La Versione di Banfi

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Al Colle Casini o Belloni

alessandrobanfi.substack.com

Al Colle Casini o Belloni

Oggi quarta votazione che abbassa il quorum a 505. Ma non c'è ancora l'accordo. Centro destra diviso da ieri. Bruciati molti nomi, ipotesi Cassese. Ucraina, tante armi e poca diplomazia. Il Papa prega

Alessandro Banfi
Jan 27, 2022
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Al Colle Casini o Belloni

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Fumata nera ieri anche al terzo scrutinio, l'ultimo dove per raggiungere il quorum servivano 673 voti. Dalla votazione di oggi (si comincia stamattina) invece ne bastano 505, la maggioranza semplice. Statisticamente sarebbe il giorno buono per il nuovo Presidente. Ma i giornali prevedono ancora un nulla di fatto. Si è rotta una solidarietà del centro destra (accantonata la rosa Moratti, Pera e Nordio, e la carta di riserva Casellati), anche perché ieri mattina i grandi elettori di Fratelli d’Italia hanno votato Guido Crosetto che ha ottenuto ben 114 voti, il doppio di quelli disponibili sulla carta. E dunque resta il dialogo e la possibile convergenza su un candidato o una candidata super partes. Ieri pomeriggio si è diffusa la voce che Matteo Salvini avesse incontrato Sabino Cassese nella sua casa, ma poi è stata smentita. Cassese, per l’età e il prestigio, poteva apparire come una specie di Mattarella bis sotto altra forma. Un presidente di garanzia, ma con scadenza inferiore ai 7 anni. A proposito, ieri il più votato è stato proprio Sergio Mattarella, con 125 schede. Ma in questo ruolo stamattina il Corriere della Sera vede più probabile l’elezione di Elisabetta Belloni.

Colpisce però che ieri fra i tanti voti espressi nella prevalenza di schede bianche, ci fossero pochissime donne e con pochi voti, la Belloni con tre. Forse leader e grandi elettori si dovrebbero davvero sforzare di trovare una donna, visto che sono comunque alla ricerca di una figura condivisa che non faccia chiudere l’esperienza del governo Draghi, e la legislatura, anticipatamente. Vedremo. Alle 11 si torna a votare.

Sul fronte della tensione per l’Ucraina, gli ambasciatori hanno risposto per iscritto al Cremlino. Si spera che il filo della diplomazia non venga interrotto, anche se il clima occidentale è reso pesante dalla pressione militare americana. Gli Usa sono anche irritati con Francia e Germania (che avrebbero dovuto spedire più armi), mentre in Italia è stata criticata una riunione di imprese italiane con Vladimir Putin, collegato in videoconferenza dal Cremlino, che pure ha rassicurato sulle forniture di gas. Sembra quasi che l’esclusiva degli affari e del dialogo con Mosca spetti ad altri Paesi. Ieri giornata di preghiera in tutte le chiese, indetta da Papa Francesco, che ha chiesto di invocare protezione per il popolo ucraino e perché si fermi l’escalation militare.  

Oggi, 27 gennaio, giornata della memoria della Shoah nel nostro Paese. Molti gli articoli e le iniziative sui quotidiani (bella controcopertina della Stampa). Torna alla memoria la pagina di diario di Primo Levi, proprio relativo a questa giornata, nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo: il racconto del primo tè fatto per i compagni dell’infermeria, sullo sfondo il rumore dei cannoni sovietici che stavano per liberare il campo di Auschwitz: “Pensavo che la vita era bella e avrebbe continuato a essere bella”.

È disponibile da oggi il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.

Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

https://www.spreaker.com/user/15800968/serena-andreotti

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La rosa si è ristretta, molti petali sono caduti ma i giornali non concordano sui candidati al Colle superstiti. Per il Corriere della Sera restano in gara Casini, Draghi e Belloni: Quirinale, si tratta su tre nomi. Avvenire sottolinea che la riunione ad oltranza non c’è stata: Non si fa l’alba. Infatti per il Manifesto è buio pesto: Quirinotte. Il Quotidiano Nazionale sostiene: Pochi nomi rimasti. Oggi si fa sul serio. Per Il Fatto c’è la volontà di un accordo: Habemus Conclave. Il Giornale gioca facile sul cognome del candidato lanciato da Renzi: Come uscire dai Casini. Il Domani attacca la presidente del Senato: Superbonus Casellati. Il Mattino vede la luce: Quirinale, la stretta dei partiti. Così come Il Messaggero: I partiti verso l’accordo finale. Per La Repubblica niente più candidati di parte: La rosa bipartisan. La Stampa sintetizza così: Ora la sfida è tra Draghi e Casini. Libero voleva un Presidente del centro destra: L’ultimo ricatto. Il Sole 24 Ore sta sulle notizie economiche: Tassi, la Fed conferma i rialzi. Wall Street fallisce il rimbalzo. La Verità ha una botta di fantasiosa creatività, apre il giornale sul Covid: Pregliasco ci ripensa: operiamo tutti. Ma altri ospedali respingono i no vax. Ah, ecco.

SCHEDE BIANCHE GIORNO 3, DA OGGI QUORUM A 505

Fumata nera ieri anche al terzo scrutinio, da oggi cambia il quorum: bastano 505 voti per eleggere il nuovo capo dello Stato. Ieri a sorpresa sono stati votati Sergio Mattarella e Guido Crosetto, perché quelli di Fratelli d’Italia si sono sottratti alla scheda bianca. La cronaca di Virginia Piccolillo per il Corriere.

«Prove tecniche di aggregazione. In attesa del nome condiviso, capace di raggiungere il quorum, da oggi sceso da 673 a 505 voti, ieri si è assistito alla terza fumata nera. Con novità che in una giornata segnata dal coinvolgimento (e la bocciatura del Pd) della presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, assente a tratti dal suo scranno, hanno mostrato una prima conta. Voti strambi ci sono stati ancora: da Marco Tardelli a Terence Hill. Ma sono scese le schede bianche (412) e i voti dispersi (84). E sono spuntati pacchetti di voti. Ben 125 Grandi elettori hanno votato per un Mattarella bis, da lui stesso sempre escluso con motivazioni personali e costituzionali. Su di lui ha virato anche un gruppo dei Cinque Stelle convinti, come molti a sinistra, di poter, alla fine, superare quel «no». Ma la vera sorpresa del giorno è stata il successo di Guido Crosetto di Fratelli d'Italia: 114 voti che hanno seguito la dichiarazione di intenti di Giorgia Meloni di non voler continuare a votare scheda bianca. Un segnale inviato agli alleati della capacità aggregativa di FdI che ha quasi doppiato i suoi 63 grandi elettori. Lui non si è illuso. E ha twittato: «Sono commosso. Tranquilli, da domani tutto torna normale». Balza in avanti a 61 voti, da 37, Paolo Maddalena, l'ex vicepresidente della Corte costituzionale che avversa le privatizzazioni di beni e servizi pubblici, votato da Alternativa e da altri ex M5S. Quarto, con 52 voti, Pier Ferdinando Casini, fino a ieri, prima del veto del centrodestra, tra i più quotati per il Quirinale. A seguire, con 19, Giancarlo Giorgetti leghista dissidente con la linea del «no» a Mario Draghi. In calo Marta Cartabia (8) seguita da Luigi Manconi, Luigi Bersani, Umberto Bossi, Marco Cappato. Silvio Berlusconi e Nicola Gratteri, pari a 4 voti. A 3, ma in ascesa, Elisabetta Belloni».

BELLONI UNICA DONNA RIMASTA IN CORSA

L’accenno finale della cronaca di giornata non è casuale. Al Corriere della sera sono convinti che Elisabetta Belloni resti in corsa insieme a Casini e Draghi. Il retroscena è di Francesco Verderami:

«Quattro anni fa la legislatura nasceva sotto le insegne delle forze populiste. Quattro anni dopo, nella sfida decisiva sul capo dello Stato, quelle stesse forze non solo evidenziano limiti nelle manovre di Palazzo, ma soprattutto si trovano a dover scegliere per il Quirinale candidati che rappresentano quei mondi contro cui si erano battuti. Ed è così che si presentano alla quarta votazione per il Colle, che per ogni leader è l'esame di maturità, la prova da superare per arrivare ad intestarsi l'elezione del presidente della Repubblica. Già ieri il king maker Salvini è stato tatticamente messo sotto dalla Meloni, ed era solo la terza chiama. La mossa con cui Fratelli d'Italia ha rotto la parvenza di unità del centrodestra - votando Crosetto come nome di bandiera - ha tolto dal campo l'ipotesi del «candidato di blocco», cioè la prospettiva di puntare sulla Casellati con l'idea di agganciare a scrutinio segreto i voti necessari per portare la presidente del Senato al Quirinale. In più, vista le messe di consensi che ha ottenuto, la Meloni ha cambiato i rapporti di forza nell'alleanza. Preparandosi così alla battaglia successiva: «E se ora nel centrodestra qualcuno pensasse di appoggiare Casini, noi ci opporremmo gridando alla casta». L'ex presidente della Camera è avvertito da FdI come una minaccia al bipolarismo, come «il cavallo di Troia» per un ritorno al centrismo. Ecco perché Salvini non può - semmai l'avesse voluto - indirizzarsi verso questa soluzione. Che resta forte in Parlamento, ma rischia di far saltare la maggioranza di governo, dato che nell'altro campo un pezzo di M5S minaccia di andare all'opposizione se fosse eletto Casini. E pure un pezzo del Pd riterrebbe l'approdo «esiziale», perché - oltre a consegnare l'ennesimo successo a Renzi - provocherebbe uno sconquasso negli equilibri politici. «Sarebbe - secondo un dirigente dem - l'inizio della nostra fine». Che è l'epilogo a cui si preparano i grillini, dove si approssima ormai la scissione. Quando Conte ha alzato la voce per spiegare a Letta che «io Draghi non lo voterò mai», Di Maio ne stava parlando con Giorgetti. «Tanto lo sappiamo che si arriverà a Draghi», sussurrava ieri l'ex ministro Spadafora. Divise e senza una chiara strategia, le maggiori forze in Parlamento faticano a trovare un compromesso anche su una «figura terza». Ieri sono filtrate indiscrezioni sul giurista Cassese, che Salvini ha provveduto a smentire. E hanno preso forza le voci di un'intesa tra Conte e Letta sul capo dei Servizi Belloni, che metterebbe tra parentesi il tema sollevato dai partiti sulla candidatura di Draghi al Quirinale: il timore della loro «delegittimazione», visto che i vertici dello Stato sarebbero affidati solo a tecnici. Tant' è che è iniziato un fuoco di sbarramento contro queste opzioni, nelle segreterie, nei ministeri di peso e anche nei gruppi parlamentari. In una corsa al Colle priva di un regista, l'accelerazione che ieri sera è stata impressa - quasi fosse vicina una soluzione - è parsa un'abile strategia di tensione comunicativa. Un modo per nascondere le difficoltà di Salvini da una parte e del rassemblement giallorosso dall'altro. Al punto che tra le maglie slabbrate di una trattativa in stallo si è inserito Berlusconi. Il grande elettore che non c'è, il candidato al Colle che non c'è più, ieri ha avviato un giro di telefonate, e dopo aver chiamato Salvini, ha preso a contattare i maggiorenti del centrosinistra. Oggi la quarta chiama non offrirà la soluzione, ma è evidente che il cerchio si stringe: Casini, Draghi e la «terza figura», che per molti ha il profilo di Belloni. I giallorossi si preparano a votare una scheda bianca difensiva. Nel centrodestra il voto potrebbe essere un passaggio pericoloso, perché potrebbe montare il dissenso che ieri si è già manifestato a scrutinio segreto. Si vedrà se l'atteggiamento del leader leghista è dovuto alla prudenza per arrivare all'obiettivo, che per un pezzo del Pd è Draghi. D'altronde, come spiegava ieri uno dei massimi esponenti del Carroccio, «se decidessimo di non votare Draghi al Quirinale, poi dovremmo accettare la sua impostazione di governo. E cosa faremmo se non ci piacesse e la Meloni ci bombardasse dall'opposizione: apriremmo la crisi? E come lo spiegheremmo agli italiani?». Nessuno può più fare errori».

