nel processo di graduale transizione. È stata quindi espressa la volontà che l’Ue «incentivi non solo l’iter di decarbonizzazione, ma consenta una transizione sostenibile in termini sociali e industriali, prevedendo target realisticamente raggiungibili per il settore, e garantendo stabilità occupazionale e crescita in qualità e quantità del sistema produttivo». L’Italia, inoltre, dovrà essere posta al centro dei processi decisionali quale polo strategico per le infrastrutture e la transizione energetica. Focus, poi, sui piani di sostegno alla domanda, con l’impegno a garantire aiuti alle famiglie meno abbienti allo scopo di accelerare il rinnovamento del parco circolante con veicoli dotati di motori a basse emissioni. La presa d’atto, infine, che nel 2030 sulle strade europee viaggeranno ancora il 70% di veicoli equipaggiati con motori endotermici. Da qui la necessità di sostenere, parallelamente allo sviluppo di un ecosistema per la mobilità elettrica, una strategia europea per i combustibili rinnovabili a basse emissioni di carbonio».
CASE GREEN, DECIDERANNO GLI STATI
Il Parlamento europeo ha approvato la direttiva Epbd: le ristrutturazioni partiranno dalle abitazioni meno efficienti. Entro il 2030 taglio del 16% dei consumi. Ma i singoli Stati decideranno in pratica che cosa fare. Giuseppe Latour per il Sole 24 Ore.
«Un massiccio piano di ristrutturazioni che, all’inizio, metterà sotto esame i cinque milioni di immobili con le performance peggiori. La direttiva europea Case green (o più tecnicamente, la Energy performance of buildings directive, Epbd) ieri ha chiuso il suo percorso al Parlamento europeo, incassando il voto positivo (370 favorevoli, 199 contrari, con il centro-destra italiano compatto sul “no”, e 46 astenuti) della Plenaria di Strasburgo. Ora manca solo l’approvazione formale del Consiglio, in rappresentanza dei Paesi membri. L’intesa politica andrà sul tavolo degli ambasciatori Ue al Coreper come «punto senza discussione» il 10 aprile per poi approdare sul tavolo del Consiglio Ecofin il 12 aprile, quando si chiuderà l’iter legislativo. Poi sarà il momento della pubblicazione del testo e della sua entrata in vigore. Per il recepimento ci saranno a disposizione due anni, ma i primi effetti arriveranno già nel 2025. La prima novità visibile riguarderà i piani di ristrutturazione che i Paesi membri dovranno preparare. In questo senso, gli Stati avranno maggiore flessibilità rispetto alle prime ipotesi, perché non dovranno più raggiungere dei target fissati a livello centrale da Bruxelles, con una soglia minima di prestazioni energetiche (nella sua prima versione, la direttiva parlava di classe energetica E e poi D da raggiungere entro il 2030 e il 2033). L’obiettivo, prendendo il 2020 come riferimento, sarà invece ottenere un taglio del consumo medio di energia del 16% entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035. Entro il 2050 il parco residenziale dovrà essere a zero emissioni. I Paesi, con i loro piani, potranno decidere su quali edifici concentrarsi. Il miglioramento dell’efficienza, però, non potrà essere messo in atto puntando solo sull’impatto benefico degli edifici nuovi, perché la direttiva impone che i Paesi membri assicurino che «almeno il 55% della riduzione del consumo di energia primaria sia raggiunto attraverso il rinnovo degli edifici più energivori». È la stessa direttiva a spiegare che gli edifici più energivori sono quelli che rientrano nel 43% di immobili con le performance più basse nel patrimonio nazionale. In Italia, in base ai dati dell’Istat, gli edifici residenziali sono circa 12 milioni: saranno, allora, considerati prioritari circa 5 milioni di edifici. Sono previste delle deroghe, in un passaggio del testo che nei mesi si è allungato: i Paesi membri potranno escludere alcune tipologie di immobili dai nuovi obblighi. Potranno essere esentati gli edifici sottoposti a vincolo puntuale o a vincolo d’area (ad esempio, quelli dei centri storici o dei parchi), gli edifici dedicati a scopi di difesa, le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all’anno, gli edifici provvisori, gli edifici religiosi, i piccoli immobili sotto i 50 metri quadrati. Negli obiettivi di riqualificazione, poi, saranno coinvolti anche gli edifici non residenziali. Si apre, così, un lavoro che durerà anni per dare piena attuazione a questo provvedimento. Per la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio, è arrivato allora il momento di superare la fase delle polemiche: «È stata fatta una battaglia, che noi abbiamo compreso, per mitigare misure che rischiavano di essere impossibili. Ora, però, è arrivato il momento di chiudere ogni scontro ideologico e mettere insieme gli strumenti migliori per raggiungere gli obiettivi della direttiva». Per Brancaccio, «ci dovranno essere le risorse, a partire da un fondo europeo per la transizione ecologica, ma non solo. Penso a un ventaglio di strumenti che dovranno essere sostenuti da tutti». Anche il relatore della direttiva in Parlamento, l’irlandese Ciaran Cuffe (Verdi) ha dedicato diversi passaggi all’Italia nel corso del suo resoconto successivo al voto: «Credo che la presidente Giorgia Meloni sappia che dobbiamo affrontare la crisi energetica, la crisi climatica e la crisi con la Russia e questa direttiva le affronterà tutte e tre e porterà benefici ai proprietari di case e agli inquilini». La direttiva Epbd sarà «una spinta per l’Italia perché attrarrà investimenti, non solo nel breve periodo ma per una generazione intera. In Italia avete avuto incentivi molto significativi per le ristrutturazioni, ma concentrati su un periodo di tempo breve». Un riferimento chiaro al superbonus. La direttiva, comunque, continua a dividere. Dal centro-sinistra, infatti, sono arrivate dichiarazioni di soddisfazione. Ad esempio Chiara Braga, capogruppo del Pd alla Camera, ha parlato di «unica risposta per contribuire in modo serio alla riduzione di emissioni inquinanti». Di segno opposto, però, è l’opinione del ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, che ha parlato di «ennesima follia europea». Così come quella del copresidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo Nicola Procaccini e del capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles, Carlo Fidanza: «Nonostante gli importanti miglioramenti apportati grazie all’impegno del Governo italiano in sede di Consiglio Ue, provvedimenti come quelli sulle case green, sulle emissioni industriali che equiparano le stalle alle fabbriche e sulle asserzioni ambientali (green claims), rimangono ancora troppo sbilanciati e per questa ragione abbiamo espresso il nostro voto contrario». Critiche anche da Confedilizia. Per il presidente dell’associazione, Giorgio Spaziani Testa, la direttiva, nonostante i miglioramenti arrivati nella sua versione finale, «rimane un testo dagli obiettivi finali ben difficilmente realizzabili (emissioni zero nel 2050), che la nuova legislatura europea farebbe bene a ripensare».
