Ancora Trump
L'ex presidente vince in New Hampshire, destino segnato. Spunta Michelle. Hamas rifiuta la tregua. Il Senato approva l'Autonomia differenziata. Io capitano di Garrone corre per l'Oscar
Hamas rifiuta la prima proposta di tregua avanzata da Israele, su pressione degli Usa e della Ue. Secondo quanto riporta oggi il Manifesto, il gruppo terroristico vorrebbe una tregua permanente e non limitata a soli due mesi. Il Qatar confida però che un accordo potrebbe comunque essere imminente. Intanto nella Knesset, il Parlamento israeliano, cresce la preoccupazione per il destino degli ostaggi, dopo che sono state ascoltate le testimonianze di alcuni rapiti liberati. Rapiti che hanno riferito delle ripetute violenze ai danni dei sequestrati. Sul terreno ieri 24 soldati israeliani sono morti nella giornata in cui l’esercito ha lanciato il più imponente attacco dell'ultimo mese per prendere integralmente il controllo della città di Khan Yunis, nel sud della Striscia.
La presidente dell'Ucei Noemi Di Segni ha parlato ieri della Giornata della Memoria di sabato prossimo in una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Di Segni ha confermato la presenza dei rappresentanti dell’ebraismo alle varie iniziative ma ha chiesto «il rispetto dell'unicità del Giorno della memoria, sancito con legge dello Stato e dedicato al ricordo del dramma della Shoah. Tutte le altre tragedie, guerre, dolori, per quanto importanti, meritano un altro tipo di attenzioni e analisi in altri giorni». Non si può «abusare di questo giorno, facendo girare locandine che ne distorcono completamente il significato».
L’Italia parteciperà alla missione militare navale nel Mar Rosso e il parlamento si pronuncerà su di essa, dicono ora i ministri Tajani e Crosetto. In un primo tempo era trapelata l’intenzione di Giorgia Meloni di non votare. A proposito di voti parlamentari, oggi Il Fatto dà grande rilievo ad un Ordine del giorno presentato dai leghisti sulla guerra in Ucraina.
Primo sì alla riforma della autonomia differenziata: il Senato ha approvato, aprendo una nuova stagione. Bagarre canora in Aula sull’Inno di Mameli fra maggioranza e opposizione. Cesare Mirabelli su Avvenire analizza i rischi di uno schema di decentramento che può fallire o riuscire a seconda dell’attuazione pratica che se ne farà. Il Corriere della Sera prova a schematizzare in dieci domande e risposte il contenuto della riforma autonomistica. Le opposizioni promettono battaglia sullo “spacca Italia”.
Interessante intervento di Stefano Zamagni su Avvenire che avverte: c’è anche in Italia una nuova ondata di violenza e di odio contro i poveri e gli ultimi, frutto della decadenza culturale del “singolarismo”, estremizzazione dell’individualismo.
Il New Hampshire regala una storica vittoria a Donald Trump nel campo repubblicano. Mai nessuno aveva vinto con oltre il 50 per cento le primarie nei primi due Stati. Nikki Haley per ora non si ritira ma il suo destino appare segnato. In campo democratico torna l’ipotesi di una candidatura di Michelle Obama al posto dell’uscente Biden. Avrebbe più chance contro The Donald?
La Versione di oggi si conclude con le nomination per i prossimi Oscar del Cinema. C’è anche l’Italia, grazie alla presenza nella cinquina dei film stranieri per Io capitano di Matteo Garrone. Poi tantissime candidature per Oppenheimer e qualcuna anche per Barbie e Maestro.
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
Questa immagine ritrae il bus delle primarie di Donald Trump. L’ex presidente Usa fa un bis storico vincendo anche le primarie repubblicane in New Hampshire con oltre il 50%, ipotecando ormai la nomination per la Casa Bianca. Il distacco dalla seconda, Nikki Haley, è a più del 10 per cento, con l’82% delle schede scrutinate.
Foto Mark Peterson per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il risultato della nuova vittoria di Donald Trump nel New Hampshire è arrivato di notte. Dunque il Corriere della Sera punta alla riforma: Sì all’Autonomia, è scontro. Così come La Stampa: Regioni, via all’Autonomia. Pd e 5Stelle: Paese a pezzi. Avvenire si chiede: Più autonomi o più soli? Per Libero la legge è giusta: Più autonomia, meno sprechi. Per Il Giornale è un: Primo colpo allo statalismo. Il Quotidiano Nazionale nota: Sì all’autonomia, proteste in Senato. Il Domani si concentra sulle conseguenze: Medici e pazienti, sarà fuga dal Sud. Il governo uccide la sanità per tutti. Il Manifesto usa l’ironia, alludendo al separatismo veneto: State serenissimi. Si barrica La Repubblica nella polemica diretta contro la premier: Voglia di censura. Il Fatto esalta un ODG leghista contro il sostegno all’Ucraina: Lega contro Meloni: «Kiev non può vincere, basta armi». Il Messaggero tematizza la paralisi dei commerci: Mar Rosso, rincari per la crisi. La Verità è sempre in cerca di conferme No Vax: L’Oms tenta la spallata finale per i pieni poteri sulla salute. Mentre Il Sole 24 Ore avverte: L’alta gamma cerca 346mila tecnici entro il 2026 ma per il 50% non li troverà.
L’ANP ATTACCA HAMAS, ASSEDIO A KHAN YUNIS
Da Ramallah arriva il primo messaggio ufficiale contro il gruppo terrorista da parte dell’Anp. Si tratta di una presa di posizione netta che fa intuire l’intenzione di Abu Mazen di tornare in gioco, con il supporto di Usa e Ue. I tank israeliani avanzano a sud: volantini per chiedere ai civili di spostarsi. L’esercito ha intimato ai residenti palestinesi e agli sfollati di lasciare sei aree di Khan Yunis: la città è praticamente circondata. Nello Scavo per Avvenire.
«Sono caduti nella peggiore imboscata dall’inizio della guerra. I 24 soldati israeliani uccisi in un solo giorno da Hamas sono il trofeo che gli estremisti cercavano per rilanciare gli attacchi e mettere sotto pressione i negoziatori. Nelle stesse ore almeno 195 palestinesi sono stati uccisi mentre l’esercito di Gerusalemme sta assediando Khan Yunis e l’intero sud della Striscia, facendo salire il bilancio delle vittime a 25.490, secondo i funzionari sanitari palestinesi. Le Brigate Al-Qassam, ala militare di Hamas, hanno rivendicato l’attacco, spiegando che i primi 21 militari sono stati travolti dalle esplosioni e dai crolli di un edificio che avevano occupato. Altri tre sono stati uccisi a poca distanza nel corso di scontri ravvicinati. Israele ha dichiarato che gli obiettivi a Gaza sono immutati. « Abbiamo vissuto uno dei giorni più difficili dallo scoppio della guerra», ha detto il portavoce dell’esercito Daniel Hagari. Dalle monarchie del Golfo fino al Cairo si rincorrono voci di una possibile svolta negoziale. Israele, secondo fonti mai confermate, avrebbe offerto due mesi di tregua in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi. Hamas, riferiscono fonti vicine ai mediatori cairoti, non sarebbe disposta a scendere sotto i tre mesi. Il Qatar ha confermato che gli sforzi per giungere a un nuovo accordo sono «in corso», ma Eylon Levy, portavoce del governo israeliano, ha risposto precisando ancora che «gli obiettivi della guerra sono rimasti invariati »: distruzione di Hamas e liberazione di tutti gli ostaggi. Da Ramallah, il capoluogo politico della Cisgiordania, arriva però il primo messaggio ufficiale contro Hamas. Fino ad ora l’autorità palestinese (Anp) ha tenuto una posizione da molti definita ambigua. Ma ieri il quotidiano ufficiale dell’Anp Al-Hayat Al-Jadida con un editoriale ha rivolto dure critiche ad Hamas. Una presa di posizione netta che, osservano fonti diplomatiche europee, lasciano intendere come il presidente palestinese Abu Mazen voglia tornare a giocare un ruolo, forte della posizione espressa dagli Usa e dall’Europa, che chiedono di progettare un dopo-guerra assegnando all’Autorità nazionale palestinese un ruolo per la ricostruzione e il governo di Gaza. «Il dominio di Hamas ha dato all’occupazione israeliana l’opportunità di fare esattamente ciò che voleva: prima di tutto – scrive il quotidano dell’Anp –, indebolire l’Autorità palestinese fornendo ad Hamas regolari aiuti finanziari e, in secondo luogo, distruggere tutto ciò che è stato raggiunto nella Striscia, in particolare gli elementi della sovranità palestinese, cioè l’aeroporto e il porto». La strage dei soldati israeliani è avvenuta nel giorno in cui le Forze di Difesa di Gerusalemme (Idf) hanno lanciato la loro più grande operazione militare da un mese a questa parte. Lo scopo dichiarato è quello di impadronirsi di Khan Yunis, la principale città meridionale di Gaza, che ospita centinaia di migliaia di persone. I carri armati israeliani, che avanzano verso ovest in direzione del Mediterraneo, hanno chiuso anche la strada verso la costa. Poche ore prima erano stati lanciati volantini sui campi profughi e sui centri abitati. La popolazione civile di sei aree è stata invitata a spostarsi sulla costa del Mediterraneo. Di fatto non avrebbero altra via di fuga. Neanche Rafah, sul confine con l’Egitto, è raggiungibile. All’Ospedale Europeo di Khan Yunis, dove operano i team d’emergenza con personale internazionale della Croce Rossa, ieri i feriti sono stati portati a dorso d’asino. «Il personale, i pazienti e gli sfollati, terrorizzati, sono ora intrappolati all’interno dei pochi ospedali rimasti rimasti a Khan Yunis – denuncia Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia umanitaria Onu per la Palestina, Unrwa –, mentre continuano i pesanti combattimenti».
ORRORE ALLA KNESSET: IL RACCONTO DELLE VIOLENZE SUGLI OSTAGGI
Le testimonianze di chi è tornato alla Knesset: «Donne stuprate nei tunnel noi trattate come bambole». Il racconto di Aviva. I familiari chiedono di riportare a casa i rapiti a qualsiasi prezzo. Davide Fratini per il Corriere.
