La Versione di Banfi

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Alla Borsa piace il 2022

alessandrobanfi.substack.com

Alla Borsa piace il 2022

Partenza positiva di Piazza Affari. Omicron potrebbe essere la fine della pandemia? Le nuove misure del governo: lite su scuola e green pass al lavoro. Corsa al Colle, i 5S per il bis. Sudan nel caos

Alessandro Banfi
Jan 4, 2022
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Alla Borsa piace il 2022

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La buona notizia viene dai mercati. Alle Borse piace il 2022, come dimostrano i dati anche di Piazza Affari. Non è solo il fattore pandemia (“Finché c’è Covid, c’è speranza”, scriveva prima di Capodanno Il Sole 24 Ore) a tenere su i guadagni, e del resto i titoli di Pfizer e Moderna sono stati molto negativi e in contro tendenza, segno forse che non ci sarà bisogno del vaccino specifico anti Omicron. Le possibilità di una ripresa economica solida ci sono e sono confermate dai dati della produzione industriale europea. La speranza di fondo è anzi che Omicron potrebbe segnare la fine della pandemia da Covid, l’uscita dal tunnel, pur dando l’opportunità di mantenere i tassi fermi per tutto l’anno nonostante i segni di inflazione, come ha garantito Christine Lagarde.

Intanto da noi c’è tensione tra i partiti alla vigilia del nuovo decreto anti-Covid che il governo dovrebbe licenziare domani. Due i temi sul tavolo: il rientro a scuola e il Green pass per i lavoratori. Sul primo tema ieri il Presidente della Campania Vincenzo De Luca ha proposto un rientro nelle classi posticipato di “20-30 giorni”. Fedriga ha chiesto sulla questione la convocazione d’urgenza di un incontro ad hoc, che dovrebbe tenersi oggi alle 14. Sul Green pass per chi va al lavoro, Mario Draghi vorrebbe tirare dritto nonostante la nota avversione di 5 Stelle e Lega. Anche sullo smart working c’è una polemica contro il ministro Brunetta, che ha voluto fortemente il ritorno in ufficio in presenza dei dipendenti pubblici.

La corsa al Quirinale. Metaforico fischio d’inizio dell’arbitro Roberto Fico che dirama in giornata la lettera di convocazione ai grandi elettori: la data del primo giorno di voto potrebbe essere fra 20 giorni, il 24 gennaio. Tre settimane dunque per trovare un accordo e non arrivare al primo voto “al buio”. I senatori 5 Stelle vorrebbero insistere e mantenere Sergio Mattarella al Colle. Mentre Gianni Letta si lamenta di essere l’unico cui tocca spiegare al Cav che non ha vere possibilità. Documento scritto dei centristi, Toti e Renzi, con il beneplacito di Salvini.

Dall’estero. Caos in Sudan dove si è dimesso il premier che era stato rimesso al governo dai militari dopo il golpe. In Usa è già cominciato un durissimo confronto su quanto accaduto un anno fa: l’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio. Parleranno sia Biden che Trump, lo scontro continua.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il Sole 24 Ore apre uno spiraglio: Borse, il 2022 inizia con un record. E di solito gli investitori scommettono sul futuro. Ma è ancora la pandemia con le discussioni in vista delle misure del nuovo decreto a dominare le prime pagine. Avvenire ricorda che è importante: Curare sempre. Il Corriere della Sera sottolinea le diverse opinioni di alcuni Presidenti di Regione e il governo: Scontro sul ritorno a scuola. Per Il Fatto il nodo è il lavoro in presenza: Smart working Italia, tutti in ufficio. Per La Repubblica la questione è l’obbligo vaccinale di fatto sui lavoratori: Lavoro, sfida sul Super Pass. La Stampa anche più esplicita: “Fuori i No Vax dalle aziende”. Divergenze di opinioni anche fra titolisti. Il Giornale sostiene: L’Italia resta aperta. Per il Quotidiano Nazionale: L’Italia paralizzata dalle quarantene. Il Mattino risente della drastica posizione del Presidente De Luca: Le Regioni: chiudere le scuole. Il Messaggero dettaglia: «Scuole, nuove regole per la Dad». La Verità agita lo spauracchio della repressione poliziesca per i No Vax: Carabinieri per chi non si vaccina. Domani torna sulla questione del rientro del Lider Maximo nel Pd: Il vero problema fra Letta e D’Alema è il giudizio su Draghi, non su Renzi. Libero è eccitato, fra 20 giorni si vota per il Colle: Il centro destra scopre le carte per la corsa al Quirinale. Il Manifesto mette a tema la scelta nucleare di Bruxelles, fatta nell’indifferenza generale: Un atomo di democrazia.

L’ULTIMO SCONTRO È SULLA SCUOLA

Scuola. Il Presidente della Regione Campania De Luca propone di rinviare di 20-30 giorni la riapertura delle aule dopo le festività. Il governo però frena: «Nessun rinvio». Valentina Santarpia per il Corriere.

«Il governatore Vincenzo De Luca ci prova: «Rinviare il rientro a scuola di 20-30 giorni - propone - per raffreddare il contagio». Il presidente della Toscana, Eugenio Giani, lo appoggia: «Proposta ragionevole». Dal Piemonte Alberto Cirio è cauto: «Tema delicato, aspettiamo il Consiglio dei ministri del 5 gennaio». E su La7 Stefano Bonaccini, Emilia-Romagna: «Garantire il massimo della presenza». Ma dal governo arriva la frenata sull'ipotesi di uno slittamento dell'inizio delle lezioni: gli studenti torneranno in classe il 10 gennaio. Eppure il braccio di ferro sulla scuola tra Regioni e amministrazione centrale sembra ancora in corso, almeno a giudicare dalle ultime battute. Ieri in serata il presidente Massimiliano Fedriga ha convocato la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome in seduta straordinaria per oggi alle ore 14 per approfondire il tema della gestione dei contatti, in particolare quelli in ambito scolastico. Dopo un anno controverso, in cui le scuole sono state in un primo momento chiuse perché considerate un potenziale focolaio, e poi in un secondo momento, con il governo Draghi, sono diventate il baluardo delle riaperture, il tema fa ancora discutere. I dati dei contagi tra i più piccoli spaventano. Il Comune di Milano ha già sospeso i servizi post scuola per nidi e infanzia dal 10 gennaio. Come rileva il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta, «se decidiamo di tenere aperte le scuole, bisognerà chiudere qualcos' altro». Come organizzare il rientro, allora? La soluzione che sembrava aver messo d'accordo tutti, il 31 dicembre, era l'ipotesi di tenere in classe solo i vaccinati, in caso di positivi tra i compagni. Pareva un compromesso buono ad alleggerire il carico di tamponi e quarantene che i dirigenti e le Asl facevano fatica a gestire. Ma dopo tre giorni quella bozza è stata demolita. Prima dalle critiche dei sottosegretari Rossano Sasso (Lega) e Barbara Floridia (M5S), secondo cui tenere i non vaccinati in dad significa discriminarli. A ruota sono seguite le proteste dei presidi, con il capo Antonello Giannelli, che rileva: «Era stato annunciato che sarebbero stati organizzati hub per fare tamponi agli studenti in vista della riapertura delle scuole. Sarebbe questa la misura da attuare, la cosa migliore dopo le feste, ma a pochi giorni dalla riapertura non ne abbiamo contezza». Ma c'è chi in autonomia si è già organizzato: la Regione Marche ha predisposto per il 6 gennaio dei punti tampone rivolti a studenti di scuole elementari e medie in vista del rientro a scuola».

DRAGHI INSISTE SUL SUPER PASS PER I LAVORATORI

Non è solo il tema scuola a dividere il governo, ma anche quello del Super pass per i lavoratori e dello smart working. Nel retroscena di Tommaso Ciriaco, si racconta che Lega e 5 Stelle alzano le barricate e che il premier tira dritto.