OGGI LE CONFINDUSTRIE DEL G7 A VERONA
L’industria è al centro del confronto tra i sette grandi. Oggi il B7 di Verona, poi due riunioni interministeriali del G7 giovedì e venerdì. Nicoletta Picchio per il Sole 24 Ore.
«Un Paese che si presenta ai vertici del B7 e G7 con le carte in regola. Con l’autorevolezza di convogliare gli altri grandi della terra su strategie condivise sui grandi temi dell’Intelligenza artificiale, digitale, energia, libertà degli scambi. È un aspetto su cui si sono soffermati ieri la Chair del B7, Emma Marcegaglia, e Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, nella conferenza stampa di presentazione del B7 di oggi, che si terrà a Verona, e delle due interministeriali del G7 che seguiranno, a Verona, giovedì, e a Trento, venerdì. «Il B7 e il G7 sono l’occasione per mostrare al mondo che siamo un paese serio, con un posizionamento strategico significativo e un sistema industriale forte che vuole crescere in maniera sostenibile», ha detto Marcegaglia, incaricata come chair del B7 dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Il B7, infatti, il più autorevole Engegement Group del G7, riunisce le confindustrie dei Paesi del G7. «L’Italia non a caso ha voluto ripristinare dopo sette anni di assenza il G7 sull’industria, riteniamo che l’industria sia oggi prioritaria nel confronto con le grandi democrazie occidentali, per garantire l’autonomia strategica produttiva dei nostri continenti rispetto alla sfida globale», sono state le parole del ministro Urso. «Il sistema manifatturiero italiano è forte e diversificato - ha sottolineato Marcegaglia – con imprese competitive che in questi anni di shock continui hanno mostrato una capacità di reagire che non ha uguali in Europa». Oggi si terrà la “G7 Industrty Stakeholder Industries. Digital Transformation for Competitiveness”, aperta da Marcegaglia e Urso. È la prima volta, ha sottolineato Marcegaglia, che «il B7 avrà l’opportunità prima del G7 Industria di presentare le proprie idee ai ministri. Lo rifaremo ad aprile al G7 su energia e ambiente e a luglio al G7 sul commercio». Nella «volontà di ripristinare il G7 Industria, per mettere al centro del dibattito la politica industriale – ha spiegato Urso – abbiamo chiesto che ci fosse un confronto anche con gli attori della produzione. Da qui, la riunione del B7, che ci dà il testimone sia al B7, sia all’interno del G7, nel confronto imprese e ministri. Abbiamo fatto anche inviti ad altri Paesi, come la Corea del Sud, gli Emirati Arabi, l’Ucraina». L’Intelligenza artificiale sarà uno dei temi del B7, trasversale rispetto a quattro punti: catene globali del valore, transizione energetica, digitale, demografia, giovani e donne. «Stiamo lavorando perché l’Intelligenza artificiale diventi un fattore di competitività, anche se servono regole condivise. Il lavoro che stiamo facendo insieme evidenzia che l’Italia è un paese filo atlantico, ma parla anche ad altre aree del mondo, i Balcani e l’Africa», ha detto Marcegaglia. La collaborazione tra Paesi e con le imprese è uno dei punti centrali anche per Urso: «la sicurezza politica dell’Occidente passa sempre di più per il concetto di sicurezza economica, di nuove forme di collaborazione tra Stato e imprese. L’obiettivo del G7 industria è assicurare lo sviluppo e l’adozione di tecnologie di nuova generazione, per dare slancio alla produttività e competitività. Saranno tre le proposte dell’Italia: applicazione dell’Intelligenza artificiale e delle tecnologie emergenti al tessuto industriale, sicurezza delle catene di approvvigionamento, sviluppo digitale sostenibile, con un focus sull’Africa». Ieri è stata anche presentata la relazione “Impresa Italia verso il G7”, da Paolo Quercia, Centro studi Mimit, e dall’economista Marco Fortis, vice presidente Fondazione Edison. L’Italia è il terzo paese per valore aggiunto manifatturiero rispetto al pil del G7, nono nel G20; siamo secondo paese esportatore dopo la Germania nel G7, sesto nel G20, quinto esportatore mondiale, a ridosso del Giappone; leader mondiale nell’export di venti tipologie di prodotti».