«Come bambole. Come burattini. «Ragazzi e ragazze, i terroristi ne facevano quel che volevano». Aviva Siegel è riemersa dalle segrete di Gaza dopo 51 giorni. Da allora ne sono passati 58 e il marito Kieth è ancora là assieme al centinaio di ostaggi considerati in vita dall’intelligence israeliana, almeno 27 sono invece morti in cattività nel periodo passato dall’intesa con Hamas alla fine di novembre dell’anno scorso. Aviva — scrivono i giornali locali — ha parlato alla Knesset su invito di una parlamentare davanti al gruppo per le vittime di violenza sessuale o di genere. Attorno i famigliari di chi è ancora prigioniero, nessun ministro della coalizione di estrema destra al potere. «Siamo stati abbandonati il 7 ottobre e ci lasciano soli ancora una volta. Come osano non partecipare a questi incontri?», esclama Dor, sorella di Doron Steinbrecher. Siegel ha testimoniato di aver visto i carcerieri fondamentalisti portare alle donne «vestiti inappropriati, da bambole. Presto saranno passati quattro mesi da quando sono state sequestrate e non c’è stato un giorno in cui non abbiamo subito un abuso. Anche i maschi stanno ricevendo gli stessi trattamenti». La figlia Shir le è rimasta seduta a fianco: «Sono qui in quanto donna e per sostenere mia madre. Le storie che mi ha raccontato sono estreme, non avete idea di che cosa succeda laggiù. Le ragazze vengono violentate, non abbiamo più l’opzione di restare seduti qui a parlarci educatamente». Shani Yerushalmi — sorella di Eden, portata via al festival rave nel deserto — se la prende «perché non vedo il senso di urgenza»: «Non si rendono conto che il tempo conta per tutti i catturati e ancora di più per le donne? Il premier e i ministri non si preoccupano del fatto che torneranno incinte e passato il limite per interrompere la gravidanza?». I parenti dei prigionieri chiedono che il primo ministro Benjamin Netanyahu accetti di pagare qualunque prezzo per la liberazione. I mediatori americani sono al Cairo in questi giorni per discuterne con gli egiziani e gli inviati del Qatar. John Kirby, il portavoce del consigliere per la Sicurezza nazionale, parla di «colloqui seri e sobri» tra le parti, «non veri e propri negoziati». Secondo l’agenzia Ap , i capi di Hamas hanno rifiutato quella che sarebbe stata l’offerta israeliana: il rilascio dei sequestrati in cambio di un cessate il fuoco di due mesi e della scarcerazione di detenuti palestinesi. I capi dell’organizzazione chiedono che l’esercito si ritiri dalla Striscia prima di qualunque trattativa e mandano il messaggio: «L’obiettivo di eliminarci è un’illusione». David Barnea, il direttore del Mossad, avrebbe proposto nei mesi scorsi ai leader a Gaza come Yahya Sinwar di lasciare il territorio. È l’ipotesi Beirut 1982, quando Yasser Arafat e i suoi uomini armati se ne andarono dalla capitale libanese verso Tunisi dopo un mese e mezzo di assedio da parte degli israeliani».
HAMAS RIFIUTA I DUE MESI DI TREGUA
Il gruppo terrorista avrebbe rifiutato la tregua di due mesi offerta da Israele: vogliono una tregua permanente. Il premier israeliano Netanyahu gioca ancora una volta di astuzia. Sabato Angieri per il Manifesto.
«Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua. Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due mesi nella Striscia, la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi nelle carceri israeliani e la possibilità per i leader di Hamas a Gaza di trasferirsi in altri paesi. In cambio Tel Aviv chiede la liberazione di tutti e 130 gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Stando agli stessi funzionari, tuttavia, i rappresentanti di Hamas hanno rifiutato la proposta. La notizia sembra inaspettata. Da un lato, per alcuni significherebbe che il governo Netanyahu non sta considerando soltanto l’opzione tabula rasa, come ripetono continuamente i rappresentanti dell’esecutivo. Ieri il ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, ha dichiarato: «Questa è una guerra che determinerà il futuro di Israele per i decenni a venire: la caduta dei combattenti ci costringe a raggiungere gli obiettivi della guerra». Anche se Gallant si riferiva specificatamente ai 21 militari israeliani caduti nelle scorse ore, le sue parole non si sono discostate di un millimetro dalla linea dei vertici israeliani. «Sradicare Hamas da Gaza e mettere in sicurezza la Striscia» è il mantra di Netanyahu e del suo governo fin dal giorno seguente agli attacchi terroristici di Hamas. Tra l’altro il premier ieri ha dichiarato: «La mia aspirazione principale è la vittoria totale, niente di meno». Dall’altro, indicherebbe che forse le pressioni internazionali degli Usa e della comunità internazionale e quelle interne starebbero mettendo in difficoltà Bibi. Le immagini dei familiari delle vittime che fanno irruzione in una riunione di commissione al parlamento a Gerusalemme hanno fatto in fretta il giro del mondo. Così come la testimonianza di Aviva Siegel, una degli ostaggi liberati da Hamas che ha raccontato di fronte alla Knesset di aver assistito ad abusi e atrocità subiti dagli ostaggi. «I terroristi portano vestiti che non vanno bene per le ragazze, le vestono come le bambole. Hanno trasformato le ragazze nelle loro bambole, con cui possono fare quello che vogliono», si legge sulle colonne del Times of Israel. Secondo Siegel gli stupri «toccano anche i ragazzi». E intanto le grandi città israeliane compaiono pià spesso cartelli con il volto di Netanyahu insanguinato e la scritta «dimettiti». Le stesse fonti anonime egiziane sostengono che Hamas avrebbe rilanciato con la sua nota richiesta: non verranno rilasciati altri ostaggi finché Israele non metterà fine alla sua offensiva e si ritirerà da Gaza. Il motivo è pratico: la proposta israeliana sarebbe per Hamas un suicidio e Tel Aviv, quando l’ha avanzata, poteva aspettarsi che fosse irricevibile. Perché senza ostaggi la forza ai tavoli diplomatici del gruppo sarebbe ridotta a zero. Hamas punta a un cessate il fuoco permanente, altrimenti tra due mesi l’offensiva non avrà limite alcuno. In ogni caso Israele non commenta le indiscrezioni sulle trattative. Ma due conferme indirette ci sono. Secondo la Cnn, il capo del Mossad (i servizi segreti israeliani), David Barnea, avrebbe proposto che i leader di Hamas vengano esiliati dalla Striscia come parte di un più ampio accordo di cessate il fuoco. Il portavoce del ministero degli esteri del Qatar, Majed al-Ansari, in serata ha aggiunto: «Non posso dare dettagli specifici sulla mediazione in corso ma posso dire che siamo impegnati in discussioni serie con entrambe le parti. Stiamo ricevendo un flusso costante di risposte da entrambe le parti e questo è motivo di ottimismo». Anche se, per ora, l’ottimismo è soltanto il suo».
“LA RABBIA PALESTINESE METTEREBBE FINE AD HAMAS”
Diario da Gaza di Sami al-Ajrami per Repubblica. Khan Yunis è circondata: gli ospedali collassano e noi aspettiamo un’altra ondata di profughi. Se i palestinesi potessero esprimersi sarebbero contro Hamas.
«Ogni mattina ci svegliamo e cominciamo la caccia. La caccia al cibo, che è ogni giorno di meno. E la caccia alle notizie, che purtroppo non mancano. Stamattina tra noi accampati a Rafah parliamo dei 21 soldati israeliani uccisi in un’unica azione. Una cosa non accaduta finora. E ora che succederà? La domanda è nella testa e sulla bocca di tutti. Ci sono quelli che sperano. Dicono che il dolore delle famiglie dei militari diventerà una valanga sul governo israeliano, che lo costringerà a tirarsi fuori da una guerra che invece di diventare più facile chiede un prezzo di sangue crescente anche a Israele. C’è chi ricorda l’irruzione dei parenti degli ostaggi alla Knesset, un altro segnale di come la macchina di Netanyahu ormai cominci a scricchiolare. Ma poi parlano i pessimisti. E qui, tra i rifugi di plastica, sono sicuramente la maggioranza. Il pensiero è: quei 21 morti causeranno ancora più morti. Le notizie che arrivano dopo sembrano confermarlo. L’esercito israeliano ha circondato Khan Yunis, l’ospedale Nasser trema per i bombardamenti. Tutto il compound sanitario è punteggiato di cadaveri. Le ambulanze non possono muoversi perché sono sotto il tiro dei cecchini. Le barelle sono sotto tiro. Qualunque cosa si muova tra quei corpi senza vita viene colpito. Il manager dell’ospedale spiega che dentro non possono più accettare nessuno, la gente agonizza per strada. Sono stati bombardati altri ripetitori e le comunicazioni sono tornate a essere difficili, oggi. L’Idf ha allora distribuito volantini e ha chiesto alla popolazione di Khan Yunis di allontanarsi rapidamente, muovendo verso Rafah. Devono usare le strade occidentali, hanno indicato, le altre sono nel raggio di azione dei soldati. Aspettiamo una nuova massa umana tra i nostri rifugi di fortuna, altri disperati che si sommano al milione e settecentomila persone stipate in pochi chilometri quadrati. Per Israele Khan Yunis è il luogo in cui la leadership di Hamas è ancora asserragliata. Non so se è così. Quello che so è che Hamas non ha più nulla da perdere. Dai vertici all’ultimo dei miliziani. Anche i semplici militanti hanno rinunciato ad arrendersi. Sanno che se escono con le mani alzate da un rifugio verranno comunque uccisi. I leader hanno rifiutato la tregua di due mesi offerta da Israele in cambio di tutti gli ostaggi: sanno benissimo che al termine dei due mesi i bombardamenti ricomincerebbero più forti che mai. E allora attaccano. L’uccisione dei 21 soldati dimostra che solo in alcune zone Hamas è stato neutralizzato, in altre ha intatta la capacità di far male. Io credo che la vera arma contro Hamas sia la popolazione di Gaza. Se solo ci fosse data la possibilità di sopravvivere, tutto questo dolore si trasformerebbe in rabbia. E la rabbia palestinese metterebbe fine a Hamas. Due giorni fa ho sentito con le mie orecchie la gente gridare qui a Rafah: “Basta con Hamas!”. Prima nessuno avrebbe osato neanche sussurrarlo. Ma non so se noi sopravviveremo. I notiziari parlano dei negoziati spinti dal Qatar. Ma come si fa a credere che ci siano trattative quando la guerra diventa ogni giorno più feroce, quando i morti, la fame, la violenza ci ingoiano sempre di più? A Jabalya, a Gaza City, la gente è costretta a mangiare le foglie degli alberi perché non ha altro. Qui ci dilaniamo per un pezzo di pane. Un conoscente stamattina mi ha confessato: “Sono sette giorni che non riesco ad avere neanche un briciolo di aiuti umanitari”. E noi siamo i fortunati: a Khan Yunis invece muoiono sotto il fuoco dei cecchini. Le mie figlie prima mi chiedevano: quando finirà questa guerra? Oggi non domandano più, sono sicure: questa guerra non finirà. Finiremo noi prima?».
NO ALLA MARATONA DELLA MEMORIA, PER EVITARE PARAGONI
Il richiamo del mondo ebraico alla conferenza stampa sul 27 gennaio a Palazzo Chigi: “La Shoah è l’orrore assoluto nulla può essere paragonato”. Stoccata di Noemi Di Segni (Ucei) all'esecutivo: “Saluto romano sì, maratona della Memoria no”. Luca Monticelli per La Stampa.
