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Alleati del Sultano

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Alleati del Sultano

Vertice di Ankara fra Draghi ed Erdogan: firmati 9 accordi. Si spera in un patto sul grano che porti alla pace. Oggi il confronto del premier con Conte. Prevale il pessimismo. Ghiacciaio: 5 dispersi

Alessandro Banfi
Jul 6, 2022
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Alleati del Sultano

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Dunque siamo “partner, amici e alleati”. La visita di Mario Draghi e di mezzo governo ad Ankara ha stretto ottime relazioni fra l’Italia e la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan. Sono stati firmati ben nove accordi commerciali, di cui nei prossimi giorni capiremo meglio i contorni. Si è parlato della guerra in Ucraina, dei migranti, della Libia e degli sforzi turchi per trovare un primo accordo sul grano. Il disegno di Erdogan è molto ambizioso, come spiega bene Alberto Negri sul Manifesto: è una forma di neo imperialismo ottomano, chiamato Patria Blu, “un concetto strategico che dal Mare Egeo, dove i turchi si scontrano con la Grecia, vogliono ampliare al Nordafrica e ancora più in là, al Golfo, dove hanno i loro militari di stanza in Qatar”. Fa impressione che proprio con Erdogan, qualificato come “dittatore” in una conferenza stampa di neanche un anno fa, Draghi avesse avuto attriti diplomatici notevoli. Bene che l’Italia sappia con realismo perseguire oggi una sua “Realpolitik” con un interlocutore chiave. La Turchia oggi è contemporaneamente nella Nato ma non partecipa alle sanzioni contro Mosca. Blocca il cargo russo carico di grano e invita gli ucraini a sedersi ad un tavolo con Mosca. È indubitabile che le speranze di un negoziato passino in qualche modo da Ankara. Detto questo, sarebbe opportuno che l’Europa (e in essa l’Italia) uscisse dalla logica folle del movimento neoconservatore americano, che sta definendo, come l’economista Jeffrey Sachs ha spiegato bene sulla stampa americana, la linea dell’amministrazione Biden. Il mondo non può essere diviso da una nuova cortina di ferro fra Ovest ed Est, dove in Occidente c’è la democrazia, mentre ad  Oriente prevale l’autocrazia, come vorrebbe la teoria dei neo con e come ha sanzionato l’ultimo G7. L’autocrate Erdogan, cui vendiamo probabilmente armi, perseguita gli oppositori interni e i curdi. Inutile far finta di niente e rimanere nell’ipocrisia. Che l’Europa assuma un’iniziativa politica, realistica, torni a lavorare per la democrazia e per la pace. Accetti il dialogo e anche la collaborazione col “dittatore” turco (ricordandosi che è tale) ma cerchi allo stesso tempo il negoziato con Mosca.

Interessante da questo punto di vista, il lungo articolo di Federico Fubini oggi sul Corriere della Sera, che analizza quella che potremmo chiamare la dottrina Kissinger. Secondo Henry Kissinger, grande vecchio della diplomazia americana, è un errore lasciare che sia Kiev a stabilire i tempi di un eventuale negoziato. Scrive Fubini, a suo sostegno: “È in queste condizioni che i governi europei devono rispondere alla domanda più scomoda: davvero pensano che solo Volodymyr Zelensky abbia diritto di affrontare la questione del quando e come perseguire un cessate il fuoco?”. Fra l’altro il quadro internazionale si intreccia con una serie di crisi all’interno dei diversi Paesi. Il più grande sostenitore della guerra ad oltranza, il premier inglese Boris Johnson sembra arrivato al capolinea della sua esperienza di governo: si sono dimessi infatti i ministri delle Finanze e della Salute.

Anche il governo italiano guidato da Mario Draghi non sembra navigare in buone acque. C’è grande pessimismo fra gli addetti ai lavori. Oggi pomeriggio alle 16.30 ci dovrebbe esserci il faccia a faccia fra il premier e il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte. La spinta del Movimento è per una rottura. E anche fra i leghisti di Matteo Salvini, si medita su una possibile uscita dalla maggioranza.  

La strage del ghiacciaio. Sono sette i morti e cinque i dispersi nella tragedia della Marmolada. Il sindaco di Canazei ha chiuso ora ogni accesso alla montagna, anche per favorire le ricerche dei soccorritori ed evitare i curiosi. Da leggere Franco Prodi sul Foglio: non è detto che il cambiamento climatico sia dovuto all’inquinamento.

Ieri e oggi i tassisti italiani sono scesi in sciopero, creando disagi nei centri cittadini. La protesta è contro la liberalizzazione del settore ed a favore del monopolio. Bell’articolo di Selvaggia Lucarelli per il Domani sul tema. Nuovo boom di contagi. In Italia ieri si sono registrati 132 mila nuovi casi di Covid, mai così tanti da inizio febbraio, con un tasso di positività sopra il 28%. La variante sarebbe l’Omicron 5, più leggera e veloce ma anche meno rilevabile dai tamponi. La procura di Rimini ha chiesto l’archiviazione dell’unica denuncia presentata da una donna molestata all’adunata degli Alpini di maggio. Le denunce alle associazioni femministe erano state seicento.

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LA FOTO DEL GIORNO

La foto del giorno di oggi racconta una storia a lieto fine. L’immagine ritrae infatti un matrimonio celebrato nella terapia intensiva della cardiochirurgia dell'ospedale Molinette di Torino, ultimo desiderio per un uomo di 47 anni in fin di vita dopo un infarto. Ma proprio durante la cerimonia, però è arrivata la disponibilità di un cuore per il trapianto, eseguito la notte stessa. L'uomo era stato ricoverato a giugno in un ospedale della provincia di Cuneo per un infarto massivo del ventricolo sinistro.

Foto Ansa.

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera ridimensiona l’allarme dei 13 sotto il ghiaccio lanciato ieri e sempre sulla Marmolada titola oggi: Rintracciati 5 dispersi, salvi. Quotidiano Nazionale se la prende col mancato preavviso: L’accusa: il ghiacciaio andava chiuso. Libero vede avvoltoi politici sulla Marmolada: Per il Pd la strage è colpa di Lega e Fdi. La Repubblica va invece sulla crisi politica che sembra incombente: La battaglia dei veti. La Stampa è pessimista: Decreto aiuti, maggioranza allo sbando. Diversi giornali si concentrano sul vertice di Ankara. Il Domani: Il piano di Erdogan per diventare l’alternativa energetica a Putin. Il Fatto è iper critico: È un bel dittatore (e tanti saluti ai curdi). Il Mattino sottolinea l’accordo sui cereali: Grano, patto Draghi-Erdogan. «Sui migranti Italia al limite». Così come Il Messaggero: Grano, il piano Italia-Turchia. Il Manifesto è ancora sul conflitto: I giorni dell’assedio. Mentre La Verità nota: L’Occidente si spartisce l’Ucraina. Italia beffata: la sua zona è russa. Avvenire dà spazio al consiglio permanente dei Vescovi: Chiesa accogliente. Il Giornale festeggia l’archiviazione sul raduno di Rimini: Gli unici molestati sono stati gli Alpini. Il Sole 24 Ore annuncia nuove misure dell’Agenzia delle entrate: Fisco, premio taglia liti in arrivo.

DRAGHI IN VISITA DA ERDOGAN

Il vertice di Ankara: Mario Draghi in vista da Recep Tayyip Erdogan. Dall'intelligence per la Difesa alle patenti di guida, Italia e Turchia firmano 9 accordi in diversi settori. «Lavoreremo a stretto contatto sulla Libia». Marco Galluzzo per il Corriere.

«Siamo partner, amici, alleati». Le prime parole di Mario Draghi, con a fianco Recep Tayyip Erdogan, non lasciano spazio a zone d'ombra. Si celebra il terzo vertice intergovernativo fra i due Stati, i ministri dei due governi non si riunivano insieme da dieci anni. «Abbiamo sfide comuni - prosegue Draghi -, siamo uniti nella condanna dell'aggressione di Mosca, lavoreremo sempre più a stretto contatto sulla Libia, abbiamo un interscambio commerciale che cresce sempre di più». Mario Draghi atterra a metà pomeriggio nella capitale turca, visita l'imponente mausoleo dedicato a Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, depone una corona di fiori, quindi si muove insieme ai cinque ministri verso il palazzo presidenziale. L'accoglienza che gli dedica Erdogan è quella riservata a un capo di Stato, il presidente del Consiglio viene scortato dai cavalli della Guardia presidenziale turca, risponde con entusiasmo al protocollo degli ospiti gridando «Merhaba asker», che nel gergo militare locale equivale ad un «saluti soldato». Quindi iniziano i colloqui fra le due delegazioni, gli enormi portoni del palazzo presidenziale si chiudono alle spalle dei due leader, vengono firmati nove accordi in diversi settori, da quello dello scambio di informazioni sensibili a livello militare al riconoscimento reciproco delle patenti: ogni ministro ha un bilaterale con il suo omologo, Draghi ed Erdogan si confrontano, in parte da soli, in parte con i rispettivi ministri degli Esteri, per quasi un'ora. Quando riemergono di fronte alle telecamere un applauso scandisce la firma di ogni singolo accordo. Erdogan ringrazia il nostro Paese per la relazione con Bruxelles, «per noi il supporto italiano è sempre stato importante», enfatizza il suo ruolo di mediatore nella crisi ucraina promettendo che «entro sette o dieci giorni possiamo arrivare ad un accordo sul grano bloccato nel mar Nero». Un altro capitolo riguarda la questione migratoria. Viene rafforzata la cooperazione fra i due Stati, con uno scambio ai livelli più alti di personale di polizia. Erdogan riconosce che l'Italia fronteggia da sempre «il pericolo degli immigrati», dà la colpa ad Atene di una crescita dei flussi, e Draghi per la prima volta mette un limite alle capacità italiane di accogliere: «Non possiamo più avere un atteggiamento di apertura senza limiti, ad un certo punto un Paese non ce la fa più, anche noi abbiamo toccato il limite». Sorride Erdogan, e forse anche, in Italia, Salvini».

Lucida analisi di Aberto Negri sul Manifesto, che critica l’ “inchino al Sultano”.

«Tutto si risolve con un inchino al Sultano. «Con i dittatori bisogna essere franchi ma cooperare», disse l'anno scorso Draghi riferendosi a Erdogan e aprendo un caso diplomatico. Dal 2021, con in mezzo la guerra in Ucraina, il caos libico e le tensioni nel Mediterraneo orientale, il presidente del consiglio italiano ha fatto un passo avanti: adesso con il dittatore non solo cooperiamo, ne siamo diventati amici come ha detto Draghi ieri a Ankara. Quindi anche complici. L'Italia e la Nato, pur di fare entrare Svezia e Finlandia nell'Alleanza, hanno svenduto il destino dei curdi a Erdogan, e ieri Draghi è andato ad Ankara, in compagnia di cinque ministri, con il cappello in mano per chiedere appoggio sul gas (Tap e Tanap), sulle concessioni offshore a Cipro (ostacolate dalla Turchia) e sulla Libia, dove in Tripolitania Erdogan conduce le danze tra le fazioni e l'Italia con l'Eni non estrae il petrolio e il gas di cui avrebbe bisogno. In cambio alla Turchia offriamo armamenti - questo significava la presenza ad Ankara del ministro della difesa Guerini - un aumento dell'interscambio (attualmente a 20 miliardi euro) e ci prepariamo quindi a chiudere gli occhi sulle malefatte di Erdogan contro i curdi e gli oppositori interni. Sarebbe quindi ora di smettere di vaneggiare sui valori occidentali, visto che forniamo a Erdogan gli elicotteri Agusta per colpire i curdi sia in Siria che in Iraq. Draghi in Turchia ha dimostrato l'ipocrisia occidentale sulla democrazia e i diritti umani e la sua visita, preceduta dall'accordo di Madrid, rafforza il regime nella sua guerra contro i curdi: un drone turco qualche giorno fa ha ammazzato a Raqqa la comandante delle Forze democratiche siriane anti-Isis Mizgin Kobane. Tutto questo nel silenzio di quell'Occidente che appena qualche anno fa acclamava i curdi come i nostri eroi contro il Califfato e postava sui social le foto delle combattenti curde. È sullo sfondo di questi eventi e della guerra in Ucraina che Draghi è stato accolto al palazzo presidenziale di Ankara in pompa magna per l'incontro con il presidente turco Erdogan. Il premier italiano è stato preceduto da un corteo a cavallo mentre suonavano gli inni nazionali. Insieme al presidente turco Draghi ha sfilato su un tappeto azzurro scortato dalla guardia presidenziale in alta uniforme fino all'ingresso del palazzo. Ad attendere lui ed Erdogan una delegazione nei costumi degli eserciti dei 16 stati turchi fondati prima della repubblica: una grande occasione per uno show improntato alle ambizioni neo-ottomane del leader turco. Questo apparato scenografico, definito da Draghi in conferenza stampa, un'«accoglienza calorosa e splendida», non è stato certo casuale. Serviva a Erdogan per ribadire il suo ruolo di Sultano della Nato davanti a un interlocutore con cui aveva avuto un'acuta frizione diplomatica che nel corso dell'ultimo anno ha avuto modo di appianare grazie agli interessi comuni dei due Paesi e soprattutto alla remissività dell'Italia. Ecco un esempio di come abbiamo già ceduto alle richieste turche: recentemente abbiamo chiesto il permesso ad Ankara per esercitare con le navi dell'Eni il diritto acquisito di trivellare nella zona greca di Cipro, cosa che naturalmente ha fatto infuriare gli ellenici. E ieri Erdogan non ha perso l'occasione per bollare «la Grecia come una minaccia anche per l'Italia», riferendosi tra l'altro anche al contenzioso sui migranti. Affermazione rimasta senza replica da parte italiana. Figuriamoci quando ci toccherà discutere sulla zona economica esclusiva tracciata tra Turchia e Libia da Erdogan nel 2019, che allora salvò il governo di Tripoli dalle truppe del generale Khalifa Haftar alle porte della capitale. Quella Libia dove le proteste esplose lo scorso «venerdì di rabbia» hanno messo drammaticamente sullo scacchiere internazionale il rischio che il Paese sprofondi nel caos e nell'anarchia mentre riemergono i gheddafiani. E non è certo un caso che la Turchia sia sempre in mezzo a mediare tra le fazioni di Tripoli, Misurata, Bengasi e Tobruk, dove ormai l'Italia da tempo non tocca palla. Come siamo in balìa dei turchi in questa parte del Mediterraneo che loro considerano la Patria Blu, un concetto strategico che dal Mare Egeo, dove i turchi si scontrano con la Grecia, vogliono ampliare al Nordafrica e ancora più in là, al Golfo, dove hanno i loro militari di stanza in Qatar. Troppe ambizioni? Sì, forse, per un Paese che vive anche una forte crisi economica, ma Erdogan sta giocando una duplice partita anche nella guerra in Ucraina, come mediatore con Putin e sostenitore del governo di Zelenski. L’Italia al confronto appare assai evanescente anche se andiamo a vedere in concreto cosa è stato firmato ad Ankara: accordi sulle piccole e medie imprese e la protezione reciproca dei dati industriali. E se c'è qualche cosa di strategico armi, gas e confini marittimi - è stato lasciato nelle pieghe dei protocolli d'intesa. Probabilmente avremo maggiori informazioni nei prossimi giorni ma una cosa è certa: di rimproveri al Sultano della Nato l'Italia di Draghi non ne fa e quell'appellativo di «dittatore» che gli riservò l'anno scorso resterà come una nota ininfluente a piè di pagina».

L’ACCORDO SUL GRANO FAVORISCE LA PACE?

Il patto sul grano con l'approvazione degli Stati Uniti potrebbe essere il primo passo per fermare le armi in Ucraina. Dalla Casa Bianca l'indicazione al premier italiano per rilanciare i rapporti. Il presidente turco annuncia che entro il fine settimana sentirà Putin e Zelensky per sbloccare la partita sui cereali. I ministri della Difesa firmano un protocollo sul segreto relativo all'industria militare che dovrebbe facilitare gli acquisti di armi. Il retroscena è di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«La mano sul cuore di Erdogan, i sorrisi, i colpi a salve dei cannoni, il saluto militare che Mario Draghi riserva in turco al picchetto d'onore: «Ciao, soldati!». «Grazie!», all'unisono. Palazzo presidenziale di Ankara: altro che disgelo, sembra davvero un nuovo inizio. Il "dittatore" necessario Recep Tayyip Erdogan si trasforma in alleato obbligato. La guerra in Ucraina ha stravolto ogni equilibrio. Washington ha benedetto il patto. E a sera, nel Palazzo Presidenziale eretto in lode del potere ventennale del Sultano, i ministri in trasferta si godono l'orchestrina sinfonica che celebra la nuova partnership. Il primo test sarà l'intesa sul grano. Dovesse funzionare, si allargherà a migranti, armi, Libia. La genesi della svolta è il viaggio di Draghi alla Casa Bianca, nel maggio scorso. Nello Studio Ovale il premier italiano riceve un'indicazione geopolitica chiara da Joe Biden: riannodare con Erdogan, stringere un patto mediterraneo con il principale partner Nato dell'estremo fronte Est dell'Alleanza. Tutti i dossier più caldi passano da Ankara, dunque: collaborare e competere, possibilmente in quest' ordine. E' il progetto che l'ex banchiere declina a sera, assicurando che l'Italia è il principale partner della Turchia nel Nord Africa e in Medio Oriente. Riconosce il ruolo a cui Erdogan lavora da due decenni. L'interlocutore a cui ricordare, come fa, il necessario rispetto dei diritti umani e delle donne. Ma con cui elaborare strategie comuni. Faccia a faccia, i due leader ragionano innanzitutto di come sbloccare la partita del grano. Il premier italiano - assieme al ministro degli Esteri Luigi Di Maio - ne ha fatto una battaglia di interesse globale. Nelle ultime ore si è mosso con Zelensky. E ha portato al Sultano il messaggio di Kiev: servono garanzie chiare, ma noi ci siamo. Serve l'ultimo miglio. Erdogan annuncia che entro il fine settimana sentirà Putin e il presidente ucraino. Sarebbe una svolta. Libererebbe i silos, permetterebbe al raccolto di settembre di essere conservato senza marcire. Garantirebbe anche le esportazioni di olio di semi.
Un primo passo per avvicinare una tregua nel conflitto. E per consolidare il rapporto bilaterale tra Italia e Turchia. A partire dal caos libico. Draghi ed Erdogan concordano sulla premessa: ci siamo combattuti per il controllo di questo teatro, ora abbiamo obiettivi comuni
. I gruppi paramilitari russi della compagnia Wagner sono percepiti sempre di più come i nuovi avversari. Una prima, timida collaborazione italo-turca si è consumata a Misurata, sul terreno. Adesso si punta a stabilizzare un quadro fragilissimo. L'idea di cui si ragiona dietro le quinte è una possibile collaborazione nella formazione delle forze armate libiche. Buttarsi il passato alle spalle, ecco l'imperativo della missione. Dimenticare anche la reazione di Erdogan, che al G20 di ottobre 2021 donò al presidente del Consiglio un'autobiografia autorizzata. Come a dire: studia, ecco chi sono. Il dialogo ora si misura su un terreno concreto. Quello delle armi, ad esempio. Ad Ankara c'è Lorenzo Guerini. La Turchia punta a ottenere i Samp/T, il sistema di difesa missilistica prodotto da un consorzio italo- francese. Ankara, finora, si è dovuta accontentare di batterie prodotte da Mosca. Anche in questo caso, la guerra ha stravolto lo scenario. La mediazione americana ha fatto il resto. Il ministro della Difesa sigla con il suo omologo un protocollo che vincola i due Paesi alla segretezza sulle informazioni classificate nell'industria bellica. Un modo per garantire il copyright militare ed evitare che le tecnologie vengano copiate e utilizzate per produrre sistemi meno costosi, da rivendere ad altri compratori. C'è un altro terreno delicato, a testare il dialogo. Riguarda la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese, pronta a siglare con i turchi un accordo per ridurre i flussi migratori illegali lungo la rotta del Mediterraneo orientale (l'incremento lungo questa tratta è stato del 300% nel 2021, anche se il numero complessivo dei migranti resta assai più basso di cinque anni fa). Il progetto di cooperazione porterà funzionari di rango della polizia dei due Paesi nei punti caldi di partenza e sbarco dei trafficanti. Coste, aeroporti, snodi strategici. Non a caso, ad Ankara è presente anche il capo della polizia di frontiera. L'obiettivo è tracciare profili e rotte degli scafisti e dei mercanti di uomini. Prevederne le mosse. Comprendere le fonti di finanziamento. Sgominarne le organizzazioni che li nascondono e proteggono. Infine il gas. Pesa la spietata concorrenza sul fronte dell'estrazione di fronte alle coste di Cipro. Le concessioni per le trivellazioni dividono l'area in tredici lotti: alcuni italiani, altri francesi, altri ancora degli Stati Uniti e degli israeliani. È un asset prezioso, per Roma. Erdogan pretende di godere di una porzione dei giacimenti e manda le trivelle - con scorta armata a esplorare i giacimenti Eni e Total. I francesi schierano la Marina. L'Italia mantiene una nave militare nel Mediterraneo orientale anche per garantire la sicurezza in quel quadrante. L'obiettivo, ancora una volta, è il disgelo. Draghi lo dice chiaramente al nuovo partner: siamo interessati a progetti e investimenti, ma prima va chiarita la sfida geopolitica che divide Ankara da Cipro e Grecia. È evidente però che non esiste soltanto Cipro. Resta la possibilità di rafforzare il flusso del Tap e di sfruttare i buoni uffici turchi per garantirsi nuove rotte di gas liquido».

BOMBE SUI CIVILI DI SLOVIANSK

Le ultime notizie dal campo bellico. Sloviansk è la città simbolo del  nuovo fronte dell’invasione russa nel Donbass. La cronaca su Repubblica è di Paolo Brera.

«Un altro mercato distrutto è l'ultimo crimine di questa guerra in Ucraina. La strategia russa del terrore continua a costare cara ai civili che resistono a Sloviansk, divenuta la città simbolo del nuovo fronte nell'invasione. Ieri le bombe hanno colpito ancora una volta all'ora di pranzo, senza alcuna precauzione per evitare vittime innocenti. Una giovane nonna se n'è andata così, distesa supina nel mercato centrale cittadino. Il bilancio totale è di due morti e 7 feriti, entrambe le vittime erano tra le lamiere contorte del mercato in fiamme. Ma i russi hanno colpito duramente la città anche nella zona dei laghi, a Sovkurort, dove la gente in tempo di pace andava a fare il bagno e a pescare; e hanno colpito nella parte centrale e settentrionale della città, bombardando i distretti Varsavia e Severny. È un seguito, se possibile ancora più pesante, del bombardamento di domenica, che aveva ucciso sei persone. Anche lì i russi avevano colpito un mercato, quello vicino alla stazione ferroviaria, e una serie di case isolate e di palazzi. Ieri la stessa orrenda strategia, che pare quasi un nuovo macabro avvertimento ai civili che si ostinano a non assecondare le richieste del sindaco e delle autorità: abbandonare la città, lasciando spazio alla difesa ed evitando di mettere in pericolo la macchina degli aiuti umanitari e la catena dei servizi di base. Non c'è alcun rallentamento nel programma russo di assaltare la provincia di Donetsk per chiudere la partita dell'intero Donbass: l'avanzata è feroce, durissima. Si combatte nelle foreste e nei campi lungo l'autostrada che collega Bakhmut, già molto colpita, alla conquistata Lysychansk. E gli ucraini cercano di tenere le posizioni nell'altro bastione di Siversk, che i russi vogliono accerchiare per aprirsi la strada verso Sloviansk e la collina che la separa da Kramatorsk, capoluogo del Donbass dal 2014. E la stessa Kramatorsk è sotto tiro, svegliata ieri alle 4 da diverse esplosioni. L'obiettivo è dichiarato, ma i russi tengono sotto pressione tutta l'Ucraina: gli allarmi aerei suonano ovunque, e i missili hanno colpito da Mykolaiv a Chernihiv, da Kharkiv a Khmelnytsky».

MOSCA BLOCCA L’AGENZIA EBRAICA IN RUSSIA

Stop di Mosca all'Agenzia Ebraica, che alza una «cortina di ferro» contro l'esodo. L'organismo si occupa infatti dell'immigrazione nello Stato ebraico (la cosiddetta Aliyha). Marta Ottaviani per Avvenire.

 «Ore di dialogo fra Russia e Israele per risolvere una situazione delicata che potrebbe diventare motivo di forte attrito diplomatico. Mosca ha ordinato lo stop di tutte le attività dell'Agenzia Ebraica, organizzazione che, fin dalla nascita dello Stato, opera per rafforzare l'identità ebraica e mantenere i collegamenti tra gli ebrei nel mondo e Israele. Uno dei compiti più importanti di questo organismo è occuparsi delle Aliyah, ossia le immigrazioni degli ebrei verso Israele in base alla Legge del ritorno.
L'«ordine» di stop è contenuto in una lettera del governo inviata all'inizio della settimana. L'Agenzia, da Gerusalemme, ha confermato il ri- cevimento della missiva, i cui contenuti verranno valutati dal ministero degli Esteri e dall'ufficio del primo ministro Yair Lapid. Le conseguenze della decisione russa potrebbero impattare su centinaia di ebrei russi che avevano completato le procedure burocratiche e stavano aspettando di trovare un volo che potesse condurli in Israele. Tanti altri rischiano, a questo punto, di non poter nemmeno fare domanda di Aliyah
. La tensione fra Mosca e Israele per le posizioni (critiche) prese da Gerusalemme sulla guerra stanno crescendo. Dall'inizio del conflitto sono migliaia gli ebrei russi che, già in possesso di un passaporto israeliano o avvalendosi della Legge del ritorno, sono riusciti a recarsi in Israele lasciando la Russia, Paese che sta progressivamente chiudendo le sue frontiere, impedendo così ai suoi cittadini di scappare da una deriva autoritaria sempre più pressante. A inizio giugno anche il rabbino Capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt, personalità molto stimata nella capitale e che guidava il rabbinato dal 1993, è stato costretto ad andarsene perché si era rifiutato di appoggiare quella che il Cremlino chiama «operazione militare speciale». Ulteriore segnale degli attriti tra i due Paesi, il fatto che Mosca, l'altro ieri, abbia ufficialmente chiesto a Israele di cessare gli attacchi aerei sulla Siria (che hanno sempre richiesto un coordinamento), definendoli, senza giri di parole, «inaccettabili». Nonostante le forti migrazioni degli anni Novanta, sono circa 150.000 gli ebrei in Russia (stime non ufficiali). E sono un milione e trecentomila i russi in Israele (circa il 15% della popolazione). Quindi c'è molta attenzione nella gestione dei rapporti. «Come parte del lavoro della delegazione dell'Agenzia ebraica in Russia, occasionalmente siamo tenuti ad apportare alcune modifiche, come richiesto dalle autorità - ha spiegato l'Agenzia Ebraica di Mosca al Jerusalem Post, che sta seguendo la vicenda -. I contatti con le autorità sono continui, con l'obiettivo di continuare le nostre attività secondo le regole stabilite dagli organi competenti. Ancora oggi, un tale dialogo avviene». Nella comunità ebraica di Mosca non nascondono preoccupazione per quella che, sempre al quotidiano israeliano, hanno descritto come una vera e propria «cortina di ferro», che potrebbe impedire loro di lasciare il Paese. Senza contare chi teme di venire arrestato dalle autorità russe. Il ministro israeliano per l'Aliyah e l'integrazione, Pnina Tamano- Shata, ha sottolineato come l'Aliyah sia «un diritto fondamentale per gli ebrei della Russia», e ha fatto appello al premier affinché collabori con l'amministrazione di Mosca per risolvere il problema».

QUANDO NEGOZIARE LA TREGUA? LA DOTTRINA KISSINGER

Quando è giusto negoziare la tregua? I messaggi di Henry Kissinger a Kiev e ai Paesi europei non possono essere sottovalutati. Berlino studia il controllo pubblico dell'industria in caso di crisi. L’analisi di Federico Fubini per il Corriere della Sera.

«Per due volte Henry Kissinger ha detto qualcosa che è parso fuori asse rispetto alla linea del G7 sull'Ucraina. Più di un mese fa a Davos l'ex segretario di Stato americano, ormai quasi centenario, ha osservato che i negoziati di pace dovevano iniziare entro fine luglio «prima che si creino sollevazioni e tensioni che potrebbero non essere superabili». Kissinger ha poi aggiunto una frase che sembra un invito a Kiev a rinunciare alla Crimea e alle pseudo-repubbliche di Donetsk e Lugansk: «Idealmente la situazione dovrebbe tornare allo status quo ante (il 24 febbraio, ndr). Credo che perseguire la guerra oltre quel punto la trasformerebbe in una guerra non per la libertà dell'Ucraina, ma contro la Russia». Gerry Kasparov, il grande oppositore russo, ha risposto che quell'idea si è già dimostrata sbagliata: concedere territori al Cremlino «non è sostenibile, perché alla lunga i dittatori hanno bisogno del conflitto». E davvero avergli lasciato la Crimea nel 2014 non ha fatto che acuire la sete di aggressione di Putin. Obiettivi politici Eppure Kissinger la settimana scorsa è tornato sul tema con Luigi Ippolito del «Corriere». Va sconfitta l'invasione dell'Ucraina, ha detto, «non la Russia come Stato» e si deve «tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo». E a proseguito: «Stiamo arrivando a un momento in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari. Non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo». Che voleva dire Kissinger? Senza dubbio vede anche lui le difficoltà nella quale si trova ormai l'Ucraina. L'esercito russo è tornato alla tattica zarista di fare terra bruciata con l'artiglieria e solo dopo avanzare con la fanteria; il Lugansk è espugnato e ora sta penetrando nel Donetsk. È possibile che gli ucraini tentino una controffensiva a Sud con i lanciarazzi arrivati dagli Usa. Intanto però le missioni aree russe, fra 40 e 50 al giorno, distruggono quantità notevoli di armi fornite dagli occidentali e infliggono perdite all'esercito di Kiev: secondo alcune stime fino al 40% dei soldati sarebbero morti o non più in grado di combattere (altre centinaia di migliaia di uomini nei corpi d'ordine pubblico avrebbero bisogno di addestramento per la guerra). Costo psicologico Putin ha commesso errori grossolani in inverno ma nessuna delle sue mosse attuali, purtroppo, appare casuale. I missili sui supermercati o sui palazzi a Kiev, a Kramatorsk o Odessa servono a terrorizzare i civili, ma anche ad alzare il costo psicologico (e assicurativo) per governi e imprese occidentali che promettono di ricostruire l'Ucraina. La russificazione dei territori occupati prelude a un tentativo di annessione dal perverso valore legale: per Mosca, ogni controffensiva nel Donbass diventerebbe un attacco al territorio della Russia e come tale chiamerebbe in causa la dottrina della deterrenza nucleare. Anche il Cremlino sta pagando un prezzo elevato: alcuni effetti delle sanzioni occidentali iniziano a diventare evidenti. La produzione di auto in Russia è crollata del 97%, i prestiti fra banche russe del 27%. Ma forse il momento della catastrofe economica russa non sarà per domani. Al «Corriere» un veterano dell'industria petrolifera di Mosca di recente riparato all'estero, Sergei Vakulenko, ha spiegato che il tempo è il fattore essenziale nella guerra economica fra Russia e Europa. Nel breve periodo la logica di Putin conduce a ridurre al minimo le forniture di gas agli europei in modo da generare inflazione, razionamenti, dunque ostilità nell'opinione pubblica verso i politici se questi ultimi sostengono l'Ucraina. Non è un caso se il governo francese ha presentato un progetto di legge che gli permette di requisire le centrali a gas in caso di emergenza. Nello stesso scenario, a Berlino si riesuma a una norma del 1960 per permettere al governo di prendere il controllo di tutta l'industria nazionale e decidere quali settori devono rallentare o fermarsi. La questione di come gestire eventuali crisi di fornitura dei prossimi mesi si porrà dunque anche in Italia.
Dieci mesi chiave Solo nel giro di uno o due anni il rapporto di forze si rovescia. L'Europa sostituirà il gas russo. E la carenza di componenti industriali indotta dalle sanzioni farà sì che il tempo inizi a giocare contro Mosca, infliggendo seri danni al suo sistema produttivo. Lo scorrere della sabbia nella clessidra gioca dunque per Putin nei prossimi nove o dieci mesi, contro di lui dopo. È in queste condizioni che i governi europei devono rispondere alla domanda più scomoda: davvero pensano che solo Volodymyr Zelensky abbia diritto di affrontare la questione del quando e come perseguire un cessate il fuoco? Mario Draghi giorni fa così ha riassunto la posizione del G7: «Se ci fosse una disponibilità ai negoziati, siamo pronti». Sembra chiaro che sarà difficilissimo recuperare i territori già finiti sotto il controllo russo e illudersi di poterlo fare, adesso, potrebbe non portare che altro sangue. Sembra altrettanto chiaro che riconoscerne oggi la conquista non farà che dar tempo e motivazione per Putin di preparare nuove aggressioni. Fra queste due proposizioni difficilmente confutabili, ma incompatibili, si delinea la missione più dura per gli europei nei prossimi mesi e anni: tenere stretta la presa delle sanzioni, isolare la Russia fino a renderle insopportabile il costo delle sue scelte. Eppure la voglia di tornare al business as usual è dietro l'angolo: Draghi è il solo leader europeo ad aver detto che il suo Paese non comprerà più energia russa, finché Putin resta al Cremlino».

LA RICOSTRUZIONE? ALL’ITALIA TOCCA IL DONETSK

Si studiano le slides e le proposte del governo ucraino, avanzate nell’incontro svizzero sulla ricostruzione del Paese. Nicola Borzi per Il Fatto.

«La ricostruzione dell'Ucraina? Nei progetti del governo di Kiev e del primo ministro Denys Shmyhal, scatterà su base regionale e molti Paesi, Italia compresa, potranno prendersi una fetta del colossale business, stimato a oggi in almeno 750 miliardi di dollari. Ma la divisione non sarà in parti uguali: Zelensky e i suoi hanno riservato il meglio ai partner più generosi in termini di sostegno politico, di armi inviate e di aiuti erogati. Non a caso Londra si prenderà la capitale Kiev, Ankara e Washington la seconda città del Paese, Kharkhiv, mentre ad Atene andrà Mariupol e a Roma (insieme a Varsavia) Donetsk, ammesso - e non concesso - che l'Ucraina riesca a riconquistarla. I danni della guerra scatenata da Mosca sono giganteschi e costantemente aggiornati: una app consente a ogni ucraino di segnalare edifici, strutture e oggetti colpiti, verificati e catalogati in un database pubblico. Secondo Kiev sono stati danneggiati o distrutti almeno 40 milioni di metri quadrati di edifici, 212 strutture mediche, 305 ponti, 24 mila chilometri di strade, 1.210 scuole, 12 aeroporti, migliaia di chilometri di gasdotti, acquedotti, ferrovie. Le valutazioni variano, ma - se le ostilità si fermassero ora - alla ricostruzione secondo stime ucraine servirebbero almeno 750 miliardi di dollari. Cifra che cresce ora dopo ora e non tiene conto delle sofferenze e perdite umane. Secondo le slide proiettate lunedì durante il discorso di Shmyhal alla Conferenza internazionale per la ricostruzione dell'Ucraina tenuta a Lugano, organizzata da Berna e Kiev alla presenza di 36 Stati e 13 organizzazioni internazionali, gran parte dei finanziamenti dovrebbe venire da fondi congelati a Mosca e oligarchi russi. Kiev ha diviso il territorio in zone. Un primo gruppo di Paesi donatori ha già inviato i suoi aiuti su base geografica: il Regno Unito si è preso carico della capitale Kiev, Estonia Lettonia e Lituania di Zytomyr, la Lituania di Bucha, la Turchia di Kharkhiv, la Danimarca di Mykolaiv e la Grecia di Mariupol. Ma quando la guerra sarà finita e, secondo i desideri di Kiev, vinta con il ritorno dell'intera Ucraina sotto la sua sovranità, alla ricostruzione parteciperanno anche altri partner: Usa a Kharkhiv, Germania a Chernihiv, Canada a Sumy, e poi via via Irlanda, Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Svizzera, Norvegia. All'Italia, insieme alla Polonia, toccherebbe Donetsk, nel Donbass. Sempre che l'Ucraina riesca a riprenderla a Mosca, che oggi la controlla. La sfida per l'Ue, che vuol guidare il "Piano Marshall" per Kiev, è mobilitare investimenti e coordinare istituzioni e privati. Il prossimo passo sarà la conferenza internazionale organizzata dopo l'estate da Ue e Germania, annunciata a Lugano dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Già al Forum economico di Davos molti investitori si erano fatti avanti. Secondo la proposta della Commissione, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo avrà un ruolo cruciale, così come Svizzera, Usa, organizzazioni europee e internazionali, Banca europea per gli investimenti, Fmi e Banca mondiale e, naturalmente, le imprese. Roma non si tira indietro: "Voglio garantire che l'Italia è pronta a lavorare con voi e tutti i partner per l'attuazione del piano di ripresa ucraino", ha detto a Lugano il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. Torna in mente un vecchio film: "Finché c'è guerra c'è speranza"».

Il commento di Maurizio Belpietro sulla Verità: per l’Italia è un’impresa impossibile ed una beffa.

«Forse più di molte parole è stata sufficiente un'immagine proiettata sullo schermo alle spalle del premier ucraino, Denys Shmial. La slide è eloquente, perché sul palco si vede un'Ucraina divisa in regioni e con sopra tante bandierine che rappresentano i Paesi europei e gli alleati. Tanto per fare qualche esempio, ai francesi toccherebbe la città di Odessa, mentre agli svizzeri la regione in cui ha sede la città portuale. I tedeschi si prenderebbero la regione di Chernihiv, mentre ai canadesi spetterebbe la regione di Sumy. A Stati Uniti e Turchia andrebbe la regione di Kharkiv, mentre all'Irlanda finirebbe la regione di Rivne. La Romania si occuperebbe della regione di Mykolaiv, mentre la Norvegia di quella di Kirovohrad. Gli aiuti non disdegnerebbero le zone occupate dai russi e tuttora da riconquistare. Dunque, agli italiani e ai polacchi sarebbe affidata la regione di Donetsk e agli austriaci la zona di Zaporizhzhia. La Svezia e i Paesi Bassi supervisionerebbero la regione di Kherson, la Repubblica Ceca, la Finlandia e la Svezia la regione di Lugansk, mentre la regione di Kirovorhrad passerebbe alla Norvegia. Ufficialmente, a Kiev parlano di adozione, quasi che ogni Paese possa fare la propria parte per sostenere il territorio da ricostruire. Tuttavia, appare evidente, anche se non si parla di cessione di sovranità, che l'Ucraina una volta raggiunta la pace si affiderà all'estero per risorgere e allo stesso tempo quegli aiuti non saranno gratis, perché saranno rimborsati in termini di concessioni. Cioè, per non finire in mano ai russi, Kiev finirà in mano a chi ricostruirà il Paese, concedendo diritti su materie prime o servizi che sono facilmente intuibili. Insomma, l'aiuto non sarà gratis, perché l'impegno finanziario è tale che l'Ucraina impiegherebbe troppi decenni per rimborsarlo. Tutto questo a prescindere da come evolverà il conflitto. Perché mentre in Svizzera si parla di ricostruire, nel Donbass si muore e le città rase al suolo, prima di essere rifatte, dovranno essere riconquistate. Il che, vista la piega presa dalla guerra nel Sud Est del Paese, è tutt' altro che scontato. Forse è per questo che all'Italia hanno assegnato il Donetsk? Per affidarci una mission impossible o per tagliarci fuori dalla ricostruzione? Forse per tutte e due le ragioni».

LA “FOLLE IDEA” DELL’EUROMARCIA PACIFISTA

Ci sarà una presentazione stamattina alla Camera dei Deputati alle 11,30 del progetto Mean e della marcia per la pace a Kiev dell’11 luglio insieme a Graziano Del Rio e ai promotori dell’iniziativa. Angelo Moretti, presidente del Movimento europeo di azione non violenta, ieri ne ha scritto sull’inserto Buone Notizie del Corriere della Sera. Ecco uno stralcio del suo bell’articolo.    

«La ragazza ci chiede subito aiuto: bisogna mettere in protezione, in Europa, quanti più pezzi possibili dell'immenso patrimonio culturale, che subisce furti ogni giorno. Poi prende parola Stephan, è un giovane regista e ha fondato un'associazione di volontariato, è preoccupato perché si parla pochissimo del futuro in Ucraina: «Le munizioni finiscono - dice - e dobbiamo costruire ora il domani».
Maria, leader di una compagnia teatrale in cui lavora assieme al fidanzato Vlady, mette subito a disposizione il teatro della sua famiglia per la nostra idea, che a questo punto non solo non è folle ma è desiderata e voluta da quei giovani ucraini almeno quanto lo è da noi: portare la società civile europea in una manifestazione non violenta a Kiev, l'11 luglio, giorno di San Benedetto patrono di Europa.
Torneremo qui in 150 attivisti, autorizzati dalla amministrazione comunale di Kiev, per dimostrare la nostra solidarietà e discutere del domani. Ciò che resta di questi incontri organizzativi per noi europei uniti nel progetto Mean (Movimento europeo di azione non violenta che raggruppa oltre 35 associazioni italiane) è la sensazione di fare la cosa giusta al momento giusto, soprattutto nel posto giusto. I governatori europei hanno da compiere in questi mesi una scelta tragica, quella di «armare o non armare» la resistenza ucraina, ma la società civile europea può avere una scelta in più: essere accanto, fisicamente, in modo disarmato ma non arreso. Responsabilità pubblica Se può esistere, come esiste, una forma di difesa «per procura» dell'Europa dagli aggressori russi, difesa fatta dagli ucraini con le armi dell'occidente, non può esistere specularmente la costruzione di una «pace per procura». In quel desiderio dei giovani di Kiev di costruire con noi la manifestazione dell'11 luglio, e chiedere insieme che l'Europa guidi i negoziati di pace, con tutte le sue forze economiche e diplomatiche, c'è una responsabilità pubblica che non può essere delegata e che la società civile europea deve assumersi: smettere di restare a guardare o di ridursi a commentare la guerra ed esserci nel conflitto, accanto agli aggrediti, con un piede nella resistenza e uno nel dialogo che dovrà avvenire anche col nemico di oggi, quando questa indicibile guerra finirà. Se l'umanità entra in Ucraina con le auto usate ancora di più deve esserci nelle forze civiche che si uniscono per il sogno europeo, quel sogno che proprio a piazza Majdan gli ucraini hanno difeso più di tutti e che ora stanno difendendo da un'aggressività disumana».

OGGI SI VEDONO DRAGHI E CONTE. O NO?

Grande tensione nei palazzi della politica. A stamattina pochi scommettono sul futuro del governo guidato da Mario Draghi. Oggi alle 16,30 ci sarà il faccia a faccia con Giuseppe Conte. Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.

«Una notte ancora, per ragionare, trattare e sperare che oggi, nel giorno del faccia a faccia decisivo tra Draghi e Conte, alla Camera salti fuori un accordo che scongiuri la fine prematura della maggioranza. Questa volta la mina parlamentare è il decreto Aiuti, che contiene 23 miliardi a sostegno di imprese e famiglie e sul quale nelle prossime ore il governo potrebbe porre la fiducia: il provvedimento è zavorrato da 400 emendamenti e deve essere convertito al Senato entro il 16 luglio. A frenare l'iter del decreto che contiene la norma sul termovalorizzatore di Roma sono i 5 Stelle, che si battono per modificare il Superbonus e hanno fatto infuriare gli altri partiti. La tensione è alta e le spinte contrapposte che agitano la coalizione di unità nazionale rischiano di provocare un incidente parlamentare. Visto il clima e l'appuntamento cruciale con Conte alle 16.30 di oggi, Palazzo Chigi ha mostrato con il Movimento un atteggiamento il più possibile aperto e dialogante, ben diverso dall'intransigenza con cui lo staff di Draghi aveva affrontato la risoluzione sulle armi all'Ucraina. In questa occasione i collaboratori del premier addetti alle trattative con i partiti hanno evitato di ingaggiare un braccio di ferro con i vertici del M5S, offrendo tempo per trattare e disponibilità a sbloccare lo stallo. Ieri dovevano iniziare le votazioni in Aula invece il testo si è impantanato, anche perché gli altri partiti hanno respinto modifiche che avrebbero costretto a tornare in commissione. La richiesta del M5S sul Superbonus è che l'ultimo titolare del credito sia sollevato dalla responsabilità, ma a parte il Pd le altre forze politiche non sembrano interessate a cambiare il testo. Per sciogliere il nodo il capo di gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello, ha anche proposto di risolvere la questione in un altro provvedimento, alla prima occasione. Ma dal M5S tutto tace, il che ha rinvigorito i sospetti parlamentari di chi pensa che i contiani siano alla ricerca di un pretesto per rompere. Si litiga sulla riforma del reddito di cittadinanza, sulla stretta per gli affitti brevi a Venezia e, con maggiore forza, anche sulla questione di fiducia. Il M5S ha chiesto a Draghi di non metterla e Palazzo Chigi ha risposto «va bene, possiamo non porre la fiducia, ma dovete trovare un accordo altrimenti il decreto scade». E qui è scattata l'ira della Lega, che contesta al governo l'offerta di una sponda ai 5 Stelle e ritiene che non porre la fiducia sarebbe «un grave precedente politico». Ormai appare chiaro che sia il Movimento che il Carroccio sono scossi dalle spinte di chi ha fretta di rompere per buttarsi in campagna elettorale, il che fa ballare paurosamente la nave dell'esecutivo in Parlamento. «Di questo passo usciamo dal governo», è lo stato d'animo di tanti leghisti. In mezzo allo scontro tra i partiti c'è Federico D'Incà, che rappresenta il governo e viene accusato da tanti di muoversi agli ordini di Conte. Alle sei della sera il ministro per i Rapporti con il Parlamento riunisce la maggioranza e fa il possibile per mediare sul decreto Aiuti. «Se non c'è l'accordo sul superbonus non votiamo la fiducia», è il diktat dei 5 Stelle, che hanno presentato anche 4 emendamenti del capogruppo Davide Crippa sul prezzo del gas. La riunione di maggioranza viene interrotta e aggiornata a questa mattina, quando Draghi sarà tornato dalla Turchia e avrà concesso, spera l'ala governativa del M5S, le aperture a cui i contiani hanno appeso le sorti del governo. Alle otto della sera D'Incà spiega il ritardo nei lavori parlamentari e i tentativi di risolvere il risiko, «in stretto collegamento con la presidenza del Consiglio». Il ministro assicura di aver «sondato tutte le forze della maggioranza» alla ricerca di un accordo che possa evitare la fiducia, ma fa capire che l'intesa ancora non c'è. E che forse, anche se D'Incà non lo dice, bisognerà aspettare l'esito del faccia a faccia tra Draghi e Conte, che a Palazzo Chigi, eufemisticamente, prevedono «franco e schietto».

Secondo la cronaca di Luca De Carolis sul Fatto, giornale vicino a Conte e ai 5 Stelle, la situazione sarebbe già compromessa. E la vita della maggioranza di governo sarebbe appesa ad un sottile filo.

«Una giornata di tavoli, mediazioni e accuse incrociate non è servita a nulla. Questa mattina alla Camera, se nella notte non sarà arrivato un improbabile accordo, il governo blinderà con la fiducia il decreto Aiuti, che ha in pancia anche l'inceneritore a Roma e una modifica peggiorativa del reddito di cittadinanza, pugni in un occhio per il M5S. Tradotto, metteranno i 5Stelle di fronte a un bivio, dentro o fuori dall'esecutivo, proprio nel giorno in cui Mario Draghi riceverà Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, per il faccia a faccia dove provare a fare chiarezza su molte cose, a partire dalla permanenza del Movimento nel governo. Più difficile, visto che ieri il M5S non è riuscito a incassare una norma sul superbonus, bandierina che poteva aiutarlo a deglutire il provvedimento. L'esito di un lunghissimo martedì, con i 5Stelle che nella riunione di maggioranza in mattina a Montecitorio chiedono di non mettere la fiducia sul testo. Vorrebbero inserirvi una norma sul superbonus, tramite un emendamento del relatore, così da regolamentare la responsabilità in solido di chi cede il credito. "Torniamo in commissione e approviamo solo quello" è l'idea. Il ministro per i Rapporti per il Parlamento, il grillino Federico D'Incà, prova a mediare per accontentarli. Ha la copertura politica di Palazzo Chigi dove sono preoccupati dall'evidente caos. Soprattutto, un segnale alla vigilia dell'incontro con Conte potrebbe aiutare, ragionano. Ma gli altri partiti fanno subito muro, e anche il Pd è quanto meno perplesso. "Non è questo il modo, così si crea un precedente, niente favoritismi" è l'obiezione diffusa. Anche perché solo il M5S e Fratelli d'Italia avevano presentato emendamenti al testo entro la scadenza, mentre gli altri avevano data già per scontata la fiducia (che sopprime ogni richiesta di modifica). Così a metà mattinata la viceministra all'Economia, la dimaiana Laura Castelli, mostra il pollice verso: "Per il Mef non ci sono profili economici che necessitano l'intervento e quindi il ritorno in commissione". Anche perché, fanno notare dalla Ragioneria, non ci sono le coperture per la misura (servirebbero tre miliardi). Così la trattativa diventa un pantano. A Montecitorio si susseguono le riunioni per cercare un punto di caduta, ma la matassa si aggroviglia, mentre i 5Stelle fanno filtrare: "Senza la norma sul superbonus non votiamo la fiducia". Il Pd si fa più morbido, prova a fare da pontiere, anche se la Lega inveisce contro "i litigi interni al centrosinistra". Però l'intesa non si trova. Per questo, D'Incà chiede e ottiene dall'Aula il rinvio dell'esame del decreto a questa mattina. Guadagna altro tempo, sempre alla ricerca di un accordo prima della seduta di oggi. Ma il centrodestra dice no: "Non possiamo fare tutto questo solo per inserire una vostra norma". E poi, infierisce la renziana Maria Elena Boschi, "domattina (oggi, ndr) i giornali racconteranno di Conte che minaccia il governo, e tutti i partiti non potranno che essere ancora più contrari". Ma la capogruppo dem alla Camera, Debora Serracchiani, tiene aperto uno spiraglio: "Se si può migliorare un testo, come con il superbonus, noi siamo sempre favorevoli. E con il M5S non c'è alcuna tensione". Ma il tempo è pochissimo, visto che il dl scade il 16, e deve ancora passare in Senato. Ergo, la fiducia pare inevitabile. La certezza è che alle 16.30 di oggi Conte e Draghi si vedranno a Palazzo Chigi. Prima, alle 13, Conte riunirà il Consiglio nazionale del Movimento, per l'occasione allargato a tutti i coordinatori dei comitati. In serata, dopo l'incontro con il premier, riunirà i parlamentari in assemblea congiunta per fissare la rotta. Dipenderà anche dal faccia a faccia, dove Conte porterà un documento con le richieste del M5S: dal portare in Parlamento il prossimo decreto per inviare armi all'Ucraina alla salvaguardia del reddito di cittadinanza, fino al salario minimo. Ma chissà cosa accadrà stamattina. "Ora Conte dovrà scoprire le carte" ghignano i dimaiani. Mentre dal M5S ripetono il mantra: "Giuseppe non ha deciso". L'eventuale fiducia sul dl Aiuti si voterà domani. Esiste un espediente: votarla, per poi astenersi sul testo. Però sarebbe un espediente, appunto».

GIORGETTI ATTACCA IL CERCHIO MAGICO DI SALVINI

Se c’è malumore nei 5 Stellle, i leghisti non sono da meno. Il ministro leghista Giancarlo Giorgetti attacca apertamente i cattivi consiglieri esterni al Carroccio e il cerchio magico attorno a Matteo Salvini. Francesco Moscatelli per La Stampa.

«Il segretario a discutere con i senatori delle condizioni necessarie per rimanere nel governo, il vice segretario e ministro dello Sviluppo economico a lavorare per portare avanti le proposte dell'esecutivo, lanciando un fondo da 45 milioni per imprese e centri di ricerca che vorranno investire in intelligenza artificiale, blockchain e internet delle cose, e presentandosi all'assemblea dell'Ania per chiedere al settore assicurativo di «restituire un minimo di certezze alle famiglie e alle imprese disorientate». La distanza fra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti è apparsa evidente anche ieri mattina, quando entrambi erano impegnati a Roma nei rispettivi ruoli di possibile incendiario (se non otterrà da Draghi risultati entro settembre su lavoro, pensioni, salari, pace fiscale, legge quadro sull'autonomia, revisione del reddito di cittadinanza) e di pompiere in servizio permanente effettivo.
Ma, come ha ripetuto più volte lunedì durante la «segreteria allargata» in via Bellerio, Giorgetti è pronto a tutto pur di farsi ascoltare. Anche a rimanere isolato. Da cattolico abituato alle omelie domenicali, infatti, conosce bene le fatiche di San Giovanni Battista, e l'importanza di incarnare, quando serve, «la voce di colui che grida nel deserto». «Io parlo a un certo mondo - ha detto Giorgetti davanti agli altri colonnelli del Carroccio, impietriti dalla durezza e dalla fermezza del suo intervento -. Se vi fa schifo, se non serve e se non è utile, amen. Io tolgo il disturbo». Ma chi pensa che dietro queste parole ci sia una sfida aperta a Salvini, un «o me o lui», è sulla cattiva strada. E non solo perché l'idea di trasformarsi in un frontman è estranea alla psicologia di Giorgetti, da vent' anni orgogliosamente numero due del Carroccio . Il tema è soprattutto di strategia e di linea politica, di riflessioni sul ruolo della Lega. Sulla direzione da inserire nel navigatore prima di riaccendere l'auto più che sull'autista. Anzi, chi li conosce entrambi, al netto dei dissidi degli ultimi mesi, giura che Giancarlo voglia bene a Matteo e che lo consideri «decisamente avanti rispetto a tanti altri che lo circondano». L'obiettivo dunque non sarebbe quello di sostituire il leader, ma di aiutare lui e tutto il partito a prendere coscienza dell'attuale situazione politica, economica e sociale. «Per ripartire servono responsabilità, umiltà e dialogo - questo il succo del ragionamento di Giorgetti -. La politica non è filosofia, è l'arte del possibile. Se volete fare la rivoluzione, auguri». Messaggi rivolti a Salvini, certo, ma anche al suo «cerchio magico» e ai suoi «cattivi consiglieri» fuori dalla Lega. E infatti pare che alla fine fosse proprio Salvini il più sollevato davanti a tanta franchezza. Fatte le debite proporzioni, del resto, queste sono più o meno le stesse cose che hanno portato una decina di amministratori e dirigenti locali bergamaschi della Lega a lanciare una raccolta firme per sottoporre al segretario una «critica costruttiva». La protesta è partita dalla zona di Isola, dalla Valle Imagna e dalla Val Brembana, ma i ribelli giurano che le adesioni stanno crescendo in tutta la provincia. «Il mio nome sul documento ci sarà - conferma Andrea Previtali, 52 anni, ex sindaco di Cisano bergamasco, il comune in cui vive l'ex ministro Roberto Castelli e dove la Lega ha appena perso le amministrative -. Noi abbiamo a che fare tutti i giorni con i problemi reali dei cittadini e i vertici devono ascoltarci. Se abbiamo perso, a Cisano, è anche perché il simbolo del partito non tira più come prima. È ora di finirla con i commissari nominati dall'alto che fanno orecchie da mercante e con i parlamentari che vengono qui, inaugurano quello che c'è da inaugurare, e poi se ne tornano a Roma. Stasera (ieri, ndr) ci vedremo davanti a una birra e decideremo cosa organizzare. Meglio fare tre passi indietro e riprendere la strada giusta, piuttosto che andare avanti così».

ORA IL GHIACCIAIO È PROIBITO

Chiusura totale del ghiacciaio della Marmolada per fermare gli scalatori che ignorano i divieti. Bloccati tutti gli accessi. La rabbia dei parenti dei dispersi che chiedono: continuate a cercare. Alessandra Ziniti per Repubblica.

«I cartelli di divieto sono stati installati in tutti e cinque i punti di accesso al massiccio. La Marmolada ora è completamente chiusa e presidiata dalle forze dell'ordine per evitare che curiosi o irresponsabili provino comunque a salire sulla montagna ferita dal collasso del ghiacciaio. Escursionisti, turisti dell'orrore ancora ieri mattina hanno provato ad aggirare i divieti e sono stati fermati. «Salire è pericoloso. La montagna è chiusa e prima di ipotizzare riaperture in sicurezza dovremo avere a disposizione studi effettivi da parte di esperti. È chiaro che parliamo di una data che oggi non possiamo nemmeno pensare di mettere nel calendario», spiega il sindaco di Canazei, Giovanni Bernard. La Marmolada da ieri è sorvegliata speciale. Anche per capire come poter proseguire in sicurezza le ricerche degli altri dispersi. A captare anche il minimo movimento di quel che resta del ghiacciaio, destinato comunque a franare, saranno i due radar installati dal gruppo di tecnici guidato da Nicola Casagli, professore di Geologia applicata all'Università di Firenze, chiamato sulla Marmolada dal capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. «Un radar - spiega - capterà i movimenti rapidi tipici delle valanghe, un altro invece sorveglierà quelli più lenti tipici delle frane. Vista la pendenza del ghiaccio rimasto sospeso dopo il crollo è inevitabile che continuerà a franare: nella migliore delle ipotesi cederà a piccoli blocchi, altrimenti in grandi masse». Un monitoraggio e controlli che potrebbero essere estesi nei prossimi giorni anche ad altri ghiacciai ritenuti più a rischio fusione per riduzione della superficie e per morfologia del territorio. Il procuratore di Trento Sandro Raimondi ieri ha escluso la «prevedibilità dell'evento, negligenza o imprudenza», ma adesso dopo che decine di tecnici e scienziati hanno rilanciato l'allarme per lo scioglimento dei ghiacciai sono in tanti a chiedere un sistema fisso di controlli e bollettini quotidiani che, alla fine, consentano di issare una bandiera rossa nei giorni di rischio elevato, come avviene sulle spiagge. I familiari delle vittime, adesso, chiedono di andare fino in fondo. «Perché nessuno ha fatto un avviso sabato, che c'era l'acqua che scorreva sotto il ghiacciaio? Perché non hanno fermato le persone - chiede Debora Campagnaro, la sorella di Erica dispersa insieme al marito Davide Miotti - Mio cognato era una guida alpina. Ci fosse stato un bollettino, un segnale di pericolo, non sarebbe mai andato lasciando a casa due figli. Dove sono le strumentazioni per recuperare i corpi. Continuate a cercarli». Esperti e amministratori si interrogano su cosa fare per gli altri ghiacciai in assenza di un sistema reale di controlli. Chiuderli d'estate? Una scelta difficile che taglierebbe una grossa fetta di turismo. «Non scherziamo. La montagna resta aperta e di tutti e lo sarà anche in futuro - dice il governatore altoatesino Arno Kompatscher - Certo, con i cambiamenti climatici, servirà però ancora più prudenza. Ma non si può caricare tutta la responsabilità sulla politica».

I tempi della terra e le tante variabili delle attuali conoscenze. La scienza del clima è ancora nella sua infanzia ed è difficile dire se il riscaldamento attuale della terra sia un fenomeno naturale o sia davvero indotto dai comportamenti dell’uomo. Franco Prodi per Il Foglio.

«C'è il tempo dell'uomo, dalla nascita alla morte, scandito nella sua singola esistenza. C'è il tempo del pianeta Terra, da cinque miliardi di anni fa a oggi. C'è il tempo dell'umanità, dagli albori dell'homo sapiens, nelle due tappe fondamentali: la nascita del linguaggio e la nascita della scienza. Fino all'attuale dominio dell'uomo sul pianeta. C'è il tempo della Storia e delle storie, che si inserisce in quello dell'umanità intera, con la pretesa di spiegare nascita e decadenza di civiltà e popoli. C'è il tempo della politica e del politico, che deve indicare e, potendo, imporre le scelte nell'arco del mandato ricevuto e nel rapporto con coloro che glielo hanno affidato. Poi ci sono eventi, come la tragedia sul ghiacciaio della Marmolada, generata dalla colata di ghiaccio e rocce, che ci portano a interrogarci se non ci sia un Tempo, con la T maiuscola, che scorra oggettivamente, e al quale devono raccordarsi tutti i tempi citati, e tutti i diversi accadimenti, ora che non ci sono più continenti da scoprire, terre nuove da colonizzare, ma c'è solo un pianeta sul quale dobbiamo tutti vivere in pace. Uomo e natura, ghiacciai e clima, storia del pianeta, sfruttamento eccessivo delle risorse, loro gestione per le generazioni future, economia e tecnologie, sono rapporti da studiare, interrogativi da affrontare. Tanto più nel momento nel quale la guerra fa di nuovo la sua comparsa alle porte di casa, incredibilmente, con il suo carico terribile di morte, distruzione, sofferenze indicibili e, non ultimo, di offesa al pianeta. Pretesa ambiziosa, la mia, di proporre alcune riflessioni in questo ambito. La giustifico solo esponendovi qualche tratto di una vita spesa interamente nella geofisica, in particolare la fisica dell'atmosfera, nell'interrogare la natura per carpirle alcuni segreti che si sono rivelati poi cruciali nella comprensione del sistema clima. In anni lontani ho cominciato con la formazione della grandine, da fisico dello stato solido, un materiale interessantissimo. Del quale i meteorologi puri conoscevano assai poco. Poi la struttura ed evoluzione dei temporali, col radar meteorologico. Poi le nubi, che hanno un ruolo importantissimo nel traffico dei fotoni solari in arrivo alla superficie terrestre e di quelli infrarossi che dalla superficie devono uscire verso lo spazio esterno. Quando ho preso questa strada di ricerca (era il lontano 1966) eravamo quattro gatti. Nei decenni successivi è risultato evidente, non solo a noi ma a tutto il mondo della ricerca, che le nubi sono al centro del sistema climatico e che purtroppo è molto difficile introdurle, coi loro effetti, in modo realistico, nei modelli, anche se negli ultimi decenni questi si sono sviluppati enormemente. Con essi è nata la necessità di un dialogo fra le Nazioni Unite e gli scienziati. Da questa necessità è nato il Panel ora famoso, l'Ipcc, che tuttavia ha preso la mano, tanto da divenire per il grande pubblico l'unico ambito depositario della stessa scienza del clima. Questo equivoco continua, tanto che sono costretto a ripetere le ragioni della mia critica che ci devono guidare verso una realtà sullo stato vero della scienza. In sintesi la scienza del clima è ancora nella sua infanzia, con aspetti sia complicati che difficili: appunto il ruolo delle nubi, dell'aerosol fuori dalle nubi, di tutti i gas serra (non solo la CO2), le emissioni vulcaniche, il flusso di calore dall'interno della Terra, le interazioni oceano-atmosfera ecc. Poi ci sono le due grandi cause naturali di cambiamento climatico, da sempre: gli effetti gravitazionali degli altri pianeti sull'orbita della Terra intorno al Sole e sull'inclinazione dell'asse di rotazione sul piano dell'eclittica - causa astronomica - e la variabilità del Sole che ci invia un flusso di fotoni e vento solare in maniera non proprio costante nel tempo - causa astrofisica. Dalla mia esperienza di fisico sperimentale viene dunque la raccomandazione di non considerare le previsioni dell'Ipcc (sia sul riscaldamento globale, che sull'innalzamento del livello dei mari) come sicure ma solo come scenari sui quali non si possono basare le scelte future dell'umanità intera. Fatta questa doverosa e lunghissima premessa torno al discorso iniziale sul tempo. Il periodo nel quale abbiamo misure fisiche della temperatura dell'aria al suolo rappresentative di tutto il pianeta (detta quindi globale) è di due secoli, ed essa è aumentata di sette decimi di grado per secolo. Poiché questo periodo coincide esattamente col passaggio dell'uomo da semplice animale a uomo industriale che brucia carbone, poi carbone e petrolio, poi carbone, petrolio e gas naturale, poi scava minerale uranifero per le centrali nucleari, l'attribuzione all'uomo industriale del riscaldamento globale si è fatta strada in maniera inarrestabile. Il tempo del pianeta ci mostra che vi sono stati nel passato cicli di centinaia migliaia di anni, con sotto-cicli dei quali l'ultimo, nel 1600-1750, della piccola glaciazione. Per gli scienziati favorevoli alla spiegazione naturale il riscaldamento attuale non sarebbe altro che il seguito della piccola glaciazione.
Risulta chiaro che l'obiettivo primario per la scienza è la quantificazione dell'effetto antropico, che certamente esiste, ed è l'unico sul quale possiamo pensare di agire. Ogni azione che prescinda da questa quantificazione (basata sul cosiddetto principio di precauzione) è rischiosa e può essere controproducente. Non si può fare nulla allora? Torniamo al tempo, questa volta il tempo del fossile, quello che ci separa da ora al momento dell'esaurimento completo, in tutte le sue manifestazioni, carbone, petrolio, gas naturale, minerale uranifero
. La storia dell'umanità è completamente cambiata dall'invenzione della macchina a vapore di Watts (1795) e conseguente uso del carbone: è uscita dal ciclo naturale di sole e vento. Bruciando o consumando fossile noi immettiamo un flusso di calore che non ci sarebbe altrimenti, ridiamo calore ai fotoni solari immagazzinati nel fossile da milioni di anni. Tornando al tempo, è tempo che chi sa quale sia il tempo del fossile parli. E' uno dei segreti meglio custoditi.
Mi devo avvicinare alle conclusioni di queste riflessioni sui tempi e mi accorgo che ne restano fuori alcune fondamentali. Un'indicazione sicura è di fermare il treno della CO2 e dell'Ipcc, finché non siamo in grado di quantificare l'effetto antropico, ma di farne ripartire simultaneamente un altro sul rispetto del pianeta e la sua protezione assoluta che non può non basarsi sulla smilitarizzazione totale, su un pacifismo assoluto; non può non basarsi sulla critica condivisa da tutta l'umanità all'equazione Pil=energia. Non è il caso di puntare sulla sobrietà energetica e sulla ricerca per ottimizzarla? Altri punti di riflessione per una politica vera di lungo termine per tutta l'umanità. Si porranno grandi problemi giuridici: di chi è la proprietà dei fotoni solari? Di chi è il vento? Quante guerre del passato sono state sulla proprietà del fossile e quante guerre generate dalla disponibilità del fossile… Ritorno con dolore alla tragedia della Marmolada e partecipo al lutto dei famigliari di questi appassionati della montagna. Penso ai loro ultimi momenti, una preghiera. Un ricordo personale: non molto distante dalla Marmolada c'è il Castelletto delle Tofane, noi ragazzi (estate del 1956) usciamo dalla galleria della Grande guerra sul nevaio. Ho uno zaino pesante, mi scivola il tallone, il nevaio è a schiena d'asino, prendo velocità e cado nel canalone che la neve fa con la roccia. Rotolo nel buio senza perdere conoscenza, ma con un dolore alla testa tremendo. Mi soccorrono e mi portano al Codivilla di Cortina: commozione cerebrale, ma mi sono salvato. E' necessario un grande rispetto per la montagna, non sfruttiamola fino all'ultimo: è una risorsa di spiritualità per tutta l'umanità».

LO SCIOPERO DEI TASSISTI BLOCCA LE CITTÀ

Ieri e oggi città italiane paralizzate per lo sciopero dei tassisti, che vogliono impedire ogni concorrenza al loro monopolio. L’editoriale di Domani è firmato da Selvaggia Lucarelli.

«Per quasi due anni, a singhiozzo, i taxi sono rimasti fermi a causa della pandemia, hanno avuto i loro sussidi dallo stato, non hanno potuto contare su turismo e normale mobilità. Eppure, da settimane, con le città piene di turisti, non fanno che scioperare. Beati loro, verrebbe da dire, perché è evidente che possono concedersi il lusso di farlo. Un lusso curioso, visto che dichiarano al fisco poco più di mille euro al mese (non sono obbligati a emettere ricevuta fiscale e pagano le tasse in base a studi di settore) e comprano licenze che ne costano 180mila. Con lo sciopero (l'ultimo è di ieri e oggi) i tassisti intendono opporsi a quell'articolo 10 che riguarda «l'adeguamento dell'offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante piattaforme tecnologiche per l'interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». La solita storia: i tassisti presidiano il loro fortino, non vogliono concorrenza, Uber è il male e così via. Naturalmente ammantano la loro arroganza di nobili ragioni: «È una risposta a chi pensa di svendere la funzione di servizio pubblico che svolgiamo», «ci batteremo fino all'ultimo respiro contro i parassiti che vorrebbero sottrarci il frutto della nostra fatica». «È la lotta di 40mila lavoratori contro la speculazione finanziaria», dicono. Commovente. Soprattutto quando parlano di servizio pubblico. Chissà se è servizio pubblico lasciare persone a piedi di notte, con la pioggia, perché senza contanti. Lasciare i turisti in fila all'aeroporto se non hanno i cento euro nel portafogli (ora ci sono le sanzioni, vedremo quanto funzioneranno). Chissà se è servizio pubblico non accettare determinate corse dagli aeroporti perché non sono vantaggiose o farle pagare cifre irragionevoli. Chissà se è normale alzare le corse fisse da e per gli aeroporti, lamentarsi delle commissioni alle banche come fossero l'unica categoria in Italia a pagarle. Chissà se è normale che non ci siano taxi a sufficienza nei weekend di sole o accompagnare i clienti al bancomat, urlando che devono prelevare perché loro non regalano soldi alle banche. Chissà se è normale che in questi giorni alcuni tassisti in sciopero aggrediscano i colleghi che vogliono lavorare, li costringano a lasciare i clienti a un isolato dalle stazioni per non farsi vedere dai colleghi furiosi. Ad alcuni, per ritorsione, sono state staccate le targhe, ad altri gli specchietti, con tanto di minacce. Di sicuro non è normale che fino a oggi il governo abbia sempre piegato il capo agendo per il vantaggio dei tassisti anziché per il bene dei cittadini. Mi aspetto che Draghi - uno che ha l'aria di decidere lui il prezzo della corsa - non si lasci intimorire da scioperi, cori e striscioni. È ora di aprire il mercato e chiudere definitivamente lo sportello dei taxi che si spacciano per servizio pubblico, ben attenti a tutelare solo il privato».

ALPINI SCAGIONATI, NON CI SONO PROVE

Seicento donne avevano denunciato molestie a Rimini all’adunata degli alpini. Ma la denuncia in sede penale era stata solo una. Ed ora la Procura di Rimini ne ha chiesto l’archiviazione. Alessandro Fulloni per il Corriere.

«La domanda posta dal collettivo femminista «Non una di meno» nel sondaggio online era stata più o meno questa: «All'adunata degli alpini a Rimini siete state molestate?». Circa 600 donne avevano cliccato una risposta netta: «Sì». Oltre 170 avevano deciso inoltre di inviare testimonianze più dettagliate, descrivendo ciò che avevano visto tra il 5 e l'8 maggio, al raduno nazionale delle penne nere: complimenti grevi, proposte oscene e gesti offensivi, palpeggiamenti. Alla fine però era stata una sola la denuncia presentata in Questura. E ieri la Procura di Rimini ha chiesto l'archiviazione dell'indagine sulle molestie segnalate da una ventiseienne che ha detto di essere stata avvicinata, circondata e strattonata da tre «bocia» ubriachi nei pressi di un bar sul lungomare.
Alla base della decisione presa dalla procuratrice Elisabetta Melotti ci sarebbe l'impossibilità di identificare i presunti autori del violento approccio. Un accertamento reso difficile per la presenza di una folla numerosa in strada e per la copertura parziale delle telecamere di sorveglianza in zona. Inoltre la vittima e l'unica testimone oculare, una sua amica, non sarebbero state in grado di riferire altri particolari utili all'inchiesta. Sarà il gip, adesso, a decidere se accogliere la richiesta della Procura. L'avvocata della donna, che preferisce mantenere il riserbo, dice di «non essere stupita. La denuncia era doverosa: alla mia cliente hanno messo le mani addosso ma era ovvio che l'identificazione fosse complicata. Nulla, comunque, contro il corpo degli alpini». Dunque il caso che aveva fatto discutere tutta Italia, rimbalzando su giornali e tv, si chiude qui? Con ogni probabilità sì anche se da «Non una di meno» - il collettivo che assieme a «Casa Madiba» e «Pride off» ha catalogato le segnalazioni di «catcalling» - ripetono, come peraltro già ribadito un paio di mesi fa, che il team dei loro legali «sta lavorando ad altre denunce che saranno presentate presto». Quanto alla richiesta di archiviazione «non siamo meravigliate. Queste notizie sono date per disincentivare le donne a denunciare» sostiene una delle attiviste, Paola Calcagno. Che poi se la prende ancora con gli alpini: «Volevamo da parte loro un'autocritica e non c'è stata. Ora, anzi, sono loro che vogliono le nostre scuse e ci attaccano, insultandoci e minacciandoci». La vede esattamente all'opposto Sebastiano Favero, il presidente dell'Associazione nazionale alpini che pure dopo l'adunata, parlando al Corriere, aveva «chiesto scusa a quelle ragazze». Ora però, «con grande amarezza», osserva: invece di generalizzare «su un'intera associazione bisognava essere più cauti. Invece, purtroppo, si sono sparate sentenze senza avere alcuna prova». La polemica politica resta comunque tutta in piedi. Elena Donazzan, l'assessore della Regione Veneto (Fratelli d'Italia) che aveva dichiarato di essere «contenta se uno mi fischia dietro», sostiene che la richiesta d'archiviazione «scrive la parole fine su questa ignobile vicenda: è rimasto però il fango, che pesa sui cuori dei nostri alpini e delle loro famiglie». Non dissimile ciò che si domanda la deputata leghista Laura Ravetto: «Ora la sinistra chiederà scusa alle penne nere?». Scuote la testa la senatrice del Pd Valeria Valente, avvocata e presidente della commissione Femminicidio: «Il sottotesto scandaloso delle dichiarazioni della destra è che le ragazze hanno inventato. È proprio questa la cultura che sta dietro alla violenza sessuale e di genere. C'è poco da esultare: la Procura ha solo detto che non è stato possibile, nella folla, individuare con precisione gli autori delle molestie. Ma non che queste molestie non ci sono state».

LA CHIESA DI ZUPPI È QUELLA DELL’ACCOGLIENZA

Attenzione ai più fragili, lotta agli abusi, accoglienza e cittadinanza nel discorso con cui il presidente della Cei, il cardinal Matteo Zuppi, ha aperto il Consiglio permanente dei Vescovi italiani. La sua è una «Chiesa in dialogo con tutti». L’intervento pubblicato da Avvenire.  

«Attenzione alla persona, comunione e rinnovamento sono state le tre parole chiave dell'indirizzo di saluto che il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei ha rivolto in apertura della sessione straordinaria del Consiglio episcopale permanente, che si è svolta ieri in videoconferenza. «Credo che le attese, espresse in tanti modi all'inizio della Presidenza, ci coinvolgano tutti», ha affermato ricordando «con stima e riconoscenza » tutti i predecessori, in particolare «il cardinale Poletti, che mi ha visto giovane prete nella sua Chiesa di Roma, il cardinale Ruini, il cardinale Bagnasco e il cardinale Bassetti dal quale ereditiamo uno spirito di serena e appassionata fraternità».
Nel ricordo di suor Dell'Orto Il primo pensiero del cardinale è andato a «quanti con semplicità, dedizione, silenziosamente offrono la vita per amore del Vangelo, vivendo la vocazione di tutti i cristiani a lasciare tutto e seguirlo ovunque ». Il presidente ha quindi ricordato «con emozione e senso di riconoscenza e debito » suor Luisa Dell'Orto, Piccola sorella del Vangelo di Charles de Foucauld, uccisa sabato 25 giugno a Port-au-Prince, ad Haiti, che da vent' anni viveva «in una terra segnata dalla povertà e dalla violenza» e «continuava, con tanta tenerezza, a non essere rassegnata o cinica come facilmente avviene confrontandosi con una situazione così disastrata». «Con lei - ha aggiunto - vorrei ricordare tutti i nostri missionari e missionarie che restano in tanti Paesi spesso teatro della guerra mondiale così poco ricordata. Li portiamo nel cuore e nelle pandemie del Covid e della guerra ci aiutano loro a capire dove sta la Chiesa e ci ricordano l'unico necessario, strappandoci dalla tentazione di chiuderci, accontentarci di laboratori e interpretazioni colte che non si relazionano con la sofferenza e l'urgenza della vita reale». Insieme alle donne e agli uomini del nostro tempo Di fronte a questi «segni dei tempi drammatici», ha continuato, «sentiamo la necessità di non fare mancare il nostro aiuto alla costruzione di una società più umana e giusta, abitata dalla fraternità. Ma, per questo, non basta solo esortare o deprecare; occorre invece contribuire positivamente con la riflessione, la cultura, la competenza, il coraggio evangelico». Secondo il cardinale presidente, «siamo chiamati a un rinnovamento. Ce lo richiedono con urgenza e determinazione - ha spiegato - la sofferenza e la povertà della nostra gente, acuite dall'isolamento e da un tessuto di relazioni così lacerato. Non voglio dimenticare gli anziani, tutti i fragili, come i giovani che non escono di casa e le tante persone con problemi psichiatrici. I poveri sono sempre all'origine della vocazione della Chiesa e la Chiesa è di tutti se è particolarmente dei poveri». Richiamando le parole di papa Francesco al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, il presidente ha incoraggiato a dare vita a una «Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». «Non abbiamo - ha sottolineato - una nostra vicenda a parte, nel recinto delle nostre istituzioni, ma c'è una storia in comune con le donne, gli uomini, i poveri, i popoli del nostro tempo. A volte è più faticosa, certamente rischiosa, ma è quella indicata da Gesù che ci manda per strada fino agli estremi confini della terra. Solo così la Chiesa saprà comunicare l'unica Verità che è sempre Gesù, via e vita. Altrimenti parla a se stessa e tradisce il suo mandato». Il dramma della guerra Nel suo intervento, il cardinale Zuppi non ha mancato di fare riferimento alla guerra che «riempie il cuore di incertezze per i rischi imprevedibili che porta con sé». La guerra «è una pandemia terribile, che rivela anche tante complicità, omissioni, rimandi, la inquietante facilità con cui il suo incendio può distruggere la vita normale delle persone. Non basta solo esortare o deprecare, ma occorre contribuire positivamente con la riflessione, la cultura, la competenza, il coraggio evangelico. La guerra, in questo mondo dalle connessioni globali, si contagia anche a Paesi lontani, come vediamo con la preoccupante crisi alimentare, che metterà in gravissima difficoltà tutte le economie, specie quelle del Sud del mondo. Questo comporta anche gravi conseguenze sociali nel nostro Paese che ci responsabilizzano e che richiedono interventi dello Stato e maggiore solidarietà. Dobbiamo attrezzarci a questa situazione di emergenza anche in Italia per i nuovi bisogni e le povertà che si apriranno. E questo richiede un rinnovato e responsabile senso di unità e di ricerca del bonum comune, capace di mettere da parte approcci ideologici sterili e pericolosamente opportunistici, interessi di parte, polarizzazioni controproducenti e di contribuire ciascuno con la propria visione, ma nella consapevolezza di un destino che ci unisce. Le prossime scelte segneranno la vita della nostra gente per molto tempo! Sarà necessario anche rinvigorire e riorientare la nostra azione di solidarietà, come Chiesa in Italia, in tante parti del mondo che saranno toccate drammaticamente dalla crisi economica e alimentare, aggiornando ai bisogni e alle emergenze il nostro modo di aiutare ed essere vicini». Migrazioni e cittadinanza Una delle sfide su cui anche la Chiesa è chiamata a misurarsi è quella del fenomeno migratorio, un tema «sempre seguito con attenzione dalla Cei». «La migrazione - ha osservato il cardinale - è stata troppo a lungo affrontata come fenomeno emergenziale o con approccio ideologico, mentre rappresenta un fatto strutturale della società e richiede un approccio umanitario, realistico, istituzionale, di sistema e di visione del futuro per difendere e onorare la propria identità». In questo senso, «concedere la cittadinanza italiana ai bambini che seguono il corso di studi con i nostri ragazzi - il cosiddetto ius scholaeoius culturae- deve suscitare delle idee e non delle ideologie per trovare le risposte adeguate». Nel ricordare che su tale istanza la Cei si è espressa da tempo, ha fatto riferimento a quanto pronunciato dal cardinale Angelo Bagnasco nel 2013 quando affermava che «è in gioco il diritto fondamentale della persona che in quanto tale deve essere salvaguardato ». Senza dimenticare l'appello di Benedetto XVI che, nel Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2013, invitava «ad evitare il rischio del mero assistenzialismo, per favorire l'autentica integrazione, in una società dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell'altro, generosi nell'assicurare apporti originali, con pieno diritto di cittadinanza e partecipazione ai medesimi diritti e doveri». Secondo il presidente inoltre è indispensabile «una politica nuova della famiglia e dell'accoglienza, che permetta di uscire dal precariato, dall'incertezza e promuova uno sguardo fiducioso nel futuro». La persona al centro L'attenzione alla persona, sia in termini di solidarietà concreta verso quanti sono in difficoltà sia di richiesta di nuove politiche di accoglienza e cittadinanza, abbraccia poi il tema del fine vita e degli abusi. «Sarà necessario - ha affermato il presidente della Cei - intervenire con chiarezza su alcune priorità per la difesa della persona, sempre e chiunque, anche con la necessaria interlocuzione con la politica. Tra le priorità desidero menzionare quella degli abusi e la necessità di essere conseguenti agli impegni presi, nella trasparenza delle risposte, assumendoci, come deve essere, la piena responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini, migliorando se necessario gli strumenti già decisi. Ci aiuteranno professionisti che sono e saranno chiamati a verificare il nostro lavoro, sia a livello centrale come diocesano, verso i quali sospetti di compiacenza sono offensivi per la loro professionalità». Nelle pieghe della società «Il nostro - ha rimarcato il cardinale - è un Paese di donne e uomini generosi. Sappiamo quanto è vasto l'impegno di solidarietà e di amicizia con i più poveri, spesso nascosto nelle pieghe della nostra società. Sono 'segni' di questo tempo, che ci invitano a essere più attenti, meno rassegnati. Sono uomini e donne di buona volontà, magari non provenienti dai nostri ambienti, con cui dialogare, stringere legami, parlare: risorse di speranza e di fraternità. La Chiesa, formata dal Cammino sinodale, è chiamata tutta a entrare in dialogo con questi uomini e donne », ha detto il presidente della Cei che ha concluso il suo indirizzo di saluto citando padre Pino Puglisi, ucciso nel 1993 a 56 anni, «parroco che a partire dai ragazzi voleva cambiare i cuori e la vita dei giovani e dei suoi fedeli a Palermo» e confidando il desiderio di recarsi, all'inizio del suo mandato, a Brancaccio e sulla tomba di don Primo Mazzolari».

ARRESTATO IL KILLER USA DEL 4 LUGLIO

Le  notizie dall’estero. È stato arrestato il killer del 4 luglio di Chicago. Pianificava l'attacco alla parata dell’Indipendence Day da settimane. Marina Catucci per il Manifesto.

«Robert E. Crimo III ha 21 anni, non 22, come era stato detto inizialmente, ed è l'uomo fermato dalla polizia come sospetto del mass shooting di Chicago durante la parata del 4 luglio. Il giorno dopo la sparatoria i funzionari locali hanno dipinto un'immagine più dettagliata degli eventi: l'attacco era stato pianificato da settimane, il 4 luglio Crimo si è vestito con abiti femminili per nascondere la sua identità, ha portato con sé un fucile semiautomatico e si è arrampicato su una scala antincendio fino al tetto di un'azienda, da dove ha aperto il fuoco, sparando più di 70 proiettili, per poi fuggire mimetizzandosi nella folla terrorizzata. Come molti altri prima di lui, anche il killer di Chicago è un giovane uomo bianco, aveva acquistato il fucile legalmente e ne aveva un secondo, ritrovato a bordo dell'auto di sua madre, di cui era alla guida quando è stato arrestato lunedì sera, circa 8 ore dopo l'attacco. Crimo era un musicista ed aveva pubblicato le sue canzoni su diverse piattaforme di streaming con lo pseudonimo di Awake the Rapper, ed aveva realizzato e pubblicato video musicali dai testi inquietanti e con scene di violenza armata. In uno di questi video il protagonista è la figura stilizzata di un cecchino simile a Crimo, e afferma: «Devo farlo e basta. È il mio destino». La violenza di questa sparatoria ha sconvolto una comunità solitamente pacifica: «Ho visto ferite che di solito si vedono su vittime di guerra - ha detto al Washington Post Debra Baum, una medica che si trovava alla parata e che ha prestato i primi soccorsi - Le persone sono esplose, morte all'istante. Questi sono gli effetti delle armi semiautomatiche. Io non andrò più a eventi collettivi di nessun tipo, e ho paura per mio nipote quando va a scuola». Questa paura è un pensiero che serpeggia in tutti gli Usa, e in più città il 4 luglio ci sono state scene di caos dovuto al rumore dei fuochi d'artificio, scambiati per spari. La folla si è fatta prendere dal panico ed è scappata a Orlando in Florida, Harrisburg in Pennsylvania, Washington DC, mostrando una nazione al limite della nevrosi, a seguito di quella che i media chiamano l'ondata di sparatorie di massa. «È devastante che la celebrazione dell'America sia stata fatta a pezzi da questa nostra peste americana ha detto il governatore dell'Illinois JB Pritzker - Celebriamo il 4 luglio solo una volta all'anno, mentre le sparatorie di massa sono diventate una tradizione americana settimanale». Il sindaco di Filadelfia Jim Kenney si è detto esasperato per le leggi statunitensi sul controllo delle armi che sono tuttora troppo deboli. «Sono preoccupato ogni singolo giorno, sarò felice quando non sarò più sindaco. Bisogna fare i conti con ciò che è questo paese in questo momento, con chi ha una pistola e probabilmente non avrebbe dovuto averla». L'esasperazione collettiva e la frustrazione per l'impossibilità di avere leggi più restrittive si ritrovano nelle dichiarazioni furiose dei politici democratici. Biden ha chiesto le bandiere a mezz' asta, mentre il Gop ha inviato «pensieri e preghiere» chiedendo di «non politicizzare una sparatoria». Un copione già visto troppe volte a distanza sempre più ravvicinata. Ad aumentare la tensione in un Paese scosso dalle sparatorie sono arrivati da Akron in Ohio più particolari sull'omicidio del ragazzo afroamericano Jayland Walker, disarmato, da parte della polizia. Per timore di scontri, il sindaco di Akron ha dichiarato lo stato di emergenza e ha imposto il coprifuoco al fine di «preservare la pace» nella comunità. «La Polizia è riuscita ad arrestare l’assassino di massa, armato, bianco, Robert Crimo, senza sparare un solo proiettile, ma ne ha sparati 60 contro il disarmato, ma nero, Walker, che stava correndo spaventato», ha fatto notare il portale icona della sinistra Usa Democracy Now. Ad accompagnare questa osservazione, Vice News ha riportato la scoperta del fatto che un dipartimento di polizia appena fuori Detroit, per le esercitazioni di tiro, usa immagini di uomini di colore con felpe, cappuccio e berretti all'indietro. «Questo è letteralmente stigmatizzare gli uomini neri - ha dichiarato l'avvocata Dionne Webster-Cox - È questo ciò a cui vengono addestrati gli agenti di polizia?».

APPELLO IN FAVORE DI ASSANGE

Adolfo Pérez de Esquivel, Premio Nobel per la Pace, ha lanciato un appello per la liberazione di Julian Assange, pubblicato in Italia dal Manifesto.

«Le sofferenze che Julian Assange sta soffrendo per la sua ingiusta detenzione sono provocate dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna che vogliono silenziare e punire un giornalista che ha avuto il coraggio e l'etica professionale di pubblicare informazioni sui crimini commessi dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. Il trattamento inumano, fisico e psicologico, che sta soffrendo in prigione e gli anni di persecuzione gli hanno provocato un deterioramento fisico e psicologico. L'annuncio della sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere, equivale ad una condanna a morte. Le conseguenze di questa politica repressiva, che viola il diritto alla libertà di stampa, puntano a controllare i mezzi di comunicazione. Si vuole far tacere col terrore i giornalisti che provano a dare informazioni sulle violazioni dei diritti umani commessi dagli Stati Uniti e da altre potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Di tutto ciò non si parla, si copre l'impunità dei crimini commessi contro i popoli, minacciando chi li denuncia. È deplorevole che la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, presieduta da Michelle Bachelet, non abbia la forza e gli strumenti giuridici per difendere la libertà di stampa, impedire l'estradizione di Assange e chiedere la sua liberazione.
Le Nazioni Unite devono essere trasformate e democratizzate. Attualmente questo organismo non ha la possibilità di agire e di difendere la pace e la vita dei popoli e delle persone
. È un faro spento che ha bisogno della forza e della volontà dei popoli per essere nuovamente acceso e tornare ad illuminare l'umanità. Mi appello ancora con forza alle associazioni di giornalisti, al mondo della cultura, ai giuristi, alle organizzazioni per i diritti umani: non rimanete indifferenti, alzate la vostra voce e chiedete la liberazione di Julian Assange».

LA MEDAGLIA FIELDS AD UNA MATEMATICA UCRAINA

Una donna ucraina è la seconda donna nella storia a ricevere la medaglia Fields, il più importante risconoscimento mondiale per gli studiosi di matematica. Dal sito di Repubblica.it.

«E' la seconda donna nella storia a ricevere la medaglia Fields, il maggiore riconoscimento mondiale per la matematica, una sorta di premio Nobel per i ricercatori del settore sotto i quarant'anni. E ha un significato ancora più importante in questo momento perché ad aggiudicarsela è stata la matematica ucraina Maryna Viazovska. Insieme a lei, sono stati premiati altri tre colleghi: il francese Francais Hugo Duminil-Copin, il coreano-americano June Huh e il britannico James Maynard. Maryna Viazovska, titolare della cattedra di teoria dei numeri presso l'Istituto Federale Svizzero di Tecnologia di Losanna, è la seconda donna nella storia, da quando il premio è stato istituito nel 1936, dopo l'iraniana Maryam Mirzakhani nel 2014, a ricevere la medaglia Fields (International Medal for Outstanding Discoveries in Mathematics), che viene assegnata ogni quattro anni. Si tratta dunque di un altro passo storico, che riconosce e premia la qualità della ricerca di una donna in matematica. La scienziata ucraina ha ricevuto il riconoscimento per i suoi risultati nella soluzione del problema dell'impacchettamento di sfere in otto dimensioni: un problema, quello dell'impacchettamento ottimale di sfere identiche, che era stato posto da Keplero oltre 400 anni fa. "La leggenda vuole che nasca dalla domanda, 'quante palle di cannone possono entrare nella stiva di una nave'?", ha spiegato Viazovska che da anni veniva indicata come una possibile vincitrice del 'Nobel' della matematica. "Sono di Kiev. E a febbraio la mia vita è cambiata per sempre, non solo per me ma per tutte le persone del mondo, e in particolare per le persone nel mio Paese. Spesso diamo per scontate le cose belle della nostra vita e la pace è una delle cose che ho sempre dato per scontato. Ora capisco quanto mi sia sbagliata", ha dichiarato Viazovska, in un video pubblicato su YouTube dall'Unione matematica internazionale alla vigilia dell'apertura del Congresso internazionale di matematici che avrebbe dovuto tenersi a San Pietroburgo, ma che dopo l'inizio della guerra è stato spostato online. Viazovska ha 38 anni, si è laureata all'Università di Kiev "Taras Shevchenko" e ha proseguito i suoi studi al politecnico di Kaiserslautern. Ha conseguito il dottorato nel 2013 a Bonn. Si è trasferita poi all'Institut des Hautes Etudes Scientifiques, alla Humboldt University di Berlin, a Princeton e dal 2017 è a Losanna».

IL PAPA: L’ACCORDO CON LA CINA VA BENE

Nell’intervista all’agenzia Reuters Papa Francesco ha difeso l’intesa provvisoria con la Cina che ha riportato alla piena comunione con Roma i vescovi nominati senza il mandato papale. «L'accordo va bene, spero venga rinnovato». Gianni Cardinale per Avvenire.

«Per papa Francesco l'Accordo Provvisorio della Santa Sede con la Repubblica Popolare Cinese stipulato nel 2018 «va bene» e spera che possa essere rinnovato il prossimo ottobre. Lo ha spiegato nell'intervista rilasciata a Phil Pullella dell'agenzia Reuters. Nel riprendere le dichiarazioni del Pontefice i media vaticani ricordano che «grazie» all'Accordo, il cui testo è «al momento riservato», si «è sanata la situazione della Chiesa cattolica in Cina riportando nella piena comunione con Roma i vescovi nominati senza il mandato papale». L'Accordo poi «prevede un percorso condiviso per arrivare alla nomina dei nuovi vescovi» lasciando «al Pontefice l'ultima parola». Nell'intervista Francesco ha fermamente difeso l'accordo che pure è stato criticato da alcuni esponenti della Chiesa cattolica, tra cui il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong. Lo ha fatto esprimendo innanzitutto apprezzamento per il ruolo svolto dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. «Chi porta avanti questo accordo - ha detto - è il cardinale Parolin che è il migliore diplomatico della Santa Sede, un uomo di alto livello diplomatico. E lui sa muoversi, è un uomo di dialogo, e dialoga con le autorità cinesi. Credo che la commissione che lui presiede ha fatto di tutto per porta- re avanti e cercare una via di uscita e l'hanno trovata». Francesco ha quindi difeso la politica dei piccoli passi, quel «martirio della pazienza» di cui parlava il cardinale Agostino Casaroli, artefice dell'Ostpolitik vaticana verso i regimi comunisti dell'Europa dell'Est allora nel blocco sovietico. «Molti hanno detto tante cose contro Giovanni XXIII, Contro Paolo VI, contro Casaroli - ha spiegato il Papa -. Ma la diplomazia è così. Davanti a una situazione chiusa bisogna cercare la strada possibile, non ideale, la diplomazia è l'arte del possibile e fare che il possibile divenga reale. La Santa Sede ha sempre avuto questi uomini grandi. Ma questo con la Cina lo porta avanti Parolin, che in questo punto è un grande». Paragonando la situazione attuale a quella precedente al 1989, Francesco ha detto che la nomina dei vescovi in Cina dal 2018 procede sì lentamente, ma i risultati non mancano. «Si va lentamente ma (dei vescovi, ndr) sono stati nominati. Si va lento, come dico io, "alla cinese", perché i cinesi hanno quel senso del tempo che nessuno li affretta». «Anche loro hanno dei problemi», ha aggiunto Francesco, facendo riferimento ai diversi atteggiamenti delle autorità locali cinesi nei confronti della Chiesa, «perché non è la stessa situazione in ogni regione del Paese. Perché anche dipende dai governanti, ce ne sono diversi. Ma l'accordo va bene e mi auguro che a ottobre si possa rinnovare». L'Accordo provvisorio tra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi è stato stipulato il 22 settembre 2018 ed è entrato in vigore un mese dopo. Con valore biennale è stato rinnovato il 22 ottobre 2020 per altri due anni. Lo scorso aprile in una intervista ad Andrea Gagliarducci per Acistampa il cardinale Parolin aveva rivelato che la pandemia aveva interrotto «il dialogo in corso» con la Cina. «Ora - aveva aggiunto - stiamo cercando di riprendere il dialogo in maniera concreta, con incontri che speriamo avvengano il prima possibile e in cui si rifletterà sui risultati dell'accordo ed eventualmente sulla necessità di fare precisazioni o rivedere alcuni punti ». «Quindi - aveva chiesto l'intervistatore - lei pensa che si potrebbe rivedere in qualche modo qualcosa dell'accordo?». «Lo spero», la risposta del porporato. Dopo la firma dell'Accordo sono stati 6 i nuovi vescovi nominati in Cina: a Jining e a Hanzhong nel 2019 (in questi due casi i candidati erano stati già accettati dalla Santa Sede anni prima); a Qingdao e a Hongdong nel 2020; a Pingliang e a Hankou-Wuhan nel 2021».

A COMPOSTELA PER LA PACE DAL 3 AL 7 AGOSTO

Un migliaio di ragazzi italiani si prepara a vivere dal 3 al 7 agosto l'evento internazionale che anticipa la Gmg di Lisbona 2023. E a lanciare al Vecchio Continente un messaggio di pace. Stefania Careddu per Avvenire.

«Percorrere la via della pace non è solo auspicabile, ma è possibile. Lo dimostreranno, in modo plastico, i partecipanti al Pellegrinaggio europeo dei giovani che, da diverse nazioni e attraverso numerosi itinerari, si ritroveranno insieme a Santiago di Compostela per questo importante raduno in programma dal 3 al 7 agosto. Anche i ragazzi italiani, circa mille, sono pronti a fare la loro parte e si preparano a vivere un'esperienza che, oltre a segnare la ripresa degli eventi internazionali e anticipare la Gmg di Lisbona del prossimo anno, assume un significato particolare per l'attuale momento storico. Mentre infatti il Vecchio Continente è tornato ad essere teatro di una guerra che da mesi semina morte, dolore e distruzione, da Santiago arriverà un messaggio di unione e di speranza. «Dopo due conflitti mondia-li, avevamo dato per scontato che a casa nostra ci fosse la pace. Ci siamo invece svegliati con lo shock della guerra, come ci ricordano le immagini e il fatto che si parli di armi, negoziati e sanzioni. Con il pellegrinaggio, l'Europa si ritrova unita, su sentieri di pace, nello spirito autentico che ha costituito l'Unione», sottolinea don Luca Ramello, incaricato della pastorale giovanile del Piemonte, che guiderà in Portogallo la delegazione regionale. «Saremo un centinaio e partiremo in due gruppi: uno dal 1° al 9 agosto e l'altro dal 3 all'8. Percorreremo la variante spirituale del Cammino portoghese che costeggia l'Oceano e risale lungo il fiume che, secondo la tradizione, ha percorso il corpo di san Giacomo arrivando dalla Palestina», spiega don Ramello annunciando che per l'occasione verrà approntata un'App dove caricare materiali e informazioni. «Quella di Santiago - osserva - è un'esperienza fisica, ma anche mentale e spirituale: per noi sarà una vera scuola di Sinodo perché sperimenteremo la bellezza del camminare insieme, nella fatica e nelle differenze, ma uniti dalla fede». «Per molti giovani sarà qualcosa di nuovo, da scoprire, anche perché di solito a Santiago ci si va in piccoli gruppi, mentre stavolta saremo tantissimi», afferma don Gilberto Filippi, incaricato della pastorale giovanile di Lucca, che insieme all'arcivescovo Paolo Giulietti, accompagnerà 35 ragazzi prima in Spagna e poi lungo i 120 chilometri dell'itinerario meno conosciuto "A Orixe" che da Ribeira conduce a Santiago. Per cominciare a «fare subito squadra» è in calendario un incontro di preparazione che permetterà ai partecipanti, provenienti da vari luoghi e realtà della diocesi, di conoscersi. «Mettersi in cammino, stare insieme e confrontarsi su diversi temi è bello e significativo. Lo è ancora di più - rimarca don Filippi - in questo tempo di guerra». Al pellegrinaggio non potevano mancare i ragazzi di Pistoia che condividono con la città della Galizia il culto dell'apostolo Giacomo. Partiranno il 26 luglio, cioè il giorno successivo alla chiusura della Porta Santa a conclusione dell'Anno Santo iacobeo, e si incammineranno lungo la via portoghese. «Ci sentiamo talmente legati a Santiago che è stato del tutto spontaneo aderire alla proposta del vescovo Fausto Tardelli », confida l'incaricato diocesano, padre Simone Panzeri. «Il 18 luglio, in Cattedrale, ci sarà la consegna delle Credenziali, un segno - evidenzia - che ci lega ai pellegrini medievali e che dà significato al percorso: non si tratta infatti di affrontare qualcosa di sportivo o un mero esercizio fisico, ma di vivere un'esperienza profonda di fede». «C'è voglia di avventura, ma anche tanta sete spirituale e il desiderio di fare un cammino che è, innanzitutto, interiore», gli fa eco don Cristiano Orezzi, incaricato di Tortona, capofila della delegazione della Liguria, formata da una ventina di giovani. «Partiremo il 27 luglio e raggiungeremo Vigo per percorrere il tratto portoghese: in cinque giorni arriveremo a Santiago e sulla via del ritorno faremo tappa a Lourdes», racconta il sacerdote sottolineando che «l'incontro con i coetanei europei sarà anche l'occasione per i ragazzi di mostrarsi controcorrente rispetto alla logica della guerra e di esprimere il desiderio di costruire fraternità, che è la missione dei cristiani». Non a caso, l'essere discepoli sulle orme degli apostoli è il tema del viaggio degli oltre 70 giovani ambrosiani che arriveranno nella città della Galizia in due gruppi, attraverso i cammini francese e portoghese. «Siamo pronti a fare una bella esperienza di Chiesa, insieme all'arcivescovo Mario Delpini che l'11 agosto nella Cattedrale celebrerà per noi la Messa », dice don Marco Fusi, incaricato della pastorale giovanile di Milano. «Il pellegrinaggio aiuta a riconoscere la voce dello Spirito nella propria vita e a rileggere ciò che viviamo, prima con la pandemia e ora con la guerra», aggiunge il sacerdote. «La figura degli apostoli - conclude - ci unisce al mondo orientale, con cui condividiamo la stessa radice della fede dalla quale sogniamo di ripartire per superare questa guerra. Sono proprio queste radici comuni che ci appartengono e che possono tenerci insieme, a prescindere da culture, tradizioni e idee diverse».

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