GUERRA AL FENTANYL
Nuove dipendenze. Il governo italiano dichiara guerra al Fentanyl, che in Usa miete centinaia di migliaia di vittime. «Primi in Europa, siamo orgogliosi». Vincenzo R. Spagnolo per Avvenire.
«Siamo fieri» del fatto che «l’Italia sia una delle primissime Nazioni in Europa ad adottare un piano molto articolato di prevenzione contro l’uso improprio del Fentanyl e degli altri oppioidi sintetici». Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni saluta il varo del « Piano nazionale di prevenzione contro l’uso improprio di fentanyl e di altri oppiacei sintetici», adottato dall’esecutivo e presentato ieri a Palazzo Chigi da una nutrita pattuglia di ministri, che ammettono come al momento in Italia «non c’è una vera e propria emergenza» rispetto alla presenza del Fentanyl (a differenza di quanto accade negli Usa, dove il suo abuso miete centinaia di migliaia di vittime), ma l’intento è di alzare per tempo «una muraglia », per dirla col titolare dell’Istruzione Giuseppe Valditara, per evitare «un pericolo devastante per i nostri giovani». «La parola d’ordine è prevenzione ». Il Piano ha l’obiettivo di provare a scongiurare la diffusione del fentanyl sul territorio nazionale e «di sensibilizzare i cittadini, in particolare le giovani generazioni», sulla sua pericolosità. « La parola d’ordine del governo è prevenzione», argomenta ancora la premier, ricordando ancora una volta le micidiali caratteristiche della sostanza: è «un analgesico molto potente, che può avere effetti devastanti su chi lo assume per scopi diversi da quelli sanitari. Sono sufficienti, infatti, appena 3 milligrammi della sostanza per uccidere una persona». Cento volte più forte della morfina. Il Fentanyl, spiega la presidente del Gruppo tossicologi forensi italiani, Sabina Strano Rossi, «è un oppiaceo sintetico ha una attività narcotica, ma è da 50 a 100 volte più potente della morfina e 30-50 volte più dell’eroina» (ma esistono altri oppiacei sintetici «100mila volte più potenti»). Usato per la sedazione in anestesiologia o per curare pazienti con dolore cronico, è iscritto nella tabella 1 del dpr 309/90 sulle sostanze stupefacenti e deve essere prescritto con «ricetta medica non ripetibile», ma può essere sintetizzato illecitamente in laboratori clandestini. Inizialmente produce euforia, a cui seguono però effetti depressivi sul sistema nervoso centrale e sulla respirazione, che possono provocare coma e decesso per soffocamento. In Italia 2 decessi dal 2016. Da una decina d’anni, negli Usa è scattato l’allarme per il suo consumo, con dati che riferiscono di una media di 180 vittime al giorno, fino «al picco di 109mila decessi in un anno», considera il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, affermando come ciò giustifichi l’intenzione di «muoverci in un’ottica di prevenzione ». Se si guarda all’Europa, nel 2021 sono stati 137 i decessi associati al Fentanyl (di cui 88 in Germania). In Italia (dove si contano circa 300 morti per overdose l’anno, soprattutto per eroina e cocaina) dal 2016 ad oggi, i decessi registrati a causa del Fentanyl sono 2, oltre a 5 comunicazioni riguardanti intossicazioni non fatali e a 2 casi di consumo riscontrato dall’analisi di campioni biologici di persone in trattamento. Dal punto di vista investigativo (rispetto alle oltre 20 tonnellate di cocaina sequestrate nel solo 2022) i dati sul Fentanyl non sarebbero allarmanti: tra il 2018 e il 2023 - si legge nel Piano - la Polizia ne ha sequestrato 123,17 grammi in polvere, 28 dosi in compresse e 37 altre confezioni (cerotti e flaconi). E nel novembre 2023, un’indagine a Piacenza ha sventato l’acquisto dalla Cina di 250mila dosi. Ma la pericolosità della sostanza inquieta e bisogna evitare una «sottostima del fenomeno». Benché attualmente la diffusione in Europa per uso non terapeutico sia «relativamente limitata», il fentanyl e i suoi “fratelli” sintetici rappresentano «una minaccia potenziale». Lo spaccio si muove sul dark web e in Ue «ci sono segnali in Portogallo e Gb. La nostra intelligence segnala un interessamento della ‘ndrangheta, che sta testando la convenienza del suo inserimento sul mercato», fa sapere il sottosegretario Mantovano, ricordando come il fentanyl «trasforma gli assuntori in zombi che camminano». Attenzione ai testi trap. Il Piano interviene sia a livello preventivo che disegnando un modello di gestione di un’eventuale emergenza. A livello sanitario, sotto la supervisione del ministro della Salute Orazio Schillaci, si rafforza la sorveglianza sulle dosi in commercio (vigilando sui furti in farmacia), ma anche l’allerta nelle unità di Pronto soccorso e Terapie intensive in caso di intossicazioni acute, insieme a scorte dell’antidoto agli oppioidi sintetici, il naloxone. A livello di polizie, s’incentiva lo scambio di informazioni, il monitoraggio dei flussi e l’uso di apparecchi portatili (con tecnologia Raman) per identificare le droghe sintetiche. Il tutto accompagnato da campagne rivolte ai giovani, dicono i ministri dello Sport Andrea Abodi e dell’Istruzione Valditara. «Oggi i cattivi maestri sono ad esempio negli Usa rapper e trapper - conclude Mantovano - con testi con messaggi sbagliati sul Fentanyl, che poi arrivano senza filtri agli adolescenti ». Quindi «le famiglie devono accrescere l’attenzione, è una allerta per tutti, una responsabilità di tutti noi».