«Difendere l'unicità della Shoah, non paragonarla ad altre tragedie. È il richiamo delle comunità ebraiche italiane alla politica, al mondo della cultura e delle università. Un monito che arriva a tre giorni dal 27 gennaio, il Giorno della memoria, che si celebra per commemorare le vittime della Shoah in una data che coincide con l'abbattimento dei cancelli di Auschwitz. «C'è stata la tentazione di sottrarci agli eventi pubblici», dice Noemi Di Segni, «perché in queste settimane abbiamo sentito usare parole distorte che riguardano la Shoah, fuori contesto, contro Israele e gli ebrei». La presidente dell'Ucei conferma la presenza dei rappresentanti dell'ebraismo alle iniziative organizzate con le istituzioni, ma chiede «il rispetto dell'unicità del Giorno della memoria, sancito con legge dello Stato e dedicato al ricordo del dramma della Shoah. Tutte le altre tragedie, guerre, dolori, per quanto importanti, meritano un altro tipo di attenzioni e analisi in altri giorni». Non si può «abusare di questo giorno, facendo girare locandine che ne distorcono completamente il significato». Di Segni si riferisce, ad esempio, all'iniziativa organizzata dall'Anpi locale nel comune di Bagno a Ripoli in provincia di Firenze, in cui si terrà un convegno dal titolo: «80 anni fa lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti - oggi il genocidio del popolo palestinese da parte dello stato di Israele». Nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi con il sottosegretario Alfredo Mantovano, per presentare gli eventi istituzionali previsti per il 27 gennaio, la presidente dell'Ucei denuncia che per motivi di sicurezza è saltata la maratona della Memoria: «Sono liberi di manifestare coloro che alzano il braccio per il saluto romano ed è consentito lo squadrismo dei centri sociali. È aberrante che la cittadinanza non possa correre liberamente». Erano stati contattati due comuni della Calabria che però «non volevano rischiare di trovarsi un delirio, basta vedere cosa è successo a Vicenza», sottolinea. Il governo, sostiene Mantovano, condanna «l'intollerabile sovrapposizione fra le critiche, legittime, al governo Netanyahu e l'individuazione delle comunità ebraiche nel mondo quali presunte complici di quelle scelte. Sta emergendo con virulenza un antisemitismo latente». Sulla recrudescenza di odio che attraversa il nostro Paese, la storica Anna Foa, interpellata da questo giornale, spiega: «L'aumento dell'antisemitismo è evidente, anche se in Italia è minore rispetto ad altri Paesi. La criminalizzazione di Israele viene sia da una parte della sinistra che da fasce estreme di neofascisti e neonazisti». Quanto alle università che vogliono interrompere i progetti di ricerca con gli atenei israeliani, Foa sottolinea: «Il boicottaggio con le università israeliane è una cosa assolutamente assurda perché sono tra i settori più avanzati nell'opposizione al governo e a favore di uno Stato palestinese, è come dire che bisogna boicottare l'opposizione a Netanyahu». Quel che succede oggi, continua la storica, «mi ricorda l'antisemitismo che si diffuse dopo la guerra del Libano, ma adesso è tutto moltiplicato per mille perché la situazione è molto più grave». Detto ciò, Anna Foa rimane critica con il governo Netanyahu, «così come lo sono le famiglie degli ostaggi e gran parte della società israeliana che ha manifestato per dieci mesi. Io credo che la guerra con Gaza debba finire, non si può arrivare a un numero di morti così elevato e rifiutare qualsiasi opzione politica». Su Shalom, il magazine della comunità romana, Lia Levi, scrittrice scampata alla deportazione del ghetto di Roma il 16 ottobre del ‘43, ha preso una posizione molto forte: «Com'è possibile che sia successo ancora una volta? Come è successo che di colpo il male del mondo sia rappresentato dall'israeliano o dall'ebreo? È per questo che mi sento di dirvi: voi non meritate il nostro dolore».
MISSIONE NAVALE NEL MAR ROSSO
I ministri Tajani e Crosetto rassicurano: nessun problema, abbiamo i numeri per approvare in Parlamento la missione militare navale nel Mar Rosso. Le reticenze di Meloni superate dopo un confronto tra Roma e Bruxelles. Ilario Lombardo e Grazia Longo per La Stampa.
«Pronti al voto in Aula. I ministri degli Esteri e della Difesa Antonio Tajani e Guido Crosetto hanno dato rassicurazioni sulla possibilità di rendere ancora più vincolante il passaggio in Parlamento della missione Aspides, l'operazione marittima che l'Unione europea sta predisponendo per proteggere i mercantili dagli attacchi nel Mar Rosso degli Houthi, i ribelli filoiraniani dello Yemen. «Per noi non c'è alcun problema a chiedere un voto in Parlamento – ha spiegato in queste ore Tajani ai collaboratori -. I voti li abbiamo, anche se fossero solo quelli della maggioranza. L'auspicio però è che, in questo caso, il consenso sia unanime». Anche perché, assicura il capo della diplomazia italiana, si tratta di una missione di natura difensiva, e non offensiva. Ci saranno regole d'ingaggio chiare, e nessuna velleità militaristica. Nel governo si stanno preparando a tutte le possibili richieste di delucidazioni da parte delle opposizioni, anche se non sembra si stiano riproponendo le polemiche che hanno accompagnato il dibattito sull'invio delle armi in Ucraina. D'altronde, la missione – come spiega il nome, che in greco significa "scudi" – avrà lo scopo di proteggere le rotte commerciali, e dunque la tenuta economica (costo dei trasporti, prezzi finali) dei Paesi europei, Italia compresa. Da quanto trapela dalla Difesa, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un primo momento avrebbe preferito limitare il passaggio a una semplice informativa. Una posizione che è stata superata dopo un confronto politico tra Roma e Bruxelles. A questo punto, nelle prossime settimane, Camera e Senato potrebbe essere chiamati a esprimersi e a votare. Saranno tre le navi impegnate a difendere i cargo dai missili e dai droni degli Houthi. Una batterà bandiera italiana, mentre per le altre due proverranno da Spagna, Francia e Germania. L'Italia sceglierà la fregata tra le otto in dotazione alla Marina Militare. Non si tratterà né della Fasan (appena rientrata) né della Martinengo (ricollocata nell'operazione Atalanta, impegnata a contrastare la pirateria al largo del Corno d'Africa). In aggiunta, potrebbe essere coinvolto un cacciatorpediniere (il Duilio o il Doria). I dettagli devono ancora essere definiti. Ma il tempo è sufficiente, dato che non si entrerà nel vivo delle attività prima del 19 febbraio. L'equipaggio italiano, secondo quanto anticipato da fonti militari, sarà di 170-180 uomini. Soldati che si muoveranno secondo il principio della legittima difesa: potranno sparare solo se attaccati. Il loro compito sarà quello di garantire la "Freedom of navigation" proclamata anche dal presidente americano Joe Biden il giorno dell'attacco scagliato dagli angloamericani contro le basi Houthi nello Yemen. Uno scudo a tutela della libera circolazione dei mercantili che transitano nel tratto compreso tra il Canale di Suez e, più a sud, lo Stretto di Bab el-Mandeb. Una rotta fondamentale, dove passa un terzo del traffico mondiale dei container e il 40% del commercio Asia-Europa. Non si tratterà di una scorta continua, ma di un monitoraggio costante che, in caso di necessità, consentirà di intervenire in tempi rapidi. Gli interessi economici da difendere sono troppi, e troppo delicati. Senza il piano di difesa, i mercantili saranno costretti a passare dal Capo di Buona Speranza con un ritardo di 12-15 giorni nella consegna delle merci, e con l'ovvia conseguenza di far ripiombare l'Occidente in una spirale inflazionistica senza controllo. Le tre navi che verranno inviate saranno coordinate da un unico quartier generale. I due Paesi in pole position per aggiudicarselo ci sono l'Italia e la Francia. Sempre dalla Difesa filtra la notizia che la sede individuata dovrebbe essere quella all'aeroporto Baracca di Centocelle, a Roma, dove si trovano già il quartier generale del Covi (Comando operativo di vertice interforze) e quello del Segretariato generale della Difesa. Le prossime tappe politiche sono già definite. Il 30 e il 31 gennaio si svolgerà a Bruxelles una riunione di tutti i ministri della Difesa dell'Unione europea. Il 1° febbraio il ministro Crosetto riferirà, con un'informativa, alla Commissione Difesa della Camera. Nel frattempo, lo staff militare dell'Ue pianificherà le varie fasi in cui si articolerà l'operazione Aspides. La collaborazione dovrebbe avere anche un'estensione extraeuropea e comprendendo Egitto, Emirati Arabi, Gibuti e Norvegia. Stefano Graziano, capogruppo Pd in Commissione Difesa a Montecitorio, chiede di «intensificare l'attività diplomatica» per coinvolgere altri grandi Paesi dell'area: «Su tutti, l'India».
ATTACCHI RUSSI SU KHARKIV, KERSON E KIEV
Il fronte ucraino. Pioggia di missili russi provoca 19 morti: attacchi nella notte e all’alba su Kharkiv, Kherson e Kiev. L’Ucraina colpisce Donetsk. Il parlamento turco approva l’adesione di Stoccolma alla Nato. Ma resta la mina ungherese. Paolo Brera per Repubblica.
«Quei lampi nella notte, il fragore delle esplosioni che fanno tremare i vetri e i nervi. È stata un’alba maledetta come non se ne vivevano da un po’, quella di ieri mattina a Kiev. Un’alba di morte che piove dall’alto, ma questa da due anni non è certo una novità in Ucraina e nemmeno nei suoi territori occupati. Ieri i russi hanno levato in volo i bombardieri strategici nel cuore della notte. Li hanno spediti in zona di lancio e intorno alle cinque del mattino locali sono partite ondate di missili e droni, e il bilancio sono numeri pesanti: «19 morti e più di 120 feriti», dice il procuratore generale Andriy Kostin, 15 dei quali nella regione di Kharkiv. In quella di Kherson sono morte altre tre persone, e una in quella di Dnipro. «Atti deliberati di terrorismo», accusa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky senza citare i due civili uccisi dagli ucraini nelle strade di Donetsk occupata. Una nuova strage targata Kiev dopo quella di due giorni fa del mercato, in cui sono state uccise 27 persone che facevano la spesa tra i banchi nella neve. L’orrore oggi è la bimba di nove anni, uccisa a Kharkiv dal cinismo di questi attacchi notturni o mattutini. Poco importa che abbia deviato i colpi la contraerea sventrando case civili, o che abbiano sbagliato mira o colpito obiettivi ritenuti militari senza guardare in faccia le eventuali vittime collaterali, cioè la gente che ci abita accanto. Sono ormai 23 mesi che va avanti questa guerra iniziata con l’invasione russa del 24 febbraio 2022. La bambina di Kharkiv è morta in casa insieme alla sua mamma, che aveva 35 anni. Il papà è finito sotto le macerie insieme a loro ma ne è uscito vivo, almeno con il corpo. È così ripetitivo e insistente l’elenco delle tragedie di questa guerra scatenata anche sulle città, e quindi pagata anche dai civili in prima persona, che diventa impossibile raccogliere tutte queste storie tranciate di netto da un’esplosione improvvisa. Diventano solo numeri. Ieri mattina erano le sette quando le bombe sono piovute a Kiev. C’erano già luce e vita, il coprifuoco era finito da un pezzo e c’erano studenti e lavoratori in giro per la città. I russi come sempre dicono di avere mirato a obiettivi militari, in questo caso a «siti per la produzione di razzi, componenti di razzi e munizioni. A differenza del regime di Kiev, le nostre forze non prendono di mira infrastrutture sociali, aree residenziali e civili», sostiene il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, alludendo al massacro di Donetsk. Ma il risultato di questi attacchi russi, qualunque fossero il motivo e le coordinate dell’attacco, sono i tuoni della contraerea e la pioggia di fuoco e detriti che uccidono o feriscono gente che vive e lavora senza le mostrine su una divisa. E intanto lo scenario internazionale dei rapporti tra l’Occidente e il Cremlino si complica ogni giorno di più: ieri sera il parlamento turco ha votato a favore dell’adesione della Svezia alla Nato, eliminando uno degli ostacoli principali all’allargamento dell’Alleanza al Paese nordico (ora all’orizzonte c’è la minacciata opposizione dell’Ungheria). Una novità che non fa certo piacere a Mosca, anche se in qualche modo attesa. Ma la gente ucraina ha altri guai più immediati a cui pensare. Per esempio, e tanto per cambiare, ancora ai missili. Come quelli che ieri sera hanno iniziato di nuovo a piovere a Kharkiv».