«È disposto ad andare allo scontro. Lo fa per difendere la crescita e raffreddare la curva di gennaio, che promette una crisi pesante sul fronte dei contagi e delle ospedalizzazioni. Mario Draghi vuole il 2G per il mondo del lavoro, anche se presenta rilevanti problemi tecnici e giuridici, anche se i tempi per scrivere il decreto sono strettissimi. Ha difeso in queste ore la scelta, scontrandosi con Lega e Movimento. E lo farà anche domani, in consiglio dei ministri. Opponendosi a un asse inedito, quello che nel 2018 era il fronte populista gialloverde. A capo della fronda c'è infatti Giancarlo Giorgetti. Il leghista non solo non vuole sentire parlare di obbligo vaccinale, neanche se circoscritto agli over 18. È ostile anche al Super Green Pass ai lavoratori. E continua a esserlo nonostante il fatto che Renato Brunetta gli abbia spiegato che i "fragili" restano comunque tutelati: «Non lo sono, non è vero - si è infuriato ieri nel corso di un lungo braccio di ferro con Palazzo Chigi - state sbagliando!». Sembra Salvini, più che il capodelegazione "draghiano" del Carroccio. A dargli una mano, ieri, sono stati i grillini. I ministri 5S Stefano Patuanelli (il più vicino a Giuseppe Conte) e Fabiana Dadone - che ha preceduto Brunetta a capo della Pubblica amministrazione, e che certo non ha voglia di aiutare l'azzurro - si mostrano sensibili alle ragioni dei sindacati autonomi. Spingono con decisione sull'estensione generalizzata dello smart working. Ritengono che possa essere una valida alternativa al 2G. E si mettono in rotta di collisione con il presidente del Consiglio, che soprattutto per il settore pubblico preferirebbe non sentire parlare di lavoro da remoto. Draghi insomma si prepara a tirare dritto. E lo fa perché ha in tasca due dati che non consentono mediazioni. Il primo: la crescita del Pil. Il mese di dicembre ha visto volare l'indice Pmi manufatturiero, tanto da far ritenere che il prodotto interno lordo 2021 potrebbe andare oltre il 6,3% previsto e attestarsi attorno al 6,5%. Di fronte all'impennata di Omicron, tirare dritto sul 2G - ed evitare nuove paralisi del Paese - significa prima di tutto difendere la crescita. Ma è soprattutto un secondo dato a convincere il premier della necessità di agire. Quattro notti fa, i tecnici dei ministri del G7 e di alcuni Paesi europei hanno ricevuto i dati inglesi su Omicron, vaccini e ospedalizzazioni. Sono serviti tre giorni di lavoro per "tradurli". Cosa dicono? Che la nuova variante spinge al ricovero con una frequenza che si attesta tra la metà e un terzo della Delta. In altri termini: a parità di dosi di vaccino ricevute (o non ricevute), Omicron ospedalizza il 60% in meno di Delta. Il booster, inoltre, ha una copertura sulla variante dell'85% sui ricoveri gravi e del 65-70% sul contagio. Numeri positivi, ma non abbastanza: a fronte di una diffusione che corre a una velocità mai vista, è prevedibile un grave picco di positivi e di ospedalizzati durante gennaio. Già in settimana dovrebbe essere sforata quota 200 mila malati al giorno. E attorno alla metà del mese le strutture sanitarie potrebbero subire un doloroso assalto. Poi, entro metà febbraio, la nuova variante dovrebbe rallentare con decisione. In questo mese d'emergenza, allora, bisogna intervenire. Evitare la tempesta perfetta. Con il 2G, a costo di stroncare Giorgetti. E di deludere i grillini. Patuanelli, che pure a livello personale non sarebbe ostile al vaccino obbligatorio, ha fatto sapere che il Movimento non reggerebbe a una soluzione così drastica. E ha messo agli atti pesanti dubbi sul 2G. «Meglio allargare la platea dello smart working», è la linea. Brunetta, che da mesi prova a riportare in ufficio gli statali, si è messo di traverso. «Meglio evitare, le regole già ci sono e funzionano». Il problema, però, resta: come sedare la curva, senza limitarsi al 2G? È una esigenza ben chiara anche alla delegazione del Pd e al ministro della Salute Roberto Speranza. Le opzioni sul tavolo restano tre: rinviare la riapertura delle scuole - per unanime ammissione la vera emergenza del momento - oppure chiudere cinema, teatri e stadi, o infine favorire il lavoro da remoto. Draghi pretende che le lezioni scolastiche non subiscano slittamenti, anche perché tutelarle significa assicurare ai genitori la possibilità di lavorare: nei fatti, un asset anche economico decisivo. È complesso poi ipotizzare una stretta nei luoghi culturali e di svago, dopo due anni di dolorose chiusure. Resta soltanto lo smart working. Alla fine, per superare lo stallo politico, Draghi potrebbe imporre un compromesso, prevedendo una quota di "lavoro da casa" nel settore privato, fino alla metà di febbraio. La platea interessata è vastissima: cinque milioni e mezzo di autonomi e 16 milioni di dipendenti di aziende private. Anche solo a ridurre di un terzo le presenze, l'effetto sarebbe imponente».  

Per Marco Travaglio quello di Draghi, Figliuolo e Brunetta è un “fallimento totale”. Lo scrive stamattina nell’editoriale del Fatto.

«Qualunque cosa decida domani con l'ennesimo pacchetto di misure anti-Covid (il quinto in un mese), il governo Draghi ha fallito una delle sue due missioni (l'altra era il completamento del Pnrr). E non perché la quarta ondata Delta-Omicron sia colpa sua (era inevitabile come le precedenti, anche se si è pensato di bloccarla alle frontiere coi tamponi ai turisti). Ma per gli errori e le omissioni commessi prima e dopo la sua esplosione. 1. Della terza dose si sapeva da maggio, ma siamo partiti a novembre: intanto Figliuolo chiudeva un hub vaccinale su tre. 2. La copertura dei vaccini scemava (da 12 a 9 a 6 a 4 mesi), ma premier e commissario puntavano solo su quelli, garantendo "ambienti sicuri" e "immunità di gregge", salvo scoprire (buoni ultimi) che ci salvano solo dalle forme gravi e mortali, non dai contagi. 3. Nulla s' è fatto per la ventilazione degli ambienti chiusi, le distanze nelle scuole ("un metro là ove possibile", sennò finestre aperte e preghiere), su bus, metro e treni regionali (capienza al 100% senza nuovi mezzi), grazie all'inettitudine di Bianchi, Giovannini e Gelmini (rapporti regionali). 4. Quell'altro genio di Brunetta ha smantellato lo smart working nella Pa, prima arma usata in tutto il resto dell'Ue e raccomandata a novembre dall'Ecdc. 5. Mentre il Green Pass diventava super, mega, maxi e rafforzato, nessuno pensava a revocarlo ai positivi, lasciandoli liberi di contagiare con tanto di carta verde. Ora càpita pure che venga tolto dopo il primo test negativo: cioè quando non si può più infettare. 6. La caccia ai No Vax (molti meno che negli altri grandi Paesi Ue) con argomenti fallaci ne ha convertiti pochissimi, ma ha illuso noi Vax di esser immuni. E l'ossessione per i bimbi (che rischiano poco o nulla) oscura i tanti over 80 (uno su 5), i più esposti a rischi mortali, ancora senza terza dose. 7. Figliuolo, presunto esperto di logistica e approvvigionamenti, non ha calmierato i prezzi di Ffp2, tamponi molecolari e antigenici (fra i più cari in Ue), non ha garantito tende di testing nelle strade per evitare le ore di code al freddo, né ha procurato i reagenti, che scarseggiano come i vaccini. 8. Anziché inseguire ancora i No Vax con obbligo vaccinale o Super Gp per lavorare o lockdown selettivi, rischiando di paralizzare i servizi pubblici e il sistema produttivo, il governo faccia subito qualcosa per ridurre le occasioni di contagio, partendo dallo smart working. E garantisca la terza dose ai 18 milioni di bivaccinati in attesa del booster perché hub e farmacie non ce la fanno. Figliuolo aveva promesso 700 mila dosi al giorno: siamo a 400 mila. Dinanzi a un simile disastro, si stenta a credere che Draghi voglia andarsene al Quirinale. Però si capisce benissimo il perché».

ANCHE IN ITALIA ARRIVA LA PILLOLA ANTIVIRALE

L'antivirale da oggi sarà distribuito alle Regioni. La prima pillola per curarsi: ecco chi potrà usarla. Silvia Turin per il Corriere della Sera.

«È arrivato il primo antivirale specifico contro Sars-CoV-2: la pillola di Merck chiamata molnupiravir (nome commerciale «Lagevrio»), è stata autorizzata nel nostro Paese il 22 dicembre dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e da oggi è distribuita dalla Struttura commissariale per l'emergenza alle Regioni. Il molnupiravir è indicato per il trattamento dei pazienti non ricoverati con malattia da lieve a moderata sviluppata di recente e condizioni cliniche che rappresentino però fattori di rischio specifici per lo sviluppo di Covid grave. Si tratta di un antivirale orale che deve essere assunto entro 5 giorni dall'insorgenza dei sintomi. Il trattamento dura 5 giorni e consiste in 4 capsule (800 mg totali) da prendere due volte al giorno. Non è raccomandato in gravidanza e comporta l'interruzione momentanea dell'allattamento. Il suo scopo è prevenire il ricovero. «L'accesso al molnupiravir segue lo stesso flusso degli anticorpi monoclonali - spiega Filippo Drago, esperto della Società Italiana di Farmacologia (Sif) -. I pazienti vengono selezionati dai medici di medicina generale o dagli ospedali. Le Regioni decidono come distribuirlo: presumibilmente all'inizio il farmaco sarà presente nelle farmacie ospedaliere, in seguito nelle farmacie autorizzate. Al paziente non dovrebbe costare nulla. Ci potranno essere alcune Regioni che richiederanno accertamenti preliminari (come tampone ed eventuale dimostrazione di fragilità)». Il molnupiravir agisce producendo alterazioni del materiale genetico (Rna) del virus durante la replicazione in modo da renderlo incapace di moltiplicarsi. Secondo i produttori (Merck Sharp & Dohme in partnership con Ridgeback Biotherapeutics) la pillola non colpisce la proteina spike del Covid, per questo la sua efficacia sarebbe garantita a prescindere dalle varianti. Due sono i problemi relativi al farmaco in questione: l'efficacia nel prevenire le ospedalizzazioni è bassa, si è attestata al 30% dopo la conclusione dello studio di Fase 3. L'altra difficoltà è somministrare il farmaco entro 5 giorni dall'insorgenza dei sintomi: non è detto che un paziente all'esordio della malattia venga subito sottoposto a tampone (anche perché i sintomi del Covid sono comuni a molte altre malattie virali). Per persone considerate a rischio il farmaco è sicuramente un'arma in più, ma non è alternativo alla vaccinazione. Non solo per i dati di efficacia, ma anche perché, come gli altri medicinali, la durata della sua azione è limitata nel tempo: dopo un paio di giorni il principio attivo sarà scomparso dall'organismo. Il vaccino, invece, rende il sistema immunitario in grado di combattere il virus per mesi.».

La campagna vaccinale di Figliuolo. Il nuovo target indicato alle Regioni dal commissario è la somministrazione di 15 milioni di dosi nel mese di gennaio. Il generale promette l'arrivo di 26 milioni di dosi di scorta entro la fine del mese. Michele Bocci per Repubblica.