DISFORIA DI GENERE, NUOVO CENTRO AL GEMELLI
Sarà attivo da domani, presso il policlinico Gemelli di Roma, un servizio di consulenza specifica dedicato a chi chiede un aiuto e un accompagnamento ed è affetto da disforia di genere. Soprattutto giovani. «Sempre più necessario accogliere e prendersi cura della persona». Enrico Negrotti per Avvenire.
«Una porta aperta verso una sofferenza che chiede una risposta e un accompagnamento, quasi un aiuto al discernimento, prestati da un’équipe multidisciplinare di psichiatri, psicologi e neuropsichiatri. Si tratta del nuovo ambulatorio sulla disforia di genere, che apre domani alla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma. «Si tratta della risposta che abbiamo pensato di offrire – chiarisce Gabriele Sani, docente di Psichiatria all’Università Cattolica e direttore della Unità operativa complessa (Uoc) di Psichiatria clinica e d’urgenza e del Centro psichiatrico integrato di ricerca, prevenzione e cura delle dipendenze (Cepid) del Gemelli – alla crescente domanda di aiuto e accoglienza che riceviamo. Riteniamo di dover accogliere il dolore e la sofferenza delle persone senza pregiudizi e nel modo più aperto possibile, in modo da accompagnare in un percorso di riflessione ed eventualmente cura questi ragazzi e ragazze e le loro famiglie». Con il termine disforia si intende un’alterazione umorale: «Come l’euforia rappresenta un’elevazione del tono dell’umore – continua Sani – la disforia indica l’umore irritabile, caratterizzato da rabbia e da dispiacere, in cui per varie ragioni non c’è un allineamento tra qualcosa di interno e di esterno». «La disforia di genere – spiega Daniela Chieffo, docente di Psicologia generale all’Università Cattolica e responsabile dell’Unità operativa di Psicologia clinica del Policlinico Gemelli – è una disarmonia percepita tra il sesso percepito e quello assegnato alla nascita che genera nell’individuo un significativo disagio e influisce sul benessere e sull’integrità psicologica della persona». L’identità di genere, aggiunge Chieffo, è «un processo complesso che comporta la consapevolezza di sé come maschio o femmina e che si evolve e può cambiare gradualmente nel corso della vita, sotto un’interazione multifattoriale di fattori biologici (genetici, ormonali), ma ancora di più psicologici e ambientali (sociali, culturali)». «L’obiettivo del nostro ambulatorio – aggiunge Sani – è offrire un periodo di riflessione, osservazione ed eventualmente cura del disagio psicologico e/o psichiatrico che può accompagnare un ragazzo o una ragazza con disforia di genere». L’approccio è inevitabilmente multidisciplinare: «Accompagnare l’individuo fin dalla prima infanzia nel percorso di costruzione del sé e della propria identità è infatti – puntualizza Maria Luisa Di Pietro, docente di Medicina legale all’Università Cattolica e direttrice del Centro di ricerca e studi sulla salute procreativa dell’Ateneo – un compito importante e talora non privo di difficoltà, che può richiedere molteplici contributi e diverse competenze». «Al di là delle ragioni, non del tutto chiare, dell’aumento della domanda negli ultimi decenni – sottolinea Sani – riteniamo che sia necessario accogliere e prendersi cura, che va ben oltre il trattare. Tratteremo con terapie psicologiche o psichiatriche quando vedremo delle eventuali patologie co-occorrenti, cioè persone che oltre alla disforia di genere, in maniera parallela soffrono di un altro disagio psicologico o di un disturbo psichiatrico». «La disforia di genere è solo l’ultima manifestazione di un profondo processo di trasformazione socio-culturale che dalla nascita di internet in poi ha promosso un nuovo modo di pensare, di comunicare e di percepire la realtà» aggiunge Federico Tonioni, ricercatore di Psichiatria all’Università Cattolica e medico della Uoc Psichiatria clinica e di urgenza del Policlinico Gemelli. Inoltre «è opportuno che eventuali elementi di sofferenza vengano identificati in epoca precoce, per cui la sinergia della neuropsichiatria infantile con gli altri operatori è essenziale» chiarisce Eugenio Maria Mercuri, docente di Neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica e direttore del Dipartimento Scienze della salute della donna, del bambino e di sanità pubblica del Policlinico Gemelli. A un primo colloquio conoscitivo, potrà seguire l’accesso a percorsi di sostegno e/o cura, del tutto personalizzati, di cui è impossibile indicare una durata standard: «Nell’approccio psicologico/ psichiatrico – conclude Sani – si accoglie la persona, la sua famiglia, nelle dinamiche della sua relazione, che sicuramente fanno parte anche del percorso. Alla fine verrà rilasciato un certificato nel quale si descriverà il percorso fatto, diverso sulla base delle esigenze del singolo soggetto, e si descriverà quanto osservato. Saranno poi il ragazzo o la ragazza e la famiglia a decidere liberamente se e come proseguire il percorso». Chiunque desideri maggiori informazioni o voglia prenotare un colloquio, può rivolgersi a Daniela Pirastru, sia telefonicamente al numero 06.3015.4122, sia via posta elettronica all’indirizzo daniela.pirastru@policlinicogemelli. it».