ODG DELLA LEGA SULL’UCRAINA
Giacomo Salvini per Il Fatto dà notizia dell’Ordine del giorno a firma del leghista Massimiliano Romeo depositato in Senato. Il testo chiede un cambio di strategia del governo sull’Ucraina: “Gli italiani dicano stop agli aiuti. Kiev non può vincere”.
«La mossa è stata studiata per giorni, senza grossi proclami. E alla fine è stata fatta: la Lega ha depositato un ordine del giorno al decreto con cui il governo proroga per tutto il 2024 la possibilità di inviare armi all’Ucraina per chiedere a Giorgia Meloni di farsi carico di “una concreta e tempestiva” iniziativa diplomatica e arrivare a una “rapida soluzione del conflitto”. Un documento, che il Fatto ha letto, in cui per la prima volta il partito di Matteo Salvini chiede all’esecutivo di impegnarsi a terminare la guerra in Ucraina e, di fatto, smettere di inviare altre armi a Kiev. Non solo. Nel testo, firmato dal capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo e depositato per il dibattito che si svolgerà oggi in aula (il voto potrebbe slittare a domani), si spiega nero su bianco che l’Ucraina non resisterà all’offensiva russa, che gli Stati Uniti non vogliono più sostenere Kiev e non lo faranno più dopo le prossime elezioni in caso di vittoria di Donald Trump e che la maggioranza dell ’opinione pubblica italiana è contraria al sostegno militare a Volodymyr Zelensky. Tutti argomenti usati dal Carroccio per chiedere di impegnarsi per una soluzione diplomatica. Un ordine del giorno presentato da un partito già accusato di legami stretti con la Russia di Vladimir Putin (è tutt ’ora in vigore l’accordo col partito Russia Unita) e ha l’obiettivo politico di mettere in difficoltà Meloni alla vigilia delle europee: la premier ha fatto della fedeltà atlantica il suo principale impegno in politica estera e adesso il Carroccio vuole provare a prendere le distanze in campagna elettorale. E lo fa con un ordine del giorno che ha un impatto politico simbolico: non è vincolante. La mozione di Romeo però è molto chiara. Prendendo spunto dalle comunicazioni del 10 gennaio del ministro della Difesa Guido Crosetto alle Camere, il leghista fa una premessa che rischia di mettere in difficoltà il governo. La prima riguarda lo stato dell’arte nei rapporti con Mosca: “I numerosi sforzi della comunità internazionale nei confronti del popolo ucraino si sono rivelati finora essenziali ma non sufficienti per neutralizzare la minaccia russa –-scrive Romeo – la Russia ha aggirato le sanzioni occidentali fortificando le partnership con i Paesi del sud globale (Corea del Nord, Cina, Iran)”. Kiev, dice Romeo, non potrà vincere la guerra: “Il contesto militare vede uno scenario diverso rispetto alle previsioni di un anno fa – aggiunge – Tale scenario rischia di complicarsi ulteriormente nel breve periodo, visti i dubbi sulla capacità effettiva dell’Ucraina di resistere nel lungo termine contro una nuova offensiva russa, consideratala disparità numerica delle forze in campo e la perdurante situazione di svantaggio aereo”. Inoltre il capogruppo della Lega spiega che le elezioni europee e quelle degli Stati Uniti “possono portare a un cambio di approccio nelle politiche dei Paesi europei e degli Usa nei confronti del conflitto in Ucraina ”. Un auspicio, quello leghista. A Washington, continua Romeo, “l’assistenza americana è ferma per assenza di fondi” e lo stallo al Congresso e in caso di vittoria di Donald Trump “non è un’ipotesi remota immaginare una postura isolazionistica degli Stati Uniti in riferimento alle dinamiche europee e specialmente al conflitto in Ucraina”. Ergo: “I segnali politici riflettono un cambio di atteggiamento dell ’elettorato americano” ma anche in Ue. È qui che la Lega manda un messaggio a Meloni in chiave elettorale. Romeo evidenzia come “anche l’opinione pubblica italiana non supporta più pienamente gli aiuti militari che il nostro Paese continua a inviare in sostegno all’esercito ucraino e auspica una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto”. Come dire: adesso basta. Visto che la guerra si protrarrà ancora a lungo e Zelensky si è mostrato più incline a una “soluzione diplomatica”, per la Lega è “essenziale sviluppare una visione di come finirà la guerra” e non si può pensare “una soluzione esclusivamente militare”. Così si chiede al governo di “farsi carico, nelle competenti sedi europee, di una concreta e tempestiva iniziativa volta a sviluppare un percorso diplomatico, al fine di perseguire una rapida soluzione del conflitto”. L’ordine del giorno della Lega arriverà oggi in aula e metterà in difficoltà la maggioranza».
PRIMO SÌ ALL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
L’autonomia differenziata riceve un primo ok del Senato con 110 sì, 64 no e 3 astensioni. Matteo Salvini commenta entusiasta: «Passo importante per il Paese, lo dedico a Maroni». Azione si astiene, ma Gelmini vota a favore. La cronaca del Corriere.
«La protesta del Pd non ferma il cammino dell’autonomia differenziata, che a Palazzo Madama passa in scioltezza con 110 sì, 64 no e 3 astensioni. Un epilogo scontato, “allietato” dall’intermezzo musicale offerto dai dem, che contestano la maggioranza intonando l’inno di Mameli e agitando cartelli con scritto “Viva Verdi” (acronimo che durante il Risorgimento stava per “Viva Vittorio Emanuele Re di Italia”). Al coro, però, si associa anche Fratelli d’Italia, dando vita a un disordinato duello canoro risolto con la sospensione della seduta da parte del presidente di turno, il leghista Gian Marco Centinaio, mentre dai banchi del suo gruppo si alza la bandiera del Carroccio. L’esito conferma la compattezza della maggioranza, a cui si aggiungono anche i voti della Svp, irrinunciabili, spiega Meinhard Durnwalder, in virtù della «storia e della cultura politica» del partito altoatesino. Annunciata anche l’astensione di Azione, così come il voto in dissenso dal gruppo di Mariastella Gelmini, che da ministra del governo Draghi aveva già scelto «la strada della legge quadro» e, spiega, «non si può cambiare idea a seconda che si vestano i panni della maggioranza o dell'opposizione». Comprensibile l’esultanza di Matteo Salvini, che raggiunge il Senato a seduta iniziata, ma in tempo per celebrare «un passo importante verso un Paese più efficiente», compiuto «nel rispetto della volontà popolare» e dedicato alla memoria di « Bobo Maroni». Sul piede di guerra il Pd, che promette battaglia in Parlamento e nelle piazze e torna a invocare un referendum abrogativo. Lo fa la segretaria Elly Schlein, annunciando «una mobilitazione con tutte le altre forze politiche e sociali per spiegare gli effetti devastanti dell'approvazione di questa riforma. Non escludiamo nessuno strumento – promette – per contrastare questa legge. La nazionalista Meloni spacca l’Italia e cede a un orrendo baratto». Si associa anche Avs con Angelo Bonelli, convinto che «la premier abbia ufficialmente venduto l'Italia a Salvini» sulla base di «un mero accordo tra Lega e Fratelli d'Italia in cambio del sostegno al premierato». Un’intesa che peraltro la Lega non smentisce, anzi, rivendica apertamente con l’intervento in Aula del presidente dei senatori Massimiliano Romeo: «Ne andiamo assolutamente fieri, perché più poteri al premier significa dall'altra parte controbilanciare con più autonomia sul territorio». Di «passaggio storico per la vita del Paese» parla il senatore azzurro Maurizio Gasparri, che invita a « non avere paura di questa sfida», perché «i Lep devono essere garantiti in modo uniforme sull'intero territorio nazionale » e «il testo approvato in Senato garantisce analoghe opportunità nei diversi territori». Durissima la capogruppo 5s Mariolina Castellone, che vede nel provvedimento il primo passo verso la realizzazione di «un progetto scellerato» per creare «uno “Stato-Arlecchino”». «Meloni spacca il Paese e svende il Sud a Salvini – incalza anche il presidente pentastellato Giuseppe Conte –. Lascia così in un vicolo cieco i territori più svantaggiati del Paese e non ci sarà nemmeno un centesimo per finanziare i servizi essenziali nei territori più fragili. Rischiamo di avere 20 sistemi regionali in ordine sparso che danneggeranno anche il Nord, con imprese che dovranno fronteggiare un caos amministrativo ». Più pacata Dafne Musolino di Iv, che riconosce «la finalità legittima del provvedimento », ma parla di una legge che «nega il principio di solidarietà economica e sociale». Non parla Giorgia Meloni, che preferisce evitare repliche agli attacchi delle opposizioni, ma incassa una cambiale importante in vista del cammino in Parlamento della riforma sul premierato».
MIRABELLI: PER LA RIFORMA DECISIVA L’ATTUAZIONE EQUILIBRATA
Angelo Picariello intervista su Avvenire il costituzionalista Cesare Mirabelli. Che dice: «Sarà decisiva l’attuazione, che deve avvenire gradualmente, senza bulimia. Non si possono portare materie concorrenti nella competenza esclusiva delle Regioni. E lo Stato deve sempre poter far valere l’interesse nazionale. Ce l’ha insegnato la pandemia».
«Bisogna vigilare perché non si introduca per legge ordinaria una modifica strisciante della Costituzione», avverte Cesare Mirabelli. Indica un rischio, il presidente emerito della Consulta, non è una constatazione, la sua. Un dovere di vigilanza che diventa però ancor più doveroso in considerazione della bocciatura venuta dal referendum del 2006 per la riforma federalista approvata l’anno precedente dal governo Berlusconi.
Ma l’autonomia è un principio costituzionale.
