Accogliere gli afghani
Ultimatum dei talebani a Kabul: solo 7 giorni per completare l'evacuazione. Profughi, Gentiloni promette da Rimini: l'Europa decide a maggioranza. Il Pfizer è sicuro, chiusa la sperimentazione
Comincia oggi il G7, su cui incombe la crisi afghana. Ora gli occidentali vorrebbero avere più giorni per organizzare un’evacuazione ordinata da Kabul. Ma ieri un portavoce afghano ha ricordato che ci sono accordi precisi e che la data è quella del 31 agosto. La linea italiana, condivisa da tutti i partiti di governo, è spingere per allargare l’azione politica e diplomatica anche a Cina e Russia. E anche al Pakistan, come ha suggerito Salvini. In questo senso l’obiettivo di Mario Draghi è arrivare quanto prima ad un G20 straordinario sull’Afghanistan. In questo clima evaporano, e giustamente, le polemiche contro Giuseppe Conte sul “trattare” o no con i talebani.
Sull’emergenza profughi, se possibile, le cose sono anche più complesse: parte dei Paesi europei sono esplicitamente contrari all’accoglienza, come Austria e Ungheria. Alcuni, come Grecia e Polonia, stanno già erigendo barriere e muri lungo le possibili vie d’arrivo degli afghani. Ieri il commissario europeo Gentiloni al Meeting di Rimini ha tagliato corto: l’Europa deciderà a maggioranza e accoglierà i profughi. Il cardinal Bassetti sempre da Rimini assicura la solidarietà della Chiesa italiana sul fronte dell’accoglienza. Sulla Stampa Domenico Quirico critica l’atteggiamento della nostra opinione pubblica. L’ondata emotiva a favore degli afghani in fuga durerà poco tempo, dice. Poi ce li dimenticheremo.
Lotta al Covid. Importante notizia dagli Usa: il vaccino Pfizer è un medicinale la cui validità è riconosciuta definitivamente. È finita la fase sperimentale. Cade così un argomento principe dei No Vax che non vogliono sentirsi “cavie”. La Gelmini sostiene che non è un’eresia l’obbligo vaccinale: se a fine settembre non saranno vaccinati l’80 per cento degli italiani, sarebbe meglio varare una legge che lo preveda. I numeri della campagna vaccinale intanto migliorano: ieri 316 mila 939 nuove somministrazioni.
Libero torna sullo “scoop” di Antonio Socci, che ieri aveva ipotizzato le dimissioni di Papa Francesco. Lo fa anche con un articolo che ipotizza una possibile nuova norma pontificia sulla figura del Papa emerito. Possibile? In questo periodo Francesco sembra volerci dire: ho ascoltato per otto anni, adesso è arrivato il momento di decidere, di emettere decreti, di fissare nuove regole alla fine di un processo di riflessione. Non a caso recentemente molte decisioni sono state formalizzate con decreti: dalla vita dei Movimenti alla Messa in Latino, fino alle nuove norme sulla giustizia e i beni degli ecclesiastici. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
La crisi afghana catalizza ancora l’attenzione della stampa. Il Corriere della Sera sintetizza così: Scontri e minacce a Kabul. La Repubblica mette l’accento sul pronunciamento del nuovo governo: L’ultimatum dei talebani. Così come La Stampa che dettaglia il timing: Ultimatum taleban, sette giorni per la fuga. Per il Manifesto sono: Giorni contati. Per Avvenire è un: Ultimatum dei taleban. Il Quotidiano Nazionale sottolinea la sfida diretta al Presidente Usa che aveva chiesto tempo per completare l’evacuazione degli occidentali: Ora i talebani minacciano anche Biden. Il Domani celebra la decisione del tribunale di Marrakech su Ikram Nazih: Finalmente libera. Il Fatto pubblica una foto di Renzi in Arabia con questo titolo: Odiano le donne, ma sono amici nostri. Il Giornale si concentra sull’azione diplomatica del nostro Governo: Il G20 di Draghi. Sulla pandemia restano il Mattino: Green pass, avanza l’obbligo. Sprint vaccini per gli studenti. Il Messaggero: Green pass, obbligo più vicino. E sul versante opposto, La Verità: Locatelli & c. denunciati per la morte d’una ragazza. Libero scalda la polemica contro la Minsitra degli Interni: Caso Lamorgese. Che fa ancora al governo? Il Sole 24 Ore annuncia: Al via concorsi veloci per 35mila posti.
SETTE GIORNI PER LA FUGA DA KABUL
Ultimatum dei talebani che ricordano gli accordi di Doha, quelli voluti da Trump: entro il 31 agosto gli americani devono andarsene. Nessuna proroga. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Ormai sono i talebani a dettare legge a Kabul. «L’evacuazione non deve andare oltre il 31 agosto», ribadiscono inflessibili. Gli americani si sono messi nella posizione di dipendere dalle loro decisioni e persino ridotti a chiedere favori. Inevitabilmente, anche gli alleati della coalizione internazionale (tra cui l’Italia) sono costretti nella stessa situazione. L’unica riposta possibile è accelerare i ritmi delle partenze. Il Pentagono ha annunciato che in 24 ore tra domenica mattina e lunedì ha fatto evacuare 16.000 persone, di cui 11.000 americani. In tutto circa 40.000 persone dal 14 agosto. Il numero degli aerei Usa coinvolti supera la trentina. Ieri sera anche il ministero della Difesa a Roma sottolineava l’intensificarsi dell’azione italiana. Negli ultimi giorni con 37 voli sono state evacuate 3.350 persone, di cui 3.290 afghani. Si tratta di uno sforzo logistico gigantesco, che tuttavia non oscura la gravità della situazione nel Paese e la potenza del diktat talebano. Le novità delle ultime ore sono le richieste dello stesso presidente Joe Biden alla dirigenza talebana di concedere i tempi supplementari al ponte aereo. Anche il premier britannico Boris Johnson si era pubblicamente espresso in questo senso. Il caos e la calca attorno al terminal complicano l’esodo. Washington non solo ha enormi difficoltà nel far decollare i collaboratori afghani, ma pare ci siano ancora migliaia di cittadini americani che non riescono a raggiungere i cordoni dei soldati Usa attorno alle piste per poter essere riconosciuti e quindi imbarcati. Molti si sono radunati all’Hotel Serena e nell’ambasciata pachistana, attendono gli elicotteri per arrivare all’aeroporto. Ieri a metà giornata l’ennesimo incidente. Ci sono stati spari alle porte di accesso, che hanno provocato la morte di una guardia afghana. Sembra che l’aggressione sia venuta da un cecchino. L’Isis e gli altri gruppi estremisti hanno tutto l’interesse a lanciare provocazioni e boicottare nel sangue le partenze. I talebani intendono adesso imporre la loro nuova sovranità conquistata col mitra in mano. «Se il limite del 31 agosto non verrà rispettato ci saranno conseguenze. Le modalità saranno esaminate dal Consiglio dei nostri leader», spiega Suhail Saheen, uno dei loro portavoce. La