Anche la Gran Bretagna fa marcia indietro sui bloccanti della pubertà su bambine e bambini, somministrati ai minori affetti da disforia di genere. La decisione è stata presa «nel miglior interesse del bambino». La notizia è del Corriere della Sera.
«Il servizio sanitario inglese ha deciso: nei centri per la disforia di genere che saranno aperti dopo la chiusura della Tavistock clinic non verranno più somministrati i bloccanti della pubertà, a meno che non si tratti di studi clinici sperimentali. Il governo britannico ha definito «storica» la decisione auspicando cure basate su dati attendibili «nel miglior interesse del bambino». Lo stop è stato deciso dopo che un’inchiesta indipendente del 2022 aveva messo in luce la mancanza di prove sui benefici della terapia».
LA MEMORIA DI BIDEN DIVENTA UN CASO
La «verità» del procuratore Robert Hur contenuta nelle 345 pagine di atti relativi al colloquio con Joe Biden dello scorso ottobre. Hur al Congresso aveca definito il presidente Usa un «vecchio senza memoria». Massimo Gaggi sul Corriere.
«La disputa sulla senilità di Joe Biden e il tentativo dei repubblicani di «riequilibrare» le incriminazioni di Donald Trump con un impeachment (che sarebbe comunque solo simbolico) del presidente, hanno prodotto un’altra giornata deprimente per il Congresso e per la democrazia americana. Occasione: l’audizione alla Camera del procuratore Robert Hur che, pur consapevole che Biden tenne per sé documenti top secret dopo aver lasciato la vicepresidenza (gennaio 2017), non lo ha incriminato ritenendo che non ci siano prove sufficienti della volontà di commettere un reato. E convinto che una giuria non condannerebbe mai un «povero vecchio con una memoria deteriorata». Una guerra di trincea tra due fronti contrapposti con in mezzo Hur che ha preso colpi da destra e da sinistra: per i democratici il procuratore è un repubblicano (cosa da lui confermata) che nel suo rapporto ha fatto un’operazione politica tirando in ballo la senilità del presidente. Per i repubblicani Hur è un magistrato che non ha avuto il coraggio di incriminare Biden, pur avendo registrazioni in cui lui appare consapevole di aver mantenuto il possesso di documenti riservati. Hur ha sostenuto di non aver incriminato «ma nemmeno scagionato» Biden. Come tutti i procuratori, ha valutato quante possibilità avrebbe avuto di convincere la giuria e ha usato nel suo rapporto l’argomento della senilità per spiegare al ministero della Giustizia i motivi della sua decisione di non procedere. Il momento peggiore dell’udienza è stato quando, all’inizio, i primi intervenuti dei due partiti hanno mostrato su grandi schermi due filmati nei quali hanno sintetizzato falsità, scivoloni dialettici e frasi incomprensibili di Biden e Trump, dipinti come due leader appannati e incompetenti. La vera novità è arrivata subito prima dell’hearing: la pubblicazione delle 345 pagine della testimonianza resa per due giorni, a ottobre, da Biden a Hur. Conferma di alcuni vuoti nella memoria del presidente (che a un certo punto sostiene di essere stato vice di Obama fino al 2013 anziché fino al gennaio 2017), ma tolgono anche drammaticità ai due aspetti del caso che hanno fatto più rumore: il rilievo di Hur sul vecchio con poca memoria che non ricorda quando è morto il figlio Beau e la successiva dura reazione del presidente che si è chiesto come Hur avesse osato fare una domanda così estranea all’inchiesta. Dal transcript emerge che sul figlio, ucciso nel 2015 da un tumore, Biden ha detto: «In che mese è morto Beau? Oh mio Dio, il 30 maggio». Cioè la data giusta, forse suggerita da qualcuno alle sue spalle. Ma poi si è chiesto: «Era il 2015 l’anno della sua morte?», ricevendo conferma dagli assistenti presenti al colloquio. Poi ha fatto mente locale e ha collocato nei tempi giusti quella tragica vicenda. Anche l’accusa di Biden a Hur sembra eccessiva: il procuratore non chiede a Biden la data della morte di Beau e, anzi, si dice addolorato per la sua scomparsa: la questione emerge in relazione ai vari passaggi della vita politica di Biden».
HAITI SPROFONDA NEL CAOS
Il presidente Henry si è dimesso, il capo delle bande non accetta mediazioni. Così l’isola sprofonda nel caos. Roberto Da Rin per il Sole 24 Ore.