Il disegno di legge del governo si ripropone proprio di dare attuazione a questa norma della Costituzione. Che promuove le autonomie, ma al tempo stesso garantisce l’unità nazionale, il diritto al godimento dei diritti civili e sociali e alla fruizione delle prestazioni da parte di tutti.
Nel testo finale proprio per questa ragione viene meglio definito il principio dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale.
Per fare questo debbono essere assicurate risorse aggiuntive, e non in chiave solo assistenzialistica, alle Regioni più deboli: l’obiettivo è quello di favorire uno sviluppo delle prestazioni in tutto il Paese.
In quale caso, invece, si configurerebbe una modifica strisciante?
La Costituzione, con la riforma del Titolo V prevede che possano essere accordate delle competenze aggiuntive. Ma non si può, con una bacchetta magica, far diventare materie che sono assegnate alla legislazione concorrente, competenza esclusiva delle Regioni. Vanno definite bene quali sono le materie per le quali questo potenziamento di autonomia può avvenire e le modalità. E qui sta il punto più delicato.
Perché?
Perché vi sono materie che non si prestano a una regionalizzazione spinta. Penso alle grandi reti di comunicazione, dell’energia, ma penso anche all’istruzione. E possono esistere, certo, aziende di credito di livello regionale, ma la vigilanza deve restare uniforme, e affidata alla Banca d’Italia.
C’è chi ha sostenuto che servisse una norma di rango costituzionale.
Dipende dall’ambito dell’intervento che si fa e dalla saggezza che deve essere ora esercitata, per non debordare. Non vi può essere una dismissione della materie da parte dello Stato, ma una loro diversa definizione. Questa norma diventa un atto di indirizzo nei confronti del governo.
L’attuazione, quindi, sarà decisiva.
Si dovrebbe procedere sull’ampliamento delle competenze con dosi omeopatiche, con un sano gradualismo fra le materie e nella gestione delle singole materie, evitando la bulimia di accaparrarsele. E poi la sussidiarietà, che deve essere biunivoca, verso il basso, ma anche verso l’alto. Sarebbe opportuno prevedere un richiamo alla competenza statale, laddove ci sia un preminente interesse nazionale. Ce lo ha insegnato la vicenda della pandemia, che ha originato degli scontri furiosi, inducendo la Consulta a intervenire per stoppare tentativi di legiferare in ordine sparso a livello regionale. Serve una norma che permetta di definire queste situazioni, anche in tempi molto rapidi e con modelli di azione non complicati.
Ma il livello delle prestazioni è già squilibrato così: chi controlla, chi garantisce che non vada peggio, da ora in poi?
L’obiettivo deve essere il miglioramento dei servizi ai cittadini, una loro maggiore economicità, non un aggravio di costi o una duplicazione di funzioni. Lo squilibrio già c’è, è vero, ma per superarlo servono, come dicevo, risorse aggiuntive, non si può pensare che ognuno si tenga il suo “bottino”. Lo sviluppo equilibrato del Paese è un interesse comune delle Regioni “ricche” e delle Regioni “povere”, che, se supportate, possono diventare un gran volano di sviluppo per tutto il Paese. Un obiettivo di giustizia ma anche di convenienza, per tutti».
GUIDA ALLA RIFORMA IN DIECI D&R
Cesare Zapperi sul Corriere scrive una guida alla riforma in domande e risposte.
« 1 Quando «nasce» l’Autonomia differenziata?
È uno degli effetti della modifica del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001. Nel nuovo articolo 117 furono indicate espressamente le materie di competenza statale (politica estera, immigrazione, difesa, ecc) mentre le Regioni diventarono titolari di tutti quei settori normativi non attribuiti allo Stato. Ma la vera novità fu la modifica dell’articolo 116 con cui si sancì che le Regioni ordinarie potessero richiedere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia».
2 Chi l’ha voluta?
È storicamente una battaglia della Lega che per questo ha anche indetto un referendum in Lombardia e Veneto nel 2017 con risultati plebiscitari. L’Autonomia differenziata fu inserita nel contratto di governo che diede vita al Conte I (ma mosse pochi passi) ed è nel programma dell’attuale esecutivo.
3 Come si introduce nell’ordinamento legislativo?
L’articolo 116 prevede che l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di Autonomia possono essere concesse con legge ordinaria rinforzata dello Stato. La legge, in questo caso il disegno di legge che vede primo firmatario il ministro leghista Roberto Calderoli, deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti. Ieri si è espresso il Senato, ora la palla passa alla Camera.
4 Cosa contiene il ddl Calderoli?
È composto da 11 articoli con cui vengono definite nel dettaglio le procedure legislative e amministrative per l’applicazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.
5 Quante sono le materie che possono essere trasferite?
Le singole Regioni, in una contrattazione con lo Stato prevista dalla legge, potranno chiedere fino ad un massimo di 23 materie: dalla tutela della Salute all’Istruzione, Sport, Ambiente, Energia, Trasporti, Cultura e Commercio Estero. Non c’è un numero minimo.
6 Cosa sono i Lep?
La concessione di una o più «forme di autonomia» è subordinata alla determinazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni), cioè i criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito in modo uniforme sull’intero territorio nazionale.
7 Quando avverrà il trasferimento di funzioni?
L’articolo 4 precisa che sarà concesso solo successivamente alla determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse rese disponibili in legge di bilancio.
8 Quali sono i tempi di attuazione della riforma?
Il governo ha 24 mesi dall’entrata in vigore del ddl per varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep. Mentre Stato e Regioni, una volta avviata, avranno tempo 5 mesi per arrivare a un’intesa. Questa potrà durare fino a 10 anni e poi essere rinnovata. Oppure potranno terminare prima con un preavviso di almeno 12 mesi.
9 Che cos’è la clausola di salvaguardia?
Il ddl prevede all’articolo 11, inserito in un secondo momento, che il governo può sostituirsi alle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica. Particolare riguardo sarà prestato alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali.
10 Il nodo dei finanziamenti.
Era stato previsto un fondo perequativo per le Regioni che non chiederanno l’Autonomia (per ora l’hanno fatto in 14), inizialmente di quasi 5 miliardi, ma poi è stato prosciugato e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha precisato che la riforma va attuata ad invarianza di bilancio statale».
POZZOLO POSITIVO ALLA PROVA DELLO STUB
Le altre notizie italiane. Emmanuele Pozzolo è risultato positivo alla prova dello stub. «Si rafforza l’ipotesi che sia stato lui» a sparare nella Festa di Capodanno a Rosazza. La Procura annuncia: faremo altri esami. La difesa: dimostra solo che era vicino al luogo dello sparo. Massimiliano Nerozzi per il Corriere.
«Non è una prova decisiva, l’aver trovato tracce di polvere da sparo sulle mani e sugli abiti del deputato di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo, ma secondo la Procura di Biella «conferma la prospettazione iniziale» — cioè che fu lui a sparare — anche se la nota firmata dal procuratore Teresa Angela Camelio precisa come il dato «dovrà essere valutato e compendiato con gli ulteriori accertamenti dattiloscopici e biologici». Di certo, l’esito (positivo) dello stub fatto dai carabinieri del Ris di Parma è un primo punto fermo dell’inchiesta che sta cercando di chiarire cosa accadde alla festa di Capodanno nelle sale della pro loco di Rosazza, sui monti biellesi: durante la quale, attorno all’1.30, un colpo partito dalla calibro 22 detenuta dal parlamentare ferì Luca Campana, genero di Pablito Morello, l’allora caposcorta del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Di fare lo stesso test a tutti i presenti — come avrebbe forse auspicato l’avvocato Andrea Corsaro, difensore di Pozzolo — non c’era motivo, spiega la Procura: «Al momento del fatto non vi era alcuna evidenza tale da rendere necessaria l’esecuzione sui pochi soggetti rimasti in loco». La conferma che il deputato è stato subito l’unico sospettato, e ora indagato per lesioni colpose, accensioni pericolose e omessa custodia di armi. Del resto, ragionano gli inquirenti coordinati dal procuratore e dal pubblico ministero Paola Francesca Ranieri, i carabinieri raccolsero tre testimonianze che restituivano una sola immagine: Pozzolo con la piccola pistola in mano. In più — aggiunge la Procura — «tale accertamento tanto meno può essere eseguito indiscriminatamente e a livello preventivo senza alcuna ricostruzione alternativa». Un’ipotesi che non tiene conto delle parole dette ai militari da Pozzolo, quella notte: «Non sono stato io a sparare». Versione che, finora, il politico non ha ripetuto ai magistrati, davanti ai quali si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il che non esclude possa decidere di ripresentarsi ai pm, offrendo la sua ricostruzione. Dopodiché, altri accertamenti seguiranno, compresi quelli affidati al consulente tecnico della Procura, il perito balistico Raffaella Sorropago, che dovrà esaminare l’arma, verificando non fosse difettosa, e il tavolo sul quale lo stesso consulente aveva scovato tracce di polvere da sparo da carica di lancio, quella che esplode dopo la detonazione della carica d’innesco. Distinzione non secondaria, visto che tracce di quest’ultima sono state rinvenute dallo stub su mani e abiti di Pozzolo. Sui quali sono state repertate «particelle indicative», tipiche dei residui da sparo, ma che possono pure derivare da altri ambienti lavorativi; e «particelle univoche», derivanti, in modo esclusivo, dall’esplosione di colpi d’arma. Con tracce di piombo, bario e antimonio. «Ma la positività in quanto tale non vuole dire nulla — osserva l’avvocato Corsaro — non è altro che la prova della presenza nel luogo dello sparo». Dunque, «una vicinanza, ma occorre esaminare concretamente quali sono i risultati e vedere se da quelli si può trarre qualcosa. La semplice positività era pacifica — chiude — nessuno ha mai detto di non essere vicino al luogo dello sparo». Nel frattempo, dopo avergli revocato il porto d’armi, la prefettura di Biella ha deciso una vigilanza generica radiocollegata per Pozzolo, quando sarà nella sua casa in Valle Cervo».
PIZZAUT ARRIVA A BRUXELLES
Elisabetta Soglio sul Corriere della Sera racconta la trasferta europea dei ragazzi di Pizzaut. Il progetto è lanciare i PizzAutobus in tutta Italia.