«Il governo punta tutto sui vaccini ma nei magazzini delle Regioni le scorte scarseggiano. Ci sono infatti solo 2 milioni e 361 mila di dosi, troppo poche per portare avanti rapidamente la campagna dei booster e pure recuperare chi è ancora scoperto. Scatta così un allarme che porta la struttura del commissario straordinario Francesco Figliuolo a contattare i fornitori e le Regioni e a riconsiderare i numeri, tenendo conto anche della riserva a disposizione dei militari. E ieri, Figliuolo ha assicurato che non ci sarà alcun rallentamento della campagna vaccinale e ha fissato un nuovo obiettivo per gennaio. Arriveranno nuove forniture e le Regioni dovranno somministrare 15 milioni di vaccini, tra prime, seconde e terze dosi. Cioè dovranno fare un po' di più rispetto al dicembre, quando le inoculazioni sono state 14,5 milioni. La media è dunque di mezzo milione di iniezioni al giorno. Il mese scorso il giorno record è stato il 28, quando negli hub sono stati inoculati 646 mila vaccini. Per scacciare i timori di una difficoltà nell'approvvigionamento, Figliuolo ha aggiunto che «il fabbisogno di vaccini per il mese di gennaio verrà assicurato dalle dosi di Pfizer e Moderna nella disponibilità della Struttura commissariale. Nel complesso, i quantitativi sono in grado di esprimere una potenzialità di 26 milioni di somministrazioni ». Con un linguaggio un po' ingessato, si vuole chiarire che accanto alle riserve delle Regioni e alle consegne da parte delle aziende in programma nei prossimi giorni c'è anche una scorta gestita dalla struttura di Figliuolo. Serve per aiutare le realtà locali che dovessero trovarsi in difficoltà con le scorte perché magari è riuscito a vaccinare più del previsto. Riguardo alle disponibilità, bisogna ricordare che i dosaggi non sono tutti uguali. Intanto una parte dei vaccini Pfizer sono destinati ai bambini, ai quali viene somministrato un terzo del principio attivo usato per gli over 12. Inoltre Moderna viene utilizzato a dose intera per le prime e le seconde somministrazioni, si dimezza quando è impiegato come booster. Proprio con Moderna le Regioni incontrano alcuni problemi. «Ci sono cittadini che preferiscono, va specificato senza alcuna ragione scientifica, fare il booster con Pfizer - spiega l'assessore alla Salute del Lazio, Alessio D'Amato - E così per questo vaccino ci sono attese più lunghe, da noi possono raggiungere anche una ventina di giorni. È una questione di disponibilità e anche della sua peculiarità: Pfizer è l'unico che può essere utilizzato per chi ha dai 12 ai 18 anni. Quindi dobbiamo tenerlo da parte per loro. Se tutti lo chiedono si crea un problema». Secondo D'Amato adesso che la circolazione di Omicron è altissima «è fondamentale vaccinarsi, e proteggersi con la terza dose. Quindi i cittadini dovrebbero puntare a riceverla prima possibile ». Riguardo alle forniture, ieri alle Regioni risultavano confermate da parte della struttura commissariale cinque consegne nel corso di questo mese, da domani al 28 gennaio. In totale dovrebbero arrivare circa 5 milioni di dosi di Pfizer e 3 di Moderna, che potrebbero diventare 6 per la possibilità di fare la metà del dosaggio. Si tratta quindi, potenzialmente, di circa 10 milioni, ai quali comunque si potrebbero aggiungere nuove consegne. «Questo è un vecchio problema - chiosa D'Amato - Capita che ci vengano comunicati rifornimenti all'ultimo momento, cosa che rende molto difficile programmare l'attività ». La paura della variante Omicron e le regole del Super Green Pass hanno spinto molti a vaccinarsi. Prima di tutto è cresciuto il numero delle prime dosi somministrate ogni giorno. Così l'Italia è vicinissima all'obiettivo del 90% degli over 12 che ha ricevuto almeno un vaccino. È stato superato l'89%, che diventa l'89,8% se si conteggiano anche coloro che sono stati contagiati negli ultimi sei mesi e per questo non sono ancora vaccinati. Riguardo alle terze dosi, se ne fanno tra le 4 e le 500 mila ogni giorno. In tutto hanno ricevuto il booster circa 20 milioni di persone, cioè praticamente un terzo degli italiani».

CALMIERATO IL PREZZO DELLE MASCHERINE

Raggiunto l'accordo: il prezzo delle mascherine sarà calmierato: la ffp2 sarà venduta a 75 centesimi. Fabio Savelli per il Corriere.

«Una decina di giorni di rincari, anche fino al 400%, e scorte ridotte. Per una domanda di mascherine Ffp2 esplosa dal 25 dicembre, giorno in cui il governo le ha indicate come le uniche da utilizzare sui mezzi di trasporto pubblici, musei, cinema, teatri, stadi e sale da concerto. Ieri dopo giorni di negoziati, rilevazioni sull'andamento dei prezzi, interrogazioni parlamentari, esposti da parte delle associazioni di consumatori per l'esborso aggiuntivo imposto alle famiglie, l'accordo tra le farmacie e la struttura commissariale guidata da Francesco Figliuolo. Costeranno - per i punti vendita che aderiranno appartenenti a Federfarma, Assofarm e FarmacieUnite - 75 centesimi l'una. Un prezzo calmierato «che concede margini risicatissimi ai titolari di farmacie ma non è quello che conta in questo momento», spiega Venanzio Gizzi, presidente di Assofarm. È un punto di caduta concertato col commissario e con le regioni che avviene «senza oneri per la finanza pubblica», come indicato nell'ultimo decreto Covid. Arrivato dopo alcune rilevazioni precedenti al 25 dicembre che segnalavano un prezzo medio attorno agli 80 centesimi l'una, ritenuto dunque un obbiettivo possibile. La complessità dell'operazione stava tutta nella remunerazione della filiera: le aziende, anche italiane, che hanno riconvertito i macchinari per produrle al deflagrare della pandemia, gli intermediari che le acquistano all'ingrosso e la rete distributiva di supermercati, edicole, negozi, farmacie che le vendono ai clienti. Tutti faranno il loro sforzo, almeno fino al 31 marzo, termine al momento fissato dell'emergenza sanitaria. Per la grande distribuzione il peso è minore. Ne acquistano in grandissime quantità e dunque riescono a buttare giù i prezzi, come sta facendo Coop che le propone al cliente finale a 50 centesimi l'una. Nelle farmacie il prezzo non è finora mai sceso sotto l'euro l'una per le minori economie di scala negli approvvigionamenti. Anzi oscillava tra 1,5 euro fino a punte di 3-4 euro l'una a seconda del comune o della regione, con una variabilità estremamente ampia che suggeriva dunque una misura statalista su cui però il mercato può allinearsi. Dice Marco Cossolo, presidente di Federfarma, che «l'aggravio maggiore è per le farmacie dei piccoli Comuni dove il costo della logistica è superiore». Eppure si dice convinto che ci sarà una grande adesione degli esercenti, sia farmacie private sia comunali, per aderire al protocollo. Altrimenti il rischio è una situazione a macchia di leopardo che finirebbe per penalizzare proprio chi vive in aree meno collegate o più disagiate. Certo il conto per le famiglie, pur contenuto, non sarà irrilevante. Si calcola che per un nucleo di quattro persone possa superare i 100 euro mensili comprensivi anche del costo delle chirurgiche che, seppur confinate a bar e ristoranti o all'aria aperta, possono essere utilizzate. Il costo dei tamponi e il carico di lavoro sul personale sanitario (dunque anche delle farmacie) fa il resto: «Stiamo sostenendo una pressione mai vista prima con turni impossibili», dice Gizzi».

ALLA BORSA PIACE IL 2022

Partenza super positiva per i mercati, compresa la Borsa di Milano. Fra le cause la grande liquidità in cerca di investimenti. La cronaca di Maximilian Cellino sul Sole 24 Ore

«Anno nuovo, vecchie abitudini. Mai però la continuità con il recente passato risulta così gradita agli investitori, che hanno ritrovato le Borse nella prima seduta del 2022 proprio come le avevano lasciate qualche giorno prima alla fine di un anno da incorniciare: in rialzo e pronte in molti casi a raggiungere nuovi primati. Ieri Milano ha infatti terminato in progresso dell'1,4%, con il Ftse Mib a 27.730 punti a un passo dai livelli raggiunti a metà novembre. Ancora meglio è andata all'Europa nel suo complesso, visto che l'indice Stoxx600 (+0,5% a 489,99 punti) si è concesso un nuovo massimo storico, imitando in questo una Wall Street ormai abituata a ritoccare record giorno dopo giorno. In attesa che i dati sull'inflazione previsti in questi giorni (si parte oggi con le cifre francesi, per proseguire domani con l'Italia, giovedì la Germania, venerdì il dato complessivo dell'Eurozona, mentre per gli Usa occorrerà aspettare la prossima settimana) possano mettere un po' di pepe in più su uno dei temi caldi e in grado di influenzare le prossime decisioni della Banche centrali, è l'enorme liquidità alla ricerca affannosa di rendimenti a tenere banco, come si evidenzia anche nell'articolo a fianco. A maggior ragione nel contesto anomalo e di difficile interpretazione dei primi giorni dell'anno, in cui i volumi restano generalmente contenuti e molti mercati ancora chiusi per festività (ieri Shanghai, Tokyo e Londra). Il nodo dei tassi reali Evoluzione della crisi pandemica a parte, in un contesto generale che appare comunque ancora favorevole alle attività legate al rischio la variabile che tiene sulle spine resta pur sempre la dinamica dei tassi. E più che i loro valori nominali di cui si sente parlare ogni giorno, a risultare determinanti - per le azioni, ma anche per i bond societari - saranno soprattutto i loro livelli reali, quelli calcolati cioè al netto dell'inflazione e ancora sotto zero in molte parti del mondo. «Ci aspettiamo un'inflazione più persistente di quanto atteso dal mercato e, di conseguenza, tassi nominali in moderata ripresa», avverte infatti Salvatore Bruno, responsabile Investimenti di Generali Investments Partners, evidenziando quindi un elemento in grado di portare con sè inevitabili episodi di volatilità. «Se le banche centrali nella loro azione di contrasto alla crescente dinamica dei prezzi riusciranno però a stabilizzare il percorso dei tassi reali - aggiunge - è ragionevole aspettarsi che gli attivi rischiosi continuino a beneficiare anche nel 2022 di fondamentali che appaiono ancora robusti». Le conseguenze sui settori La condizioni che si potrebbero creare nei mesi a venire sono però in grado di portare all'interno degli stessi listini azionari un cambiamento di scenario, sul quale i gestori stanno ormai discutendo da tempo e che a sprazzi si è già intravisto la stagione scorsa. «In situazioni come queste - riprende Bruno - è bene privilegiare i settori sensibili a prezzi e a rendimenti più alti, in particolare i finanziari e alcuni comparti cosiddetti value, come gli industriali e i beni strumentali che hanno sottoperformato i titoli growth nel corso del 2021». Il tema della rotazione, che in teoria avvantaggia in termini relativi Borse meno esposte alla spinta dei tecnologici come Piazza Affari e l'Europa in generale, è molto dibattuto in un contesto in cui le politiche monetarie ultra-espansive sembrano tendere alla normalizzazione. «Quando i tassi di interesse salgono, le strategie di lunga durata tendono a sottoperformare nel mercato obbligazionario, ma anche in quello azionario», riconosce Richard Bernstein, a.d. di Rba (società di iM Global Partner). Fra quest' ultime, l'ex capoeconomista di Merrill Lynch punta il dito non a caso sui settori legati a tecnologia e innovazione, oltre che investimenti disruptive e venture capital. «Al momento attuale sono fra le classi di investimento più popolari, ma sono anche le più rischiose», aggiunge Bernstein, contrapponendo invece energia, finanza e industria: «settori che storicamente hanno sovraperformato quando la crescita nominale si è rafforzata». Ieri la spinta maggiore è in effetti arrivata proprio da quei comparti: vecchie abitudini insomma, ma fino a un certo punto».

LO SCONTRO FRA D’ALEMA E LETTA È SU DRAGHI

Il tema politico che rimbalza sui quotidiani stamattina, Quirinale a parte, è il rientro di Massimo D’Alema nel Pd. Daniela Preziosi per Domani spiega che la posta in gioco non è affatto il renzismo, contro il quale Enrico Letta ha scritto ben due libri, bensì il giudizio su Mario Draghi.

«Il giudizio negativo di Letta sul renzismo, da vittima numero uno di quella stagione politica, non è un mistero. Non è tenero e lo ha scritto in due libri dopo la defenestrazione del 2014. Ma oggi chiede di «guardare avanti, fondare un racconto del centrosinistra diverso dal passato». Traduzione concreta: le parole di D'Alema oggi rischiano di azzoppare il suo immane sforzo di tenere uniti i gruppi parlamentari, in gran parte composti da ex renziani (parola accuratamente sbianchettata dal vocabolario ufficiale del Nazareno), alla vigilia della prova più importante della sua segreteria, quella del voto per il Colle. È questa la chiave per leggere meglio la sua irritazione, alla vigilia della riunione congiunta fra direzione e gruppi parlamentari, il 13 gennaio. Nel brindisi virtuale con il gruppo dirigente del suo partito, D'Alema ha scolpito altri giudizi abrasivi. Il più duro su Mario Draghi: «Rischiamo che la crisi politica si accompagni alla crescita di un potere tecnocratico che sarebbe il punto di arrivo della stagione dell'antipolitica». Per l'elezione del capo dello stato serve «una soluzione che riapra il campo della sovranità della politica anche se dovrà essere una soluzione di compromesso». E ancora: «L'idea del presidente del consiglio si autoelegge capo dello stato e nomina un altro funzionario del ministero del Tesoro al suo posto mi sembra una prospettiva non adeguata a un grande paese democratico». Poco prima Pier Luigi Bersani aveva messo in guardia contro «l'occasione per qualche operazione politica molto insidiosa». Letta, che di Bersani è stato il vicesegretario e con lui ha mantenuto ha un rapporto stretto a differenza che con D'Alema, deve prendere atto che i due padri nobili ex scissionisti sono contrari all'elezione di Draghi al Quirinale. Che è invece opzione che il segretario Pd non esclude. E se non per andare presto al voto, possibilità che Letta non può nominare perché scatena l'ira di dio nella maggioranza dei parlamentari, perché ritiene Draghi l'unica opzione forte per combattere la corsa di Berlusconi, che valuta più seria di quello che appare. Il ritorno alla politica In più, nell'analisi di Letta, Draghi al Quirinale favorirebbe il ritorno alla dialettica politica fra le opposte forze parlamentari. Ma è l'esatto contrario dell'analisi che circola in Art.1 - espressa apertis verbis dal «militante semplice» D'Alema - secondo cui l'ex presidente della Bce, da capo dello stato, obbligherebbe le forze politiche alle larghissime intese oltre i limiti di questa legislatura eccezionale. Ora Letta fa sapere di essere pronto ad incontrare Giuseppe Conte e Roberto Speranza, ma anche i leader del centrodestra. Ma con questi ultimi dal suo punto di vista la discussione resta congelata finché il tavolo non verrà sgomberato dal «macigno» Berlusconi. Che è uno dei tre punti del patto di consultazione con il presidente M5s e il segretario di Art.1. Gli altri due punti sono l'elezione di un capo di stato a larga maggioranza e l'accordo per la fine della legislatura. Un accordo, quest' ultimo, che secondo Letta si può stringere anche con l'elezione di Draghi al Colle. Che però i due alleati giallorossi non vogliono».

Sul Manifesto Andrea Carugati ripercorre con lucidità di analisi la “triste parabola di art.1 il partito vissuto nel limbo”, dopo la scissione di cinque anni fa.

«Sulla parabola renziana nel Pd, D'Alema, nei saluti di fine anno ai compagni di Articolo 1, ha usato parole financo riduttive, definendola una «malattia». Una malattia è qualcosa che accade a un organismo, mentre l'Opa ostile del gruppo di potere raccolto intorno all'allora sindaco di Firenze fu qualcosa di molto diverso: il tribunale di Firenze accerterà se attorno alla fondazione Open furono commessi reati, politicamente si può dire (e da tempo) che ci fu il tentativo di trasformare il partito italiano che fa riferimento alle socialdemocrazie europee in una forza liberale di centro, equidistante tra destra e sinistra, decisamente schierato contro il mondo del lavoro salariato e a favore del padronato più spregiudicato: una sorta di trasfusione totale, avvenuta su un corpo nato già gravemente infragilito e privo di una robusta spina dorsale innervata di valori di sinistra e laburisti. Malattia guarita con l'addio di Renzi? Niente affatto. Detto questo, il prossimo venturo rientro tra i dem di D'Alema, Bersani e Speranza sollecita ben altri interrogativi per chi ha a cuore il destino della sinistra italiana. La scissione di Art.1, nel febbraio 2017, non ha mai chiarito un interrogativo di fondo: era il Pd in quanto tale, nato nel 2007 in una temperie post ideologica e blairiana, a essere inadeguato come casa per la sinistra o la scissione fu solo una reazione al renzismo, dunque a una segreteria protempore? Fu l'avvio di un progetto politico di sinistra come la Linke di Lafontaine contro Schroeder o una scialuppa per un pezzettino di ceto politico? I fatti di questi giorni ci dicono che, evidentemente, in quei mesi del 2017 prevalse più l'insofferenza per la corte renziana (che peraltro si avviava rapidamente al capolinea dopo il rovescio del referendum) che un giudizio ragionato sulla natura del Pd. E che il progetto di una forza a sinistra del Pd, se mai c'è stato all'inizio, è subito naufragato in una lunga agonia priva di azione e proposta politica. Non a caso Art.1, subito dopo il magro risultato di Leu alle politiche del 2018 (3%), ha sostanzialmente abbandonato il progetto di costruzione di una forza di sinistra autonoma con Sinistra italiana e gli altri partner della lista, per consegnarsi a uno stato di inerzia, un lunghissimo limbo. Alle europee del 2019, dopo che Zingaretti aveva conquistato il Pd, alcuni esponenti di Art.1 (a partire dall'attuale sottosegretaria Cecilia Guerra) sono entrati nelle liste dem, nel nome della comune appartenenza al gruppo socialista, tanto che Bersani ha fatto campagna elettorale per il Pd pur senza mai nominarlo. Poco dopo Speranza (segretario del partito) è stato nominato ministro della Salute del Conte 2 in quota Leu, soggetto esistente solo nelle aule parlamentari e non nella realtà. Da allora questa ambiguità è proseguita per due anni e mezzo, nei quali è stata coniata la brillante definizione di «sinistra sanitaria» a indicare che la vera ragione sociale del piccolo partito era difendere la postazione ministeriale del segretario (diventata centrale col Covid), anche nel passaggio da Conte a Draghi. Accanto a questo il partito si è segnalato per un contismo sfrenato e sostanzialmente acritico, sconosciuto nei 5Stelle, tanto che all'inizio del 2021 era stato ipotizzato l'ingresso della truppa nel partito di Conte, progetto mai decollato. Di qui l'idea, sempre rimasta in sottofondo dal 2019, di un ritorno nel Pd, facilitato in questi mesi dalla segreteria di Letta, amico fraterno di Bersani. In questi cinque anni, dunque, mentre Bersani e D'Alema hanno sviluppato interessanti analisi sui gravi limiti della terza via e sul ruolo della sinistra in piena crisi della globalizzazione, il loro partito è rimasto sostanzialmente inerte. Impedendo qualsiasi fioritura a sinistra del Pd. Dal matrimonio, potenzialmente fecondo, tra il cuore della ditta diessina e gli eredi di Vendola non è nato nulla, nonostante l'impegno di migliaia di militanti di Art.1 e di un pugno di dirigenti, a partire da Arturo Scotto, che si è caricato sulle spalle tutto il peso della gestione del partito. Ma quale progetto e quale azione politica può svolgere un piccolo partito di sinistra che non sa cosa vuole fare da grande? L'idea di un «big bang,» di una sorta di reset anche del Pd per dare vita a una grande forza socialista e di sinistra (evocata mille volte da Bersani) si è rivelata un'illusione: il Pd, «amalgama mal riuscito» secondo D'Alema, partito ircocervo ancora popolato da truppe renziane, si è tuttavia rivelato con Zingaretti e Letta l'unico pilastro rimasto in piedi nel centrosinistra, certamente irrobustito dall'uscita di Renzi e dei suoi pretoriani. A sinistra invece mai come oggi il panorama è stato così devastato, pur in presenza di una acuta crisi sociale che richiede idee e azioni ben più radicali di quelle di Letta. In questo quadro il problema non è definire il renzismo una «malattia». Parole di verità dai dirigenti di Art.1 si vorrebbero sentire sulle ragioni del fallimento della scissione, sul naufragio della Linke italiana, sulle ragioni (e le responsabilità) per cui a sinistra del Pd il campo è desertificato».

QUIRINALE 1. SENATORI 5STELLE  PER IL BIS DI MATTARELLA

I senatori 5 stelle, poco inclini a seguire il leader Giuseppe Conte, rilanciano il bis di Sergio Mattarella. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere

«È ancora caos a venti giorni dalla prima votazione per eleggere il nuovo capo dello Stato. Le trattative per arrivare a una soluzione condivisa non decollano. I partiti continuano a muoversi in ordine sparso. E così un'altra giornata si conclude con un nulla di fatto. Il climax si raggiunge quando a sera si riunisce l'assemblea dei senatori del Movimento Cinque Stelle che via Zoom, a larga maggioranza, invoca il bis di Sergio Mattarella, ritenendo che ci sia ancora spazio per un'operazione di moral suasion nei confronti dell'attuale inquilino del Colle. Fantapolitica? Le truppe del Movimento ci credono perché, confida uno di loro alla fine dell'incontro, «in una situazione emergenziale come quella odierna non si deve modificare lo status quo , è auspicabile la stabilità politica del Paese che si può realizzare solo con Mario Draghi a Palazzo Chigi e Sergio Mattarella al Quirinale». Per di più, i senatori pentastellati chiedono che i capigruppo di Camera e Senato «partecipino alla scelta del presidente della Repubblica in ogni fase decisionale». Tradotto, Davide Crippa e Maria Domenica Castellone dovranno affiancare Giuseppe Conte, leader del Movimento Cinque Stelle, quando si siederà al tavolo delle trattative. Ed è anche questo un segnale che si inserisce nel grande caos di giornata. Perché, dichiara un senatore del Movimento, «noi vogliamo monitorare come si muove il nostro leader Conte in sede di trattative». Non a caso qualche maligno, dopo l'assemblea dei senatori M5S, arriva a sussurrare che si tratta di «commissariamento». Intanto si sfidano a distanza Lega e Partito democratico. Matteo Salvini si muove su un doppio binario. Da una parte si mostra leale con Silvio Berlusconi, «lo sente ogni giorno», e giura di sostenerlo. Dall'altro, non solo puntella l'esecutivo chiedendo un tavolo urgente per l'emergenza bollette «per arrivare a un piano nazionale di sicurezza energetica». Di più: prova riprendersi la scena rilanciando per la seconda volta, lo aveva già fatto il 16 dicembre, un tavolo con tutti i leader, per individuare il successore di Sergio Mattarella. Spiegano da via Bellerio: «Matteo è riservatamente al lavoro per riunire tutti i leader e organizzare un incontro. Obiettivo: raggiungere un'ampia sintesi che allarghi i confini del centrodestra. È la sua priorità assoluta e vuole essere lui il king maker». Non è dato sapere se abbia già fatto un giro di telefonate, o se comunque abbia sondato gli altri capi partito via WhatsApp. Fatto sta che la mossa non viene digerita dal Partito democratico. Il Nazareno reagisce e fonti interne veicolano un messaggio di questo tenore: «Finché il centrodestra ha una posizione ufficiale attorno a Berlusconi, il dibattito resta congelato». «Ci vuole serietà, dobbiamo eleggere il capo dello Stato, non un rappresentante di classe» ironizzano i democrats . Allo stesso tempo da quelle parti si fa comunque notare che la posizione del Pd non è mutata: «Siamo disponibili a parlare». Non a caso sempre in quei minuti Irene Tinagli, vicesegretaria vicaria del Pd, si oppone all'ipotesi di una candidatura del Cavaliere: «Non credo che Berlusconi sia una figura adeguata perché è un leader di partito». E sempre dalla galassia Pd la capogruppo in Senato, Simona Malpezzi, consegna questo ragionamento ai microfoni del Tg1 : «Per il Quirinale abbiamo sempre detto che prima di parlare di nomi dobbiamo trovare un metodo condiviso. È necessario individuare quindi tutti insieme un profilo alto per arrivare ad un nome non divisivo». Piccata la risposta della Lega: «Mentre Letta mette veti e perde tempo, la Lega lavora per fare veloce e perché tutti siano coinvolti, nessuno escluso, per una scelta così importante per tutti gli italiani».

QUIRINALE 2. GIANNI LETTA CERCA DI FAR RAGIONARE IL CAV

A chi lo va a trovare in questo periodo Gianni Letta confida: "Sto facendo di tutto per far capire al Cavaliere che rischia di bruciarsi". Il retroscena di Carmelo Lopapa su Repubblica.

«La tela del "ragno" ha fili sottilissimi ma resistenti, in trent' anni di diplomazia sotto traccia (e sotto una quindicina di governi diversi) non si sono mai spezzati. Neanche nei momenti più difficili. E se non difficile, questa partita per il generalone romano Gianni Letta è quanto meno delicata. E complicata. «Sto facendo di tutto per far comprendere a Silvio che il rischio di bruciarsi è altissimo, nella corsa al Quirinale che ormai si è intestato, ma sono l'unico che si è preso l'ingrato compito di farglielo notare», racconta l'eterno braccio destro del Cavaliere ai pochi amici di cui si può fidare. Nessuno o quasi dentro Forza Italia, giusto per capire l'aria che tira alla corte di Arcore e dintorni. Atmosfera tesissima, in Brianza, dopo il veto recapitato ancora una volta ieri sera dalla segreteria Pd di Enrico Letta. Quando Matteo Salvini ha rilanciato la proposta di un tavolo fra tutti i leader per condividere già dai prossimi giorni quanto meno un "metodo" per l'elezione del presidente della Repubblica, dal vertice dem è arrivata la doccia fredda: «Finché il centrodestra ha una posizione ufficiale attorno a Berlusconi, il dibattito resta congelato». L'affare insomma si complica, per il Cavaliere e parecchio. Ma resterà lui, giocoforza, l'ago della bilancia. Ed ecco allora che nella mappa che porterà il nuovo inquilino al Colle bisognerà tenere sempre più sott' occhio il via vai dallo studio di rappresentanza degli uffici Mediaset di Largo del Nazareno, nel cuore di Roma. La tana del "ragno" Letta, appunto. A due passi dalla sede del Pd. Ma anche da Palazzo Chigi. A chi attende, al primo piano, sono riservate due anticamere in sale separate: una vip, l'altra normal. Gli ospiti non si incrociano mai, possono farlo casualmente solo per le scale: non c'è ascensore nell'edificio che ospita anche gli uffici di Fedele Confalonieri. Lì Gianni Letta riceve, incontra, ascolta, parla. In questi giorni più del solito. Il nipote Enrico e Goffredo Bettini, tutto lo stato maggiore M5S, da Giuseppe Conte a Luigi Di Maio, passando per l'ex tg5 Emilio Carelli. E poi Chigi, ovvio. L'ex sottosegretario alla Presidenza si è convinto che per il suo capo la via, più che stretta, sia pressoché impraticabile. Meglio allora intestarsi la soluzione Draghi, impugnando lo scettro del king maker. Del resto, è una storia lunga quasi trent' anni quella che racconta del feeling tra Mario Draghi e Gianni Letta. Iniziata quando l'ex governatore di Bankitalia Guido Carli, tra l'89 e il '92, ha ricoperto la carica di ministro del Tesoro e ha chiamato alla direzione generale del dicastero un giovane e già apprezzato economista: Draghi appunto. Di Carli il "Dottore" era amico personale, fu lui il "ponte". Così, più che Berlusconi premier si narra che fu proprio Letta il big sponsor di Draghi governatore della Banca d'Italia nel 2005 e infine della nomina alla presidenza della Bce, nel 2011. Qualcuno nella corte berlusconiana in questi giorni ricorda come il capo in entrambe le occasioni si fosse lamentato del mancato ringraziamento da parte di Super Mario: «Nemmeno una telefonata». Ringraziamento che - è la maldicenza mai confermata - sarebbe invece arrivato dall'"amico" Draghi a Gianni Letta. Va da sé che la terza e ultima scalata del presidente del Consiglio non dispiacerebbe affatto al principe della diplomazia berlusconiana. Sempre che riesca a superare un ostacolo non da poco: l'ostinazione di Silvio Berlusconi, appunto. I nemici di Arcore sostengono che in fondo a un cassetto l'ex sottosegretario coltivi il sogno di spuntarla lui, a sorpresa, nella corsa di fine gennaio: quintessenza del "super partes", magari dopo che tutti i candidati saranno stati abbattuti dai veti incrociati. Chi conosce bene Letta racconta invece che l'uomo, pur ambizioso, non punti in alto fino a questo punto. Di certo non potrebbe certo contare sul sostegno di Salvini e Meloni, detestato com' è dai due (ricambiati)».

QUIRINALE 3. LE MOSSE DEI CENTRISTI

C’è una bozza di accordo fra centristi, scritta in un documento, nero su bianco. Lo rivela Mario Ajello sul Messaggero.  

«C'è un documento che gira di mano in mano tra i maggiorenti, pochi e di alto livello, dei centristi di Coraggio Italia e di Italia Viva, i due gruppi che hanno deciso - frequenti le vicendevoli telefonate tra i leader, Toti e Renzi - di unirsi per giocare da protagonisti la partita del Quirinale. In questo testo, che se verrà condiviso rappresenterà il punto d'inizio per questo agglomerato né di destra né di sinistra, si traccia un percorso possibile per l'elezione del presidente della Repubblica e l'identikit per la figura da mandare sul Colle è quello di Mario Draghi. Ma con due condizioni incorporate, ed essenziali per gli 80 grandi elettori della nascente area di centro. La prima è che il nuovo presidente non sciolga le Camere - e Draghi già ha fatto capire che è l'unico in grado di non scioglierle - e la seconda è che sia garantita la creazione di una nuova legge elettorale di tipo proporzionale, la sola adatta a far esistere una forza mediana che può contare e che, nelle previsioni o nelle speranze di Renzi, può raggiungere almeno il 10 per cento. Insomma l'accordo Renzi-Toti è fatto e la fisionomia di Draghi al Quirinale, o comunque di un nome condiviso per quell'alta carica, è parte fondamentale dell'operazione. Che anticiperebbe, sul nome di Draghi, le mosse del Pd che lettianamente è sempre più orientato a sostenere il trasloco del premier al Colle. C'è chi assicura tra i centristi che già ci sarebbero stati, a proposito di questa operazione, contatti con Draghi: ma questa è solo una voce e di voci anche incontrollate in una fase così confusa e magmatica ne girano tante. Di sicuro, il pacchetto di proposte dei centristi - loro dicono di poter arrivare a 100 parlamentari - contiene oltre al no al voto anticipato e il sì proporzionale anche la garanzia che possa esserci un governo fotocopia di quello draghiano, e basato naturalmente sull'Agenda Draghi, che porti il Paese fino alle elezioni del 2023. La road map, di cui il documento che circola tra i centristi è un tassello, prevede un percorso a tappe. Creare a partire dall'elezione per il Colle un vero Centro che potrebbe chiamarsi Nuova Italia o Italia Nuova o qualcosa di simile e che comunque avrà un nome nuovo per un soggetto nuovo. Che potrebbe includere svariati ex renziani rimasti nel Pd, sia quelli timorosi che il ritorno di D'Alema, Bersani, Speranza e compagni nel partito dem lo sposterà ancora più a sinistra, sia quelli che uniscono a questa paura quella ben più consistente di non venire ricandidati da Letta al prossimo giro dove oltretutto i seggi saranno di meno, il segretario un po' di collegi sicuri li dovrà concedere ai rientranti da Articolo 1 e in più ha il bisogno e il piacere di salvare alcuni della corrente ex renzista di Base Riformista (con cui ormai ha siglato abbondantemente la pace) ma molti altri li mollerà. Infatti si sono intensificati in questi giorni di vacanza i messaggini tra dem ancora molto affezionati a Matteo (tra questi non c'è affatto solo Marcucci) e il loro ex leader rimasto nel cuore di alcuni. Il Centro Renzi-Toti è dunque anche un'opa ostile sul Pd, oltre che sui berlusconiani. E uno dei big di Coraggio Italia, Osvaldo Napoli, osserva: «Renzi ormai ha rotto gli indugi. Si è staccato dalla sinistra. Chi può mai immaginarlo su un palco insieme a Letta e a Conte, ai quali si aggiungerà presto D'Alema magari col pugno chiuso?». Il progetto prevede la convergenza su Draghi per il Colle (senza escludere altre possibilità), poi una sorta di federazione centrista e, infine, alla vigilia del voto del 2023, la presentazione del soggetto elettorale. Intanto chi ha sentito Salvini nelle ultime ore assicura che l'operazione dei centristi su Draghi in qualche modo lo riguarda. Tutto sarebbe nato dal suo lungo colloquio con Renzi (di notte al Senato durante il voto di fiducia sul bilancio) quando i due Mattei sembravano convincersi a vicenda. L'opzione Draghi da Salvini non è stata mai scartata. E c'è chi giura che ne abbia parlato con Berlusconi come inevitabile piano B».

IL NUCLEARE DIVENTA “SCELTA VERDE” PER LA UE

Eccezione unica nella stampa italiana, Il Manifesto mette la lente di ingrandimento sulla scelta della commissione Ue di mettere l’energia nucleare tra le “scelte verdi”.  Giuliano Santoro per Il Manifesto.

«L'energia nucleare, che era stata accompagnata alla porta d'uscita dagli italiani coi referendum abrogativi del 1987 e del 2011, rientra nella politica italiana dalla finestra europea per via della scelta della Commissione Ue di inserire l'atomo di cosiddetta quarta generazione tra le «energie verdi» nella prospettiva della transizione ecologica. La questione aveva già fatto capolino dalle nostre parti. Era accaduto quando proprio il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani aveva annunciato di considerare credibile questa ipotesi. Cingolani aveva da subito raccolto il plauso della Lega e di Matteo Salvini, che ancora nelle scorse ore hanno lanciato la proposta di un referendum per riaprire alla produzione di energia nucleare in Italia. Su posizioni analoghe, al di fuori del recinto della maggioranza, c'è Fratelli d'Italia, che ha espresso sostegno alla Francia nella sua corsa al nucleare. A metà dello scorso mese, la sottosegretaria leghista alla transizione ecologica Vannia Gava ha partecipato al convegno organizzato dall'Associazione italiana nucleare aprendo all'ipotesi della riapertura delle centrali. Con lei c'erano, su posizioni analoghe, Carlo Calenda di Azione! e Erica Mazzetti di Forza Italia. Era intervenuto anche Antonio Misiani, responsabile economico del Partito democratico. «Discutere di questo tema non può essere un tabù» ha detto Misiani. Che poi però ha riportato la linea ufficiale del Nazareno: «Oggi il nucleare non è un'opzione». Qualche giorno dopo il segretario Enrico Letta, sollecitato da Repubblica, ha detto «Nell'immediato punterei sul rilancio della produzione nazionale di gas». Tutto chiaro, dunque? Non proprio. Perché per Letta «La soluzione è la delega di competenza alla Ue». Dunque, di fronte alla decisione della Commissione e alla spaccatura in Europa sulla tassonomia delle fonti energetiche, la collocazione e le scelte strategiche in materia del governo italiano, e della sua composita maggioranza, diventano dirimenti. Fino a ieri non risultavano nuove prese di posizione da parte del Pd, ma che la confusione dentro la maggioranza sia trasversale è dimostrato anche dal fatto che proprio la forza politica che ha espresso Cingolani, e che ha scelto di appoggiare Draghi in nome del neonato ministero della transizione ecologica, esprime le posizioni più nette contro l'energia nucleare e la nuova tassonomia Ue. «Nucleare e gas non possono essere considerate fonti green e quindi non possono essere incluse tra gli investimenti sostenibili - dicono i componenti della commissione politiche Ue del Senato Non è questo il futuro. I soldi pubblici vanno dati a tecnologie che rendano i cittadini europei più autonomi rispetto alle fonti importate dall'estero e seguendo una visione green». I loro colleghi della commissione industria sostengono che «soltanto in Italia si collega l'attuale emergenza dei rincari energetici alla questione del nucleare, fonte ormai obsoleta, dispendiosa, dai lunghi tempi di realizzazione e quindi inutile ai fini dell'attenuazione del costo delle bollette nell'immediato». A salvini, il cui atteggiamento sul tema definiscono «scriteriato», «e a tutti gli altri componenti della maggioranza che continuano a fare gli ultrà del nucleare chiediamo un approccio all'insegna del realismo», proseguono i senatori grillini. Anche se dalla sponda leghista ieri insinuavano maliziosamente che la diplomazia italiana guidata proprio dal 5 Stelle Luigi Di Maio sta gestendo la partita della tassonomia in sede europea».

USA, IL 6 GENNAIO NON È ANCORA FINITO

Biden e Trump tornano sul ring: c’è attesa per i due discorsi a un anno dall'assalto al Congresso. Il presidente dice: “Salviamo la democrazia”. L'ex insiste: “Hai imbrogliato sui voti”. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Da Washington, il presidente Biden e la vice Harris ricorderanno che la democrazia è un bene prezioso e va difesa ogni giorno, perché la sua sopravvivenza non è mai scontata. Da Mar-a-Lago, l'ex presidente Trump accuserà invece il suo successore di averla violata rubando le elezioni del 3 novembre 2020, e si scaglierà contro i repubblicani complici del furto, passato alla storia come la "big lie", la grande bugia. Questo è lo scenario che si prospetta per giovedì, anniversario dell'assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, quando la teppaglia aizzata dal capo della Casa Bianca attaccò il Parlamento americano per impedirgli di confermare la vittoria di Biden. Non si tratta solo di colore, però, e neppure semplicemente dell'inizio di una nuova sfida elettorale che avrà il primo atto nelle consultazioni midterm di novembre, e il secondo in quelle generali del 2024. Oltre a questo, in gioco c'è la sopravvivenza stessa della democrazia più antica del mondo moderno, perché i repubblicani si stanno preparando allo scontro approvando decine di leggi e nomine locali che hanno proprio lo scopo di riuscire in quanto era fallito nel 2020, ossia la repressione del voto e l'eventuale sovvertimento della sconfitta. Anche i democratici si preparano a contestare l'eventuale vittoria dei rivali, ma secondo un raggelante sondaggio condotto dal Survey Center on American Life il 56% dei sostenitori del Gop è favorevole «all'uso della forza come strumento per arrestare il declino dello stile vita americano ». E quando la maggioranza dei membri di un partito la pensa così, tutto può succedere. Giovedì Biden e Harris terranno due discorsi in un contesto istituzionale, difendendo la democrazia. I democratici hanno approvato alla Camera la legge per rafforzare il Voting Rights Act del 1965, ma i colleghi Manchin e Sinema l'hanno bloccata al Senato. Il capo della Casa Bianca il 6 gennaio intende concentrarsi sul valore della democrazia, perché ritiene che Trump abbia vinto nel 2016 grazie all'insoddisfazione della gente per le disuguaglianze e le mancate risposte del governo, che hanno alimentato populismi e sovranismo, e l'antidoto migliore è dare risposte a queste ansie. Non c'è riuscito appieno, perché la riforma sociale da 1,75 trilioni di dollari Build Back Better è stato deragliato finora proprio da Manchin, ma resta convinto che la soluzione sia questa. Trump invece ha anticipato così la conferenza stampa che terrà a Mar-a-Lago, proprio mentre al Congresso si pregherà per le vittime del 6 gennaio e la salute del Paese: «Perché la partigiana Commissione d'inchiesta non indaga sulla causa della protesta del 6 gennaio, che è stata la manipolazione delle presidenziali del 2020? Ricordate che l'insurrezione è avvenuta il 3 novembre. Il 6 gennaio c'è stata solo la protesta non armata per le elezioni truccate». Quindi si scaglierà contro i "rino", republican in name only , ossia i "traditori" del Gop che non stanno con lui. La strategia è chiara. Trump continua a non ammettere la sconfitta, perché sulla "big lie" basa la ricandidatura. Il 78% dei repubblicani lo crede, e quindi sembra destinato ad ottenere la nomination nel 2024. Intanto il Gop ha presentato o approvato leggi in 41 stati per sopprimere la partecipazione al voto e sovvertire l'eventuale sconfitta, e ha nominato funzionari locali disposti a fare quello che il segretario di Stato della Georgia Raffensperger aveva rifiutato nel 2020, ossia cambiare il risultato a favore di Donald. I democratici già si preparano a contestare queste frodi, e se ciò avverrà, tutto potrebbe accadere alla democrazia Usa».

SUDAN NEL CAOS, IL PREMIER SI DIMETTE

Il Sudan è nella tempesta: si dimette il premier che era stato richiamato dai golpisti. La folla sfida i militari: tornate nelle caserme. La cronaca di Michele Farina per il Corriere.

«Sudan senza pace e senza rassegnazione: dopo giorni di proteste (con almeno tre vittime) si è dimesso Abdalla Hamdok, il primo ministro arrestato nel golpe del 25 ottobre scorso e richiamato a novembre dagli stessi golpisti per trovare una qualche soluzione alla crisi del gigante africano, un compromesso che facesse riguadagnare credibilità ai militari e scongelare gli aiuti internazionali. «Il Paese rischia di scivolare verso il disastro», ha detto Hamdok in tv. E non solo per la disoccupazione e l'inflazione al 388%. L'economista ed ex funzionario dell'Onu ha gettato la spugna preso tra due fuochi. I gruppi democratici di opposizione, riuniti sotto il caotico ombrello delle Forze per la Libertà e il Cambiamento, non hanno accettato la foglia di fico offerta dai generali autori del colpo di Stato, gli stessi che dopo la cacciata del presidente Omar al -Bashir nell'aprile 2019 in seguito alle proteste di piazza avevano continuato di fatto a mantenere le redini del potere e degli affari. L'accordo costituzionale per un governo di transizione «società civile-militari», con l'obiettivo di elezioni nel luglio 2023, si è arenato ad ottobre, quando Abdel Fattah al-Burhan, la faccia meno impresentabile della casta in divisa, ha fatto arrestare Hamdok e diversi membri del governo. A novembre le proteste popolari e le reazioni internazionali (gli Usa, principali sostenitori del nuovo corso, dopo il golpe hanno congelato aiuti per 700 milioni di dollari) avevano indotto i generali a richiamare Hamdok per metterlo alla testa di «un governo di tecnici» che non ha mai visto la luce. Il vero regista, l'uomo più potente del Sudan, rimane nell'ombra: è l'ex protettore di Bashir e si chiama Mohamed Dagalo detto Hemeti, ex commerciante di cammelli, capo dei sanguinari janjaweed durante il genocidio in Darfur e ora «padrone» delle Forze di Intervento Rapido, le milizie più temute dai manifestanti che domenica sono tornati nelle strade di Khartoum e della città gemella Omdurman a migliaia, sfidando la repressione. Accusano Hamdok di essere un burattino dei generali. I ponti bloccati sul Nilo, la sospensione di Internet e i blindati a ogni angolo non hanno impedito alla gente di ritrovarsi al grido di: «Militari in caserma, governo al popolo». I militari ripetono stancamente che le proteste sono solo una perdita di tempo. E intanto danno ordine di sparare. Sbadigli e pallottole. Gli oppositori replicano annunciando che il 2022 sarà «l'anno della rivolta continua». Nel corso del tempo i generali hanno costruito imperi economici che non vogliono perdere. Le milizie di Hemeti, secondo un rapporto di Global Witness citato dall'Ispi, sono «un complesso «paramilitar-industriale» capace di prestare un miliardo di dollari alla Banca Nazionale sudanese: spazia dalle miniere d'oro alle forniture di mercenari (pagati dagli Emirati Arabi) per la guerra saudita nello Yemen. Il Sudan è senza pace, con almeno 57 civili uccisi dal golpe di ottobre a oggi. Ma anche senza rassegnazione: donne in prima fila (13 violentate dai miliziani secondo un rapporto Onu), studenti coraggiosi, e poi medici, piloti, insegnanti, panettieri. Un popolo di 45 milioni di abitanti che in grande maggioranza, magari confusamente, esige un presente migliore. E nessuno sa quando sarà».

ELON MUSK, AUTO ELETTRICHE E MISSIONI NELLO SPAZIO

Ritratto dell’imprenditore più amato e odiato d’America. Dalla Cina a Hollywood ecco il «techno-re» Elon Musk. Con Tesla e Space X sa irritare ma insieme affascinare i giovani. Federico Rampini per il Corriere.

«Hollywood lo mette in scena nel ruolo del malvagio, il miliardario che salva se stesso e pochi intimi dall'Apocalisse planetaria fuggendo nello spazio. La Cina lo tratta come una superpotenza a sé stante, protesta presso le Nazioni Unite per le sue presunte prevaricazioni spaziali. Elon Musk ha chiuso il 2021 come l'uomo più ricco del mondo (273 miliardi di dollari) ma non solo. È l'unico magnate-guru che riesce ad affascinare e irritare al tempo stesso i giovani. È all'avanguardia nelle nuove tecnologie, incluse le criptovalute, ma sfacciatamente ostile al politically correct; esibisce un'ideologia libertaria di destra. Il cinema non poteva ignorarlo. Nel film di fanta-satira Don't Look Up di Adam McKay il miliardario tech Peter Isherwell (Mark Rylance) è un'evidente parodia di Musk. Malevola: fallisce nel suo progetto di smembrare un meteorite per ricavarne minerali rari, poi abbandona la Terra al suo triste destino. Il vero Musk in effetti ha detto: «Voglio morire su Marte, ma non schiantandomi all'impatto». Sembra capace di trasformare lo spazio in un business credibile, non solo un gioco per miliardari egomaniaci. La Nasa ha una tale fiducia in lui che usa la sua società SpaceX per trasportare astronauti e apparecchiature sulla stazione spaziale internazionale. Con 27 lanci in 12 mesi, SpaceX ha superato tutti i concorrenti americani. Sempre la Nasa lo ha scelto per costruire il prossimo Moon Lander, modulo lunare per lo sbarco. Le sfide si moltiplicano. Musk ha sperimentato il primo missile completamente riutilizzabile per lanci molteplici, disegnato per la missione su Marte. «Segnerà - dice lui - la differenza tra l'umanità come una specie con un solo cammino, e l'umanità come una specie dai percorsi multipli». I costi esorbitanti della spedizione su Marte? Lui li vuole finanziare con la sua più grossa impresa commerciale nello spazio: fino a 30.000 satelliti Starlink per telecomunicazioni a banda larga, l'Internet alla portata di tutti coloro che ancora non hanno collegamenti adeguati (Paesi poveri, regioni isolate, navi e aerei, ma anche per le transazioni ad altissima frequenza tra Borse). Ne ha già messi in orbita 1.800 ed è qui che nasce il casus belli con Xi Jinping. Pechino sostiene che i suoi astronauti hanno dovuto fare «operazioni d'emergenza» con la stazione spaziale made in China per evitare collisioni con i satelliti di Musk. L'aspetto interessante è che il governo comunista non ha protestato presso la Casa Bianca, ma si è appellato all'Onu: riconoscendo implicitamente che Musk va trattato come uno Stato sovrano. Chi continua a sospettare che sia un geniale ipnotizzatore delle folle, deve fare i conti con i solidi risultati della sua Tesla. Il 2021 è stato il primo anno pieno all'insegna dei profitti, e la marca di auto elettrica ormai è nel club delle società «trilionarie» (oltre mille miliardi di dollari di valore in Borsa). Contro chi la considera una bolla speculativa, ci sono dati commerciali e industriali consistenti. Le vendite Tesla sono aumentate dell'80% nel 2021, mentre i volumi globali di auto vendute scendevano dell'1%. Le altre case automobilistiche hanno sofferto tagli di produzione per la penuria di semiconduttori. Tesla no: ha aggirato la scarsità perché è quasi unica al mondo la sua autonomia nell'ingegneria elettronica, sicché ha «riscritto» il software delle vetture per integrare microchip alternativi. «Hanno il marchio Tesla i due terzi delle auto elettriche vendute negli Stati Uniti», proclama il chief executive, che ora vuol cambiarsi qualifica. Ennesima provocazione: ha inoltrato una formale pratica presso l'authority di Borsa per ribattezzarsi «techno-Re» della Tesla. I problemi non mancano. Tra i più seri: gli incidenti gravi in cui sono incappate alcune Tesla in modalità di auto-pilotaggio; e le accuse della Cina (ancora) contro presunte attività di spionaggio di queste auto sul suo territorio. Ma gli investitori sono convinti che Musk supererà ogni ostacolo, e negli ultimi giorni dell'anno scorso un balzo delle quotazioni ha aggiunto alla Tesla 200 miliardi, cioè più di quanto valgono Ford e General Motors insieme. «Forse - ha chiosato il Wall Street Journal --Tesla sta facendo in un anno quel che Amazon ha fatto in vent' anni, cioè dimostrare di essere una tale fuoriclasse che la sua bolla è giustificata». Il personaggio Musk, essendo all'avanguardia nella tecnologia della sostenibilità, affascina i giovani, dai Millennial fino alle generazioni X e Z. Nel 2021 più della copertina di Time a lui dedicata è stato emblematico il suo show personale nel programma di satira Saturday Night Live. La sua adesione alle criptovalute coincide con il boom di queste monete alternative, o lo alimenta: 3.000 miliardi di dollari di valore, il 16% degli americani le possiedono o ne hanno avute (contro l'1% sei anni fa). Musk il politico prende molti giovani in contropelo. Ha duellato via Twitter con due esponenti della sinistra radicale, i senatori Elizabeth Warren e Bernie Sanders, che hanno la loro base tra i Millennial. Dopo che i due hanno proposto nuove tasse sui miliardari accusandoli di elusione, Musk ha reagito. «Sarò l'americano che ha pagato più tasse nella storia». 11 miliardi nel 2021, per la precisione. Rivolto alla Warren: «Non li spendere tutti in una volta». All'ottantenne Sanders: «Continuo a dimenticare che sei ancora vivo». A differenza di Donald Trump che è stato cancellato dai social media più diffusi, Musk ha 66 milioni di follower su Twitter. Ha inaugurato una sorta di populismo finanziario proprio sulla questione fiscale. Citando le polemiche contro i miliardari che eludono le imposte perché evitano di incassare plusvalenze di Borsa, ha chiesto ai suoi seguaci se doveva convertire stock option e vendere azioni per pagare le tasse. La consultazione su Twitter (con 3,5 milioni di votanti) ha dato il 58% di sì, e lui ha venduto. Il gesto più provocatorio lo ha fatto «votando con i piedi». È la scelta di trasferirsi - personalmente e come sede centrale della Tesla - dalla California al Texas. Ha adottato lo Stato vetrina dei repubblicani, voltando le spalle al bastione della sinistra. Il Texas non ha addizionale Irpef sui redditi, è per molti aspetti un paradiso fiscale, ha meno regole e burocrazia. La California ha una delle pressioni fiscali più alte degli Stati Uniti. Musk considera il modello californiano come un concentrato dei «fallimenti del socialismo»: record di senzatetto, costo della vita alle stelle, carenza di abitazioni popolari, esodo di residenti. Alle ultime elezioni finanziò equamente democratici e repubblicani, diede il suo endorsement a un candidato democratico alla nomination (l'imprenditore tecnologico Andrew Yang). Eppure Musk è una spina nel fianco dei democratici, il contraltare dei vari Bill Gates e Mark Zuckerberg: è l'unica celebrità di Big Tech il cui cuore batte a destra. Quando denuncia la vecchia sinistra statalista «tassa-e-spendi», c'è un'America giovane che lo ascolta, magari digrignando i denti.».