«Haiti sprofonda nel caos. Il primo ministro Ariel Henry lascia l’incarico e gli sviluppi della crisi divengono davvero imprevedibili. Il coprifuoco è stato prolungato di alcuni giorni e lo “Stato di emergenza” resterà in vigore fino al 3 aprile. Un quadro drammatico discusso in Giamaica, presente anche Anthony Blinken, Segretario di Stato americano, dal presidente della Comunità dei Caraibi (Caricom), Irfaan Ali, che ha annunciato un «accordo per un governo di transizione che aprirà la strada a una transizione pacifica del potere». Respinto però dal Capo delle bande criminali haitiane, Jimmy Chérizier, detto Barbecue, per aver dato fuoco a un quartiere della città. È stato esplicito l’uomo forte del momento, Barbecue, leader dell’alleanza denominata “Vivre Ensemble” (Vivere Insieme) che ha confermato la volontà di procedere nella sua battaglia «per liberare Haiti dai politici tradizionali e dagli oligarchi corrotti». Se la comunità internazionale continuerà sulla strada (intrapresa in Giamaica), «farò precipitare Haiti nel caos». Una crisi che viene da lontano, «in uno Stato fallito ed esternalizzato». Jake Johnston, ricercatore al Cepr (Centre for economic and policy research) di Washington spiega che «il dramma di Haiti è la conseguenza di una lunga serie di interventi militari e aiuti umanitari falliti». Una cooperazione internazionale molto attiva nell’incassare grandi quantità di risorse internazionali che poi non arrivano alla società e schiacciano Haiti nel novero dei Paesi più poveri del mondo».
“IMPOSSIBILE PORTARE AIUTI”
L’appello delle Ong impegnate nell’isola. Allarme di Avsi: «Manca l’acqua negli slum». Rava: centinaia in fuga. Medici senza frontiere: sanità al limite. L’articolo è di Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Si respira una calma irreale a Cité Soleil e Martissant. Il campo di battaglia si è spostato a Champ de mars, il quartiere delle istituzioni. Nell’ultima settimana, dunque, mentre l’architettura istituzionale si sbriciola sotto gli occhi del mondo, nelle baraccopoli- simbolo di Port-au-Prince regna un caos calmo. Le bande armate sono uscite dalle roccheforti per unirsi sotto la guida di Jimmy Chérizier alias “Barbecue” e sferrare l’attacco al fragilissimo Stato. Il Palazzo presidenziale, le sedi dei ministeri, le stazioni di polizia sono state razziate. Nelle enclave tradizionali, invece, le loro “truppe” hanno smesso di combattersi per il controllo di brandelli del territorio e dei suoi abitanti. Prima di lasciarle per scagliarsi contro il governo, però, le hanno sigillate in modo da non perdere posizione nei confronti degli ex nemici ora alleati. Risultato, centinaia di migliaia di persone – oltre 400mila solo a Cité Soleil – sono rimaste in trappola. «Senza cibo, acqua potabile, medicine, gasolio. Perché Cité Soleil e Martissant – come metà di Port-au-Prince – è inaccessibile. Impossibile raggiungerla per gli operatori umanitari e impossibile per i residenti spostarsi da là», spiega Flavia Maurello, rappresentante di Avsi ad Haiti. Prive di una rete idrica, le baraccopoli ricevono l’acqua potabile dalle autobotti. «Ma queste non riescono ad arrivare già da una decina di giorni. La gente, così, inizia a bere dai pozzi inquinati dai liquami e dai rifiuti. Il rischio di una nuova recrudescenza del colera è molto alto», sottolinea l’operatrice. La mancanza di generi di prima necessità è generalizzata. Anche a Petionville – quartiere sulle colline dove si concentrano gli stranieri –, dove i negozi sono rimasti aperti, gli scaffali sono quasi vuoti. Il Paese importa qualunque merce dall’estero. Con buona parte del porto nelle mani delle gang, però, scaricarle e distribuirle è impossibile. Nel centro città, poi, dove infuria la battaglia, interi quartieri si sono svuotati e una massa di 15mila persone in fuga si è accampata in rifugi di fortuna. «Ogni notte, in centinaia, soprattutto mamme con bimbi, bussano disperati alle nostre porte in cerca di rifugio. Come possiamo lasciarli fuori?», dice Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Rava che ha creato nell’isola gli ospedali Saint Damien e Saint Luc. Le cliniche sono tra le poche rimaste in funzione perché medici e infermieri non riescono a raggiungere le strutture. Perfino l’ospedale universitario generale – il principale di Port-au-Prince – ha dovuto chiudere dopo che per giorni feriti e cadaveri si erano ammassati nei corridoi senza che nessuno se ne facesse carico. «Siamo stati costretti a riorganizzare i turni in modo con una rotazione settimanale, in modo che il personale dorma all’interno e non corra il rischio di uscire in mezzo agli scontri». La situazione sanitaria, da sempre precaria, è al collasso. «L’accesso alle cure è sempre più difficile per la popolazione – afferma Nicoletta Bellio, responsabile di Medici senza frontiere (Msf) ad Haiti che ha dovuto aumentare i servizi per far fronte alle enormi necessità –. Negli ospedali manca sangue per le trasfusioni, medicine e operatori. Molti di quelli ancora attivi hanno dovuto ridurre i servizi, altri sono quasi irraggiungibili perché si trovano nelle aree dei combattimenti. La preoccupazione più grande ora sono le scorte di farmaci: ne abbiamo ancora per qualche altra settimana. Con il porto e l’aeroporto inagibili e l’insicurezza generale, i nostri canali di rifornimento sono bloccati». In queste condizioni, le organizzazioni umanitarie si chiedono quanto ancora potranno andare avanti. Anche perché la crisi non sembra in via di risoluzione».
BOBBIO: “NON ESISTE LA GUERRA GIUSTA”
Alcune lezioni di Norberto Bobbio su guerra e pace sono state raccolte in un nuovo libro. In un momento reso drammatico da due sanguinose guerre, risulta ovvio ricercare in queste lezioni insegnamenti per l’oggi. Primo tra tutti, Bobbio confuta ogni teoria giustificativa della guerra. Daniele Archibugi ne scrive sul Manifesto di oggi.
«Il clima politico degli anni Sessanta del XX Secolo era così polarizzato da rendere ogni dibattito di politica internazionale ottuso. I sostenitori del Socialismo Reale erano ciechi verso le periodiche violazioni dei diritti umani commesse al di là della Cortina di ferro. Chi parteggiava per le democrazie occidentali, ignorava i crimini del colonialismo e dell’imperialismo. Durante la crisi di Cuba, si arrivò assai vicino all’uso delle armi nucleari, eppure la voglia di comprendere quale fosse la natura della guerra e le vie della pace in un mondo diviso in due blocchi contrapposti rimaneva del tutto assente. Norberto Bobbio fu uno dei primi che tentò di dare una riposta a quella inedita situazione utilizzando gli strumenti a lui più idonei: la scienza politica, il diritto e la filosofia. Fu così che nell’anno accademico 1964-65 accantonò i corsi tradizionali di Filosofia del diritto che teneva all’Università di Torino per dedicarne uno alla guerra e alla pace. Lo studioso era già ben attrezzato ad affrontare il problema, giacché la questione della pace è stato uno dei temi che più l’ha tormentato (come rammenta nella sua postfazione Pietro Polito - che di Bobbio è stato il più stretto collaboratore fino alla sua scomparsa nel 2004). Subito dopo aver terminato quel corso, Bobbio pubblicò un lungo e meditato saggio («Il problema della guerra e le vie della pace», 1966) sulla rivista Nuovi Argomenti diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci, all’epoca una delle poche tribune dove si potessero confrontare filo-occidentali e filo-sovietici. Un saggio che è stato più volte ripubblicato e ha rappresentato una guida imprescindibile per chi si occupa del tema. Infaticabile pioniere dei diritti umani, Bobbio è stato per tutta la vita un testimone partecipe della sua era. Se furono in molti ad occuparsi di relazioni internazionali quando la caduta del muro di Berlino accese nuove speranze, Bobbio ha avuto il coraggio di dire la sua negli anni più bui. Affrontando, come suo solito, i problemi per modelli, Bobbio identifica tre forme principali di pensiero pacifista: quello finalistico (occorre modificare la natura umana per raggiungere la pace), quello strumentale (è necessario diminuire e in prospettiva abolire gli strumenti che consentono di combattere le guerre), e quello istituzionale (è necessario costruire un quadro giuridico capace di risolvere le controversie tramite il diritto piuttosto che con il ricorso alla forza). Privilegiando il pacifismo istituzionale, Bobbio richiama la necessità di rafforzare le organizzazioni internazionali esistenti, a cominciare dalle Nazioni Unite. Anche Stati con sistemi politici antitetici dovevano accettare, in caso di controversie, di sottomettersi alle valutazioni di una autorità terza che avesse il compito di giudicarli sulla base del diritto e non della forza. La prospettiva di Bobbio era - e resta tutt’ora - del tutto formale; la politica internazionale continua ad essere il regno del più forte. Ma, da filosofo del diritto qual era, lo studioso torinese richiamava il fatto che sarebbe stato nell’interesse di tutti creare quella figura terza a livello mondiale, la stessa che aveva consentito di sviluppare, con qualche successo, la dialettica democratica all’interno delle singole nazioni. Tutt’altro che sprovveduto sulle logiche machiavelliche che ispirano la politica estera, Bobbio assolveva con coraggio il compito dell’intellettuale pubblico, segnalando i problemi e indicando le vie percorribili. Faceva presente che questo terzo «assente» a livello mondiale può attraversare diversi stadi. Il primo e più rudimentale è quello del mediatore, che deve tenere in considerazione qual è la forza a disposizione dei contendenti e proporre soluzioni che ne tengano conto. Il secondo è quello dell’arbitro, che deve giudicare i conflitti sulla base di un codice di condotta condiviso preventivamente dalle parti in causa, anche se sprovvisto del potere coercitivo per imporre loro di rispettare le sue decisioni. Il terzo e più evoluto stadio è quello del giudice, che non solo dispone di un codice condiviso dalle parti, ma che ha anche i mezzi per applicare le proprie sentenze. Fatta questa distinzione, Bobbio si chiedeva: sarà mai possibile giungere anche nella sfera internazionale ad un giudice mondiale che tragga la propria legittimità dalle parti, e che disponga sì di una forza propria, ma senza correre il rischio che si trasformi in un tiranno globale? La sua posizione fu vista con sospetto. A destra fu preso per un utile idiota della tirannia sovietica, a sinistra per un fiancheggiatore dell’imperialismo. Anche il suo approccio teorico fu malvisto dall’accademia italiana giacché Bobbio, piuttosto che fare storia del pensiero, aveva prodotto una elaborazione politica, con un metodo inviso in un Paese in cui dominava la scuola storica. È quindi una graditissima e inattesa sorpresa scoprire che possiamo oggi leggere, grazie agli appunti presi da due studentesse dell’epoca, quel corso universitario. Come prassi del tempo, Nadia Betti e Marina Vaciago raccolsero infatti le lezioni per farne una dispensa per gli studenti. Vista la nota chiarezza espositiva del docente, il loro compito forse non è stato troppo arduo (Norberto Bobbio, Lezioni sulla guerra e sulla pace, a cura di Tommaso Greco, Laterza, pp. 255, euro 20). In classe, Bobbio si esprime più liberamente, con un testo impreziosito da osservazioni estemporanee sui protagonisti del pensiero internazionalista. Vi troviamo così una critica devastante del concetto di guerra giusta, un excursus critico sulla filosofia della storia, considerazioni originali su autori che neppure sono menzionati negli altri suoi scritti. Si apprezza così un insegnante di grande erudizione che condivide con gusto il suo sapere con gli studenti, ma che diventa assai più asciutto quando, lasciata l’aula universitaria, espone le sue tesi nell’arena politica. In un momento in cui siamo invischiati in due sanguinose guerre, risulta ovvio ricercare in queste lezioni ammonimenti per i tempi presenti, e se ne ritrovano a bizzeffe. Primo tra tutti, Bobbio sgombra il campo da tutte quelle teorie giustificative dell’esistenza di guerre. Non c’è alcun presupposto per ritenere che dalla guerra scaturisca alcuna forma di progresso. E qui, Bobbio - sempre così moderato nel linguaggio - si prende gioco di chi, da Nietzsche ai futuristi, ha irresponsabilmente elogiato la violenza. In secondo luogo, Bobbio mostra quanto sia arido dedicarsi all’interpretazione delle ragioni - economiche, territoriali, religiose o di altra natura - dei conflitti. La priorità per le scienze sociali dovrebbe essere trovare i mezzi per evitarli. Bobbio si impegna per moderarli tramite il rafforzamento di istituzioni internazionali, con una fiducia che oggi sembra eccessiva, senza tuttavia che siano emerse più promettenti scorciatoie. Infine, pervade i suoi scritti il sotterraneo nesso che lega la democrazia all’interno degli Stati alla pace nei rapporti tra Stati. Da uomo che era cresciuto sotto il fascismo, Bobbio è stato un inesorabile partigiano della democrazia. Ma questo non lo rendeva cieco quando i regimi occidentali smarrivano del tutto i valori del proprio patto costitutivo in politica estera. Ne scaturiva una continua esortazione ai regimi democratici affinché fossero buoni cittadini della società degli Stati e applicassero, ove possibile, gli stessi principi a casa propria e nel mondo. Speranze così spesso tradite da donare, a lui e a tanti altri, amare delusioni».
“UN’IDEA POETICA DI CRISTO”
Elia Carrai per il Sussidiario ha scritto una bella recensione di Un’idea poetica di Cristo. Vito Fornari e Luigi Giussani, un libro, edito da Pazzini, del giornalista e scrittore Valerio Lessi, qui l’integrale. Vito Fornari è stato un geniale filosofo e teologo dell’Ottocento, nato a Molfetta, molto stimato da Paolo VI e da Giorgio La Pira. Ieri sera il libro è stato presentato a Rimini. Ecco l’inizio dell’articolo di Carrai.
«Un cristianesimo “puro”, affermava il card. Ratzinger, non esiste, perché non possiamo pretendere di vedere Dio “nella sua figura pura”, passando oltre quei volti reali attraverso i quali Dio stesso si è voluto rendere visibile. Allo stesso modo non esiste una genesi “pura” dell’intuizione teologica la quale, piuttosto, è sempre anch’essa espressione di una storia del tutto particolare in cui l’intelligenza del credente è integralmente coinvolta, con le sue esperienze e domande. Il libro di Valerio Lessi – Un’idea poetica di Cristo. Vito Fornari e Luigi Giussani (Pazzini, 2023) – costituisce, in questo senso, un contributo assai stimolante per tutti coloro che desiderano approfondire quell’intreccio storico in cui ha preso forma la proposta educativa e teologica di Luigi Giussani. In particolare è qui a tema l’incontro di Giussani con il pensiero di Vito Fornari, sacerdote immerso nella vita sociale dell’800, per quarant’anni prefetto della Biblioteca Nazionale di Napoli, amico di Capponi, Manzoni, Tommaseo, Rosmini. L’indagine di Lessi, come le migliori ricerche, parte innanzitutto da un dettaglio: poche ma significative parole spese su Fornari da Giussani in un seminario sulla Scuola di Venegono del 1984. Qui Giussani, articolando un elenco di autori che riconosce aver inciso sul suo pensiero, riconosce che “libro fondamentale per me, come genesi poetica per l’idea di Cristo, è di V. Fornari, La vita di Cristo” (Seminario con mons. Luigi Giussani (6 gennaio 1984) in Annuario teologico, 1984, Istituto Studi per la Transizione, p. 134). Tanto è bastato ad accendere la curiosità di Valerio Lessi il quale, come afferma, si è voluto “avventurare” in una lettura in parallelo dei due autori, col desiderio non solo di andare a fondo di queste parole di Giussani che lo avevano giustamente colpito per enfasi e contenuto, ma anche nella speranza di poter accendere questa sua stessa curiosità in qualche filosofo o teologo: e l’introduzione al volume curata da Massimo Borghesi lascia intendere che questa speranza di Lessi non fosse mal riposta».
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