«Potremmo cominciare con Beatrice che scandisce tre parole: «Job, inclusion, dignity». O con Andrea che per i clienti suona al violino l’Inno alla gioia, lui che non sapeva neppure leggere la musica. O ancora con Leo che ha volato per la prima volta, Simone che ha firmato autografi ed Ale che dice: «Io spero che nel mio futuro e in quello di tutti i giovani ci siano cose belle». E poi con Matteo e Riccardo che, zitti zitti, hanno infornato più di 200 pizze. I ragazzi di PizzAut ieri sono stati in trasferta e Bruxelles: hanno cucinato per il Papa, per il presidente Sergio Mattarella, per forza dovevano arrivare anche al Parlamento europeo, un sogno immaginato quattro anni fa con David Sassoli in visita a Milano, sogno che ha preso forma con tre europarlamentari italiani, Patrizia Toia, Brando Benifei e Giuliano Pisapia. Loro, con il collega Salvatore De Meo e poi altri di tutti i Paesi dell’Unione, si sono seduti a tavola e, ciliegina sulla torta di una giornata straordinaria, anche la presidente Roberta Metsola è arrivata nel ristorante del Parlamento dove i ragazzi hanno cucinato e servito eletti e funzionari della Ue. Nico Acampora, fondatore di PizzAut , spiega: «Siamo qui per dimostrare che i nostri ragazzi sono cittadini a tutti gli effetti, lavorano e pagano le tasse. Non sono assistiti, non sono destinati a stare chiusi in un centro diurno, non sono un peso per la società». I due ristoranti brianzoli di PizzAut hanno portato finora all’assunzione a tempo indeterminato di una ventina di ragazzi autistici, mentre altri sono tirocinanti retribuiti in attesa di essere regolarizzati al termine della formazione. «In Italia — prosegue Acampora — una legge impone alle aziende di assumere pro quota persone disabili, ma troppe aziende preferiscono pagare multe invece di rispettare la legge. Servono incentivi fiscali e volontà per diffondere e radicare questa cultura dell’inclusione autentica». Acampora ha annunciato che per garantire nuovi posti di lavoro è appena partito il progetto dei PizzAutoBus : si cercano sponsor per acquistare 107 truck food, uno per ogni provincia d’Italia, da affidare in comodato d’uso ad altrettante associazioni che si occupando di autismo. Ciascuna di loro potrà formare e assumere 5 persone e se il sogno continua ci saranno altri 500 contratti in tutta Italia. La delegazione di PizzAut , accolta con grande affetto nella sede del Parlamento, è stata accompagnata da genitori, volontari e da sostenitori del progetto, a partire dal vescovo don Luca Raimondi («PizzAut è una ricchezza non solo perché parte dai bisogni delle persone, ma anche perché considera le persone, tutte le persone, una risorsa») all’ex parlamentare Eugenio Comincini, primo firmatario della legge per gli sgravi fiscali a chi assuma persone autistiche. E se, come dicono i ragazzi di PizzAut, «è vietato calpestare i sogni», è proprio il caso di dire che il sogno continua».
ZAMAGNI E LA NUOVA VIOLENZA CONTRO GLI INVISIBILI
Stefano Zamagni commenta su Avvenire la nuova ondata di violenza contro gli “invisibili”: oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé e ciò porta a compiere azioni contro i fragili. «L’antidoto all’aumento di disuguaglianze e solitudini? Rileggiamo il capitolo 5 della “Fratelli tutti”». Intervista di Diego Motta.
«Non è più paura, non è nemmeno disprezzo del povero. «Sta accadendo molto peggio: siamo ormai in presenza di odio sociale». Nel 2019, Stefano Zamagni non aveva esitato a parlare con Avvenire di «aporofobia»: erano i tempi dell’offensiva contro il Terzo settore, della criminalizzazione della solidarietà voluta anche a livello istituzionale. Cinque anni dopo, l’intellettuale bolognese che ha guidato la Pontificia accademia delle scienze sociali, ricostruisce lo scenario attuale in modo ancora più diretto, guardando all’Italia e all’Europa. «Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé da una parte dell’opinione pubblica e questo porta a compiere azioni contro la persona fragile». Sullo sfondo c’è la violenza gratuita contro gli ultimi, siano essi migranti, disabili, senza dimora, detenuti: la cronaca è piena, quotidianamente, di fatti che rimandano al desiderio di supremazia di pochi prepotenti verso i più deboli, di persone escluse o nascoste, di dimenticati che rivendicano il diritto ad esistere, mentre il dibattito pubblico tende a relegare tutto questo nelle periferie, esistenziali e mediatiche.Così, nei bassifondi della nostra scala sociale, si avverte avanzare un senso di disumanità che preoccupa per le conseguenze possibili.
Professor Zamagni, si moltiplicano gli “invisibili”. Eppure si fa finta di non vedere o, peggio, si cerca di negare qualsiasi emergenza sociale per non creare allarme nell’opinione pubblica. Perché questa ostilità verso il povero?
Siamo abituati a parlare di povertà come di un fenomeno legato al reddito, ma la povertà è anche emarginazione, indifferenza. Con l’aporofobia eravamo al disprezzo degli indigenti, adesso siamo all’odio sociale, un fenomeno mai visto prima a queste latitudini. Odio e violenza hanno un’origine comune e questo spiega ciò che sta succedendo in questa epoca storica. L’odio sociale ha un inizio, 30 anni fa, quando in America nasce anche nel mondo universitario una corrente di pensiero che poi approderà in Europa e nel nostro Paese: si tratta del singolarismo.
L’altra faccia dell’individualismo.
Il singolarismo è l’estremizzazione dell’individualismo, che nasce invece molto tempo prima, all’epoca dell’Illuminismo. In quella fase storica, l’individuo almeno era parte della comunità, aveva un’appartenenza. Il singolarismo recide proprio questo tipo di legame: adesso ognuno si pensa come un unicuum e, in quanto tale, deve differenziarsi. L’atteggiamento aporofobico è stata una prima conseguenza della diffusione del singolarismo, che prevede l’espulsione e l’annullamento dell’altro.
Se l’individualismo è stato superato, allora adesso diventa a rischio anche la comunità.
Esatto. Di questo passo dovremo fare i conti con la scomparsa della comunità, che è già in atto. È la seconda secolarizzazione: nella prima, la società e il mondo andavano avanti come se Dio non esistesse. In questa seconda secolarizzazione, che stiamo vivendo, la vita pubblica procede come se a essere assente fosse l’idea stessa di comunità. Così si spiega ad esempio il calo di partecipazione alla democrazia e ai suoi riti, a partire dalle elezioni: chi va a votare oggi, se non gli anziani, che si sono formati nella stagione in cui il singolarismo non c’era?
Ma una società che tende a escludere fino ad annullare la dimensione comunitaria, non è condannata a incattivirsi?
Certo. Oggi, non a caso, c’è molta meno felicità pubblica: una volta si mangiava meno ma si era più felici. Se si taglia il cordone ombelicale con la comunità, l’essere umano sarà sempre più solo. Negli Stati Uniti, il 52% della popolazione soffre di solitudine. Ma è una solitudine esistenziale, che si accompagna all’aumento delle disuguaglianze sociali. Detto questo, io resto ostinatamente ottimista.
Perché?
Perché la persona umana nasce per la felicità. Bisogna tornare a rileggersi il capitolo 5 della “Fratelli tutti”, per immaginare la miglior politica. Papa Francesco ha intuito prima e meglio di tutti che bisogna tornare a pensare. Noi tutti, anche il Terzo settore, nella dimensione sociale abbiamo posto più enfasi sull’azione che sul pensiero. La prospettiva va capovolta e tanti non credenti l’hanno capito, paradossalmente. Sono proprio loro a riconoscere che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto in grado di indicare una di via d’uscita, a patto che si aumenti però il tasso di produzione del pensiero. La Parola viene dal pensiero ed è necessario, anche nel mondo cattolico, investire di più nelle occasioni capaci di generare “pensiero pensante” e non “pensiero calcolante”.
È ancora convinto che la società civile sia più avanti della politica?
Sì, a patto che si esca una volta per tutte dal dibattito fuorviante incentrato sul bipolarismo Stato-mercato e si riconosca il ruolo del Terzo settore. Attenzione, la mancanza di una dimensione comunitaria fa male anche al mondo del volontariato e della cooperazione, però i segnali positivi non mancano: penso all’Economy of Francesco, al recente elogio del modello di economia civile arrivato da parte di Sergio Mattarella. Serve fiducia e il mondo cattolico in questo senso ha molte carte da giocare».
BORSE, L’INDIA SORPASSA HONG KONG
Borse, nella sfida asiatica l’India sorpassa Hong Kong. La capitalizzazione totale ha raggiunto i 4.330 miliardi di dollari contro i 4.290 dell’ex colonia britannica. Il Paese è la quarta piazza borsistica mondiale dopo Usa, Cina e Giappone. Marco Masciaga per Il Sole 24 Ore.
«La capitalizzazione di Borsa indiana per la prima volta ha superato quella di Hong Kong. Secondo i dati compilati dall’agenzia di stampa Bloomberg, il valore complessivo dei titoli quotati a Mumbai ha raggiunto i 4.330 miliardi di dollari contro i 4.290 di quelli scambiati nell’ex colonia britannica. Il sorpasso – giunto dopo che lo scorso 5 dicembre era stata sfondata per la prima volta la soglia dei 4mila miliardi di dollari – fa dell’India la quarta piazza borsistica mondiale dopo gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone. Il 2023 è stato un anno di robusti ritorni per chi ha investito nel National Stock Exchange (Nse) e nel Bombay Stock Exchange (Bse), rispettivamente la principale piazza borsistica del Paese e la più antica dell’Asia, entrambe con sede nella capitale finanziaria Mumbai. Dietro i rendimenti ci sono diversi fattori. La solida crescita economica indiana sta gonfiando i bilanci e le quotazioni di diverse grandi società, attirando non solo i risparmi di una quota crescente di piccoli investitori locali abbastanza liquidi da poter puntare sui mercati azionari, ma anche flussi non più trascurabili di capitali dall’estero – sia sotto forma di equity che di investimenti industriali – in cerca di mercati politicamente stabili e con solide prospettive di crescita. «Oggi vediamo quella indiana come la migliore structural growth story che ci sia non solo sui mercati emergenti, ma anche a livello mondiale» sostiene il Ceo di Global X Etfs Evan Metcalf. A livello industriale, il Paese sta capitalizzando sul fenomeno battezzato China Plus One, o C+1, ovvero la tendenza di un numero crescente di multinazionali a ridistribuire dal punto di vista geografico una parte delle proprie supply chain, affiancando alla Cina almeno un Paese con costi del lavoro e livelli di competenze non troppo dissimili e minori rischi politici. Anche grazie ai generosi incentivi fiscali offerti dal governo indiano, diverse società tecnologiche, tra cui alcuni storici fornitori taiwanesi di Apple come Foxconn hanno aperto o stanno per aprire nuovi stabilimenti in Stati indiani storicamente business friendly come il Tamil Nadu, il Karnataka e il Telangana. Secondo un recente studio pubblicato dall’Official Monetary and Financial Institutions Forum, un think tank londinese, la preferenza per l’India si è ormai estesa anche grandi player istituzionali come fondi pensione e fondi sovrani. Lo scorso anno sono fluiti verso i mercati azionari indiani circa 21 miliardi di dollari di capitali provenienti dall’estero, contribuendo a regalare agli investitori nel Sensex, l’indice dei titoli guida del Bse, l’ottavo anno consecutivo di crescita. Tutto questo non vuole dire che il mercato azionario indiano sia improvvisamente diventato adulto. Le dimostrazioni che la governance, sia dei listini sia delle aziende quotate, ha ampi margini di miglioramento non mancano. Gli ultimi due episodi sono così recenti da essere avvenuti proprio mentre avveniva il sorpasso. Il primo risale a venerdì sera, quando – probabilmente per compiacere il primo ministro Narendra Modi – è stato improvvisamente annunciato un nuovo calendario delle sedute borsistiche tra sabato e lunedì per consentire ai lavoratori di Borsa di partecipare alle celebrazioni di un nuovo tempio che il governo nazionalista hindu ha rivestito di forte significato politico. La seconda è arrivata lunedì, quando Sony ha annunciato di non voler più procedere con la prevista fusione da 10 miliardi di dollari con Zee Entertainment, uno dei maggiori player locali del settore televisivo per gli evidenti problemi di governance emersi in seno alla media company indiana, facendo precipitare il titolo di oltre il 30% in una sola memorabile seduta».