SALVINI È AL BIVIO: O CON LETTA O CON LA MELONI

Nel retroscena di Emanuele Lauria per Repubblica si racconta che, bruciati tutti i nomi, Salvini nell'angolo cerca una via d'uscita.

«Salvini? È il mistero glorioso del Santo rosario». E se lo dice il cattolicissimo Maurizio Lupi, alleato centrista che giunge a sera stanco e spazientito, c'è da crederci. Il leader della Lega, alla vigilia della quarta votazione che potrebbe essere decisiva e chissà se lo sarà davvero, resta prigioniero dei suoi segreti. Dei suoi annunci, dei molteplici forni aperti, della tenaglia costituita dagli interessi del centrodestra e da quelli della maggioranza di governo. Nel giorno in cui, ora dopo ora, tenta di far passare l'idea di avere un coniglio nel cilindro, lascia tutti con il dubbio di essere un criceto nella ruota, per restare alla metafora faunistica. Solo oggi si scoprirà un'altra parte della verità ma la strettoia in cui si è infilato il capo del Carroccio lo sta portando dritto a una candidatura che - a dispetto delle sue intenzioni - probabilmente non sarà espressione diretta della sua coalizione. Lo ha portato persino a dover valutare (senza entusiasmo) la soluzione dall'inizio più invisa, Pier Ferdinando Casini, che nel frattempo da una stanza d'ospedale ha ricevuto il benestare di Silvio Berlusconi, il primo dei nomi saltati in questo remake dei "Dieci piccoli indiani" a regia salviniana. Ora sta lì, il senatore milanese, a cercare una via d'uscita condivisa - senza diritti di prelazione - che era poi quello che i giallorossi gli chiedevano dall'inizio. Ma con il fiato sul collo di Giorgia Meloni, che continua a reclamare un nome di centrodestra votato dal centrodestra e che si è stancata della liturgia dell'attesa e delle schede bianche e ieri ha voluto lanciare un chiaro avvertimento con le fattezze di Guido Crosetto: difficile pensare che in quei 51 voti in più della dotazione di Fdi presi dall'ex deputato non ci siano consensi leghisti. Così come non sono certo un segnale di fiducia, per l'ex ministro dell'Interno, le 26 preferenze andate ieri a Giorgetti e Umberto Bossi. Il destino è a volte gramo, per i playmaker veri o presunti. Non è che sia mancato, anche ieri, l'attivismo di Salvini che si picca di avere «il cellulare acceso dalle sei di mattina alle due di notte». In mattinata, all'ora del caffè, il primo incontro con Meloni e Tajani, e lo scontro sulla strategia per la terza votazione. Finisce con un pezzo della coalizione a votare scheda bianca, un altro su Crosetto e un altro ancora a esprimere consensi "spuri" pungenti come spine. La prima sconfitta della giornata. Poi la solita girandola di contatti a tutto campo, mentre Pd, Italia Viva e 5Stelle bloccano il nome di Maria Elisabetta Casellati, un'altra delle illustri vittime delle grandi manovre dei vertici del centrodestra. Esposta al tiro dell'artiglieria rivale esattamente come Franco Frattini. Nel pomeriggio, per Salvini, una telefonata a Berlusconi per cercare di capirne di più da una Forza Italia dilaniata e una misteriosa assenza dai radar per un paio d'ore, in cui si inserisce il giallo del presunto incontro con il giurista Sabino Cassese. La visita nell'abitazione dei Parioli viene smentita da fonti leghiste, il segretario si schermisce: «Cassese non so neppure dove abiti». Ma il dubbio che sia una comoda bugia rimane. Anche il nome di Cassese finisce fra i papabili, e c'è da giurare che se verrà fuori Salvini sarà pronto a metterci il cappello. Di certo, alle cinque della sera, Salvini ha un moto d'ottimismo. Convoca i governatori, lo stato maggiore leghista, poi tutti i grandi elettori. Quasi esulta: «La soluzione può essere vicina». I leghisti che vanno a incontrarlo, sperando di conoscere qualche nome, restano delusi. Da deputati e senatori riceve un lungo applauso e ricambia con un incitamento: «Rimaniamo uniti ». Resta nel vago e parla di «una decina » di candidature possibili ma aggiunge un particolare importante: «Vedrò gli alleati di governo». Insomma, il refrain è «la sinistra non può dirci sempre di no», però la linea della forzatura d'aula, su un profilo di centrodestra, sembra venire meno. Come i nomi della triade annunciata appena martedì: Pera, Moratti, Nordio. Il finale non è scritto ma Salvini è davanti a un incrocio pericoloso. Può accettare, come sembra, il confronto con i giallorossi e convergere su una soluzione "terza", magari istituzionale, forse intestandosela ma comunque rinnegando la primazia della sua coalizione. In alternativa può accettare la "spallata" chiesta da Meloni: salverebbe forse il centrodestra (con rilevanti perdite fra Fi e centristi) però farebbe probabilmente cadere il governo. E in caso di sconfitta direbbe addio alla leadership dello schieramento. La terza via, quella di proporre Mario Draghi per il Colle, con una scelta su cui Fdi non sarebbe ostile, continua a negarla: «Il premier resti dov' è». La sedia del "regista", per l'irrequieto Capitano, si è rivelata quanto mai scomoda».

DRAGHI NON HA CHANCE DI ANDARE AL COLLE

E Mario Draghi? Quali sono le mosse e gli umori del Presidente del Consiglio? Prova a rispondere Ilario Lombardo per La Stampa.

«Mario Draghi si è assentato meno del solito, ieri, da Palazzo Chigi. Un modo per evitare di aprire interrogativi su chi avrebbe incontrato e dove, e per lasciare alla politica il palcoscenico totale di questa ridda impazzita di nomi. Ciò non vuol dire, però, che si è semplicemente accomodato nel suo ufficio da spettatore. Ha tenuto i contatti con il leader al telefono. Ha parlato con il segretario del Pd Enrico Letta, il suo più forte alleato al momento, e ha sondato le intenzioni, imperscrutabili a molti, del segretario della Lega Matteo Salvini. Il prezzo della trattativa sul Quirinale è ancora il governo. Senza un accordo, e una prospettiva chiara di legislatura, Draghi non ha chance di trasferirsi al Colle. È l'unico dato di verità ormai chiaro a tutti. A partire dal premier. La speranza dell'ex banchiere è tutta nell'attesa che anche oggi la giornata evapori in una fumata nera e tante schede bianche. In questo modo si terranno in vita i negoziati. E magari si aprirà finalmente un tavolo dei leader, come spera Draghi. Il capo del governo non può che suggerire questa soluzione: un patto sui ministri, su chi farà il presidente del Consiglio, sulla formula migliore per il governo, ma totalmente costruito e gestito dalle forze politiche. Il confronto dettagliato con il premier partirebbe solo in un secondo momento. Con lui al Quirinale e non più a Palazzo Chigi. C'è una linea rossa che ha fissato Draghi ed è questa, ribadita ancora ieri ai leader. «Le forme della Costituzione vanno rispettate». È il presidente della Repubblica ad avere la prerogativa di indicare un presidente del Consiglio e di nominare su sua proposta i ministri. Questo non vuol dire che non sia stata manifestata totale disponibilità da parte dei collaboratori del premier alle richieste di ministeri e sottosegretari di Lega, Italia Viva e Coraggio Italia. Una trattativa sotterranea c'è da settimane e continuerebbe, anche se Draghi dovesse salire al Quirinale, nei giorni naturali della crisi. Ci sono ancora degli ostacoli da superare, però. Molto più difficili del coro di no alla candidatura del premier che quotidianamente viene raccolto in Transatlantico. Uno su tutti è il veto di Silvio Berlusconi. Confermato al telefono, a quanto pare, anche a Matteo Salvini. Qualcosa però non torna. Da due giorni Palazzo Chigi smentisce che ci sia stata una telefonata di Draghi all'ex premier, ricoverato all'ospedale San Raffaele. Risulta che ci sarebbero stati dei tentativi andati a vuoto, e uno scambio di messaggi tra collaboratori. Ma perché Berlusconi risponde al telefono a Salvini e non a Draghi? È solo una delle tante parti di un rebus ogni giorno più complicato. Visto da Palazzo Chigi, lo è anche il ruolo che sta giocando Giuseppe Conte. Luigi Di Maio lavora con un gruppo di fedelissimi per arrivare a Draghi, mentre il presidente del M5S continua a ribadire il suo no. Da quanto è stato riferito agli sherpa del presidente del Consiglio, l'avvocato in tasca avrebbe una strategia a due livelli, condivisa, a suo dire, con Letta e con Salvini. O si va su un nome terzo, di «altissimo profilo», che possa «convivere» con Draghi premier, evitando contraccolpi sugli equilibri di governo, o si convergerà su Sergio Mattarella. Ma sul bis deve prima convincersi la Lega. Nel primo caso i nomi considerati più competitivi, che tra i democratici e i 5 Stelle faticano a tenere nascosti, sono la coordinatrice dei servizi segreti Elisabetta Belloni, l'ex ministro della Giustizia Paola Severino, e l'ex presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi. Sono nomi che hanno certamente una levatura istituzionale e un apprezzamento da parte di Draghi, ma non sono figure politiche, e dentro il Pd considerano un problema il fatto che l'Italia si ritroverebbe al Quirinale e a Palazzo Chigi due tecnici. E se fosse invece Casini, lui sì un esperto navigatore della politica da quasi quarant' anni? Draghi smentisce che farebbe in modo di andarsene, ma al momento attorno a lui non credono ancora al trionfo dell'ex Udc».

5 STELLE, CONTE SI SENTE CRISTIANO RONALDO

Gli esperti di retroscena del Movimento 5 Stelle raccontano che il malessere per ora si è manifestato nelle schede per il bis di Mattarella. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Cronache di una giornata di ordinaria follia: poco prima dell'assemblea di Giuseppe Conte con i grandi elettori fissata per le 21 - e per l'occasione è stato prenotato un cinema d'essai, la sala parrocchiale da 300 posti amata dagli studenti universitari a due passi da piazza Bologna - piomba un'agenzia di stampa firmata "fonti M5S". Dice: «Se gli alleati del Pd votano Pier Ferdinando Casini con il centrodestra noi non ci stiamo e andiamo all'opposizione». Bum, altra bomba di giornata, la bocciatura di un nome quotatissimo, stavolta alzando il tiro anche verso i dem. La notizia fa un gran baccano interno e anche fuori, non si capisce cosa stia succedendo, del perché questa improvvisa ostilità. Passa un quarto d'ora e dall'ufficio comunicazione arriva lo stop: «Agenzia da non riprendere». La palude dei 5 Stelle sta tutta in questo episodio e negli schizzi di fango ci sono i tre fattori chiave della lunga trattativa: la determinazione di Conte che ormai ha tratteggiato la sua linea gotica, ovvero il no senza appello a Mario Draghi al Quirinale; i dubbi e le diplomazie parallele di Luigi Di Maio, che invece alla fine dopo settimane di silenzio ha fatto intendere come, per lui, si tratti di una strada che porta il Movimento a sbattere; la preoccupazione, quando non il terrore, di decine e decine di parlamentari in mezzo ad una elezione- tempesta che rischia di farli naufragare, ovvero rimandarli a casa causa fine anticipata della legislatura. Ieri (e almeno per un giorno poi si vedrà) sono emersi, vincenti, i grandi elettori del Movimento spiaggiati in Transatlantico che, è il colmo, chiedono ai giornalisti se hanno notizie, invece di darle. Il senatore Vincenzo Presutto era stato profetico, svariati giorni fa, dicendo o forse avvertendo che «guardate, i leader ragionano, ma poi nei catafalchi ci entriamo noi». Loro, a decine, sono andati contro alla direttiva della scheda bianca votando Sergio Mattarella, qualcun altro (meno) per Paolo Maddalena. A metà pomeriggio l'ex sottosegretario Simone Valente, imperscrutabile e sempre allergico alle polemiche, annotava solo una cosa: «Se l'indicazione dei vertici era la scheda bianca e in così tanti dei nostri hanno votato per Mattarella, beh, è sintomo di un malessere». Stefano Buffagni, che è contiano ma anche draghiano e non l'ha mai nascosto, scherza: «Le schede bianche sono in testa, siamo primi!». L'altro retroscena è che, vedendo i consensi per Mattarella salire, i vertici che avevano sempre liquidato la possibilità come impraticabile hanno tentato subito di riposizionarsi o comunque di non lasciare scoperta l'opzione del M5S sul bis. Viene precettato uno dei cinque vicepresidenti, il senatore Mario Turco, e vai con la dichiarazione: «Questo consenso per l'attuale presidente è frutto del suo grande lavoro». Il take passa di chat in chat, l'ex sottosegretario Gianluca Vacca legge e scuote la testa, il deputato Sergio Battelli aggiunge che «così non vale, dai», il collega Diego De Lorenzis sottolinea che «comunque quelli sono voti che arrivano dappertutto, le divisioni sono trasversali ma poi parlano solo di noi». In mattinata, poco prima della terza chiama, altro conciliabolo di eletti del M5S. «Seguimi - ragiona un parlamentare - un pezzo dei nostri voti, quelli contiani, potrebbe finire a destra, a sostegno di Maria Elisabetta Casellati. Sai perché? Così salta tutto, il governo e la legislatura, si torna a votare e Conte si porta qui dentro i suoi. Sicuramente meno persone, ma "sue". Non possiamo permetterlo». Al di là di tutto un pezzo di Movimento continua a non fidarsi delle reali intenzioni del presidente, teme che il gioco al rialzo e la chiusura totale su Draghi nascondano altri obiettivi. «Se finisce che al Colle ci va un nome ufficialmente contrario alle nostre volontà poi però chi ci guida deve dimettersi», è l'altra riflessione a microfoni spenti. Il capogruppo Davide Crippa viene chiamato da parte da un gruppetto di colleghi, domande su domande, «ragazzi calma, niente ansia», prova a rasserenarli. Allora alla fine, al termine di una giornata che ha riservato solo inutili massicce dosi di tensioni interne, tocca proprio a Conte provare a chiarire parlando ai suoi, a spiegare che «nessuno scambi la riservatezza della trattativa con una mancanza di trasparenza». Chi si aspettava la ciccia, cioè una soluzione possibile, deve ancora aspettare. Chi pronosticava una dura reprimenda ai ribelli per Mattarella, è smentito. «Io sono il centravanti di questa squadra, ma se non arrivano palle buone è complicato», è la battuta calcistica dell'ex presidente del Consiglio. Alle dieci e mezzo è finito tutto, dibattito poco o nulla, tossine parecchie».

LETTA, LA DIFFICILE MISSIONE DI TENERE TUTTI INSIEME

Le mosse del Pd. Enrico Letta riesce a tenere l’alleanza coi 5 Stelle solo sul nome di Elisabetta Belloni. Oggi intanto vota ancora scheda bianca, mentre si rafforza l’asse con Renzi. Maria Teresa Meli.

«Enrico Letta sa che la soluzione della vicenda del Quirinale passa inevitabilmente per Matteo Salvini. Gli sherpa di Pd e Lega hanno continuato a trattare per tutta la giornata e ieri in tarda serata i due leader si sono parlati insieme a Conte e Renzi. Intanto i tre alleati del centrosinistra meditano di andare con il nome di Elisabetta Belloni, l'unica candidatura che non provoca una rottura tra pd e grillini. Prima il segretario dem ha incontrato i ministri e i capigruppo: la cabina di regia ristretta, a poche ore da un'altra riunione, quella con i grandi elettori. Ai big del partito Letta ha spiegato che «ci sono concreti segnali di apertura da parte di Salvini sulla possibilità di una candidatura condivisa nell'ambito della maggioranza di governo». Ma il leader dem manteneva lo stesso un atteggiamento molto prudente nei confronti del leader leghista. Però l'atmosfera sembrava assai meno tesa rispetto alla mattinata, quando Letta aveva di fatto minacciato le elezioni anticipate di fronte all'ipotesi di un tentativo di forza del centrodestra di andare alla quarta votazione con Elisabetta Casellati: «Proporre la candidatura della seconda carica dello Stato, insieme all'opposizione contro i propri alleati di governo, sarebbe un'operazione mai vista nella storia del Quirinale. Assurda e incomprensibile. Rappresenterebbe, in sintesi, il modo più diretto per far saltare tutto». Un messaggio a Salvini, ma un segnale anche all'alleato Giuseppe Conte, di cui Letta si fida sempre di meno. E infatti i toni del leader del M5S sulla presidente del Senato sono molto più sfumati. Mentre netto rimane il no di Conte a Mario Draghi. Ma Letta deve guardarsi anche dal suo partito, che sembra spaccato tra chi vuole il premier e chi punta invece su Pier Ferdinando Casini. Nel Pd - e il segretario lo sa - c'è chi critica la gestione del leader, accusandolo di aver lavorato solo per una soluzione: quella di Draghi al Colle. Un'obiezione che Letta contesta: «La mia strategia - spiega ai fedelissimi - è sempre la stessa, cioè un nome super partes che tenga Draghi a bordo, che sia lo stesso premier o una soluzione istituzionale». Il segretario sta effettivamente lavorando a tutto campo. Lo dimostra il fatto che ha deciso di passare sopra le vecchie ruggini con Matteo Renzi, con cui i contatti ormai sono costanti. I due si sono incontrati anche ieri negli uffici di Italia viva alla Camera. Il leader di Iv è convinto che si possa arrivare a una soluzione condivisa sul premier o su Casini. «Se il centrodestra dice sì a Draghi al Quirinale, l'accordo sul nuovo governo si fa in un minuto», ha spiegato Renzi. In serata prima di incontrare Salvini e gli altri leader del centrosinistra, Letta riunisce i grandi elettori dem per fare il punto della situazione. In quella sala nessuno sa ancora che cosa deciderà di fare Salvini, ma le voci si rincorrono. Chi ha parlato con i leghisti osserva: «Matteo andrà per forza su Draghi perché altrimenti metà del suo partito e la maggioranza dei suoi elettori non lo capirebbero». Ma altri che hanno parlato con i colleghi di Italia viva spiegano: «A noi risulta che Renzi abbia convinto Salvini a votare Casini, del resto ci aveva promesso che avrebbe indotto il leader della Lega a prendere questa posizione entro martedì». Ai grandi elettori Letta confessa: «Non avrei mai immaginato una simile complessità della situazione». E infatti il segretario dem annuncia che, a meno di novità, che potrebbero non esserci a breve, nemmeno nel vertice con Salvini e gli alleati di centrosinistra, perché «a casa mia non si decide in due ore», sarà scheda bianca anche oggi. «È ancora tutto per aria», ammette Letta, che poco dopo aver fatto gli auguri di pronta guarigione a Berlusconi annuncia che oggi le trattative continueranno e prevede che l'elezione del presidente sarà domani. Il segretario manda anche un segnale alle correnti dem: «Alla fine ci sarà anche tra di noi chi sarà più contento chi meno, ma siamo tutti maturi». Insomma, «dobbiamo essere uniti, non va bene la cacofonia». Quindi l'ammissione sulle difficoltà con i 5 Stelle: «È stata un'alleanza non semplice». Però sul campo largo, Letta punta ancora. Con una novità: «Con Iv è stato semplice, con i 5 Stelle c'è stata più complessità, come dimostrano i voti su Mattarella, perché solo il Mattarella bis li tiene uniti».

CASINI, IL CARDINALE CHE SI SENTE PAPA

Sulla Stampa Fabio Martini, giornalista parlamentare di grande esperienza, racconta il Presidente Pier Ferdinando Casini, che si sente vicino all’elezione.

«Presidente, presidente Casini». È mezzogiorno, il Transatlantico di Montecitorio sembra la piazzetta di Capri a Ferragosto, tutti gli sguardi dei peones sono per lui e a chi gli chiede come vadano le sue quotazioni, Pierferdinando Casini risponde con un sorriso rilassato: «Fratello! Ma come vuoi che vadano? Siamo nati per soffrire e ci siamo riusciti!». Nelle ore che precedono la probabile "finalissima" con Mario Draghi, Casini è quello di sempre: si prende sul serio ma fino ad un certo punto. Per lui non sono mai esistiti angeli e demoni, ma tutti sono un po' angeli e un po' demoni, un po' eroi e un po' travet. A cominciare da lui stesso. Fra 48 ore potrebbe essere il nuovo capo dello Stato, ma non per questo Casini indossa in anticipo l'aplomb presidenziale. Lo pensa ma non lo dice: quella che si sta per giocare è una partita che comunque non perdo. Mentre torna verso il suo ufficio di Palazzo Giustiniani scherza pure sulla sua notevole "resilienza" fisica: «Ora ho po' di tossetta, ma mi sono fatto due volte il Covid e tre vaccini e ne sono uscito benissimo». E d'altra parte Casini si sta preparando alla prova decisiva senza eccessivo pathos. Sessantasei anni con 42 di carriera politica alle spalle, dopo aver affrontato le "eliminatorie" per il Quirinale, su media e social Casini è uscito con qualche abrasione e poco più. Qualche ovvia ironia sul suo trasformismo. Il ricordo sulle contraddizioni tra la sua concezione tradizionalista della famiglia e il vissuto di due mogli e qualche fidanzata. Qualche battuta sulla "radioattività" del suo principale sponsor, Matteo Renzi. Ma tutto sommato nulla di più: «Mi sembra chiaro che in 40 anni di attività politica mi sono guadagnato la stima e l'apprezzamento dei colleghi e questo è un valore». Per capire se diventerà un valore aggiunto, bisognerà attendere lo spoglio di oggi, quando il centrodestra, deciderà su chi "girare" i propri voti. Ma in vista del magic moment, finalmente arrivato, nei mesi scorsi il Pier, si è preoccupato di mettere assieme (con la discrezione più assoluta) una rete di amicizie personali e di alleanze che al momento opportuno - e cioè da domani - potrebbero trasformarsi in una coalizione. Certo, l'asso del Pier è la sua stagione da presidente della Camera e la sua affidabilità istituzionale. Ma lo schema di gioco che lo ha portato ad un passo dalla "finalissima" per il Quirinale, è intessuto di rapporti per anni e anni intrecciati con sapienza e con un'idea fissa: non si rompe con nessuno, neppure con gli avversari, perché non si sa mai. Nella Dc Pier da giovane è stato doroteo e per lui il doroteismo è un modo di stare al mondo. E i dorotei, si sa, erano i democristiani che stavano al centro del partito e quella collocazione consentiva loro di identificarsi col potere. E dunque, non esistono nemici. Silvio Berlusconi politicamente non è stato affatto gentile con Casini, nel 2006 lo ha letteralmente buttato fuori dalla coalizione di centrodestra, ma Pier non gli ha mai portato rancore: in occasione di tutti i compleanni e ogni volta che "il dottore" è stato male, puntualmente è arrivata la telefonata di Casini. Anche in questi giorni. Ed ecco perché ieri sera si era diffusa la voce che il Cavaliere avrebbe fatto trapelare la sua simpatia per Casini e comunque della sua candidatura si è parlato seriamente nei vertici delle ultime ore del centrodestra. In attesa che a si decidano, Pier ha già apparecchiato il resto della sua "coalizione". Certo, Matteo Renzi, ma per Casini lavora (indirettamente) chi detesta Mario Draghi e non ama Enrico Letta: il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, una parte della sinistra Pd, a cominciare da Goffredo Bettini, i moderati del centrodestra. Ottimo il rapporto personale con Ugo Zampetti, segretario generale al Quirinale e con Luigi Di Maio, che però, si sa, è destinato a collocarsi dove lo porterà il vento, sempre cangiante nel mondo Cinque stelle».

MELONI BALLA DA SOLA: CROSETTO SUPERSTAR

Il centro destra è colpito dal segnale di Giorgia Meloni alla Lega: nascono sospetti incrociati nella coalizione. Mentre Berlusconi riprende le telefonate: resta contrario a Draghi, ragiona su Casini. Paola di Caro per il Corriere.

«Sospetti incrociati, paure, strategie tenute segrete, tattiche e divisioni. Che devono essere sciolte nella notte e stamattina in un vertice prima del voto, per evitare spaccature e portare a casa un risultato onorevole per tutti. Loro smentiscono, ma durante una giornata convulsa il centrodestra è apparso diviso come non accadeva da tempo. Nel voto, per cominciare. Ma anche sui nomi possibili, sulle vie da percorrere. E si capisce già dal mattino, quando in un vertice a tre tra Tajani, Salvini e Meloni per decidere come votare, la leader di FdI ha insistito fino allo sfinimento perché si puntasse «su un nome della nostra rosa, quello di Nordio è perfetto, per dimostrare che siamo compatti e anche attrattivi». Proposta respinta dai due alleati, convinti che fosse meglio non andare a un muro contro muro e con Forza Italia in particolare non troppo fiduciosa «sulla tenuta dei gruppi». Dei centristi in primo luogo, che non vogliono partecipare al gioco delle spallate anche perché, conferma un azzurro di peso «qui abbiamo solo spallucce, tutti quanti, da una parte e dall'altra». Sì perché gli stessi forzisti temono per la tenuta del governo, non vogliono il voto, e sono comunque divisi tra governisti, filo-leghisti, filo-centristi, anti-Casellati, e via via fino ad arrivare al nocciolo della questione: la paura di non essere rieletti se si finisce al voto. Dunque, scheda bianca per tutti tranne che per FdI che vota alla seconda chiama «un candidato di bandiera», perché dice Meloni «vogliamo smuovere le acque». E visto che quella di Guido Crosetto si rivela una carta vincente, raddoppiando i voti del partito, nel pomeriggio Meloni torna all'attacco: è stato «un errore» non dare un segnale di compattezza del centrodestra e non presentare una candidatura, per contarsi e per contare. Adesso «ci pensi Salvini a cercare un candidato di centrodestra», dice la leader di FdI ben sapendo che il suo profilo pubblico - a capo di una forza di opposizione e per l'unità del centrodestra - in questo passaggio non viene scalfito ma anzi esaltato. Salvini però alla strategia della spallata preferisce la via del dialogo, e mentre dai centristi - da Lupi a Cesa, da Marin a Toti - si sparge ottimismo su una soluzione «vicina» e condivisa, nel pomeriggio sembrano emergere i due veri candidati alla sfida finale: Draghi e Casini. Al quale però in serata si aggiunge prepotentemente quello di Elisabetta Belloni, a capo degli 007, che sembra essere la carta di Pd e M5s e che, ieri notte, non ha sollevato obiezioni o veti espliciti da parte del centrodestra: «E' un nome sul tavolo», dicono centristi e da Fi. Resta in campo comunque la candidatura di Draghi ma Salvini - che ha una consistente parte del partito favorevole all'elezione di Draghi - deve trattare su due tavoli: con gli alleati di governo di Pd e M5S e con gli alleati di coalizione. I centristi dicono sì, Berlusconi dal San Raffaele - dove è ancora ricoverato ma dove assicurano che sta tornando in attività e ha ripreso a tutto campo le sue telefonate - raggiunto dai fedelissimi Tajani e Ronzulli oltre che da Dell'Utri, in una telefonata col leader leghista insiste sulla linea tenuta finora: «Per noi Draghi è invotabile, si cerchi ancora nell'area del centrodestra». Questa almeno è la posizione ufficiale, anche se c'è chi è convinto che parecchi azzurri sarebbero disponibili a sostenerlo. O forse il Cavaliere potrebbe davvero sparigliare dicendo sì a Belloni, anche se per ora c'è «la disponibilità a ragionare su Casini». Ma è proprio per la Lega più difficile convergere su Casini e tenere la coalizione unita. E se Meloni può accettare l'elezione di Draghi - «È il premier del loro governo, a noi riguarda relativamente», dice La Russa - risulta indigeribile quella di Casini: «Il suo è l'identikit opposto a quello che vogliamo noi», conclude il numero due di FdI. Quindi il puzzle è complicatissimo, il rischio di forzare la mano su un candidato d'area è altissimo sia che vada in porto per il rischio di caduta del governo, sia che fallisca. Così non si sa ancora se oggi sarà scheda bianca o candidato di bandiera o vero, e il rischio davvero è finire impantanati tutti, tanto da dover chiedere il sacrificio di un bis a Mattarella. La notte è lunga, le sorprese ancora tutte possibili».

CASSESE, UN MATTARELLA BIS SOTTO ALTRE SPOGLIE

Alessandro Sallusti su Libero analizza l’idea di Sabino Cassese, che ieri pomeriggio ha catalizzato l’attenzione di tutti:

«Se fosse Sabino Cassese, Matteo Salvini e il Centrodestra avrebbero trovato la soluzione che salva capra e cavoli, cioè un nuovo inquilino del Quirinale digeribile dalla sinistra e la tenuta dell'attuale governo perché neppure Mario Draghi potrebbe offendersi di fronte alla scelta di una grande riserva della Repubblica. Già perché Sabino Cassese, costituzionalista, oltre all'età - 86 anni - che lo mette di suo su un piedistallo, ha anche un curriculum di grande prestigio che va dalla laurea alla Normale di Pisa agli esordi negli anni Cinquanta all'Eni con Enrico Mattei fino, nel 2005, alla nomina a giudice della Corte Costituzionale. Ma queste sono ore in cui è meglio non fidarsi totalmente dell'ultima notizia. Che ieri è stata appunto l'abboccamento tra Salvini e Cassese, tra i pochi "padri nobili" non allineato sul pensiero unico di sinistra e che di recente non ha risparmiato critiche né al governo Conte né a Salvini stesso. Il quale Salvini è alle prese con un braccio di ferro con Enrico Letta. La giornata era iniziata infatti con un ricatto - non ci sono parole diverse - sulla possibilità che il Centrodestra stesse raccogliendo in ordine sparso voti sufficienti a portare sul Colle la presidente del Senato, Elisabetta Casellati: "Occhio - è la sostanza della sua dichiarazione - che se passa un minuto dopo facciamo cadere il governo". La minaccia, probabilmente, più che ai rivali era diretta a quella parte dei suoi e dei grillini che nel segreto dell'urna potrebbero essere tentati dal chiudere la partita su quel nome. Sulla strada di Cassese - odi chi per lui - restano un paio di ostacoli: Mario Draghi e soprattutto Pier Ferdinando Casini, gli unici due autocandidati ancora molto attivi dietro le quinte. L'impressione è che comunque in qualche modo si stia stringendo il cerchio: «Questa notte tenete accesi i telefonini», ha detto sibillino Matteo Salvini ai cronisti che ieri sera gli chiedevano di fare una previsione. E la memoria va ad altre decisioni importanti che la politica ha preso con il favore delle tenebre. Speravamo che il nuovo presidente venisse scelto alla luce del sole. Ingenui, quello che della politica vediamo alla luce del giorno purtroppo è soltanto il suo teatrino».

I GRANDI ELETTORI FANNO I BURLONI

Antonio Padellaro sul Fatto torna sulle schede burla dei grandi elettori.

«I due volti del Parlamento. Da una parte abbiamo i Grandi elettori che, stufi di andare in bianca, decidono di battere un colpo, anzi tre. I 125 voti a Sergio Mattarella lanciano un segnale nell'estremo tentativo di forzare la mano al presidente uscente. Con un interrogativo implicito: e se ti ritrovi eletto con 505 voti, o giù di lì, perché la tua permanenza è l'unica via d'uscita da questo pantano, cosa fai rinunci? I 114 voti al fratello d'Italia Guido Crosetto ci dicono invece che il centrodestra è tutt' altro che monolitico agli ordini di Matteo Salvini. E che Giorgia Meloni continua a giocare la partita delle elezioni anticipate, a costo di spianare la strada verso il Colle a Mario Draghi. Mentre i 19 voti a Giancarlo Giorgetti sembrano avallare l'ipotesi (estrema) del patto che vedrebbe Draghi al Quirinale sostituito a Palazzo Chigi dal ministro leghista e draghista. Sia come sia, assistiamo a un sussulto di dignità delle assemblee in seduta congiunta che rivendicano il diritto-dovere sancito dall'articolo 83 della Costituzione. Poiché l'elezione del Capo dello stato spetterebbe esclusivamente a esse e non ai leader di partito. L'altra faccia del Parlamento sono quegli oltre cento voti, cosiddetti "burla", che in ogni scrutinio vengono estratti, come in una riffa, con i nomi di cantanti, attori, giornalisti, parenti, vicini di casa. Senza contare le venti-trenta schede annullate e dal contenuto evidentemente illeggibile. Quando è spuntato il foglietto che candida Terence Hill, per un attimo abbiamo sognato che l'ignoto onorevole fosse preso a sganassoni da Bud Spencer. Inutile ricordare che cotanto cazzeggio riguarda una fetta considerevole di rappresentanti del popolo, pagati con i nostri soldi per divertirsi sulla pelle di un Paese stremato per tutto ciò che è inutile ricordare. Lode dunque ai 5stelle che una cosa giusta l'hanno sicuramente fatta: il taglio del numero dei parlamentari. Per svariati motivi, ma anche perché è quasi statisticamente certo che tra i tanti che alle prossime elezioni si dovranno trovare un lavoro ci sarà una consistente percentuale di questi burloni coglioni».

GREEN PASS ILLIMITATO PER CHI HA FATTO LA TERZA DOSE

Un green pass con durata illimitata per chi ha fatto la terza dose. Il governo modificherà le regole in vigore dal 1° febbraio. Niente test per chi arriva dall'Ue. Il punto sulla pandemia per il Corriere è di Guerzoni e Sarzanini.

«Il green pass rilasciato a guariti e vaccinati con tre dosi non avrà scadenza. La scelta del governo è fatta, nei prossimi giorni - dopo il parere del Comitato tecnico scientifico - si modificherà il decreto in vigore che prevedeva dal 1° febbraio una validità di sei mesi. La curva epidemiologica non appare ancora in discesa, il bollettino registra 167.206 nuovi casi, 426 morti e un tasso di positività al 15,2 ma il ministro della Salute Roberto Speranza ha deciso di accogliere le sollecitazioni dei presidenti di Regione e ha firmato l'ordinanza che consente a chi arriva in Italia dai Paesi dell'Unione Europea di entrare senza il tampone ma soltanto esibendo la certificazione verde. Si allarga anche la lista degli Stati dove sarà possibile andare per turismo con il «corridoio Covid free». Il green pass Dal 1° febbraio il green pass avrà validità sei mesi dall'ultima somministrazione. Le agenzie regolatorie Ema e Aifa non hanno però autorizzato la quarta dose e dunque chi ha già completato il ciclo vaccinale rimane senza certificazione. Per questo si è deciso di sospendere la scadenza e renderlo illimitato fino a che non sarà stabilito se sia necessario fare un ulteriore richiamo. Per chi ha una o due dosi rimane dunque la scadenza di sei mesi, per gli altri non sarà previsto un limite, visto che la terza dose era stata autorizzata a metà settembre e già da metà marzo non ci sarebbe copertura. Il Cts dovrà comunque esprimersi per indirizzare le decisioni del governo soprattutto per quanto riguarda i guariti che hanno già ricevuto due dosi, oppure chi aveva fatto il vaccino monodose. I Paesi Ue Il ministro Speranza ha firmato l'ordinanza che dal 1° febbraio fino al 15 marzo consente a chi arriva da uno Stato dell'Unione Europea di non effettuare il tampone. La regola di imporre un test antigenico (valido 48 ore) oppure molecolare (valido 72 ore) associato al green pass per chi arrivava dall'estero - compresa la Ue - era stata introdotta prima delle vacanze di Natale, quando la morsa del Covid-19 aveva fatto esplodere i contagi. Una scelta che aveva provocato uno scontro con Bruxelles ma il presidente del Consiglio Mario Draghi l'aveva difesa sostenendo come fosse «necessaria una precauzione in più per salvaguardare la situazione epidemiologica, decisamente migliore rispetto a quella di tanti altri Paesi vicini». I corridoi «free» Attualmente si può andare per turismo con green pass e tampone molecolare (corridoio Covid free) nei seguenti Stati: Aruba, Maldive, Mauritius, Seychelles, Repubblica Dominicana, Egitto (limitatamente alle zone turistiche di Sharm El Sheikh e Marsa Alam). Con un'ordinanza che entra in vigore dal 1° febbraio il ministro della Salute ha ampliato la lista a Cuba, Singapore, Turchia, Thailandia (limitatamente all'isola di Phuket), Oman e Polinesia francese. Quarantene e scuola Con la battaglia tra i partiti sulla nomina del nuovo capo dello Stato appare difficile la convocazione di un Consiglio dei ministri che possa modificare le regole di contenimento dei contagi da Covid-19. Palazzo Chigi e il ministero della Salute stanno però lavorando per esaminare le istanze delle Regioni. Sembra destinata alla bocciatura la richiesta di lasciare in classe gli studenti positivi vaccinati e asintomatici. Nel governo si sottolinea infatti la contraddizione di quei governatori che volevano tenere le scuole chiuse per tutto gennaio a causa dei tanti casi tra bambini e ragazzi e ora chiedono di allentare le regole sulle quarantene, lasciando in classe gli alunni contagiati dal Covid».

UCRAINA, LA GUERRA ALLE PORTE

Diplomazia attiva in queste ore: gli ambasciatori consegnano le contro-proposte al Cremlino, mentre Blinken, Usa, incoraggia il dialogo: “Seria via diplomatica ma non ci ritiriamo”. La Nato è disponibile ad ascoltare i russi ma è fuori discussione il ritorno ai confini del 1997. Il punto è di Alberto Simoni, corrispondente da Washington per la Stampa.

«L'ambasciatore americano in Russia John Sullivan ha consegnato al ministero degli Esteri russo la lettera contenente le risposte degli americani alle richieste russe avanzate il 16 dicembre scorso sulla sicurezza in Europa. Poco dopo anche la Nato ha recapitato le sue conclusioni. Dopo le accelerazioni militari sul terreno - fra esercitazioni russe e la mobilitazione delle truppe Usa e Nato - la diplomazia si è ripresa ieri i riflettori senza tuttavia riuscire a frenare i tamburi di guerra. A Parigi si sono incontrati i rappresentanti del formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina) per rilanciare il processo di pacificazione del Donbass. Discussioni non semplici, hanno concordato le parti che si rivedranno fra 15 giorni a Berlino. Domani sarà la volta di Macron sentire Putin per illustrare un percorso di de-escalation. Blinken ha sorvolato sui dettagli della risposta ma ha fissato paletti sul piano dei «principi inderogabili» e ribadito che le preoccupazioni «non sono solo quelle legate alla crisi ucraina». Ci sono l'apertura al confronto sull'accordo New Start, sino al dispiegamento dei soldati e alla dislocazione dei missili. «Su questo - ha detto il capo della diplomazia Usa - possiamo trovare una strada per raggiungere una reciproca sicurezza». Coinvolti anche gli alleati nella raccolta di idee e commenti sul documento alla cui stesura ha partecipato anche Biden «facendo dell'editing», ha sorriso Blinken. Nei prossimi giorni Blinken sentirà Lavrov. Restano alcune linee invalicabili. Washington ha ribadito il principio delle «porte aperte della Nato» rifiutando quindi imporre un «No» all'ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato. Concetto ribadito anche dal segretario generale dell'Alleanza Jens Stoltenberg in cui si è detto però «disponibile ad ascoltare i russi» sui temi generali della sicurezza europea. Fuori discussione un ritorno dell'Alleanza ai confini del 1997. La tensione sul terreno resta alta. Gli americani ritengono «imminente» un attacco che la vicesegretario di Stato Wendy Sherman dice potrebbe avvenire entro «metà febbraio». Lavrov alla Duma dice di «essere pronto a tutto». E Stoltenberg sostiene di «temere il peggio» guardando anche all'intensificarsi delle operazioni russe in Bielorussia dove è stato dispiegato il sistema antimissile SS-400 e dove ci sono 13 mila soldati in vista delle esercitazioni di febbraio. Ecco perché Blinken ha reiterato l'invito agli americani in Ucraina di lasciare il Paese pur sottolineando che l'ambasciata «continua a operare normalmente». Per prepararsi al peggio il flusso di armi dai Paesi Nato e Usa agli ucraini prosegue. La diplomazia prosegue ma la deterrenza militare è diventata l'altra faccia di questa crisi. Che ha come corollario il contraccolpo sull'energia e la dipendenza europea dalla Russia da cui prende il 40% delle forniture di gas. Un portavoce del Dipartimento di Stato interpellato da La Stampa ha detto che gli Usa «sono impegnati con gli alleati europei e le compagnie per garantire la sicurezza della supply chain energetica per mitigare lo choc dei prezzi che colpirà i cittadini americani, europei e l'economia globale». Interrompere il flusso di gas naturale che passa dall'Ucraina - prosegue il portavoce - avrebbe un impatto sul mercato in Europa e stiamo «lavorando per valutare come distribuire le riserve energetiche esistenti». Altro tassello è quello di provare ad aumentare altrove la produzione e Washington lavora «a livello globale per capire dai produttori di gas naturale se hanno la capacità e la volontà di aumentare temporaneamente la produzione di gas da destinare agli acquirenti europei». È un'azione ad ampio raggio quella messa in campo da Washington. Lunedì alla Casa Bianca ci sarà lo sceicco qatariota Tamim bin Hamad Al Thani. La distribuzione verso l'Europa di gas naturale, di cui il Qatar detiene il 14% delle riserve, sarà uno dei temi in agenda».

Sulla crisi ucraina sono molto prudenti Parigi e Berlino. La cronaca di Ginori e Mastrobuoni per Repubblica:

« La Germania invierà cinquemila elmetti all'Ucraina: per Vitalij Klychko, sindaco di Kiev, una mossa «ridicola». Da settimane l'ambasciatore ucraino Andrji Melnyk supplica inutilmente Berlino di inviare aiuti militari seri al suo Paese. E non è l'unico dossier su cui i tedeschi stanno frenando, irritando Usa ed europei. A proposito dell'ipotesi di tagliare Mosca fuori dal sistema dei pagamenti internazionali Swift o di bloccare Nord Stream 2, la Germania continua a mantenere il freno a mano. La morbidezza tedesca verso Mosca affonda le sue radici nella tradizionale "Ostpolitik" della Spd, ma pesa anche il cammino tedesco verso le "emissioni zero" rinunciando all'atomo e al carbone; nei prossimi anni il gas rappresenterà una fonte energetica essenziale. Metà del metano tedesco continua ad arrivare dalla Russia, e fonti diplomatiche rivelano che il timore, nel caso di conflitto, è quello di una chiusura dei rubinetti del gas, da parte di Putin. Il blocco di Nord Stream 2 è sul tavolo delle eventuali sanzioni contro Mosca: a microfoni spenti Berlino lo dice da settimane. Pubblicamente continua a essere prudente «per non chiudere gli ultimi canali diplomatici con Putin», argomenta una fonte. Peraltro, al momento gli Usa, che continuano a premere perché si blocchi Nord Stream 2, non riuscirebbero a compensare il buco nelle forniture neanche attraverso il gas liquido che arriva in Europa attraverso le navi: servirebbe un robusto contributo qatarino e cinese aggiuntivo. Ieri, intanto, la riunione all'Eliseo degli sherpa del formato Normandia (Ucraina, Russia, Francia, Germania) segna il tentativo per gli europei di tornare protagonisti nella gestione diplomatica. Emmanuel Macron parlerà domani al telefono con Vladimir Putin per presentargli un piano europeo per una de-escalation. Il capo dell'Eliseo punta ritagliare un ruolo di mediatore per se stesso e per l'Europa, sempre divisa nel braccio di ferro tra Mosca e Washington. Da giorni Parigi insiste sulla necessità di non drammatizzare la comunicazione sulla crisi. I diplomatici vicini a Macron non minimizzano le manovre russe alla frontiera ucraina ma ne danno un'interpretazione meno allarmista e sostengono che non è il caso di enfatizzarle. «Stiamo agendo per portare a termine un processo di de-escalation» ha spiegato il ministro Jean-Yves Le Drian, che insieme alla sua omologa tedesca Annalena Baerbock andrà a Kiev nei prossimi giorni per discutere la crisi con la Russia».

Le aziende italiane e l’attenzione di Mosca. Le nostre imprese da Milano e da Roma incontrano in video conferenza il presidente Putin nel silenzio della Farnesina. Giovanna Faggionato per il Domani.

«A chi dobbiamo credere? Dobbiamo credere a tre deputati della Repubblica di tre partiti di maggioranza che fanno parte del comitato parlamentare del controllo dei servizi segreti che ci dicono che la Farnesina, il nostro ministero degli Esteri, non sapeva nulla dell'incontro tra i vertici delle maggiori aziende italiane con il presidente russo Vladimir Putin nelle stesse ore in cui Putin sta schierando le sue truppe ai confini ucraini e valutando se inviare armi ai separatisti? Oppure dobbiamo credere alla lunga serie di evidenze che ci dicono che l'incontro era programmato e pubblicizzato - il primo riscontro sulle agenzie risale alle 11 di mattina del 17 gennaio - e che lo stato italiano se ne è accorto in ritardo e ha tentato di riparare all'ultimo? E quale delle due ipotesi è più preoccupante per la Repubblica italiana? Alle 16 di ieri, ora di Mosca, il Cremlino ha inviato il secondo comunicato ufficiale nel giro di due giorni sull'incontro tra il presidente russo e i dirigenti di 16 società italiane, tra le quali Generali e Intesa San Paolo, Pirelli a Barilla, il gruppo dell'acciaio Danieli e il colosso dell'energia partecipato dallo stato Enel. Poche righe abbastanza scarne in cui si spiegava che «sono state discusse la cooperazione commerciale, economica e di investimento tra Russia e Italia e le prospettive per un'ulteriore espansione dei legami commerciali», accompagnate dalle foto di ordinanza del presidente russo e dei ministri intervenuti. Sette ministri più uno Putin ha schierato ben sette membri del governo, più il potente numero uno del colosso petrolifero Rosneft Igor Sechin. Nei due punti di incontro, il Grand Hotel Saint Regis di Roma e il Principe Savoia di Milano, si sono presentati tutti, a partire dall'organizzatore Vincenzo Trani, presidente della Camera di commercio italo russa, l'officiante Marco Tronchetti Provera, presidente del comitato imprenditoriale italo russo e Antonio Fallico, presidente di Intesa Russia e soprattutto amico personale di Putin che ogni ottobre organizza a Verona il forum euroasiatico. Non c'erano invece Marco Alverà di Snam che aveva già declinato la partecipazione, Francesco Caio di Saipem, e Ernesto Ferlenghi, vicepresidente di Eni che aveva comunicato l'assenza nella serata del 25 gennaio. All'ultimo ai piani alti di diverse partecipate di stato è arrivata una telefonata da palazzo Chigi per avere notizie sulla partecipazione o meno all'incontro, una sorta di moral suasion dell'ultimo minuto, che però non ha impedito all'amministratore delegato di Enel Francesco Starace di essere presente all'incontro, al contrario del fratello Giorgio Starace ambasciatore italiano a Mosca il cui nome è stato rimosso dall'ultimo elenco di presenze. L'incontro, ci spiegano, era previsto già a novembre e poi è slittato, ma era stato pubblicizzato sul sito della Camera di commercio italo russa e annunciato dall'agenzia di stampa Nova già il 17 gennaio. Il 25 gennaio mattina viene citato in un articolo di Repubblica e viene notato dai corrispondenti internazionali, compresi quelli di stanza a Kiev, congelati in un clima di attesa di una guerra definita possibile o imminente a seconda delle notizie di giornata: già alle 9 e 40 di mattina la corrispondente da Kiev Olga Tokariuk, fellow del Center for European Policy Analysis di Washington, descrive l'Italia come «un campo di battaglia» per Putin. Alle 12.05 del 25 gennaio, mentre sul sito della Nato il segretario generale Jens Stoltenberg ringrazia i Paesi europei che hanno inviato mezzi militari in Europa dell'Est, sul portale del Cremlino appare il primo comunicato ufficiale che annuncia l'incontro. Passano poche ore e a sera la notizia è rimbalzata sul Financial Times. Solo quando l'incontro diventa di dominio internazionale, il governo si muove per dissuadere le aziende di stato a partecipare a un vertice che chiaramente si presta ad essere utilizzato per propaganda, al di là dei contratti e degli accordi commerciali che non siamo certo gli unici a sottoscrivere coi russi. Si muove direttamente palazzo Chigi, che tra l'altro aveva avuto un colloquio diretto con Biden appena il giorno prima. Cosa ha fatto nel frattempo la Farnesina del ministro Luigi Di Maio mentre il suo ambasciatore a Mosca si preparava a partecipare all'evento? Secondo tre deputati membri del Copasir - Enrico Borghi del Partito democratico, Federica Dieni del Movimento 5 stelle e Elio Vito di Forza Italia -, tutto sarebbe avvenuto «all'insaputa» del ministero degli Esteri. Lo mettono nero su bianco in un comunicato congiunto ipotizzando dunque che l'ambasciatore Starace non abbia informato il ministero degli Esteri e prendendosela con le imprese. Borghi contattato da Domani spiega che «se lo abbiamo scritto è perché abbiamo le nostre fonti». Il presidente del Copasir Alfredo Urso si limita a un no comment sulla versione dei colleghi. Nemmeno il ministero dello Sviluppo economico sembra essere stato informato. La Farnesina alle nostre richieste di spiegazione non risponde, non lo fa nemmeno l'ambasciata italiana in Russia, né quella russa in Italia. Ci pensa il portavoce di Putin a chiarire la posizione del governo russo che è semplice: Roma non ha mandato alcuna comunicazione ufficiale e l'incontro non c'entra nulla con le sanzioni allo studio di Stati Uniti e Unione europea nei confronti di Putin. Le aziende private possono valutare autonomamente se un incontro con il presidente russo in questo momento nuoce o non nuoce al loro business. Poi ci sono le aziende che hanno lo Stato come principale azionista e gli ambasciatori della Repubblica italiana. Se l'ambasciatore italiano in Russia non informa il ministero degli Esteri abbiamo un problema grave, ma lo abbiamo anche se i ministeri non sanno quello che tutti sanno. E qualcuno, anche con le trattative sul Quirinale in corso, dovrebbe risponderne».

IL MONDO PREGA CON IL PAPA

Il popolo ucraino merita la pace e la pace è stata invocata ieri in tutte le chiese. La cronaca è di Riccardo Maccioni per Avvenire.

«Un popolo gravemente provato, che ha «sofferto la fame» e subito «tante crudeltà ». Un popolo che «merita la pace». Ancora una volta il pensiero del Papa è andato all'Ucraina, alla sua gente e ai venti di una crisi ogni giorno più vicina a trasformarsi in guerra, con le forze di mediazione incapaci di trovare una strada comune. Le parole di Francesco sono risuonate con forza nell'aula Paolo VI, a margine dell'udienza generale di ieri, nel giorno scelto per invocare il Signore, chiedendogli di convertire chi lavora non per l'incontro ma per il conflitto. Ed è una richiesta da rivolgere al Padre con insistenza, senza stancarsi, a sostegno, anche, del difficile compito affidato alle diplomazie. Le preghiere e le invocazioni di oggi - ha auspicato il Papa - «tocchino le menti e i cuori dei responsabili in terra, perché facciano prevalere il dialogo, e il bene di tutti sia anteposto agli interessi di parte. Per favore, mai la guerra». Un "grido" risuonato nelle chiese che hanno aderito all'appello lanciato all'Angelus di domenica scorsa. Una sollecitazione raccolta da tante diocesi, in Italia e non solo. E amplificata da movimenti, associazioni, Istituti religiosi. «Portando nel cuore il dramma dei conflitti - ha detto monsignor Paul Gallagher - ci riconosciamo fratelli sia di quelli che li causano sia di quelli che ne soffrono le conseguenze e in Gesù Cristo presentiamo al Padre sia la grave responsabilità dei primi, sia il dolore degli ultimi». Guidando la preghiera organizzata dalla Comunità di Sant' Egidio nella Basilica romana di Santa Maria in Trastevere, il segretario vaticano per i rapporti con gli Stati ha poi chiesto di non limitarsi «ad aspettare che siano raggiunti accordi e tregue», ma di implorare e impegnarsi «perché in noi stessi e in tutti i cuori rinasca l'uomo nuovo, quello ricreato e unificato in Cristo, che vive in pace e crede nella forza della pace». Da Occidente ad Oriente l'invito del Pontefice non è caduto inascoltato neppure nell'area più calda della crisi. In Ucraina ovviamente, ma anche in Russia. Nella lettera scritta a nome della Conferenza episcopale di cui è presidente, l'arcivescovo di Mosca, monsignor Paolo Pezzi ha sollecitato tutti i fedeli a prendere sul serio» la sollecitazione del Papa. E la risposta c'è stata. «In alcune parrocchie - ha spiegato al Sir - sono state organizzate adorazioni eucaristiche, in altre la recita del Rosario. Pezzi stesso ha celebrato la Messa in Cattedrale. A chi non poteva partecipare a questi momenti - ha aggiunto l'arcivescovo di Mosca - è stato chiesto «di unirsi in preghiera, possibilmente alla stessa ora, in famiglia e ovunque si trovasse. La pace - ha continuato - è talmente importante che per essa noi preghiamo ogni giorno. Però in certi momenti particolari, come quello che stiamo vivendo, ci viene chiesto di intensificare la nostra preghiera per chiedere una conversione dei cuori al bene superiore della pace e del dialogo». Parole che sono un'ideale continuazione dell'appello lanciato domenica in Piazza San Pietro, quando il Papa ha chiesto che «ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana, più che di interessi di parte». Perché la possibilità di fermarsi prima del precipizio c'è, l'escalation della crisi può essere bloccata. Francesco ci crede e con lui tutte le persone che ieri hanno dedicato una preghiera alla gente di Ucraina. Un popolo che ha già sofferto tanto. Un popolo che merita la pace».

LA FED LASCIA INVARIATI I TASSI, MA AVVERTE CHE LI ALZERÀ

La Federal Reserve americana, come previsto, ha lasciato invariati i tassi (0-0,25%) ma allo stesso tempo ha avvertito: «A breve sarà appropriato alzarli a causa dell'inflazione ben al di sopra dell'obiettivo del 2%». Seduta positiva per le Borse europee (Milano +2,3%), che davano per scontata la linea soft della Fed. L’analisi di Donato Masciandro sul Sole 24 Ore.

«La Fed dice e non dice, ed allora si scommette sul corso futuro della politica monetaria. Invece di indicare una rotta, la banca centrale preferisce farsi scarrocciare dai mercati, per poi dire che la comunicazione funziona. E il gioco della mosca nocchiera continua. Il mare macroeconomico è sempre più agitato. Lo ha detto l'altro ieri il Fondo Monetario Internazionale. Il Fondo rivede al ribasso le sue stime, parlando esplicitamente di un rischio stagflazione, cioè di crescita anemica, unita a prezzi al consumo in salita. Ma ancor più interessante è l'analisi complessiva, che accende i riflettori sulle quattro maggiori incognite che gravano sullo scenario mondiale: il perdurante rischio pandemico; le strozzature dal lato dell'offerta aggregata; l'incognita sul mercato del lavoro statunitense. Infine, per ultima ma non meno importante, il Fondo cita la reazione delle politiche monetarie, ed in particolare della Federal Reserve, che - si dice dovrebbe essere particolarmente attenta a quello che fa e dice, sia perchè ha un mandato duale, sia perché vedrà cambiare la sua composizione, essendoci tre seggiole del suo consiglio da riempire. Infine, il Fondo continua ad affermare che il surriscaldamento dell'inflazione, ancorché più lungo del previsto, deve essere considerato temporaneo. Dunque sono cinque i fattori che rendono alte le onde. Allora, per contribuire a calmare le acque, dalla Fed dovrebbero arrivare risposte chiare su almeno tre argomenti, che rientrano nel suo perimetro di responsabilità. Per ogni argomento, risposte chiare dovrebbero significare essere trasparenti su tre aspetti: che cosa, come e quando. Primo: quanto lontano è l'obiettivo della piena occupazione negli Stati Uniti? Un quesito cruciale, visto che l'ultima volta che la Federal Reserve esplicitò la sua strategia - era l'agosto del 2020 - si disse che, tra rischio disoccupazione e rischio inflazione, il primo era di gran lunga più importante del secondo, e che comunque i due rischi sono oggi meno correlati che in passato. Inoltre, si affermò che si sarebbe tollerata una crescita dei prezzi al consumo maggiore del target del due per cento, tenendo conto di una inflazione media, purtroppo però senza esplicitare cosa si intendesse per media. Se la Fed non risponde a questa domanda, i mercati scommettono: i più scommettono sull'eventualità che gli Stati Uniti stiano raggiungendo la piena occupazione, e quindi la priorità deve essere raffreddare l'inflazione. Secondo: pensa la Fed, come il Fondo, che l'inflazione debba continuare ad essere considerata un fenomeno temporaneo? Se la Fed non risponde anche a questa seconda domanda, i mercati hanno un'altra scommessa; più ci si aspetta che l'inflazione non sia temporanea, più si prevede una politica restrittiva, con due ulteriori rivoli di incognite: quanti rialzi dei tassi ci saranno nel 2022? come sarà disegnato il drenaggio della liquidità? Terzo: pensa la Fed, come il Fondo, che l'inflazione sia essenzialmente legata alle strozzature dal lato dell'offerta, e che quindi eventuali politiche restrittive basate su aumenti dei tassi di interesse risultino essere meno inefficaci? Purtroppo anche ieri la comunicazione ufficiale della banca centrale americana non ha dato una risposta sistematica ed esauriente a nessuno dei tre quesiti. Durante la conferenza stampa, i tentativi giornalisti di avere maggiore chiarezza sono stati sistematicamente, ancorché elegantemente, rimbalzati al mittente. Risultato finale: quando più la Fed continuerà ad essere opaca, quanto più sarà facile che, invece di contribuire a ridurre i marosi, apre ancora di più l'otre di Eolo. È un comportamento che è tanto più razionale quanto più si assume che il banchiere centrale sia un burocrate opportunista. Non sarebbe certo la prima volta. E, come ogni volta, potremo assistere al paradosso di una banca centrale che rischia di accelerare quello che invece dice di voler scongiurare. Con la benedizione della parte più miope della politica e dei mercati».

MIGRANTI, LA UE CONOSCE GLI ABUSI DEI LIBICI

Un documento «restricted» redatto dai vertici militari dell’operazione navale europea conferma «l’uso eccessivo della forza» da parte della Libia e il mancato rispetto delle procedure operative impartite nel corso dell’addestramento. Nello Scavo per Avvenire.

«Quasi mezzo miliardo di soli fondi europei destinati alla Libia, per leggere poi un rapporto riservato dei vertici militari Ue che, senza girarci intorno, scrivono: «La Guardia costiera libica ha mostrato di seguire le linee operative per cui è stata addestrata, ma non completamente». A cominciare da «un uso eccessivo della forza». Oltre al frequente rifiuto di fornire ai loro finanziatori europei le informazioni e i resoconti sugli interventi in mare. Il documento di Eunavformed è catalogato come « restricted ». Fornisce un quadro chiaro della situazione in mare, riconoscendo che non esiste una unica "guardia costiera", ma diverse sigle, e che in svariati casi l'Italia ha persino coordinato l'intercettazione di migranti da parte di motovedette del generale Haftar, l'uomo forte di Bengasi che a più riprese aveva tentato di abbattere il governo riconosciuto di Tripoli. In tutto 37 pagine che raccontano senza aggettivi né giudizi il ricatto da Tripoli: equipaggiamento e fondi, senza doverne poi rendere conto. Dal 2015 l'Unione Europea ha riversato 455 milioni di euro attraverso il Fondo fiduciario per l'Africa. Compilato dal contrammiraglio della marina italiana Stefano Turchetto, capo della missione di sorveglianza per l'embargo sulle armi (Operazione Irini), il testo raccoglie i contributi di altri ufficiali operativi. Scrivono gli ammiragli che il loro compito avrebbe dovuto essere anche quello di fornire «una valutazione più coerente» sulle capacità raggiunte dai guardacoste equipaggiati e addestrati soprattutto dall'Italia. A ottobre ci sono stati ad esempio quattro episodi per i quali Eunavformed avrebbe voluto maggiori informazioni. «Nonostante i continui contatti» tra i vertici militari sulle due sponde del Mediterraneo «volti a rafforzare gli scambi di informazioni» sulle attività della marina libica, «non è stato possibile ricevere il nome degli asset (le navi della guardia costiera lbica, ndr) coinvolti in questi quattro eventi ». L'osservazione di un episodio del 15 settembre durante le fasi di recupero di un gruppo di migranti «indica che l'addestramento ricevuto è ancora visibile, ma non è più completamente seguito». In particolare, «l'uso eccessivo della forza fisica da parte della guardia costiera libica contro i migranti, ad esempio, può essere visto come una conseguenza - si legge - dello stallo politico». Con le forze armate libiche che hanno adoperato non di rado tattiche «mai osservate prima e non conformi all'addestramento ». La Commissione europea e il Servizio per l'azione esterna dell'Ue hanno rifiutato di commentare. In una dichiarazione il portavoce Peter Stano ha confermato che l'Ue è determinata a formare il personale della guardia costiera e rafforzare la capacità della Libia di gestire una vasta area di ricerca e salvataggio del Mediterraneo. L'Associated Press ha chiesto spiegazioni anche a Frontex, riguardo al caso di «uso eccessivo della forza fisica» del 15 settembre. L'episodio, infatti, non risulta di facile ricostruzione. Ma dall'agenzia per la protezione dei confini hanno risposto spiegando di avere presentato a suo tempo un «rapporto di incidente grave», ma di non poter rivelare i dettagli. La riprova che a Bruxelles le violazioni degli accordi da parte di Tripoli sono conosciute e tollerate. La scorsa settimana il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto ai Paesi coinvolti di «riesaminare le politiche a sostegno dell'intercettazione in mare e del ritorno di rifugiati e migranti in Libia». Critiche respinte da Stano: «Quando si tratta di migrazione, il nostro obiettivo è salvare la vita delle persone, proteggere i bisognosi e combattere la tratta di esseri umani e il traffico di migranti».

IL LIBANO DEVASTATO E IN BANCAROTTA

L’abbandono della scena politica di Hariri, contro «l’influenza iraniana», spiazza tutti e isola gli Hezbollah. I Paesi del Golfo pongono 12 condizioni per «ricostruire la fiducia». Camille Eid per Avvenire.

«La tempesta di neve che si è abbattuta ieri sul Libano difficilmente potrà attenuare il clima politico rovente. Se, da una parte, la fine del lungo boicottaggio sciita - ben 104 giorni - delle riunioni del governo ha ridato una boccato d'ossigeno al governo di Najib Mikati, dall'altra, la decisione di Saad Hariri di «sospendere» le attività politiche del suo partito sta provocando un rimescolamento delle carte a quattro mesi dalle elezioni legislative, previste il 15 maggio. Dietro la decisione dell'ex premier, la convinzione che «non c'è posto alcuna opportunità positiva per il Libano alla luce dell'influenza iraniana, dello scompiglio internazionale, delle divisioni nazionali e del crollo dello Stato». Ci si chiede chi, tra i politici sunniti, riuscirà ad attirare quel 70 per cento dell'elettorato sunnita rimasto "orfano" dopo l'improvvisa decisione. La mossa di Hariri è soprattutto coincisa con la visita a Beirut del ministro degli Esteri del Kuwait Ahmad Nasser Al Sabah, volta a «ricostruire la fiducia» tra i Paesi del Golfo e il Libano, fortemente scossa da circa tre mesi. Entro sabato, data di riunione in Kuwait di una riunione ministeriale araba, è attesa la risposta di Beirut a una lista di 12 punti che suona come un ultimatum, sebbene presentata come «un'iniziativa concordata con Arabia Saudita, Giordania, Francia e Usa». Tra i punti, l'osservazione «effettiva », e non solo a parole, della neutralità del Libano e l'applicazione delle risoluzioni Onu che parlano del disarmo di «tutte le milizie », eufemismi per denunciare le armi di Hezbollah e il suo schieramento a fianco dell'Iran nei vari conflitti regionali. Sono riprese intanto, dopo un anno di interruzione, i negoziati tra il governo libanese e il Fondo monetario internazionale (Fmi) sul piano di salvataggio economico, necessario per accedere a un prestito di circa 4 miliardi di dollari, oltre allo sblocco di altri 11 miliardi promessi al Paese dei cedri nel 2018. Il Fmi chiedeva, per la ripresa dei colloqui, una valutazione precisa delle perdite nel settore bancario, che le autorità di Beirut hanno stabilito attorno a 69 miliardi di dollari, una cifra di molto inferiore rispetto agli 83 miliardi stimati dal precedente governo. Al di là dei numeri esatti, molti temono che i risparmiatori libanesi debbano alla fine sopportare la quota maggior delle perdite. Il piano di salvataggio presentato dal governo prevede, infatti, che i correntisti si assumano il 55 per cento delle perdite, la Banca centrale e lo Stato il 26 per cento, mentre gli azionari delle banche - tra cui numerosi uomini politici - si assumeranno il restante 19 per cento. I piccoli risparmiatori, assicurano a Beirut, non dovrebbero essere interessati dal cosiddetto "haircut", ma nessuno specifica la data entro la quale i conti potranno essere sbloccati. Un'altra misura sollecitata dal Fmi, è l'unificazione del tasso di cambio della valuta statunitense. Attualmente, «convivono» in Libano cinque diversi cambi del dollaro contro la lira libanese, il che pone una serie di problemi alla ripresa delle attività finanziarie».

27 GENNAIO, MEMORIA DELLA SHOAH

Oggi 27 gennaio in Italia è il giorno della memoria della Shoah. Molti gli articoli e i contributi sui quotidiani. Avvenire dà spazio al videomessaggio che la scrittrice Edith Bruck, superstite alla Shoah, ha consegnato ieri alla comunità italiana in Israele. Fiammetta Martegani

«Per me il 27 gennaio è tutti i giorni: da Auschwitz non si esce, resta con te tutta la vita». Questo uno dei momenti del videomessaggio che la scrittrice Edith Bruck, superstite alla Shoah, ha consegnato ieri alla comunità italiana in Israele, in occasione del Giorno della Memoria, attraverso il canale Youtube dell'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv, promotore dell'iniziativa con l'Ambasciata d'Italia nello Stato ebraico, Paese in cui vivono 165.800 sopravvissuti. «È fondamentale coltivare la memoria dell'immane tragedia come monito», ha quindi ribadito l'ambasciatore Sergio Barbanti - che oggi sarà allo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, assieme ai rappresentanti della comunità italiana - per ravvivare la fiamma perenne, in ricordo dei 6 milioni di ebrei uccisi dal nazismo e per deporre una corona di fiori per i morti nei campi». «Che questo sia esempio - ha sottolineato Barbanti - di come lo spirito umano può essere più forte di qualsiasi male, come testimonia il lavoro di Edith Bruck». Nata a Tiszabercel, in Ungheria, nel 1931, sopravvissuta alla deportazione nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen, Bruck vive in Italia dal 1954 e ha trascorso gran parte della vita a raccontare la sua storia personale attraverso la scrittura, e portando la propria testimonianza nelle scuole e nelle università. «È un'esperienza che va raccontata nelle aule, dove si impara, poco e male, la storia del Novecento», ha sottolineato Edith Bruck. Anche per questo è fondamentale la trasmissione della memoria alle generazioni future: «Essere ascoltati è molto importante, perché dopo la guerra non siamo stati accolti, e nessuno voleva sentire. I giovani, ora, devono farsi testimoni».

BORGHESI SU GIACOMO CONTRI

Il filosofo Massimo Borghesi ha ricordato lo psicanalista Giacomo Contri, recentemente scomparso, dalle colonne di Avvenire:

«Venerdì 21 gennaio è venuto a mancare Giacomo Contri, medico, psicanalista, traduttore per Einaudi degli Écrits di Jacques Lacan, presidente della "Società Amici del Pensiero" e responsabile del sito ad essa dedicato: www.societaamicidelpensiero.com. Contri, che aveva studiato a Parigi negli anni' 70 all'École Freudienne e all'École Pratique des Hautes Études sotto la guida di Roger Bastide, Roland Barthes, Robert Lefort, era anche presidente e Docente dello "Studium Cartello". Ci siamo conosciuti negli anni 90 grazie agli incontri di redazione della rivista "Il Nuovo Areopago", incontri che terminavano con il pranzo in qualche trattoria romana nei pressi di Santa Maria Maggiore. Ne era nata un'empatia ricca di scambi di idee nutrite del testo fondamentale che mi aveva inviato, Il pensiero di natura del 1994. Contri era un personaggio che colpiva e sorprendeva. Per il suo aspetto innanzitutto: la testa rasata, gli occhiali, il portamento, tutto ricordava il tipico intellettuale francese. E intellettuale Contri lo era, dalla testa ai piedi, nel senso migliore del termine: arguto, frizzante, aforistico, colpiva nel segno osservando la scena da punti di vista inaspettati, mai banali. E poi condiva il tutto con un'ironia tagliente, mai cattiva. Era eccentrico e sapeva di esserlo. Anche nel suo essere cattolico laddove la fede non era mai scontata ma, ogni volta, oggetto di una ripresa, di una provocazione costante. Per questo aveva accettato di collaborare al settimanale cattolico "Il Sabato" con una rubrica dal titolo "SanVoltaire", un titolo che era un programma. Il cristianesimo di Contri rappresentava allora una boccata d'ossigeno. E questo sia a fronte della cultura postmarxista, per la quale la fede era la via d'uscita delle anime belle dal mondo, sia a fronte del fideismo evanescente di tanta parte del cattolicesimo italiano. Per lui Cristo era la pienezza, l'eccesso, la soddisfazione, la salute, il centuplo. Non tutto era certamente chiaro. Quella sua identità tra salute e salvezza aveva qualcosa di dionisiaco, di nietzschiano. E tuttavia "SanVoltaire" era un antidoto lucido ed efficace contro la derealizzazione del cristianesimo, una risposta spiazzante ai pregiudizi della cultura laica. Nel 1997-1998 collaborammo insieme a due volumi editi dalla rivista internazionale "30 Giorni". Uno era su Il potere e la grazia. Attualità di sant' Agostino e l'altro su Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie. In questo secondo testo criticava la gnosi, per la quale Cristo era solo un simbolo, un'idea, un universale astratto, un prototipo. «Ciò che definisce un cristiano - affermava - è un legame affettivo con Gesù Cristo, i cristiani sono coloro che hanno questo legame affettivo. Io sono uno psicoanalista e so che non è possibile avere un legame affettivo con una funzione, un ruolo, o con un essere rivelato. È possibile solo con una persona. Concreta e vivente». Il realismo cristiano è un realismo affettivo. Per questo nel 2005 mi aveva inviato un lungo saggio a cui teneva molto: Luigi Giussani e il profitto di Cristo, accompagnato da un suo biglietto: «Carissimo Massimo mi importa molto inviarti questo testo. Qualsiasi cosa tu ne pensi, mi piacerebbe un tuo commento. Il Tuo Giacomo». Quel biglietto è rimasto senza risposta ma negli ultimi anni avevo pensato più volte di replicare, di chiarire i nodi irrisolti all'interno di una grande sintonia. Uno per tutti: il suo trascurare, al pari di Freud, il problema della morte e, quindi, la tensione ineliminabile tra anima e corpo. Nel saggio che mi aveva inviato scriveva: «Non c'è angoscia di morte: l'angoscia è solo di vita. Ho avuto una disputa con qualcuno per il quale nell'orto degli ulivi Cristo sarebbe stato angosciato. No, il suo desiderio di evitare la sofferenza non era angoscia: ne conferma la salute psichica e lo esime dal sospetto di masochismo salvifico». Qui il discepolo di Freud dipendeva troppo dal maestro. Non ho risposto direttamente a Giacomo anche se l'ho fatto indirettamente. Agli inizi del 2000 mi aveva invitato a tenere una conferenza per "Studium Cartello" sul tema Il Cristo "idiota". Malattia e sanità del Cristianesimo nel pensiero europeo tra '800 e '900. Al termine della relazione accennavo alle risposte a Nietzsche date da Max Scheler e da Emmanuel Mounier, inadeguate perché subordinate nel loro vitalismo cristiano all'avversario. Parlando di loro in qualche modo parlavo della sua posizione. Per questo, forse, mi aveva inviato il suo testo con il biglietto. Ora che Contri non è più lo ringrazio della sua amicizia, della sua stima, della lucidità appassionata con cui ha comunicato il "pensiero di Cristo" in un tempo in cui non era certo di moda. Eccentrico e geniale, lo rimpiangeremo».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 27 gennaio:

https://www.dropbox.com/s/dfb4qrtjowzx7ov/Articoli%20La%20Versione%20del%2027%20gennaio.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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