MIGRANTI 1. MAMMA AFGHANA MUORE DI FREDDO

Tragedia al confine con l'Iran. In fuga con i figli nella neve, una mamma afghana è morta di freddo. Ai piedi indossava due buste di plastica, aveva dato le calze ai bambini. La cronaca di Avvenire.

«Una donna afghana, in fuga dal Paese, è morta congelata vicino al confine turco, nel villaggio iraniano di Belasur. La donna era in viaggio con i due figli e cercava di entrare in Turchia: è morta assiderata, con i piedi avvolti in sacchetti di plastica; mentre le mani dei bambini sopravvissuti erano protetti dai calzini della madre. A raccontare la tragica storia della donna, documentata in un video choc, è stata la stampa turca. L'emergenza in Afghanistan, dove milioni di persone devono affrontare la fame visto che la situazione economica è peggiorata con l'arrivo dell'inverno, causa un allarme crescente; ma la comunità internazionale, che non vuole impegnarsi in alcun modo con i taleban, fatica a trovare una risposta. Anche la Turchia ha chiesto aiuto a più riprese, in particolare all'Europa e ai Paesi della regione, per far fronte alle nuove ondate migratorie dall'Afghanistan. I taleban, continuano invece, la loro opera di "normalizzazione": alcuni agenti dell'intelligence taleban hanno rovesciato in un canale di Kabul circa 3mila litri di liquore sequestrati in un blitz condotto «nel quadro del contrasto al consumo di alcolici». La Direzione generale dell'intelligence ha diffuso un video che mostra i suoi uomini versare nel canale l'alcol stipato in barili. «I musulmani devono astenersi seriamente dal produrre alcolici», ha dichiarato un religioso nel video pubblicato su Twitter. La vendita e il consumo di alcolici erano vietati comunque in Afghanistan anche sotto il precedente governo appoggiato dall'Occidente. Ma non basta. I taleban hanno vietato anche l'uso dei bagni pubblici alle donne. Lo hanno deciso le autorità della provincia settentrionale di Baji, privando le donne della possibilità di lavarsi in un paese dove pochi possono permettersi stanze da bagno in casa. La decisione è stata adottata all'unanimità dalle autorità religiose e i funzionari del ministero per la Promozione della virtù».

MIGRANTI 2. LA ROTTA IBERICA

Migranti sulla rotta iberica: oltre 4mila di loro hanno perso la vita nel 2021 nella sola tratta atlantica verso le Canarie. Tanti i "desaparecidos". Paola del Vecchio da Madrid per Avvenire.

«Tre migranti morti nel naufragio di due barconi a 15 miglia a sudest del Cabo de Gata, in Almeria. In 16 sono stati tratti in salvo, mentre altre dieci persone sono disperse, ingoiate dalle onde. Un inizio 2022 tragico sulle rotte migratorie dall'Algeria e dall'Africa verso le coste spagnole, iniziato com' era terminato l'anno appena concluso di morte e di dolore. A lanciare l'Sos, poco dopo l'una della notte fra domenica e lunedì è stato il mercantile 'Spica', dopo aver avvistato un gruppo di persone in acqua in alto mare. Una motovedetta del Salvamento Marítimo assieme a un elicottero sono subito accorsi nella zona. I migranti di origini algerine viaggiavano su due barcacce, una semi affondata e l'altra ribaltata. I mezzi di soccorso sono riusciti a recuperare 16 persone ancora vive e tre cadaveri. Secondo le testimonianze dei superstiti raccolte dalla Croce Rossa, sulle due imbarcazioni erano salpati 29 algerini, dei quali almeno dieci ' desaparecidos' in mare, inclusa una ragazza di 17 anni. Almeno 134 persone su 14 imbarcazioni sono giunte in Almeria il 1º gennaio, che si sono aggiunte ad altre 178 arrivate fra il 30 e il 31 dicembre, lungo la rotta più battuta dall'Algeria. I flussi ininterrotti anche in direzione delle isole Canarie, dove nei primi tre giorni dell'anno - secondo i dati del ministero degli interni citati da El Pais - sono sbarcati 379 migranti. «Le politiche di dissuasione e contenimento lungo le rotte del Mediterraneo occidentale verso l'Europa hanno dirottato definitivamente i flussi migratori verso l'Atlantico, con l'arcipelago delle Canarie come principale destinazione delle persone in movimento», assicura Helena Maleno, coordinatrice della Ong Caminando Fronteras. «È una delle vie più pericolose non solo per le grandi distanze e i rischi delle traversate nell'oceano, ma anche per gli interessi geostrategici e le dispute territoriali marittime e geografiche nella zona compresa fra Laauyne e la frontiera di Mauritania», aggiunge. Nel dossier presentato ieri, la Ong ha contato 4.404 vittime sulla frontiera occidentale euro-africana nel 2021, fra le quali 628 donne e 205 minori. Sono il doppio che nel 2020, quando furono 2.170, nonostante gli sbarchi irregolari si mantengano sostanzialmente invariati, con 22.200 persone su 540 imbarcazioni giunte alle Canarie al 28 dicembre scorso, rispetto alle 22.680 del 2020, secondo i dati del ministero degli Interni. Caminando Fronterasbasa il pesantissimo bilancio sulle richieste di soccorso lanciata dai migranti in mare o sulle segnalazioni dei familiari che reclamano i dispersi, attraverso due telefoni di allerta attivi dal 2007. «Queste persone sono morte o scomparse», assicura la Maleno, nel confermare che la rotta verso le Canarie «è la più letale» con 4.016 vittime nel 2021. Cui si aggiungono i 191 migranti dispersi nel tragitto dall'Algeria alla penisola iberica, i 95 ' desaparecidos' nel mare di Alborán e i 102 nello Stretto di Gibilterra. «Le ' pateras' salpano dalla Mauritania, dal Senegal, perfino da Gambia. In maggioranza sono gommoni che si lanciano dalle coste situate fra Capo Boiador e Guelmin. Sono fragili e inadatti alle dure condizioni dell'Atlantico». Le vittime provenivano da almeno 21 paesi, in maggioranza africani, ma anche da Irak, Pakistan, Yemen e Sri Lanka. E solo il 5,2% dei corpi è stato recuperato, mentre il restante 94,8% resta sepolto nell'oceano. «Come democrazia abbiamo fallito nella difesa della vita», è la constatazione di Caminando Fronteras. «Abbiamo contattato i numeri del salvataggio marittimo e ci hanno passato quello di assistenza al cliente della Croce Rossa», denuncia la Maleno. Assieme alla «passività degli Stati e degli organismi internazionali rispetto alla cruda realtà dei muri e delle necropolitiche migratorie della fortezza Europa».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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Alla Borsa piace il 2022

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