TRUMP RIVINCE, FRA I DEM IPOTESI MICHELLE
In New Hampshire Trump ottiene il via libera. Nel campo democratico si muovono gli Obama. E rimbalza una voce sui giornali: «Michelle sostituirà Biden, sarà lei la candidata dem». Alla Convention di agosto potrebbe esserci l’investitura della ex first lady. Valeria Robecco per Il Giornale.
«Dreaming Michelle. Le primarie repubblicane sono appena iniziate (ma forse già finite), e torna in auge un sogno mai sopito, quello di vedere l’ex first lady nello Studio Ovale. A rilanciare i rumors sulla moglie dell’ex presidente americano Barack Obama è il New York Post, secondo cui potrebbe già essere al lavoro per Usa 2024. Non è la prima volta che si parla di una sua ipotetica discesa in campo nella corsa per la Casa Bianca, possibilità sempre smentita dalla diretta interessata. Ma questa volta è diverso, almeno secondo un editoriale del Nyp, stando al quale nei prossimi mesi Joe Biden annuncerà il suo ritiro, forse già in maggio, e l’ex first lady sarà nominata in agosto alla convention democratica di Chicago (la sua città). Un piano, stando al tabloid conservatore, «orchestrato» dallo stesso Barack. E lo staff di Michelle Obama, si legge ancora, avrebbe già sondato il terreno chiedendo ai principali donatori dem opinioni in merito a una sua imminente candidatura. Certo non è un segreto che nell’Asinello ci sia preoccupazione sulla tenuta dell’attuale presidente, superato da Donald Trump nei sondaggi, e ancor di più sulla sua vice Kamala Harris, ai minimi storici di gradimento. Quello che serve al paese, secondo l’editorialista del Post Cindy Adams, ma non solo, è un candidato centrista, un leader forte che sappia fare breccia anche tra gli indipendenti e i moderati. Se mai dovesse realmente correre e soprattutto vincere, Michelle regalerebbe un secondo primato degli Obama agli Stati Uniti: dopo il primo presidente afroamericano, la prima presidente donna, nonché il secondo comandante in capo in famiglia (traguardo mancato da Hillary Clinton). Dopo i due mandati come first lady Michelle ha sempre continuato a impegnarsi politicamente, e già nel 2020 un movimento aveva cercato di spingerla a candidarsi contro Trump. Ora che la presa del tycoon sembra più forte che mai, sono in molti a pensare che lei sarebbe la candidata più indicata per impedirgli di conquistare il secondo mandato. E a smuoverla potrebbe essere proprio il timore di una vittoria dell’ex presidente. Lei stessa in un’intervista dell’8 gennaio sul podcast On Purpose si è detta «terrorizzata per quello che potrebbe succedere». Alla domanda su cosa la tenga sveglia la notte, ha risposto che «non possiamo dare per scontata questa democrazia». «Cosa succederà alle prossime elezioni? Sono terrorizzata da ciò che potrebbe accadere perché i nostri leader contano - ha aggiunto -. Chi scegliamo, chi parla per noi ha un effetto che talvolta penso sia dato per scontato». Intanto, sul fronte repubblicano, Trump punta a posare una pietra tombale sulle primarie in New Hampshire, mettendo fuori gioco l’unica rivale rimasta, Nikki Haley, per concentrarsi sulla battaglia di novembre. «Abbiamo iniziato con 13 candidati, ora siamo scesi a due, e penso che una persona probabilmente se ne andrà domani», ha detto ai suoi sostenitori prima del voto. L’ex governatrice della South Carolina, che sino all’ultimo ha sperato in una vittoria a sorpresa nel Granite State, ha promesso invece che continuerà la corsa, poiché «questo non è uno sprint, ma una maratona».
LE PROTESTE DEGLI AGRICOLTORI SCUOTONO L’EUROPA
A Bruxelles c’è preoccupazione per le diffuse proteste del mondo agricolo. Nuovo dialogo strategico al via per trovare risposte e non avvantaggiare i populisti. Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«Stretto fra le regole ambientali e la concorrenza internazionale, il mondo agricolo è tornato improvvisamente a protestare in molti Paesi d’Europa, non ultima la Francia dove ieri è addirittura morta una manifestante, nella regione dell’Ariège. La questione è tanto politica quanto economica a pochi mesi dal voto europeo di giugno. L’establishment comunitario si sta mobilitando pur di evitare che le proteste vengano fatte proprie dai partiti più radicali. Verrà inaugurato domani a Bruxelles un nuovo dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura. L’iniziativa era stata preannunciata in settembre dalla stessa presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Presidente del nuovo foro sarà il tedesco Peter Strohschneide che in passato ha guidato una iniziativa simile in Germania (la Zukunftskommission Landwirtschaft). Il tentativo è di trovare insieme le risposte ai grandi nodi del momento: la concorrenza mondiale, il cambiamento climatico, la transizione ambientale. Secondo le informazioni raccolte qui a Bruxelles, a partecipare alla conferenza inaugurale saranno una serie di associazioni di categoria (in tutto una trentina). Il destino vuole che la conferenza giunga mentre si moltiplicano le proteste degli agricoltori. In Olanda, in Germania, in Francia i timori del mondo agricolo sono legati alle esigenze imposte dal Patto Verde, alla riduzione dei sussidi energetici, all’eccesso di burocrazia. In altri Paesi, come in Polonia, in Ungheria o in Romania, a fare paura sono le importazioni a basso costo provenienti dall’Ucraina. Parlando ieri durante una riunione ministeriale a Bruxelles, il commissario all’agricoltura, il polacco Janusz Wojciechowski, ha messo l’accento sulla crisi del settore: «L’Unione europea rimane il primo esportatore al mondo di prodotti agricoli. Ciononostante, nell’ultimo decennio il numero di imprese agricole è sceso da 12 milioni a 9 milioni, mentre l’età media degli agricoltori è salita da 55 a 57 anni». L’esponente politico ha poi ribadito la necessità ai suoi occhi di aumentare le risorse del bilancio comunitario riservate all’agricoltura. Eppure, la politica agricola comune (PAC) rappresenta già oggi un terzo del bilancio comunitario 2021-2027. Secondo un rapporto pubblicato in giugno, tra il 2019 e il 2021 i sussidi pubblici nei 54 Paesi monitorati dall’Ocse (presenti tutti i Paesi Ue) sono ammontati a 817 miliardi di dollari all’anno, il 13% in più rispetto al 2018-2020. Gli esperti, però, sono convinti che il denaro è distribuito troppo a pioggia, beneficiando soprattutto le imprese più grandi. La PAC, in poche parole, andrebbe riformata nuovamente. Molti ministri dell’agricoltura, presenti ieri alla ministeriale, hanno fatto propria questa opinione, lo sguardo rivolto al bilancio 2028-2034 e al prossimo allargamento all’Ucraina, un mini-gigante agricolo. Il ministro italiano Francesco Lollobrigida ha affermato: «Garantire la produttività insieme alla sostenibilità ambientale è d’obbligo», ma superando «politiche ideologiche». Ha poi aggiunto che ai suoi occhi «il primo tutore dell’ambiente» è proprio l’agricoltore. La partita non è solo economica. In molti governi, a pochi mesi dal prossimo voto europeo, c’è il timore che la protesta agricola possa rafforzare i partiti più radicali - Alternative für Deutschland in Germania, il Rassemblement National in Francia – così come è avvenuto in Olanda, dove il malumore della categoria ha portato alla nascita di un movimento, il BoerBurgerBeweging, e alla vittoria nelle ultime elezioni legislative di novembre del partito nazionalista Pvv guidato da Geert Wilders».
SALE LA TENSIONE IN FRANCIA PER LE BARRICATE CONTADINE
Le barricate dei contadini francesi: travolta e uccisa una manifestante. Un’auto ha forzato il blocco, gravi marito e figlia. Il neoministro Fesneau sul posto. Stefano Montefiori per il Corriere.
«Lo scorso novembre nelle campagne francesi centinaia di cartelli stradali sono stati capovolti, un modo per denunciare «un mondo alla rovescia». All’epoca la protesta degli agricoltori aveva suscitato simpatia e qualche sorriso, niente di più. E due settimane fa il nuovo premier Gabriel Attal ha citato tra le priorità del suo governo la scuola e gli ospedali, non certo le campagne. La rabbia è salita, come in Germania, Romania, Polonia e Lituania. Negli ultimi giorni gli agricoltori hanno bloccato le strade soprattutto nel Sud della Francia, e ieri all’alba la tragedia: un’auto non si è fermata davanti a una barricata sulla strada statale poco lontana da Tolosa. Alexandra Sonac, 36 anni, contadina e allevatrice che partecipava alla protesta, è morta sul colpo. Il marito e la figlia 12enne, che si trovavano accanto a lei, lottano in ospedale tra la vita e la morte. La seconda figlia, 10 anni, rimasta a casa con i nonni, non sa ancora che cosa è successo. È un dramma che potrebbe cambiare le dimensioni e la natura della protesta, ormai vicina — per emozione e centralità nel dibattito politico — alla rivolta dei gilet gialli cominciata nel novembre 2018, e amplificata all’epoca da un analogo incidente mortale su una strada della Savoia. «Sono qui per esprimere l’emozione di tutto il governo nei riguardi del mondo agricolo», ha detto il ministro dell’Agricoltura, Marc Fesneau, arrivato sul luogo dell’incidente. Fesneau, poco noto e appena entrato al governo, si trova subito a gestire un’emergenza sociale e anche politica, perché il Rassemblement national di Marine Le Pen è determinato a sfruttare il malcontento della Francia rurale, che si sente abbandonata dalle élite di Bruxelles e Parigi. Nella visione lepenista, la situazione degli agricoltori è il simbolo perfetto delle vessazioni imposte dai burocrati della Commissione sui francesi che fanno lavori ingrati e indispensabili. Contadini e allevatori chiedono di essere pagati di più, respingono gli aumenti del carburante, ma soprattutto si oppongono alle norme ambientali europee che a loro dire sono assurde: penalizzano il loro lavoro rendendolo impossibile, mentre permettono le importazioni di carni e grano prodotti senza controlli in Brasile o nell’Europa extracomunitaria. Di fronte al ministro Fesneau c’è un altro nuovo arrivato, Arnaud Rousseau, alla testa della Fnsea, il principale sindacato agricolo. Spetta a lui spiegare ai parigini che la campagna non è tanto il luogo piacevole dove avere una residenza secondaria, ma soprattutto il mezzo di produzione e sostentamento per mezzo milione di francesi».