prospettiva della fine della cooperazione coi talebani sul campo appare un vero incubo. Sono le loro guardie a controllare l’accesso al terminal. Se imponessero posti di blocco l’aeroporto verrebbe isolato. Basterebbe poi un tiro di mortaio sulla pista di atterraggio per paralizzare arrivi e decolli. Ieri sera la loro dirigenza politica ha espresso l’intenzione di annunciare il governo in occasione del ventesimo anniversario dell’11 settembre. Oltre il danno la beffa. In passato Biden si era detto favorevole a terminare il ritiro per quella stessa data, col fine di enfatizzare simbolicamente la vittoria americana contro Al Qaeda. Ma adesso i talebani trionfanti ribadiscono una pericolosa continuità tra il terrorismo di Osama bin Laden e il loro ritorno al potere in Afghanistan, lo stesso Paese che aveva ospitato Al Qaeda. Persino i tempi e i modi della fuga degli alleati dell’America da Kabul sono alla mercé dei talebani. «Invitiamo i nostri cittadini assiepati all’aeroporto a tornare alle loro case. Restate e costruiremo assieme il nostro futuro», dicono i talebani e ciò nonostante continui il flusso di video e informazioni riguardo agli abusi e le violenze per mano dei loro guerriglieri. A Washington cresce il timore che molti occidentali possano restare intrappolati, diventando così ostaggi del nuovo regime. Tuttavia, non è neppure escluso che alla fine i talebani possano ancora concedere qualche giorno in più agli americani, proprio per evitare un nuovo scontro aperto con Biden e guadagnare punti sul piano internazionale. L’unica isola di resistenza armata contro lo strapotere talebano resta la valle del Panshir. Si tratta della vecchia roccaforte tagika, che nella seconda metà degli anni 90 fu la sola a combattere con successo agli ordini del celebre comandante Ahmed Shah Massoud, assassinato da Al Qaeda due giorni prima degli attentati del 11 settembre. Oggi migliaia di ex soldati e volontari tagiki si sono uniti al figlio poco più che trentenne di Massoud e all’ex vice presidente Amrullah Saleh. «Combatteremo con tutte le nostre forze. Siamo pronti a morire per la libertà», ribadisce il giovane Massoud, che tuttavia chiede ai talebani di negoziare. I social raccontano di intensi scontri a fuoco all’imbocco del Panshir con numerose vittime. I talebani stanno ammassando truppe per un attacco da più fronti».
INIZIA IL G7, PENSANDO AL G20
Salvatore Cannavò per Il Fatto traccia uno scenario politico, anche interno, in vista del G7 che inizia oggi.
«A furia di dire che con i talebani non si tratta, gli Stati Uniti hanno dovuto iniziare proprio ieri la prima trattativa. Dopo l'ultimatum afghano sul rispetto della deadline del 31 agosto per portare le truppe Usa fuori dal paese, a Washington hanno dovuto iniziare a prendere tempo, dare rassicurazioni e ribadire che i primi a essere interessati al rispetto dei tempi sono proprio gli Stati Uniti. Effetto di un ritiro fatto in modo confuso e raffazzonato e, soprattutto, a dispetto di una struttura, l'apparato militar-industriale americano, che di ritiro non voleva proprio sentir parlare. Ad annunciare che con i talebani si sta discutendo per uno slittamento della data di uscita dal paese è il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, affermando che tra Germania, Stati Uniti, Turchia e talebani sono state avviate discussioni allo scopo di "facilitare un'operazione civile all'aeroporto di Kabul per consentire l'evacuazione delle persone oltre la scadenza del 31 agosto". Le trattative, dunque, costituiscono l'unica chance, controversa e contraddittoria, per uscire dalla morsa di questi giorni. I talebani lo sanno e tengono gli occidentali sul filo di lana. A partire dalle partenze da Kabul. I diplomatici competenti del dossier ammettono senza problemi che per lasciare la capitale afghana occorre il placet dei talebani che, in fondo, stanno già dando prova di collaborare. Se Biden può vantare di aver già fatto rientrare circa 12 mila persone e l'Italia 1800 - in proporzione la cifra più alta - è sicuramente perché i dirigenti talebani stanno rispettando i patti previsti dagli accordi di Doha. Di tutto questo, e forse di più, si discuterà al vertice G7 previsto per oggi convocato da Boris Johnson, presidente di turno. Presumibilmente si discuterà del rientro dei collaboratori, del controllo del terrorismo, del rispetto dei diritti umani, ma soprattutto del modo con cui fare pressione sui talebani. Cioè trattare. Per prepararsi ieri Draghi ha incontrato a Palazzo Chigi i ministri degli Esteri e della Difesa, Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, il sottosegretario con delega alla Sicurezza della Repubblica, Franco Gabrielli, e il direttore generale del Dis, Elisabetta Belloni. Ma l'attenzione maggiore il presidente del Consiglio la sta mettendo sulla costruzione dell'agenda per il G20 straordinario da convocare prossimamente. Una priorità che segnala come anche il nostro Paese sia ormai sintonizzato su una strategia di diplomazia a tutto campo e di inclusione. Dare centralità al G20, come ha fortemente sottolineato l'altro ieri Luigi Di Maio intervenendo al Meeting di Rimini, significa dare spazio a Russia, Cina e India, cioè i paesi confinanti, più interessati alle conseguenze e più utili a fare pressioni su Kabul. Ieri, incontrando Draghi, anche Matteo Salvini si è occupato di Afghanistan avanzando la proposta di invitare anche il Pakistan alla riunione dei Venti più grandi e offrendosi, udite udite, di fare da mediatore. Al di là delle boutade l'idea in sé non è sbagliata, nel G20 ci sono anche Arabia saudita e Turchia, paesi utili allo scopo di trovare soluzioni che garantiscano innanzitutto il rispetto dei diritti umani. Ma al di là degli auspici, il punto è che puntando sul G20 l'Italia si mette sullalineapiù aperturista. La stessa proposta da Romano Prodi domenica nel suo editoriale sul Messaggero in cui afferma che "il dialogo con i Talebani è un passo obbligato" ed è perciò "positivo lo sforzo che stafacendo Draghi per metterlo nell'agenda di una riunione straordinaria dei G20, dove Cina e Russia siedono insieme agli Stati Uniti, ai Paesi europei, all 'India, alla Turchia e all'Arabia Saudita". "Solo una forte pressione internazionale, fondata su un comune interesse per una stabilizzazione dell'Afghanistan, può in qualche modo evitarne le più drammatiche conseguenze". Qualcosa del genere aveva detto Giuseppe Conte, ma è stato lapidato. Ora anche Draghi va su questa linea».
Tommaso Ciriaco su Repubblica racconta la vigilia del G7 vista soprattutto da Palazzo Chigi.
«Ricostruire la fiducia tra i membri del G7, incrinata dalla crisi afghana. E favorire al termine del summit la stesura di un documento che sia digeribile non soltanto dagli Stati Uniti, ma anche - in prospettiva - da Cina e Russia. Ecco gli obiettivi politici di Mario Draghi, che si appresta a portare al vertice di oggi la posizione italiana. Ritagliando per Roma un ruolo "ponte", necessario per mettere in piedi una piattaforma spendibile anche nel futuro confronto con le potenze del G20. È una sfida delicata, in bilico. Draghi ha già ottenuto il via libera informale di Washington a un G20 straordinario. Il nodo, semmai, è a questo punto un altro: avvicinare le posizioni tra l'Occidente, Pechino e Mosca. Nel testo che uscirà dal G7, infatti, saranno declinati tre obiettivi fondamentali: l'accoglienza dei profughi, la lotta al terrorismo e la posizione da tenere con i talebani. Come saranno sviluppati questi capitoli è però il banco di prova di chi vuole portare al tavolo delle trattative Cina, Russia e India. Perché una posizione troppo rigida dei Sette rischia di spaventare le potenze orientali e rimettere in discussione il progetto del G20. A guidare l'azione del presidente del Consiglio italiano c'è soprattutto la volontà di contenere il danno provocato dalla crisi afghana. Attraverso un'evacuazione ordinata che vada oltre il limite del 31 agosto, innanzitutto. E favorendo la presenza di attori non talebani nel prossimo governo a Kabul. Se riuscirà nell'impresa di favorire una piattaforma spendibile non solo nel formato a Sette, ma anche a Venti, Draghi proverà a convocare la riunione del G20 a settembre. La presidenza italiana punta a organizzarlo in presenza, invece che in video conferenza, a Roma o a Pratica di Mare, ma questo scenario è complicato dai tempi stretti a disposizione e dall'emergenza Covid. L'obiettivo sarebbe quello di ospitarlo nei primi quindici giorni del mese, anche se è difficile pianificare un summit del genere senza neanche conoscere ancora con certezza l'esito e la data dell'evacuazione in corso. Pesa inoltre una sovrapposizione nell'agenda, che è anche dilemma diplomatico: l'assemblea generale dell'Onu, nella terza settimana di settembre, può essere preceduta da un incontro di questo calibro? Non sono dettagli. E infatti gran parte dell'attenzione di Draghi è dedicata proprio al vertice di oggi pomeriggio. I contatti con Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, che riferiranno oggi alle Camere, sono quotidiani. Ieri i due ministri, assieme al sottosegretario ai Servizi Franco Gabrielli e al direttore generale del Dis Elisabetta Belloni hanno fatto il punto con il premier a Palazzo Chigi. Il ministro degli Esteri ribadirà in Parlamento la necessità storica di allargare la trattativa al G20. Il titolare della Difesa punterà sulla prospettiva di rafforzare la difesa europea, ma dentro la cornice Nato. Per adesso, comunque, c'è da tamponare la crisi. Significa, nelle intenzioni della diplomazia italiana, iniziare a spezzare la catena di errori che indebolisce l'Occidente ed espone l'Europa al rischio di migrazioni incontrollate e terrorismo. L'attenzione del G7 di oggi, però, non può che essere rivolta alle emergenze più stringenti, a partire dall'evacuazione del personale occidentale e dei loro collaboratori più esposti. I talebani, alla vigilia del summit, hanno minacciato apertamente gli Stati Uniti, chiedendo di non prolungare oltre il 31 agosto la presenza nel Paese. Biden e le Cancellerie europee avrebbero bisogno di più tempo per completare le operazioni. I segnali che arrivano da Washington, però, non sembrano rassicuranti: senza un patto con il nuovo regime non ci saranno proroghe. Draghi, comunque, insisterà con altri leader per chiedere al Presidente Usa di strappare qualche giorno in più. È un risultato giudicato prioritario. La ragione è semplice: il 31 è la data ultima di smobilitazione del personale militare americano. Queste operazioni richiederanno circa 72 ore, dunque l'ultimo giorno per i voli civili americani rischia di essere il 28 agosto. I militari degli altri Paesi alleati dovranno dunque ritirarsi entro il 27 e il trasporto di civili organizzato da Gran Bretagna, Italia, Francia e Germania non potrà svolgersi oltre il 26. L'Italia, al momento, ha messo in salvo già 3.900 persone e punta a riportarne in patria altri mille nelle prossime ore. Meglio di Parigi e Berlino, per ora. Ma non basta. C'è da ricucire politicamente l'asse atlantico. Riconsegnando a Biden il tradizionale ruolo di regista che storicamente spetta agli Stati Uniti. I toni, oggi, saranno fondamentali. Dovranno essere attenti a non urtare il Presidente Usa, nonostante la palese irritazione degli altri Sei. E questo perché tutti sono consapevoli che l'alternativa è assai peggiore, un «vuoto» politico che potrebbe essere occupato dalle autocrazie, per dirla con Gentiloni. La speranza dei leader europei è che il G7 sia capace di elaborare un punto di caduta ragionevole da sottoporre a Pechino e Mosca. Che è poi il progetto di condizionare la formazione del nuovo governo afghano, includendo personalità moderate, e garantire parallelamente la presenza dell'Onu e delle Ong sul terreno, anche per organizzare corridoi umanitari verso Ovest».
PROFUGHI AFGHANI: ACCOGLIENZA O MURI?
Oltre al dialogo con Cina e Russia, l’attenzione occidentale è tutta sulla catastrofe umanitaria provocata dal disordinato ritiro delle truppe. Conchita Sannino per Repubblica dà conto delle preoccupazioni di Paolo Gentiloni, commissario europeo, espresse ieri al Meeting di Rimini.
«Tutti abbiamo visto le scene ripugnanti all'aeroporto di Kabul. Ci sono centinaia di migliaia di persone, se pensiamo alle zone interne forse milioni di cittadini, che vogliono scappare da quella dittatura. Che facciamo? Ci giriamo dall'altra parte?». In pochi minuti Paolo Gentiloni spezza la liturgia degli auspici. O delle autocritiche postume. Bisogna aprire ai profughi afghani. È compito dell'Unione, dice il commissario europeo agli Affari economici. «Niente alibi». Accogliere, cioè, «anche senza l'unanimità » dell'Ue. E la platea del Meeting di Cl di Rimini - cui ha strizzato l'occhio, «perché qui mostrate che ci si può incontrare in presenza e con grandi numeri, ma in sicurezza » - risponde con applausi convinti. Anche quando, sul finale, passerà a chiedere compattezza e impegno ai partiti italiani sulla sfida del Recovery Plan, ricordando di aver erogato «i primi 26 miliardi. Ma gli altri finanziamenti saranno decisi sui risultati. Se poi fossi costretto a bloccare le erogazioni all'Italia, dovrei chiedere asilo in Belgio», ironizza. Ma è sui doveri dell'Europa che spinge. «Quella che passerà come la debacle dell'America è la sconfitta di tutto l'Occidente: ora, però, non possiamo trasformarla in una abiura di quanto abbiamo fatto negli ultimi 20 anni. Sarebbe un errore ancora più grave», premette Gentiloni. Che rileva responsabilità e miopie dell'Unione, chiamata «a potenziare », sotto la minaccia degli eventi, « le capacità di risposta». Per il commissario, dopo lo choc di Kabul, «l'Europa deve garantire due cose molto importanti». Prima azione: rispondere al dramma dei profughi. «Va adottato un modello di accoglienza seria, su quote di immigrazione legale di afghani. E credo che abbiamo il dovere di farlo anche facendo cadere l'alibi dell'unanimità ». L'ex ministro smonta un tabu: «Per accogliere i profughi dell'Afghanistan non serve che tutti i paesi dell'Unione Europea siano d'accordo. È qualcosa che si può decidere a maggioranza». Così replica a distanza, con una battuta secca, al premier sloveno Janez Jansa. Che, da presidente di turno dell'Unione, aveva usato parole quasi sprezzanti contro l'ipotesi dei corridoi umanitari («Non è compito dell'Europa o della Slovenia aiutare e pagare per i profughi afghani») . «Lui è leader di uno dei 27 membri dell'Unione, coordina le attività per il semestre di turno, non ha alcun potere decisionale di alcun tipo», chiarisce il commissario Ue. Ribadendo la posizione già espressa con forza, proprio al Meeting dal presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. «Ci saranno sempre alcuni Paesi contrari - sintetizza quindi Gentiloni - Ma nella cooperazione rafforzata, la protezione temporanea si decide a maggioranza e non all'unanimita ». Quindi, «pace se il presidente ungherese Orban e altri leader europei non saranno d'accordo». Seconda azione, «accelerare» sulla Difesa europea. «Il progressivo ritirarsi degli Usa può lasciare spazio ad altre potenze che non hanno i nostri valori civili. Il modello che dà per scontata la centralità della persona con i suoi diritti non è scontata nel resto del mondo globale», avverte . Ecco perché, insiste Gentiloni, «non possiamo più indugiare, tirarci indietro. E io farò di tutto perché dalla drammatica vicenda dell'Afghanistan si tragga almeno questa lezione: serve una comune Difesa europea. Mi viene da chiedere: se non ora, quando».
Alessia Guerrieri per Avvenire descrive l’atteggiamento globale sui profughi.
«Non sono bastate le immagini che da giorni arrivano dall'aeroporto di Kabul, dove ieri la Cnn stimava circa 20mila persone pronte a lasciare il Paese, a far parlare l'Ue con una voce sola. Perché i 27 Stati membri sono sempre più divisi sull'accoglienza dei profughi provenienti dall'Afghanistan a seguito delle parole di domenica del presidente di turno Ue, il premier sloveno Janez Jansa, per cui «non ci saranno corridoi umanitari: non saremo noi a pagare per i profughi». Una miccia che ha innescato reazioni a catena a cominciare dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz, convinto che l'Unione non debba «ripetere gli errori del 2015. La gente che esce dal Paese deve essere aiutata dagli Stati vicini». Insomma l'Ue «deve proteggere le frontiere esterne e combattere la migrazione illegale ed i trafficanti di esseri umani». Sulla stessa lunghezza il premier Ungherese Viktor Orbán, preoccupato del flusso di migranti in arrivo dall'Afghanistan. «Proteggeremo l'Ungheria. Mandiamo assistenza lì, non portiamo problemi qui», dice, delineando la 'sua' strategia: evitare che i profughi lascino la regione e per questo occorre sostenere la Turchia che avrà un ruolo «fondamentale » per evitare l'ingresso dei migranti in Ue. E la Slovenia ha l'intenzione di convocare per giovedì anche un vertice speciale Ue per discutere della 'risposta agli attuali sviluppi in Afghanistan, compresi il possibile impatto migratorio'. Ma è dal meeting di Rimini che il commissario europeo per gli Affari economici, Paolo Gentiloni, lancia un appello affinché ci sia una assunzione di responsabilità dell'Unione: «Ora niente alibi». Ricordando come il presidente di turno «non ha poteri decisionali» (lo stesso stop a Jansa arrivato sempre da Rimini, domenica, da parte del presidente del Parlamento Ue David Sassoli), sul tema corridoi umanitari «si può decidere a maggioranza. Orbán non sarà d'accordo, altri non saranno d'accordo. (…) Certo è che il tema dell'accoglienza e soprattutto cosa accadrà dopo il 31 agosto, giorno dell'ultimatum dei taleban agli Usa per il ritiro, sarà il nodo dell'incontro del G7 di oggi, lo stesso giorno in cui i ministri degli Esteri e della Difesa, Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, verranno anche sentiti in Parlamento proprio sulla crisi in Afghanistan. Alla vigilia di questi due appuntamenti, così, il presidente del Consiglio ieri pomeriggio ha incontrato proprio i due responsabili dei dicasteri chiave nella vicenda afghana per fare il punto sugli ultimi sviluppi, insieme al sottosegretario con delega alla Sicurezza della Repubblica, Franco Gabrielli, e il direttore generale del Dis, Elisabetta Belloni. «L'evacuazione dei cittadini afghani a Kabul è un'operazione molto complessa e delicata », ha detto poco dopo il ministro Guerini in visita al Comando operativo di vertice interforze (Covi). Lo stesso tema della crisi in Afghanistan è stato affrontato ieri anche dal leader della Lega, Matteo Salvini, nel colloquio avuto a Palazzo Chigi con il premier Mario Draghi. Nel faccia a faccia Salvini ha espresso «grande preoccupazione per la crisi, anche per le potenziali ricadute sul nostro Paese. Non a caso, proprio ieri mattina il segretario leghista ha incontrato a Roma gli ambasciatori di Afghanistan e Pakistan. Ma è al pomeriggio, a margine di un incontro a Città di Castello, che il segretario del Carroccio assicura «la disponibilità di tutti gli amministratori della Lega ad accogliere donne e bambini che rischiano la vita per colpa di questi delinquenti islamici».
Oltre a Gentiloni, ieri a Rimini ha parlato anche il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Cei. Paolo Viana per Avvenire.
«In queste ore, la pace è un posto letto, ma «bisogna essere ordinati nella carità». Il cardinale Gualtiero Bassetti, incontrando i media cattolici corona la riflessione sul 'Mediterraneo, frontiera di pace' che ieri pomeriggio ha fatto il pienone al Meeting, con la conferma di una mobilitazione della Chiesa in favore dei profughi afghani. «Faremo il possibile per il fratello che fugge - ha detto il presidente della Cei -: ci è stato chiesto dalle diocesi di ospitare famiglie e gruppi di famiglie. Però questo è un problema che non può essere affrontato solo dall'Italia. Come ha riconosciuto il presidente Sassoli, solo insieme possiamo affrontarlo e soltanto insieme possiamo mettere le premesse perché queste tragedie non succedano». Poi, un commento perplesso, circa le modalità della smobilitazione militare da Kabul: «All'improvviso sono fuggiti, hanno lasciato tutte le armi. È come mettere un fucile da caccia in mano a un bambino di sei anni... a volte si fanno gesti che non sono sufficientemente pensati; comunque sia, come sempre attraverso la Caritas - perché bisogna essere ordinati nella carità -, ci stiamo allertando». (…) È soprattutto il tema della costruzione della pace attraverso il dialogo interreligioso che ha impegnato il presidente della Cei nel confronto riminese con il sindaco di Firenze: Dario Nardella ha lanciato con la Cei l'iniziativa dell'incontro del 2022 tra vescovi e sindaci del Mediterraneo e al Meeting ha testimoniato tutta l'emozione e la tensione che permea un'iniziativa che promette di essere epocale. Quest' assise è figlia infatti dell'incontro di Bari - «dall'antichità cristiana il respiro mediterraneo mancava nel discernimento ecclesiale dei vescovi» ha ricordato a sua volta il porporato - ma soprattutto di La Pira, che ebbe le intuizioni più folgoranti sulla pace e ne ebbe anche sulla necessità di riunire le grandi religioni abramitiche. «Oggi siamo giunti a un punto della storia umana che non possiamo più permetterci dinamiche di contrapposizione e dobbiamo riscoprire il 'rivale' come abitante dell'altra riva, amico e vicino, il prossimo. Torniamo a essere veri rivali nel Mediterraneo» ha detto il presidente della Cei, raccontando di aver riscontrato un sincero entusiasmo in papa Francesco di fronte all'idea di un nuovo incontro dopo quello in cui, a Bari, il pontefice aveva chiesto di rialzare le città distrutte dalla violenza. I vescovi dell'area, ha spiegato Bassetti, hanno colto l'idea con altrettanto entusiasmo e con loro le autorità delle altre religioni. L'appuntamento è per la prossima primavera, ma «ci stiamo muovendo con gli inviti e tanti vorrebbero partecipare ma ovviamente non è possibile» ha svelato il presidente della Cei sottolineando il valore interconfessionale di un dialogo tra primi cittadini delle diverse confessioni religiose. Si discuterà, ha detto ieri, del problema della cittadinanza, sulla scorta di ciò che disse al Papa l'imam di Al-Azhar e cioè che l'appartenenza a un'unica nautra umana consente già di dire che siamo fratelli. «È importante che anche dall'islam vengano queste riflessioni che vanno nella direzione di una riconciliazione». L'intenzione, con La Pira, è quella di «rovesciare le crociate» ed è importantissimo, ha sottolineato il porporato, l'appoggio dei laici, a partire da Nardella, «perché senza quest' appoggio laico non me la sarei sentita, anche perché mi ero impaurito di fronte all'enormità dei problemi creati dal Covid a Bari» ha commentato Bassetti. Come a Bari, anche tra i vescovi potranno emergere sensibilità diverse, in uno spirito sinodale «che permette di superare l'approccio astratto ai problemi» ha ricordato l'arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. Che ha concluso ricordando come «nei monasteri le monache stanno già pregando per questo incontro di pace e noi abbiamo un grande bisogno della loro preghiera».
Ma come reagiranno i sindaci italiani all’emergenza profughi? Repubblica ha intervistato Antonio Decaro, presidente Anci e sindaco di Bari. Che lancia una parola d’ordine: accoglienza diffusa.
«Non c'è accoglienza senza integrazione. Per far si che questo avvenga l'accoglienza deve essere diffusa». Antonio Decaro, presidente dell'Anci e sindaco di Bari, ribadisce l'impegno dei Comuni a fare la propria parte dinanzi alla crisi umanitaria dei profughi afghani, ma indica anche un percorso. Una strada da seguire per realizzare un vero e proprio modello di integrazione che ancora una volta vedrà in prima linea i sindaci. Il nostro paese in questi giorni è impegnato in un ponte umanitario con l'Afghanistan. Come si stanno organizzando i Comuni? «L'Anci ha da subito proposto una collaborazione ai ministeri dell'Interno e della Difesa per assicurare il supporto dei Comuni alle operazioni di accoglienza delle famiglie afghane, che in questo momento sono gestite a livello nazionale. Abbiamo una rete di strutture, nell'ambito del progetto Sprar, oggi Sai, con alcuni posti che sono destinati, per la legge 141 del 2014, proprio ai cittadini afghani, che può essere estesa e rimodulata secondo le necessità. Abbiamo chiesto di essere coinvolti nella gestione per attuare un sistema di accoglienza diffusa sul territorio nazionale, evitando concentrazioni in poche zone così da non creare tensioni sociali sui territori e favorire l'integrazione». Il sindaco di Firenze Nardella, parlando a Repubblica, ha spiegato che non basterà dare solo una prima accoglienza, ma garantire un futuro a chi arriverà nel nostro Paese. Condivide questa posizione? «Senza dubbio. Per far si che questo avvenga l'accoglienza deve essere diffusa. Quando qualche anno, alla luce di alcuni episodi verificatisi in diversi Comuni dove al cospetto di una popolazione di poche migliaia di residenti furono inviati migliaia di migranti, avevamo chiaro proprio questo principio. Per me l'integrazione passa da un'accoglienza che abbia delle regole, per lo più di buon senso. Se in un comune di tremila abitanti arrivano mille persone di diverse nazionalità è ovvio che la popolazione tenderà a rifiutare questo percorso né le istituzioni, soprattutto quelle territoriali, potranno offrire servizi adeguati e opportunità. Nei casi in cui si sono verificate in passato queste situazioni non c'è stata integrazione ma non si è potuto neanche parlare di accoglienza. Se invece mettiamo in atto un sistema di accoglienza diffusa, succede che in un comune di 3000 abitanti arrivano meno di 10 persone. In questo caso si possono davvero istruire processi di integrazione positivi». Un percorso non sempre facile. «Certamente occorre, come dicevo prima, gestire la collocazione delle persone in maniera ragionata e dando la possibilità ai territori di integrare queste persone. Il nostro è un Paese capace di grandi slanci di solidarietà ma occorre dare ai cittadini e alle istituzioni territoriali la possibilità di accogliere davvero queste persone, non soltanto con spirito caritatevole, ma anche offrendo servizi e opportunità. In questo modo avere la possibilità non solo di accogliere ma anche di accompagnare le comunità locali in un percorso di conoscenza e integrazione. Questa è la sfida che abbiamo davanti, nessuno pensa che sarà facile, ma abbiamo gli strumenti per gestirla insieme».
L’UMANITARISMO È UNA MODA PASSEGGERA?
Domenico Quirico, su La Stampa, scrive un articolo contro intuitivo e urticante. Quirico vede nell’umanitarismo emotivo delle ultime ore la cattiva coscienza dell’Occidente che non vuole fare i conti con i suoi errori.
«La pietà quando procede a ondate, quando diventa una moda mi spaventa. E la nostra, di occidentali, così furiosa, inflessibile anche nei confronti dei beneficiati, come una burrasca, proprio per questo, ha labili durate ed esiti precari. Avviata verso un porto che non si sa, sveltamente, va in bonaccia, vele mosce e mare plumbeo, forza niente. E constatare che quelli che davvero sono in condizione ancora umana, che se la prendono calda risultano i soliti pochi ultimi. Per gli afghani, nell'avvio di un secolo indifferente, di una seccagna della misericordia con poche precedenze nella storia, nel giro di una settimana siamo diventati il continente della pietà, dello slancio umanitario. Non c'è associazione professionale, comune, circolo, che non voglia accaparrarsi l'afghano sventurato che fugge da un Paese che gronda sangue, con la paura appiccicata addosso. Ministri tatuati dalla precedente esperienza in governi rimpinzati di livori xenofobi, che hanno incatenato migliaia di analoghi fuggiaschi al destino di ingombro amministrativo da rispedire indietro con foglio di via poliziesco, si avventano sulla necessità, anzi la obbligatorietà dell'umanitario. Politici e pensatori euro qui ed euro là, con la faccia intensa di chi compie un dovere ingratissimo senza imboscarsi nei distinguo, esigono dagli onnipotenti G20 ponti aerei infiniti. Emergenza umanitaria: fa capolino nell'aggettivo una sfumatura strumentalmente riduttiva. Rimanda cioè a una sciagura quasi naturale, terremoti inondazioni carestie. Scivola indietro l'elemento storico di questo disastro, ovvero che gli uomini le donne e i bambini da salvare sono i relitti di un naufragio politico che ha ben evidenti responsabili, americani e soci, tra cui anche quelli che si offrono di porvi rimedio, per slancio appunto umanitario. Allora si avviano raccolte di pannolini per i bimbi afghani, seguiranno giocattoli dismessi, carrozzelle, vestiti quasi nuovi, quaderni. Qualche ditta annuncia la destinazione umanitaria di residui di magazzino per i vinti della Blitzkrieg taleban, ovviamente con ritorno pubblicitario, mi raccomando lo si faccia sapere. Un sindaco alla radio, elencando l'istinto millenario alla solidarietà delle sue popolazioni, parlava della urgenza di «corridoi umani» per i derelitti del Panshir. Fatti salvi gli irriducibili denunciatori dell'ennesima «invasione» e del «prima noi poi si vedrà» tacciono gli sconci negoziati europei del dare e dell'avere, i traffichetti da mediatori. La solidarietà è cosa che richiede pazienza, umiltà, silenzio, conoscenza di chi si deve aiutare che sono diventati figli del Nulla, iniziano da se stessi. Invece, dopo aver encomiato la buona volontà e lo slancio del cuore, bisogna chiedersi quanto durerà la moda afghana. Tra quante settimane dimenticheremo con la distrazione del disamore quelli rimasti fossilmente là, fuori dall'aeroporto di Kabul perché non avevano il pezzo di carta, e su quelli arrivati in paeselli e città si ammonticchieranno di nuovo valutazioni di parte, contraccolpi delle perizie ideologiche, lo sdegno con il filtro? Il cafard per averli tra i piedi... Ogni tanto occorre farsi scaldare dal passato per non ripetere errori. Ricordo i siriani nell'epoca del bimbo affogato nel mare greco degli dei. Anche allora lo sdegno la pietà, l'accogliamoli tutti quasi universale. Come se ci fossero due eventi: quello vero, del massacro che durava da anni e a cui non avevamo posto alcuna diga; e l'altro rispecchiato televisivamente e sui social. Durò una settimana. Poi tornammo alle nostre indifferenze torbide, fragili, convenienti. La maggior parte di quelli che volevamo accogliere sono nei campi profughi in Libano e Giordania o sono stati consegnati al sultano turco Erdogan in cambio di cospicue somme di denaro. Anche allora, come oggi, comparve la diabolica categoria, il rifugiato utile. Ovvero quello che ha conoscenze linguistiche tecniche e lavorative che ne consentiranno l'utilizzo proficuo nelle nostre macchine produttive. Ci si affanna nelle interviste ai fuggiaschi a scegliere quelli che hanno "titoli ed esami", che hanno lavorato per le armate occidentali. L'afghano utile. La grande operazione umanitaria si autoriduce alla ricerca di manodopera, ovviamente a buon mercato. Nella confusione impressionante di questo salvataggio, nell'onda piena di schiuma di questa pietà c'è posto anche per gli inutili, per quelli che parlano solo il dialetto pasthun, che non sono moderni? O c'è il rischio di accettarli tra gli innumerevoli che abbiamo già deciso di ignorare e negligere senza rimorsi?»
APPROVAZIONE DEFINITIVA PER PFIZER
La notizia più importante sulla pandemia viene dagli Usa. L’autorità americana sui farmaci chiude la fase sperimentale del vaccino Pfizer: viene approvato in modo definitivo. Alessandro Sallusti su Libero.
«Ma guarda un po', la scienza aveva ragione. La Food and Drug Administration, l'ente regolatore dei farmaci americano, ha dato il via libera definitivo al vaccino Pfizer, fino a ieri autorizzato in via sperimentale. Significa che sono caduti anche i residui dubbi sulla sua efficacia e sicurezza e tutto lascia intendere che a breve analogo provvedimento verrà adottato per gli altri vaccini in circolazione. Non è una notizia da poco, oggi cadono gli alibi dei no vax che fin dall'inizio dell'emergenza si sono trincerati dietro il fatto che i vaccini erano per appunto "sperimentali" e che quindi era impossibile renderli obbligatori. La decisione riguarda la somministrazione sopra i sedici anni, non perché al di sotto di quell'età siano stati riscontrati problemi ma solo perché, essendo partita da poco la vaccinazione dei minorenni, i dati non sono ancora completi. Ora c'è da attendere che l'Ema, l'equivalente europeo dell'agenzia americana, completi i suoi studi ed emetta un verdetto applicabile anche in Italia, ma sarebbe curioso che i nostri scienziati giungessero a una conclusione diversa da quella dei colleghi di oltre oceano. Cosa significa tutto questo? Vuole dire che a differenza di quanto sostengono i complottisti anti vaccino non siamo nelle mani di pazzi scatenati assetati di facili guadagni ma che - sia pur anche dentro una logica di business, in fretta e furia e con qualche inciampo - la scienza ha fatto e sta facendo egregiamente il suo dovere. Continuare a sostenere il contrario a questo punto è da criminali e non c'è più motivo che la politica - cioè i governi - si barcamenino tra rigore e tolleranza. Non si può obbligare nessuno a vaccinarsi ma nessuno può essere autorizzato a mettere a rischio la vita altrui sul posto di lavoro e nei luoghi pubblici. Abbiamo sperimentato a "rischio calcolato" nuovi vaccini e la scommessa è vinta. È il momento di sperimentare antidoti di legge a un virus altrettanto pericoloso, quello dell'ignoranza e dell'oscurantismo scientifico ben sapendo che con il Covid, bene che vada, tra varianti e richiami dovremmo fare i conti per anni. Anni che vorremmo passare in una vita e in una economia libere, possibilmente in posizione verticale, ben sapendo che l'immortalità non è prevista in questo meraviglioso mondo».
La ministra Mariastella Gelmini rilancia sul Corriere l’idea dell’obbligo del vaccino. «Non è un’eresia», dice.
«Quindici giorni, poi si prenderanno le decisioni. Con l’alta probabilità di «estendere il green pass» per evitare, in autunno, un nuovo aumento dei contagi. Lo dice Mariastella Gelmini, ministra per gli Affari regionali, che apre anche, se necessario, all’obbligo vaccinale: «Non è un’eresia». All’appello mancano ancora un 13% di italiani per raggiungere l’obiettivo dell’80% dei vaccinati: l’effetto green pass è stato minore di quanto vi attendevate? «È ancora presto per fare un bilancio, perché i dati sono condizionati dall’effetto “generale agosto”. Del resto era prevedibile un rallentamento di queste ultime settimane nella campagna di vaccinazione. Saranno decisivi i dati dei prossimi quindici giorni. L’utilizzo del green pass può essere esteso». Ma siete preoccupati per la ripresa di settembre? «Seguiamo con attenzione i dati: è doveroso mantenere alta la vigilanza, ma se facciamo un ultimo sforzo con la vaccinazione, possiamo guardare con cauto ottimismo all’autunno. È possibile — con la ripresa di tutte le attività e le scuole — che i contagi abbiano una crescita significativa, ma senza le gravi conseguenze cui eravamo abituati». La scuola è la grande variabile, e sembra mancare un piano nazionale. «Non è così: il ministro Bianchi il piano l’ha portato a luglio in Conferenza Stato-Regioni. Sono state stanziate ingentissime risorse per la scuola e per i trasporti, ma non tutto si può fare da Roma: esiste l’autonomia e il ruolo delle cabine di regia provinciali presso le prefetture. La scuola partirà in presenza e resterà in presenza». È possibile che si richieda il green pass anche per gli studenti sotto i 18 anni? «Faccio parte di un movimento che ha sempre creduto nei vaccini e nella scienza. E i numeri ci stanno dando ragione. Ma la scuola è un diritto universale: il green pass per gli studenti può esistere solo nel contesto di un obbligo generale esteso a tutti. Il dato del 60% dei ragazzi fra 16 e 19 anni con già almeno una dose è incoraggiante». Anche i trasporti preoccupano: serve ancora lo smartworking su larga scala per limitare i rischi? «Non abbiamo acquistato oltre 100 milioni di dosi di vaccini per far lavorare gli italiani da casa. Lo smart working deve tornare a essere una possibile modalità di organizzazione del lavoro, prescindendo dai contagi. Ma dobbiamo tornare prima possibile alla normalità, anche sui luoghi di lavoro». Si arriverà all’obbligo vaccinale per i servizi pubblici? «Concordo con il ministro Brunetta: il vaccino sarebbe indispensabile per chi fa front office nella PA e per chi lavora nei servizi pubblici. Del resto l’obbligo vaccinale non è un’eresia: esiste già per alcune malattie. Una decisione del genere però spetta al Parlamento. La mia opinione è che occorre attendere i dati: se dovessimo giudicare irraggiungibile la copertura dell’80% della popolazione non vedrei alternative».
PER LE SCUOLE, VACCINO DELL’OBBLIGO?
La coppia di economisti, Tito Boeri e Roberto Perotti, interviene dalle colonne di Repubblica sulla ripresa della scuola.
«Mancano solo due settimane all'inizio dell'anno scolastico in Alto Adige, tre in molte altre regioni e il caos sulle regole della riapertura regna sovrano al punto che alcuni presidenti di Regione hanno minacciato di ritardare l'inizio delle lezioni. Dobbiamo assolutamente evitarlo: non possiamo permetterci un altro anno di chiusure ricorrenti e di didattica a distanza: gli effetti sull'apprendimento, sulla socializzazione e sull'autostima di una intera generazione di studenti sono stati disastrosi. Per evitarlo c'è una sola soluzione: la vaccinazione obbligatoria per i docenti di scuole e università e almeno per gli studenti universitari, con esenzioni solo per motivi religiosi o comprovati e gravi motivi di salute. Ogni altro provvedimento è un pannicello caldo. Vediamo perché. Attualmente per il personale scolastico è in vigore l'obbligo di Green Pass, che differisce dalla vaccinazione obbligatoria perché può essere soddisfatto anche con un tampone negativo effettuato nelle ultime 48 ore (o se si è certificati guariti dal Covid). Attualmente il 12,8 per cento del personale scolastico non è vaccinato; ora che sappiamo con certezza che il virus sarà con noi per molti anni, è semplicemente ipocrita pensare che fare un tampone ogni due giorni possa essere un'alternativa permanente al vaccino per tutte queste persone. Secondo le norme attuali sulla privacy, un dirigente scolastico non ha il diritto di chiedere se il Green Pass è soddisfatto con la vaccinazione o un tampone. Quindi ogni mattina prima di consentire l'accesso il dirigente deve controllare su una app che ogni insegnante e il personale non docente abbia un Green Pass valido. Semplicemente impossibile. Anche le regole sulle quarantene differenziate (7 giorni per chi è vaccinato, 14 per gli altri) sono attualmente inapplicabili. Con la vaccinazione obbligatoria questi problemi sono risolti. Si dirà che andrebbe cambiata la norma sulla privacy, in modo che il dirigente possa controllare "solo" quella minoranza che deve fare il tampone ogni due giorni. Verissimo. Ma anche questa rischia di essere una soluzione inapplicabile in pratica, perché i tamponi molecolari già oggi richiedono quasi ovunque almeno 48 ore per il risultato: richiedere un tampone negativo nelle 48 ore precedenti è quindi come chiedere la patente a un neonato. È comprensibile che in assenza di regole o con regole poco chiare, i dirigenti scolastici preferiscano non prendersi rischi e chiudere le scuole. La vaccinazione obbligatoria nelle scuole e università non sarebbe affatto inaudita. Cinquecento università americane l'hanno già introdotta, e proprio ieri la città di New York l'ha adottata per i docenti delle scuole pubbliche, eliminando l'alternativa di un tampone settimanale in vigore finora. La vaccinazione obbligatoria ridurrebbe il rischio di nuove chiusure, che avrebbero effetti devastanti su una generazione di studenti già provata. I risultati delle prove Invalsi documentano che non solo c'è stato un peggioramento generalizzato nei livelli di istruzione nelle scuole coinvolte dalla Dad (medie inferiori e superiori), ma soprattutto che i ritardi di apprendimento accumulati nell'anno scolastico sono stati fino a due volte più forti per gli studenti provenienti da contesti socioeconomici e culturali più sfavorevoli. Si sono anche accentuate le differenze territoriali con ritardi più consistenti nelle Regioni che hanno chiuso le scuole più a lungo (Campania e Puglia in primis). Incomprensibilmente, i dati sulla dispersione scolastica (gli abbandoni prima di conseguire il diploma) negli ultimi due anni non sono ancora disponibili. Abbiamo però dati sulla dispersione scolastica implicita, cioè sugli studenti che hanno preso il diploma pur non avendo acquisito competenze di base minime (ad esempio misurate dalla comprensione di un testo in italiano e in inglese): è aumentata di più del 30%, e in Campania e in Calabria riguarda più di uno studente su cinque. Vi sono poi gli effetti su dimensioni non strettamente cognitive, come l'autostima, la perseveranza e la capacità di interagire in modo proficuo con gli altri. Indagini svolte in altri Paesi e condotte in modo rigoroso sono ancora più eloquenti. In Olanda secondo gli studi di Svenja Hammerstein e colleghi il periodo di chiusura delle scuole ha avuto gli stessi effetti sul processo di apprendimento di un periodo di vacanza della stessa durata, vale a dire di un periodo in cui non c'è alcun impegno di apprendimento formale. Le indagini sull'uso del tempo svolte in Germania da Ludger Woessmann e nel Regno Unito da Alison Andrew documentano che soprattutto nelle famiglie più povere gli studenti hanno più che dimezzato le ore dedicate all'istruzione dedicandosi invece ad attività che non hanno un particolare contenuto formativo, come i videogiochi. In Germania gli studi di Ulrike Ravens- Sieberer indicano un aumento dell'80% della percentuale di adolescenti con problemi mentali e del 60% di quelli con forti livelli di ansia. Di fronte a questi numeri, non si può più indugiare sulla vaccinazione obbligatoria anche nelle scuole».
IKRAM LIBERA, PATRICK NO
La ragazza italo marocchina accusata di blasfemia per un post su Facebook è stata messa in libertà. Stefano Feltri sul Domani.
«I giornali non amano dare buone notizie, hanno la fama di vendere poco. Ma per una volta dobbiamo fare un'eccezione, perché il sottosegretario agli Affari europei, Vincenzo Amendola, ha annunciato la liberazione di Ikram Nazih. È una vicenda che, insieme ai nostri lettori, ci siamo presi molto a cuore in un momento in cui sembrava interessare poco, perché il tema politico era stato sollevato soltanto dalla Lega. Una giovane 23enne con doppia nazionalità, italiana e marocchina, che scopre in aeroporto a Marrakech di essere stata accusata di blasfemia per un post satirico a sfondo religioso pubblicato due anni fa per quindici minuti sul suo Facebook. Poiché il Marocco non ha fama di Paese particolarmente integralista, come sanno i tanti turisti italiani che lo frequentano, era chiaro che la vicenda giudiziaria avesse un risvolto politico, forse legato allo scontro che oppone Rabat alla Spagna e all'Unione europea in generale sul fronte dei migranti a Ceuta, l'enclave spagnola, o sulle dispute territoriali sul Sahara occidentale. Come in molti casi simili, dalle autorità filtra sempre un certo fastidio quando i giornali e l'opinione pubblica si occupano del caso e sollecitano una pronta risposta: lasciateci lavorare, dicono. In questo caso c'è stata una significativa mobilitazione dal basso, in pochi giorni la petizione che abbiamo lanciato come Domani su Change.org ha raggiunto oltre 50.000 firme di persone preoccupate per Ikram e per il silenzio che circondava la sua condizione. Abbiamo visto con il caso di Patrick Zaki, incarcerato in Egitto dal 7 febbraio 2020 sempre per alcuni post Facebook, quanto è frustrante ma necessario scandire i tempi dell'ingiustizia con le poche, pacifiche, armi a nostra disposizione: quelle della parola, cartacea e soprattutto digitale. Ikram è anche cittadina italiana e la sua detenzione in Marocco era doppiamente grave. La sua liberazione arriva come un piccolo segnale di speranza in giorni molto cupi nei quali il cinismo rischia di soppiantare il desiderio di giustizia che per anni ha animato tanti attivisti in Paesi difficili e anche coloro che ne raccontavano l'impegno nei media. Di fronte al crollo di Kabul, la rassegnazione e lo sconforto sono state le reazioni più diffuse: le armi e gli aiuti miliardari hanno fallito, gli avvertimenti del movimento pacifista sono stati ignorati, i Talebani hanno prevalso e ora non c'è modo di condizionarne le feroci ambizioni. Il caso di Ikram dimostra invece che difendere i diritti, in patria e ogni volta che è possibile anche all'estero, è l'essenza e la missione delle nostre democrazie, non c'è relativismo culturale che tenga, nessuna indulgenza verso gli altrui costumi può giustificare l'abuso, specie se per punire un crimine senza vittime quale è la blasfemia».
Brutte notizie invece ancora per Patrick Zaki, ingiustamente detenuto nelle prigioni egiziane. L’aggiornamento del Corriere.
«La custodia cautelare in carcere per Patrick Zaki è stata rinnovata di altri 45 giorni. Lo ha comunicato ieri alla stampa una legale dello studente egiziano dell’Università di Bologna, Hoda Nasrallah. «45 giorni, è ufficiale», ha scritto in messaggi la legale che è riuscita a farsi dare dai cancellieri la notifica dell’esito dell’udienza svoltasi ieri. Patrick Zaki, studente egiziano che frequentava a Bologna un master di studi di genere, è stato arrestato il 7 febbraio 2020 al Cairo, dove rientrava per fare visita ai parenti, per vari capi d’accusa tra cui «minaccia alla sicurezza nazionale». I suoi legali denunciano che ha subìto torture. Da allora il tribunale continua a rinviare, di 45 giorni in 45 giorni, l’inizio del processo a suo carico»..
UNA “LEGGE” PER IL PAPA EMERITO?
Libero torna sull’argomento sollevato ieri nell’articolo di Socci sulle possibili dimissioni del Papa e conseguente nuovo Conclave. Caterina Maniaci sostiene che sarebbe imminente un documento pontificio sull’istituzione del Papa emerito.
«L'eccezione che diventa regola: un documento pontificio potrebbe essere pronto a breve per "regolare" l'istituzione del papato "emerito". Perché la situazione odierna, con papa Francesco regnante e papa Benedetto XVI appunto emerito potrebbe ripetersi. Ieri su Libero Antonio Socci ha analizzato appunto la questione di un possibile Conclave, di quali esiti potrebbe avere, in relazione allo stato di salute di Francesco e alle ipotesi di una scelta, per lui, simile a quella del suo predecessore, ossia le dimissioni. Spiegando che per queste dimissioni serve una legge sullo statuto del "papa emerito" (definizione e titolo che si è introdotto ad hoc ma che nel diritto canonico non esiste). Altrimenti si potrebbe creare una situazione-choc, con due o più pontefici emeriti. E allora, sarebbe il caos. L'intervento di Socci ha suscitato reazioni ed è stato rilanciato da molte testate e, ovviamente, dai social. Sull'Huffington Post Maria Antonietta Calabrò rimanda ai rumors negli Usa, citando il decano dei vaticanisti americani John Allen che all'inizio di agosto ha lanciato l'allerta per un possibile August surprise. Di che si tratta? Proprio della possibilità che papa Francesco possa presto promulgare una nuova legge per disciplinare le dimissioni del Papa, e soprattutto lo status successivo alla rinuncia di un Pontefice. Questo, ricorda la giornalista, «anche per evitare tutta una serie di interpretazioni fuorvianti sull'esistenza di due papi» che creano confusioni. Va sottolineato ancora una volta: l'ombra di quanto accaduto ai tempi dei Papi e anti-Papi, degli scismi e delle lotte intestine, sebbene lontana nel tempo, in realtà non ha smesso di allungarsi e di provocare inquietudine anche questi anni di "coabitazione" pacifica e anzi affettuosa di Ratzinger e Bergoglio. Ma se in futuro si determinasse la situazione di un Papa regnante e di un emerito che non siano in buoni rapporti, oche fossero strumentalizzati per creare correnti, "partiti" e fazioni diverse, fino allo scontro e tornasse il fantasma dello scisma? Non si tratta poi di fanta-fiction, il rischio c'è. Non sarebbe nemmeno escluso che per la nuova legge non esistesse affatto un Papa emerito, ipotizza l'articolo dell'Huffington, e questo fatto avrebbe conseguenze molto profonde. La salute e la malattia del Papa, di Francesco, ma anche dei suoi successori, è all'origine degli scenari su dimissioni, conclavi, papabili e non papabili. Al di là delle reali condizioni di Bergoglio, il problema è alla ribalta da decenni, in particolare durante l'ultimo periodo del pontificato di Giovanni Paolo II. L'età media si è allungata, la possibilità di un Pontefice afflitto da patologie invalidanti è sempre più concreta e quindi anche la necessità di studiare alternative che non mettano in discussione la figura del Papa, ma allo stesso tempo consentano un pieno governo della Chiesa universale».
Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.
Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.