USA, PRIMA ESECUZIONE CON L’AZOTO
Il condannato a morte Kenneth Eugene Smith, 58 anni, domani indosserà una maschera e dovrà respirare il gas che gli procurerà la morte in 15 minuti: una tecnica rifiutata persino dai veterinari. Appello dei leader religiosi del mondo alla governatrice Usa che può sospendere l’esperimento-esecuzione. Luca Liverani per Avvenire.
«La giustizia ha deciso che domani verrà ucciso con un metodo rifiutato anche dai veterinari, perché considerato troppo crudele per abbattere gli animali. Tranne i maiali, che però vengono prima sedati. È l’ipossia da azoto, metodo mai usato per le condanne a morte, che sarà sperimentato per la prima volta nello stato dell’Alabama negli Usa su Kenneth Eugene Smith, 58 anni, condannato per omicidio, 35 anni nel braccio della morte e, un anno e mezzo fa, 4 ore con il boia che non è riuscito a trovargli la vena per l’iniezione finale. Domani, dopo essere immobilizzato, Kenneth verrà costretto a indossare una maschera, come quelle per aiutare la respirazione dei malati. Stavolta la bombola gli inalerà azoto puro, gas presente nell’aria, che però in mancanza assoluta di ossigeno dovrebbe provocare la perdita dei sensi e poi la morte nel giro di un quarto d’ora. Dovrebbe, perché nessuno l’ha mai provato su un essere umano. Una pena disumana, inflitta con metodi crudeli, che spinge la Comunità di Sant’Egidio – da decenni impegnata contro la pena di morte in tutto il mondo – a mobilitarsi fino all’ultimo per chiedere alla governatrice dello stato di recedere dalla barbara decisione. Mario Marazziti, cofondatore della World Coalition Against the Death Penalty, spiega i due principali motivi in una conferenza a Roma, in contemporanea con diverse città tra cui Parigi, Berlino, Barcellona e Budapest,: «Il primo è salvare la vita a Kenneth Smith. Il secondo evitare all’Alabama una vergogna indicibile: sembra avere l’ambizione terribile di stabilire uno standard al ribasso in una realtà già terribile qual è la pena di morte». Sant’Egidio ha già inviato alla Governatrice un appello internazionale firmato da leader religiosi. Per la Comunità di Sant’Egidio «è la guerra di uno Stato contro un singolo individuo. Non è solo un’esecuzione: qui si gioca una battaglia della cultura della vita contro la cultura della morte. Un accanimento omicida – dice Marazziti – che è il contrario dell’accanimento terapeutico». Entrata in crisi l’iniezione letale – condannati che resistono a lungo, dubbi su sofferenze orribili non manifestate per la paralisi indotta, difficoltà nel reperire il pentobarbital boicottato dalle industrie farmaceutiche – si sperimenta l’ennesimo metodo “indolore e umano”: «Lo si disse anche della ghigliottina». Kenneth Smith aveva 24 anni quando un predicatore gli commissionò per mille dollari l’omicidio della moglie per riscuoterne la polizza vita. In molti Paesi trent’anni di carcere sono sufficienti come condanna per un assassino. «Lui ne ha passati 35. E ora sarà riportato a forza nella stanza dove per quattro ore l’hanno bucato cercando di ucciderlo. Nell’antica Roma chi si salvava dai leoni era libero. Nel Medioevo chi sopravviveva a un’esecuzione era salvo. In Alabama, nel 2024, invece no: Kenneth non ha già pagato abbastanza?». Sant’Egidio ricorda che il mondo civile «con fatica ha messo al bando la schiavitù e la tortura. Ora la tortura viene reintrodotta come pratica “normale”». L’Alabama è uno stato simbolicamente importante: «Da lì è partita la battaglia per i diritti civili dei neri. Prima col boicottaggio degli autobus lanciato da Rosa Parks nel 1955 contro la separazione razziale dei posti. Poi con le tre marce nel 1965 di Martin Luther King da Selma a Montgomery. È uno stato che si è liberato dell’immagine di “terra dei linciaggi” del Ku Klux Klan». L’esecuzione di Kenneth potrebbe sdoganare un nuovo disumano metodo di esecuzione: «Oklahoma e Mississipi hanno già introdotto l’ipossia da azoto, ma non ancora applicato». Marazziti propone un boicottaggio per protestare con il governo dell’Alabama: «Lo stato meridionale degli Usa è noto per le spiagge e i campi da golf. I turisti potrebbero andare altrove, le imprese spostare gli investimenti: esistono tanti posti negli Usa per fare le stesse cose».
I LORD RIMANDANO LA DEPORTAZIONE IN RUANDA
Gran Bretagna. L’altra sera i rappresentanti della Camera alta hanno chiesto al governo di rinviare la ratifica del trattato che prevede la deportazione dei migranti in Ruanda. Angela Napoletano per Avvenire.
«La Camera dei Lord ha votato una mozione che rimanda l’approvazione del trattato sulla sicurezza del Ruanda. Tassello centrale della legge con cui il premier Rishi Sunak spera di attuare il controverso piano sulle deportazioni di migranti irregolari a Kigali. Un brutto colpo per il governo. La mozione-sgambetto è stata presentata dal laburista Peter Goldsmith, presidente del Comitato per gli accordi internazionali, che dopo aver identificato nel testo almeno dieci criticità ha chiesto ulteriori verifiche, «pratiche e legali», sulla sua attuazione. Meglio se alla luce di altre prove sull’impegno del Ruanda a non respingere i richiedenti asilo arrivati da Oltremanica nei Paesi di origine. Il «no», seppure non legalmente vincolate, aggiunge sale sulle ferite di Sunak. La cui leadership è fortemente ammaccata dalle rivendicazioni oltranziste dei conservatori che sull’immigrazione, vistoso vessillo elettorale del voto di fine anno, chiedono misure più dure e che la scorsa settimana, ai Comuni, hanno minacciato di affondare la nuova legge sul Ruanda. La Camera alta del Parlamento è chiamata a votare la prossima settimana l’intero pacchetto legislativo sul Ruanda. Un altro intoppo lo sarebbe fatale per l’operatività del piano e per la credibilità (già in caduta libera) del governo. Prospettiva aggravata dal rischio di una querelle costituzionale. L’altolà dei Lord verrebbe interpretato come una negazione della «volontà del popolo». La Camera dei Comuni, che lo ha varato il con una maggioranza di 44 voti, è democraticamente eletta. Quella dei Lord, invece, non lo è. Per molti Suank è ormai un premier «in carica ma non al potere». Fa discutere anche la decisione di non aver preso alcun provvedimento disciplinare nei confronti degli undici deputati dell’ultradestra Tory che hanno capeggiato la rivolta della scorsa settimana. Pare che per il momento siano stati solo richiamati a non osare altre dimostrazioni. Sullo sfondo di sondaggi disastrosi, tuttavia, nuovi fronti interni cominciano ad aprirsi. Ieri, una quarantina di deputati conservatori hanno sottoscritto una una lettera bipartisan, promossa dalle opposizioni, che intima l'esecutivo a stanziare più fondi alle amministrazioni locali a rischio bancarotta».
OSCAR, ECCO LE NOMINATION
Arrivano le nomination per i prossimi Oscar. Io capitano di Matteo Garrone è in corsa. Il dramma dei migranti (in dialetto senegalese), raccontato dal regista italiano, entra nella cinquina dei film internazionali. A Oppenheimer vanno ben 13 candidature. Meno per Barbie. Tra i favoriti Povere creature!. Valerio Cappelli per il Corriere della Sera.
«L’Italia c’è alla notte degli Oscar. Matteo Garrone con Io capitano è entrato nella cinquina dei migliori film internazionali. L’ingresso ha destato soddisfazione ma anche una certa sorpresa. Il regista affronta un tema difficile come quello dei migranti e il suo è un lavoro in dialetto senegalese, con i sottotitoli, che non è stato doppiato. Era escluso dai premi ai Bafta e ai Golden Globes, considerati l’anticamera degli Oscar. Nella notte delle stelle però è attesa la bomba atomica che si sgancerà il 10 marzo. Rispettate le previsioni, Oppenheimer di Christopher Nolan, il film sull’inventore degli ordigni nucleari, guida la corsa con 13 candidature. Povere creature! di Yorgos Lanthimos (Leone d’oro a Venezia) è arrivato secondo con 11 nomination. Quelle che pesano sono tre: miglior film, regia e attrice (Emma Stone). Al terzo posto con 9 preferenze Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, il quale supera Steven Spielberg come regista in attività col maggior numero di candidature: dieci, la prima nel 1980 con Toro scatenato (in bacheca ha soltanto la statuetta per The Departed, anno 2006). Barbie ha 8 nomination, ma tranne quella per miglior film sono laterali. Pesano di più le 7 nomination di Maestro, il film su Leonard Bernstein: miglior film, attore (Bradley Cooper), attrice (Carey Muligan), sceneggiatura originale. Ne esce benissimo anche The Zone of Interest di Jonathan Glazer su Auschwitz vista dalla prospettiva dei nazisti, con 5 candidature: miglior film, regia, miglior film internazionale, suono e miglior sceneggiatura non originale. Rivincita per Justine Triet, regista di Anatomia di una caduta, il thriller psicologico che scava nei segreti di una famiglia, con una moglie che fino all’ultimo non si capisce se sia l’autrice dell’omicidio del marito. È nella cinquina per il miglior film e come migliore regista. Ma ha collezionato altre tre nomination: migliore attrice (Sandra Huller), migliore sceneggiatura, miglior montaggio. L’autrice era stata punita dalla Francia, colpevole di aver polemizzato con la riforma delle pensioni mentre riceveva la Palma a Cannes. Così i francesi agli Oscar hanno candidato La passion de Dodin Bouffant del vietnamita Tràn Anh Hùng, ma la storia della cuoca di metà ‘800 interpretata da Juliette Binoche resta a bocca asciutta. E ora Justine Triet, dopo aver fatto asso pigliatutto tra Golden Globe, Oscar europei e Cannes, entra agli Oscar dalla porta principale. Non poteva concorrere nella categoria dei film internazionali: la troviamo nelle principali. Molte le curiosità. Leo DiCaprio ( Killers of the Flower Moon) è stato snobbato, ma per lo stesso film, come attore non protagonista, Robert De Niro ottiene la nona nomination in carriera. Il compositore John Williams, vincitore di 5 Oscar, ha la nomination numero 54 per Indiana Jones e il quadrante del destino. La Mostra di Venezia è «presente» con sette film ospitati all’ultima edizione per un totale di 24 candidature. Wim Wenders , 79 anni, è per la prima volta in gara per il film internazionale (dopo tre candidature per i documentari). Delle dieci nomination come miglior film (unica categoria col doppio delle altre), 5 sono presenti come miglior film e come miglior regia: Triet, Scorsese, Nolan, Glazer, Lanthimos».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 24 gennaio: