Ancora Trump (e Biden)
Il Supermartedì in Usa blocca la corsa presidenziale sui due sfidanti. Haley vince solo in Vermont. Meloni e Schlein sul dossieraggio, in Abruzzo verso il voto. Di Cesare omaggia la Balzerani
La notizia dell’ultima ora riguarda il Supermartedì. Il giorno chiave delle primarie Usa nell’anno elettorale ha un risultato molto netto. Si profila una grande affermazione di Donald Trump in tutti gli Stati coinvolti, con l’eccezione del Vermont, dove c’è un’affermazione di Nikki Haley. È molto difficile però che la ex governatrice repubblicana continui la sua corsa. Mentre The Donald, dopo il via libera della Corte Suprema sulle vicende giudiziarie, sembra lanciato davvero verso un ritorno alla Casa Bianca. Il suo ideologo Steve Bannon sul Corriere della Sera spiega che per noi, italiani ed europei, le cose potrebbero cambiare in fretta. Mentre Alberto Simoni sulla Stampa analizza quanto pesi negativamente l’economia interna americana (il cheeseburger a 22 dollari) sulla fiducia a Joe Biden. Il Presidente Usa, da parte sua, esce confermato dalle primarie e, paradossalmente, l’affermazione di Trump lo rinforza. La gara di novembre sarà fra loro due, non ci sono alternative.
In Italia fa notizia che il Presidente del Consiglio e il capo dell’opposizione convergono. Sia Giorgia Meloni che Elly Schlein sono infatti molto preoccupate dai dossier fabbricati con gli accessi alle banche date riservate dell’Antimafia e poi fatte avere ai giornali. Dossier che ieri avevano suscitato grande indignazione in Matteo Renzi e Matteo Salvini. La premier attacca chiedendo di sapere chi c’è dietro al dossieraggio di tanti personaggi pubblici, fra cui molti esponenti del centro destra. Domani e venerdì si terranno le audizioni all’Antimafia e al Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) del procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e del procuratore di Perugia Raffaele Cantone sull'inchiesta della procura di Perugia. Il tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano era pilotato da qualcuno? Certo è che il vice dell’Antimafia Federico Cafiero De Raho che all’epoca degli accessi illegali era il numero uno della Dna ora milita nei 5 Stelle.
In questa polemica, il capo dello Stato Sergio Mattarella si è sentito di dover mettere qualche paletto, come si dice. Ricordando il principio costituzionale della libertà di stampa, ma anche i limiti delle sue competenze di Presidente della Repubblica. Non è un Re, ha spiegato. Lui firma leggi che magari non lo convincono (lo ha detto subito dopo aver dato il via libera alla costituzione della commissione d’inchiesta sul Covid). A proposito di norme approvate, ieri le Camere hanno dato, a larghissima maggioranza, il loro sì alla missione militare navale italiana nel Mar Rosso, che ha carattere “difensivo”.
A Gaza la tragedia è senza fine. Al confine con l’Egitto sono ammassati camion di aiuti che provengono da tutto il mondo (vedi Foto del Giorno) ma che non riescono a passare. Raccontano i cronisti: “Il valico di Rafah sembra irreale, come il pannello della coreografia di un brutto film. Di qua una calma distopica, di là fame e bombe”. Nessuna novità dal Cairo sulla possibile tregua, mentre Netanyahu ammorbidisce i toni sull’ingresso alla Spianata della Moschea, in vista del Ramadan.
La Commissione europea ha stanziato 1,5 miliardi nelle spese militari. Ma la Ue, precisano da Bruxelles, non userà denaro comunitario per l’acquisto di armamenti; non si sostituirà ai governi. Non è infatti passata l’idea di creare un nuovo Next Generation EU questa volta dedicato alla difesa, come avrebbe voluto la Francia. Soprattutto per l’avversione radicale della Germania. Il Fatto scrive oggi che l’Italia ha comunque dato all’Ucraina il doppio se non il triplo degli stanziamenti ufficialmente dichiarati.
Tornando all’Italia, forti polemiche ha suscitato la presa di posizione della prof di filosofia della Sapienza di Roma Donatella di Cesare che ha scritto della brigatista mai pentita Barbara Balzerani: «La tua rivoluzione fu anche la mia». Poi cancella l’omaggio alla brigatista appena scomparsa. Della serie: cattivi maestri.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae i Tir di aiuti in attesa di entrare a Gaza, al confine di Rafah. Si calcola che siano almeno 1.500 i camion che contengono aiuti provenienti da tutto il mondo.
Foto Manolo Lupicchini per Il Manifesto.
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Sono uscite allo scoperto anche Meloni e Schlein e La Stampa ci ripensa. Oggi titola: Politici e vip, migliaia di spiati. Il Corriere della Sera conferma: Alta tensione sui dossier. Il Messaggero sottolinea la richiesta della premier: «Spionaggio, ora i mandanti». Libero è ironico: Ci arriva pure Schlein. «Dossieraggi gravissimi». La Verità aggiunge carne al fuoco: A Perugia altro caso dossier. I file «rubati» sono migliaia. Il Domani, parte in causa, si sente invece nel mirino e cerca di usare il Quirinale: La premier Meloni attacca Domani. Il Colle difende la libertà di stampa. Il Giornale sintetizza: Spie, l’allarme del governo. Il Quotidiano Nazionale insiste sui responsabili: Dossier, l’ira di Meloni: fuori i mandanti. Il riarmo previsto dalla Ue è il tema del Sole 24 Ore: Primo via libera alla difesa europea. Condiviso da Avvenire: Difesa (ri)armata. Il Fatto si concentra sugli aiuti mandati a Kiev: Ucraina “a costo zero”: già spesi 5,4 miliardi. Su Gaza e i mancati soccorsi punta il Manifesto, che denuncia: Aiuti nel deserto. Verso il voto di domenica si lancia Repubblica, che spera: Abruzzo, partita aperta.
VELENI E DOSSIER, MELONI ATTACCA
Sulla polemica dei dossier fabbricati con gli accessi alle banche date riservate dello Stato intervengono il Presidente del Consiglio e il capo dell’opposizione. Giorgia Meloni attacca: metodi da regime, ci dicano chi sono i mandanti. Elly Schlein concorda: uno scandalo, va fatta chiarezza. Fabrizio Caccia per il Corriere della Sera.
«Per la prima volta la premier Giorgia Meloni interviene sull’inchiesta di Perugia e lo fa attaccando duro: «Vogliamo sapere chi sono i mandanti perché questi sono metodi da regime — dice dall’Abruzzo —. Ritengo gravissimo che in Italia ci siano dei funzionari dello Stato (si riferisce al pm Antonio Laudati e al finanziere Pasquale Striano entrambi indagati per gli oltre 800 accessi abusivi alle banche dati della Dna, ndr ) che hanno passato il loro tempo a violare la legge facendo verifiche su cittadini, comuni e non, a loro piacimento, per poi passare queste informazioni alla stampa, e in particolare ad alcuni esponenti della stampa». Secondo le indagini, infatti, molte delle informazioni estratte dal finanziere Pasquale Striano dai database sono state poi passate ad alcuni giornalisti del quotidiano Domani , pure loro coinvolti nell’inchiesta. «Utilizzare così le banche dati pubbliche non c’entra niente con la libertà di stampa», dice Meloni che poi ringrazia dal palco di Pescara il procuratore di Perugia Cantone e il procuratore nazionale antimafia Melillo. Sono proprio loro due ad aver chiesto di essere ascoltati «con l’urgenza del caso» dal Csm, dalla Commissione Antimafia e dal Copasir: Melillo sarà audito oggi all’Antimafia, Cantone domani mattina e sempre domani entrambi andranno pure davanti al Copasir a riferire. L’indagine si è ormai trasformata in un caso politico. Per la segretaria dem Elly Schlein la «schedatura illegittima di centinaia di persone», con «800 accessi illegittimi», è «uno scandalo» di una «gravità inaudita», per questo Schlein sottolinea la necessità di «fare estrema chiarezza». E avverte: bisogna «evitare che possano ancora accadere fatti di questo tipo». «C’è un Grande Fratello che studia e prepara dossier su ognuno? E per quali fini? — si chiede il ministro degli Esteri Antonio Tajani — Ci auguriamo che dalla riunione dell’Antimafia esca la verità: bisognerebbe capire chi è il regista, perché non credo sia un sottufficiale della Guardia di Finanza». Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, osserva: «Il diritto alla privacy, garantito dall’articolo 15 della nostra Costituzione, è diventato ormai una sorta di aspirazione metafisica». Il presidente dei senatori FI, Maurizio Gasparri, chiede l’intervento del presidente Sergio Mattarella come capo del Csm: «Faccia sentire la sua voce». La senatrice Iv, Raffaella Paita, chiede che Federico Cafiero de Raho, l’ex capo della Procura nazionale antimafia al tempo in cui si verificarono gli accessi abusivi e ora deputato dei 5 Stelle, svesta i panni di vicepresidente della commissione Antimafia, il ruolo che attualmente ricopre, per vestire quelli di audito. «Denuncerò questa vergogna in tutte le Procure», fa sapere il vicepremier leghista Matteo Salvini, che figura tra «gli spiati» assieme alla compagna Francesca Verdini. Ogni giorno sbucano nomi nuovi tra le vittime: pure monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo e volto televisivo. A proposito: ieri Fedez, pure lui spiato, con riferimento a Laudati ha detto: «Evidentemente i pm antimafia non hanno niente da fare in questo Paese». Amaro, infine, il ministro della Difesa, Guido Crosetto (da un suo esposto è nata l’inchiesta): «Sono l’unico che non parla sul tema Dossier. Nonostante sia la persona che ostinatamente, in solitudine, senza solidarietà, ha cercato la verità. Contro nessuno. Solo per giustizia. Non parlo per rispetto dell’inchiesta. Non parla la parte lesa, ma (stra)parlano gli indagati».
MATTARELLA: NON SIAMO ALLO STATUTO ALBERTINO
Sergio Mattarella interviene, a suo modo, nel dibattito politico, incontrando i rappresentanti della cassa sanitaria dei giornalisti. E dice: «Non sono un Re, per fortuna firmare leggi non significa condividerle». Angelo Picariello su Avvenire.
«Non siamo più allo Statuto albertino», chiarisce il capo dello Stato incontrando i dirigenti della Casagit, la cassa dei giornalisti: «La libertà di stampa è un elemento indispensabile della democrazia» Basta tirare per la giacca il Capo dello Stato. L’Arbitro non può essere arruolato dalle “squadre” in campo. «Qualche volta ho come l’impressione che qualcuno pensi ancora allo Statuto Albertino », dice Mattarella. Sceglie l’udienza con i dirigenti della Casagit, la Cassa di malattia dei giornalisti, per chiarire la portata del potere di promulgazione, che taluni vorrebbero fosse usato contro l’azione di governo. Ma, chiarisce Mattarella, non siamo più ai tempi della monarchia: «Quando le Camere approvavano la legge, il re prima di promulgarle doveva apporre la sua sanzione, cioè la sua condivisione nel merito, perché aveva anche attribuito il potere legislativo». Ma, rimarca, «fortunatamente non è più così. Il Presidente della Repubblica non è un sovrano, fortunatamente, e quindi non ha questo potere». Le parole di Mattarella non vanno accostate a questa o a quella misura del governo, o a un tema specifico. Ma inserite in un clima complessivo in cui se da un lato c’è l’idea, con la riforma, di circoscrivere i poteri - attualmente flessibili, “a fisarmonica” - del Quirinale, dall’altro c’è invece la tendenza a fare pressioni perché il potere di promulgazione - o di non promulgazione - venga usato per ribaltare gli equilibri parlamentari. «Frequentemente il Presidente della Repubblica viene invocato con difformi e diverse motivazioni. C’è chi gli si rivolge chiedendo con veemenza: “Il Presidente della Repubblica non firmi questa legge perché non può condividerla, perché gravemente sbagliata”, oppure: “Il Presidente Repubblica ha firmato quella legge e quindi l’ha condivisa, l’ha approvata, l’ha fatta propria”». La «libertà di stampa è fondamentale per la nostra democrazia, come per qualunque democrazia», rimarca poi Mattarella. Essa ha nella Costituzione «una tutela netta, chiara, indiscutibile, a fronte della quale vi è una assunzione di responsabilità da parte dei giornalisti: la lealtà, l'indipendenza dell'informazione, la libertà di critica, nel rispetto della personalità altrui, il rispetto dei fatti. Ma è un elemento indispensabile della nostra democrazia». Volendo cogliere un riferimento di giornata le sue parole possono essere accostate alla promulgazione, avvenuta proprio ieri, della legge che istituisce una Commissione parlamentare di inchiesta sull’emergenza Covid. Quel che pensa Mattarella, in merito alla proliferazione delle commissioni di inchiesta, lo aveva fatto sapere nel luglio scorso, anche quella volta avendo come interlocutori dei giornalisti: «Le Camere non sono un contropotere giudiziario», disse alla cerimonia del Ventaglio, prima delle ferie estive, con la stampa accreditata. Ma, ribadisce Mattarella, la eventuale non condivisione nel merito di una scelta politica non gli dà titolo per stopparla: «Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è una cosa ben diversa. È quell'atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità». Non è però, il suo, un controllo vero e proprio di costituzionalità, perché in tal caso «si arrogherebbe indebitamente il compito che è rimesso alla Corte costituzionale». Sarebbe «grave» rimarca Mattarella se un organo costituzionale «pretendesse di attribuirsi compiti che la Costituzione assegna ad altri poteri dello Stato». La “bussola” è sempre la Costituzione, nel suo insieme, « una indicazione di democrazia che si inserisce in quell’armonico disegno che la nostra Costituzione indica e presenta in maniera sinceramente ammirevole per coloro che la scrissero, che ebbero la forza - in condizioni difficili e anche dialetticamente molto accese - di definirla e approvarla». Nel condannare la diffusa tendenza a caricare il Quirinale di poteri e prerogative che non ha si può cogliere anche l’invito, implicito, a non comprimere quelle che invece detiene. Fra queste figura senz’altro il richiamo al rispetto dei valori costituzionali della libertà di espressione, specie se si tratta di giovanissimi e anche minori, come avvenuto in riferimento ag li scontri di Pisa. A ognuno, rimarca Mattarella , «la Costituzione assegna un compito, che nessun altro può sottrarre per farlo proprio».
BANNON: “CON DONALD STIAMO TORNANDO”
Donald Trump trionfa nel Supermartedì. Con l’eccezione del Vermont, dove vince Nikki Haley, prevale ovunque. Sarà lui a correre contro Joe Biden. Viviana Mazza sul Corriere intervista il suo ideologo Steve Bannon. Che spiega: «Il partito è suo e si riprenderà gli Usa. Preparatevi: Trump non ama né la Ue né la Nato».
«Al piano terra di una townhouse di mattoni rossi alle spalle della Corte suprema, la tv liberal Msnbc va in onda su due giganteschi televisori. Steve Bannon la tiene d’occhio: «Sono il nemico», spiega lo stratega che portò Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. Quattro ore al giorno, sei giorni a settimana, Bannon registra qui il podcast War Room. «Trump non aveva media quando andò a Mar-a-Lago. Murdoch disse che lo avrebbero reso una “non persona” e Fox è quello che chiamiamo opposizione controllata. War Room è il principale sostenitore di Trump». «Parliamo molto», dice Bannon quando gli chiediamo se dia ancora consigli a Trump, ma subito aggiunge: «È lo stratega di se stesso. Ha opinioni ben chiare. E se qualcuno ha dubbi ascolti i suoi discorsi». Bannon sta facendo appello contro una condanna per aver rifiutato l’ordine di comparizione del Congresso a testimoniare sull’inchiesta del 6 gennaio. E parla con orgoglio degli articoli della stampa che citano non solo la sua influenza sul movimento Maga (Make America Great Again), ma anche la «bannonizzazione della politica britannica». «Ho fatto un’intervista con Liz Truss e ha squagliato il Regno Unito. Nel question time con il primo ministro tutti le davano contro perché era apparsa nel mio show a parlare dell’invasione musulmana in Europa».
Trump è a un passo dalla nomination.
«È sua. Nikki Haley resta in campo non per battere Trump ma per cercare di inserire le sue persone nell’amministrazione. Potrebbe spingere — non dico che ci riuscirà —per diventare segretaria della Difesa, per favorire l’industria militare, i suoi donatori. Ha preso 300 mila voti in Michigan: sono voti anti Trump lo sappiamo, anche se molti sono indipendenti e democratici. Ma ci opporremo. Odio questa gente più dei democratici».
I sondaggi danno Trump in vantaggio su Biden, anche in quasi tutti gli Stati in bilico, ma i democratici dicono che è ancora presto .
«No, se le elezioni si tenessero oggi vincerebbe a valanga e le cose non cambieranno. I democratici sono scioccati e avviliti, credevano che la legge sarebbe venuta in loro soccorso e invece i processi slitteranno a dopo il voto. C’è quello di New York ma è un caso debole. Il movimento Maga è in ascesa. Oltre alla vittoria in Michigan e al fatto che faremo piazza pulita al Super Tuesday, Mitch McConnell ha annunciato che va in pensione dopo aver fallito nel far passare gli aiuti a Kiev. È troppo vecchio per combatterci, è la Magaizzazione del partito repubblicano. Trump ha vinto. Avevamo la Camera, abbiamo preso il Comitato nazionale repubblicano, poi il Senato. Il Cpac (la conferenza dei conservatori) è Maga».
Lei ha detto di amare Giorgia Meloni ma è deluso per la sua politica sulla Nato e l’Ucraina e perché non la ritenete abbastanza dura sull’immigrazione.
«I suoi più grandi sostenitori sono molto delusi. L’ho incontrata quando non era nessuno e dicevo a tutti: sarà premier. La amo per come sta normalizzando la destra al potere in Italia, ma non puoi giocare al gioco di Bruxelles e della Nato. Ha detto agli ucraini: saremo al vostro fianco, eppure il bilancio italiano per la difesa è solo all’1,4%. Gli europei e Meloni stanno giocando un gioco pericoloso: continuate ad alzare la posta in Ucraina, senza metterci i soldi. Negli Stati Uniti non abbiamo sanità, pensioni, non abbiamo sei settimane di vacanze estive, perché abbiamo un bilancio di tre trilioni di dollari di difesa. Non daremo più un penny . Il problema di sicurezza nazionale in America è il confine Sud».
E Salvini?
«Sarebbe più duro con la Nato e nel cercare di evitare uno scontro con la Russia».
Che cosa significherebbe un ritorno di Trump?
«Il presidente Trump è stato chiaro: se non raggiungete il 2% del Pil per la difesa vedrete una massiccia ristrutturazione della Nato. Noi vogliamo un’alleanza: alleanza vuol dire che dovete fare la vostra parte. Le élite europee si abituino all’idea: Trump non è amico dell’Ue, non è amico del partito di Davos e certamente non lo è dei tecnocrati alla Nato».
Per l’Ue sono state scioccanti le parole di Trump che per spingerli a pagare sarebbe pronto a incoraggiare Putin ad attaccare.
«Voglio che Trump usi un linguaggio scioccante: è il solo linguaggio che arriva. Io dico a Trump che deve far pagare anche gli arretrati. Mostrammo un prospetto a Merkel quando venne da Trump alla Casa Bianca. Dissi ai tedeschi: sono come pagamenti arretrati dell’affitto. Il consigliere per la sicurezza nazionale mi urlò contro, citando la Costituzione. Gli ho detto: abbiamo scritto noi la vostra Costituzione dopo avervi bombardato all’Età della pietra».
Orbán andrà da Trump a Mar-a-Lago, lei lo vedrà?
«Viene anche a Washington per un paio di giorni, non voglio dire cosa farò, ma siamo enormi sostenitori».
Tornerebbe nell’amministrazione Trump?
«Non posso lasciare War Room. Trump ha bisogno di un braccio mediatico».
FATTORE CHEESEBURGER
Perché Trump è ancora così forte? L’analisi di Alberto Simoni per La Stampa è centrata sull’economia americana. Inflazione e salario minimo fanno schizzare il prezzo del panino con carne e formaggio. Un cheeseburger arriva a costare da Mc Donald fino a 22 dollari. Dopo Gaza e la crisi dei migranti ecco l’altro punto debole di Biden in vista delle presidenziali di novembre.
«Matthias è danese, abita sulle "colline" di Washington nella zona della National Cathedral. Ha due figli e spesso il sabato sera andavano a magiare in un locale su M Street, nella chic Georgetown. Mangiavano hamburger con formaggio cheddar, pancetta, cetrioli e salse. Da qualche mese Matthias ha rivisto il budget famigliare: è diventato troppo costoso anche un hamburger. Il prezzo del cheeseburger ha superato i 17 dollari. E non è nemmeno il più caro in città, si arriva anche a superare i 22 dollari per un doppio cheeseburger. Fra bibite mance – obbligatorie e fisse a non meno del 15% - servizi extra, tasse locali, il conto a testa può sforare i 30 dollari. Nella capitale ci sono oltre 3400 ristoranti, i prezzi dei menù in un anno sono cresciuti del 5,6%. Il problema però non è circoscritto alla capitale, un po' ovunque negli Stati Uniti c'è stata un'impennata di prezzi dei cheeseburger, quasi piatto nazionale e alla portata – un tempo – di tutti. In gennaio mangiare fuori costava a una famiglia il 30% in più rispetto al 2019 secondo i dati del Dipartimento del Lavoro. La spinta ai prezzi ha molti padri, ma quella che sta mettendo a soqquadro i conti dei piccoli e medi ristoratori (e di riflesso delle famiglie) è il costo del lavoro. Secondo uno studio di Vistage Worldwide il 59% degli imprenditori del food ritiene che a incidere sull'inflazione sia il costo dei dipendenti. Diverse le ragioni: dalla carenza di personale, alle spinte dei sindacati sino all'entrata in vigore il primo gennaio di nuovi minimi salariali in 22 Stati. In Colorado per esempio la paga oraria è 18,29 dollari. Camerieri e baristi costano, in alcuni casi, sino al 30% in più e per moltissimi proprietari l'alternativa alla chiusura è stata ridurre il personale, affidare più mansioni ai dipendenti o fare dei tagli. Al Floriana di Dupont Circle, il barista del weekend è un collaboratore di un importante deputato del Massachusetts, arrotonda la paga servendo prosecco e cocktail dopo le 11. Prima però serve ai tavoli – il bar ha un ristorante al piano superiore – cosa che sino a qualche mese fa non gli era richiesta. Il Wall Street Journal ha raccontato di un locale a Concord, in New Hampshire, che per cercare di rientrare nel budget ha cancellato l'abbonamento alla tv via cavo, cambiato marca di ketchup e ridotto al minimo i servizi di consegna a domicilio. Ogni piatto infatti da delivery grava un dollaro per il confezionamento. Una delle soluzioni per arginare i costi e mantenere i ricavi è stata smettere di "omaggiare" i clienti con posate di plastica e tovaglioli di carta. «Se chiedessi più di 12 dollari per un cheeseburger qui non verrebbe nessuno», ci ha raccontato invece un ristoratore di Raleigh in North Carolina. Ammette di lavorare, per ora, in perdita, ma confida che la fedeltà dei suoi clienti e un locale sempre pieno lungo Wilmington Road possano compensare una volta aggiustate le voci del budget. Due anni fa in California i sindacati dei lavoratori dei fast food ottennero di portare il salario minimo a 20 dollari, contro i poco più di 16 del 2022. La lobby dei padroni – da McDonald's a Chipotle – si oppose e avvisò il governatore Gavin Newsom: qualcuno dovrà pagare l'aumento del costo del denaro. Ovvero i consumatori. Se gli americani pagano il conto, il prezzo politico rischia di ricadere sulla Casa Bianca che da due anni è alle prese con il carovita. L'inflazione, dai picchi di giugno 2022 (9,1%), ha segnato una progressiva diminuzione. Ma in gennaio i prezzi al consumo sono aumentati del 3,1% su base annua, raffreddando l'ottimismo di chi intravvedeva già la luce in fondo al tunnel e un'inflazione attorno al 2% nei prossimi mesi. L'economia è, insieme all'immigrazione, il tema cardine delle presidenziali. E una spina nel fianco di Biden insieme, oggi, al sostegno a Israele nel conflitto a Gaza. Secondo un sondaggio diffuso domenica dal Wall Street Journal il numero di statunitensi che considera migliorata la propria situazione finanziaria è aumentato, tuttavia questo non è traslato in sondaggi più positivi per Biden nella sfida contro Trump. Lael Brainard, capo del team economico della Casa Bianca, aveva ammesso, rispondendo a una domanda de La Stampa, che «c'è ancora molto da fare e che siamo consapevoli che la percezione degli americani sull'economia non sia positiva». Il problema è che il prezzo del cheeseburger più che percepito è reale».
MEDIO ORIENTE, SCARICABARILE SULLO STALLO
Per Gaza Biden preme su Hamas: «Accettate la tregua adesso». Rimpallo di responsabilità sullo stallo. I jihadisti: sta a Israele dire di sì. Gli Usa a Gantz: dovete fare di più. Davide Frattini per il Corriere.
«La medicina è dura da mandare giù, quanto la visita del rivale Benny Gantz alla Casa Bianca. È vero, non ha incontrato Joe Biden, ma tutti gli altri sì, dalla vicepresidente Kamala Harris in giù. Mentre per Benjamin Netanyahu quel portone resta chiuso da quattordici mesi, non è mai stato invitato. Netanyahu si è ripreso dall’influenza, i famigliari degli ostaggi gli avevano preparato la minestrina davanti alla casa in cui vive a Gerusalemme, non vogliono prendersi cura di lui, pretendono che il primo ministro si prenda cura delle trattative per il ritorno a casa del centinaio di ostaggi ancora in vita. In realtà la pressione dei mediatori in queste ultime ore è stata quasi tutta esercitata sui capi di Hamas, il governo israeliano aveva già accettato la bozza d’intesa, poneva come condizione che i fondamentalisti presentassero la lista con i nomi dei sequestratati da liberare, l’intelligence ritiene che abbiano perso i contatti con i gruppi di carcerieri, che neppure loro sappiano più dove siano e in quali condizioni. Gli egiziani ammettono che i colloqui con i boss jihadisti non hanno portato a una svolta: vogliono un cessate il fuoco permanente — Netanyahu si rifiuta — e sono disposti a presentare l’elenco dei prigionieri solo dopo lo stop ai combattimenti. Il presidente Biden esorta l’organizzazione ad «accettare una tregua immediata». I portavoce replicano: «Sta agli americani e agli israeliani». Gantz ha ricevuto l’onore di essere invitato alla Casa Bianca. E l’onere. Gli americani sarebbero stati molto diretti — scrive la rivista digitale Axios — nell’esternare la loro rabbia. Ripetono che gli aiuti che arrivano nella Striscia, dove i palestinesi uccisi sono oltre 30 mila, restano troppo pochi. Sono scioccati da quanto limitata, o inesistente, sia stata la preparazione israeliana di un piano per evitare il disastro umanitario. «Non molleremo, faremo di tutto perché i soccorsi arrivino», dichiara Biden. «Yahya Sinwar spera che il Ramadan causi un allargamento del conflitto», commenta Avi Issacharoff, creatore della serie tv Fauda ed esperto di questioni palestinesi, sul quotidiano Yedioth Aharonoth. I jihadisti si presentano come i protettori della Spianata delle Moschee, che per gli ebrei è il Monte del Tempio, le pietre più contese tra le pietre contese di Gerusalemme. Netanyahu sta cercando di disinnescare le provocazioni messianiche dei suoi ministri e ieri ha assicurato che gli israeliani faranno di tutto per garantire al massimo la libertà di accesso alla Spianata».
RAFAH, I CAMION CON GLI AIUTI FERMI AL VALICO
Gli aiuti arrivano da tutto il mondo ma poi si fermano alla frontiera di Rafah. Chiara Cruciati sul Manifesto racconta la lunga fila di Tir, pieni di aiuti, bloccati al valico fra Egitto e Striscia di Gaza. Di là dalla barriera si muore di fame.
«La fila di camion fermi comincia a Ismailiya. Gli autisti scendono, si sgranchiscono le gambe. Poco più avanti un checkpoint è la prima delle tante frontiere interne che da anni segnano l’eccezionalità militarizzata della Penisola del Sinai. Un funzionario del governo egiziano è seduto tra le corsie immaginarie del checkpoint, davanti un tavolino impolverato di plastica e un registro d’altri tempi: scrive a penna le targhe di ogni veicolo in transito. C’è lo spettro sociale al completo: auto scure con uomini in giacca e cravatta, furgoncini arrugginiti, pulmini di famiglie, ragazzi con kefiah avvolta sulla testa e il volto scurito dal sole che qua picchia forte. Passa un bus della Sinai University, è vuoto. Lo segue un pickup, trasporta centinaia di trecce d’aglio. Poche centinaia di metri dopo, appare il checkpoint che conduce al tunnel del Canale di Suez. Dieci corsie, deserte. Era immaginato, forse, per un traffico imponente che oggi non esiste: il Sinai è blindato. In fondo a ogni corsia hanno montato scanner a raggi x per autobus e tir. Di camion se ne vedono altri alla spicciolata. Hanno i loghi di Unrwa, Oim, ong turche. Ricompaiono centinaia di chilometri dopo. Prima ad al-Arish, poi a Rafah. È qui, a un soffio da Gaza, che prende forma l’operazione Spade di ferro, lanciata da Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. È nei 1.500 camion umanitari immobili tra al-Arish e Rafah. Sono strapieni di aiuti e la destinazione è a un passo. Eppure aspettano li, sotto il sole del deserto. “ll flusso di aiuti sta aumentando, da tutto il mondo. Mi verrebbe da dire: rallentate, non riusciamo a farli entrare. Ma come fai a dire di no a chi vuole donare?”. Mohammed Noseer è il capo delle operazioni della Mezzaluna rossa egiziana (Erc) ad al-Arish. Ha una sessantina di anni e dice che una guerra così non l'aveva mai vista. Accoglie al valico la carovana solidale italiana organizzata da Aoi, con Assopace e Arci. Parlamentari dell'opposizione, giornalisti e ong sono venuti a chiedere il cessate il fuoco immediato. Noseer si muove su e giù, davanti al valico, in mano un walkie-talkie: coordina entrate e uscite. Indica il muro di cemento che a destra e sinistra si spegne nel grande arco diventato simbolo dell'impotenza globale. Il valico sembra irreale, come il pannello della coreografia di un brutto film. Di qua una calma distopica, di là fame e bombe. I camion passano da qua ma non tutti quelli che vedete entrano subito a Gaza. Prima devono passare le ispezioni. È li che si inaugura la complessa procedura frutto dell'accordo tra Israele, Egitto e Onu. La burocrazia militare rallenta disperatamente il flusso: «Ci sono due linee – dice Noseer – I convogli Onu si dirigono direttamente al valico di Kerem Shalom. I convogli della Erc, delle ong internazionali e quelli inviati da altri paesi vanno a Nitzana, 50 km a sud. Dopo l’ispezione si dirigono verso Kerem Shalom. Svuotano a terra il contenuto in attesa che lo carichino i camion palestinesi: Israele non autorizza nessun tir esterno a entrare a Gaza». Per il via libera ci vogliono giorni, a volte settimane. Controllano anche gli autisti: passano dallo “scanner” dei servizi egiziani prima, di quelli israeliani poi. Un su e giù continuo perché ormai tutto transita da Kerem Shalom. Rafah è un falso ingresso, entra solo carburante. «I valichi, poi, lavorano solo cinque giorni a settimana. Chiudono venerdì e sabato, per la festa musulmana e quella ebraica. Ammazzano musulmani tutta la settimana, ma il venerdì gli lasciano una giornata di preghiera», ironizza amaro Noseer. E i camion si accumulano al confine. A oggi ce ne sono 1.500. Ieri ha alzato la voce il presidente Biden, dall’Air Force One: Israele non ha più scuse per non consentire gli ingressi umanitari. Chissà se lo ha detto anche a Gantz, nell’incontro faccia a faccia di qualche ore prima. A poca distanza dal valico un pezzo di terra brullo, accecato da sole e polvere, fa da parcheggio ai tir e da casa provvisoria ai loro autisti. Dicono che non ce la fanno più, qualcuno aspetta da un mese di scaricare. Ci sono una piccola moschea e un minuscolo minimarket. Si sono attrezzati, stendono i vestiti ad asciugare tra i musi dei camion, i cassettoni sui lati fanno da cucina e tavolino. Si preparano un tè, un piatto caldo. «Ci pagano lo stesso, ma è uno spreco – dice uno di loro – In giro per al Arish è pieno di tir. Ci tengono ai valichi per le ispezioni anche 7-8 giorni. Ci fanno tornare più volte per ispezionare lo stesso camion».
VIA LIBERA BIPARTISAN ALLA MISSIONE NEL MAR ROSSO
Come annunciato, maggioranza larghissima ieri alle Camere per la missione nel Mar Rosso. La notizia è da Repubblica.
«Via libera bipartisan del Parlamento alla missione Aspides nel Mar Rosso. Sia alla Camera che al Senato, sull’operazione europea per la protezione della navigazione nel Mar Rosso, il cui comando tattico è della Marina militare italiana, la sola defezione è venuta da Alleanza Verdi Sinistra. Il dissenso dei grillini è rientrato: a favore delle missioni internazionali, tra cui Aspides, ha votato una maggioranza larghissima. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha assicurato che la «missione avrà solo funzioni difensive » e non potrà «mai agire in modo preventivo». E, su spinta di Pd e M5S, la maggioranza ha cambiato il suo testo in votazione: la missione viene definita «difensiva» e non più «eminentemente difensiva », come nella prima versione. Fatto l’accordo, il Movimento ha dato il via libera al testo, su cui si era astenuto in commissione per mostrare dissenso, e la destra ha detto sì alle mozioni presentate da Pd, M5S, Iv e Azione, a sancire il clima di condivisione. A pesare è stata anche la moral suasion di Elly Schlein su Giuseppe Conte: l’ennesima frattura sulla politica estera alla vigilia del voto in Abruzzo, sarebbe stato un autogol per i progressisti. Ma Conte assicura: «Quando ci sono in gioco nostri principi non subiamo le pressioni di nessuno». Oltre a Aspides è stata approvata la missione Levante sugli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. «Grave la bocciatura del potenziamento di quegli aiuti», secondo Lia Quartapelle. Ok anche alla missione civile in Ucraina».
UCRAINA, I FRONTI DI TERRA IN CRISI SENZA ARMI
La guerra in Ucraina. Sul terreno bellico l’esercito russo è all’attacco a Sud e a Est. Gli ucraini rispondono colpendo la flotta e centrando la corvetta Kotov. Sabato Angieri per il Manifesto.
«La guerra dalla distanza dell’Ucraina al momento è l’unica che ottiene successi. La scorsa notte i media russi hanno dato notizia di tre silos di petrolio in fiamme nei pressi della città russa di Belgorod a causa di un attacco di droni ucraini. Inoltre, nelle acque fatali (per la Russia) del Mar Nero, l’ennesima nave della marina militare di Mosca è stata affondata da un drone marino teleguidato. Si tratta della corvetta di pattuglia Sergei Kotov, una grande nave di recente produzione del valore di circa 65 milioni di dollari, che era in rada nei pressi del porto di Fedosia, in Crimea. La Kotov era in grado di sparare i devastanti missili Kalibr, terrore delle città costiere ucraine, e per questo era già stata oggetto di un attacco infruttuoso mediante droni marini lo scorso settembre. Stavolta però le esplosioni hanno squarciato la chiglia del natante provocandone l’inabissamento. Lo hanno rivelato al quotidiano Ukrainska pravda i funzionari dell’intelligence militare ucraina (Gur) che sono stati anche gli esecutori dell’attacco. Un altro colpo andato a segno per il temutissimo Kyrylo Budanov, vero deus ex machina di queste frequenti incursioni contro i giganti del mare russi. Nel pomeriggio il portavoce della marina ucraina, Dmytro Pletenchuk, ha riferito che in seguito all’affondamento della Kotov 7 marinai russi sono morti mentre altri 52 membri dell’equipaggio sono stati evacuati. Intanto le autorità ucraine annunciano: «Aumenteremo la produzione di droni, per il 2024 contiamo di superare i due milioni di velivoli». Questi risultati dei Servizi militari, tuttavia, contrastano con la situazione sul campo dove, secondo le parole di un portavoce delle forze armate di Kiev, i militari ucraini stanno facendo «tutto il possibile» per impedire ai russi di guadagnare terreno, ma «la situazione è estremamente difficile». La sconfitta di Avdiivka ha evidenziato le conseguenze dell’interruzione di forniture militari da parte dell’Occidente e ora i reparti al fronte sono in grande difficoltà. Le forze russe, infatti, hanno iniziato ad attaccare lungo diverse direttrici, sia nel Donbass sia a sud di Zaporizhzhia. Sul fronte meridionale i militari di Mosca stanno tentando di avanzare verso la cittadina di Robotyne. La notizia, apparsa prima sui canali russi due settimane fa, è ormai confermata anche da fonti ucraine che parlano di decine di attacchi al giorno. Secondo l’amministrazione filorussa del Kherson occupato (da dove i russi stanno lanciando gli attacchi) lo Stato maggiore di Kiev continua a inviare rinforzi per evitare che la cittadina cada, ma finora questi non sono riusciti a rompere l’assedio. Robotyne è una delle roccaforti di Kiev nel sud (come lo era Avdiivka nell’est), teoricamente protetta da una fitta rete di trincee e da campi minati. Sembra, tuttavia, che i russi siano riusciti a superare la prima linea di campi minati e che ora stiano già combattendo ai margini del centro urbano. Intanto nell’est la situazione non accenna a migliorare per i difensori che sono costretti a fronteggiare i continui attacchi missilistici dei russi e le sortite dei reparti di fanteria verso Mariinka, Krasnogorivka, Kupiansk e, più a sud, Ugledar. Sul versante internazionale la notizia delle intercettazioni agli alti ufficiali tedeschi continua a preoccupare il governo di Berlino. Ieri il ministro della difesa Pistorius ha dichiarato che probabilmente la falla nella sicurezza è stata creata dal generale di brigata Frank Gräfe che si trovava a Singapore per una convention e si è collegato alla riunione con gli altri graduati senza seguire le procedure di sicurezza».
“L’ITALIA HA DATO ALL’UCRAINA 5,4 MILIARDI”
Secondo Il Fatto, che ne scrive con Cosimo Caridi, il nostro Paese avrebbe finanziato Kiev almeno il doppio se non il triplo di quanto dichiarato ufficialmente. I dati sono forniti dal tedesco Kiel Institute.
«L’Italia ha inviato all’Ucraina almeno il doppio, forse il triplo degli aiuti rispetto a quanto comunicato ufficialmente. Il Kiel Institute, importante centro studi economici tedesco, cataloga i dati di tutti gli aiuti mandati a Kiev. La raccolta si basa sulle dichiarazioni ufficiali dei governi e divide gli aiuti in tre generi: finanziario, umanitario e militare. Roma ha stanziato stando al Kiel un totale 5,4 miliardi di euro, compresi i costi per l’accoglienza dei profughi. Sul database Ukraine Support Tracker risulta che l’Italia ha messo a disposizione armi per un valore di 670 milioni di euro. Una fonte parlamentare ci spiega però che la cifra reale è ben più alta: 1,2 miliardi. Mentre i dati che circolano al ministero della Difesa raggiungono i 2 miliardi spalmanti sugli otto decreti approvati finora. Di questi almeno 700 milioni sono passati in via bilaterale. Altri 500 milioni sono stati versati allo European Peace Facility (strumento europeo per la Difesa di Kiev). La quota annuale dell’Italia, già erogata per il 2022 e 2023, è di 250 milioni. Nella legge di Bilancio del 2024 è stato impegnato un altro miliardo di euro per il quadriennio fino al 2027. Un bel record per Giorgia Meloni che a Bruno Vespa il 27febbraio dell’anno scorso ha dichiarato: “L’Italia non spende soldi per comprare armi che mandiamo agli ucraini”. I fondi menzionati non rappresentano il vero costo per le casse dello Stato. Si tratta infatti in alcuni casi di acquisti di armi nuove, ma in gran parte sono mezzi e materiali già a disposizione dell’esercito. Si stima il loro valore per iscriverli a bilancio, ma il rimpiazzo con armi più recenti è sensibilmente più caro. Nella redazione dell ’Ukraine Support Tracker ci sono tre Paesi di cui l’istituto segnala la non affidabilità: Francia, Polonia e Italia. In tutti e tre i casi i governi hanno deciso di non rendere disponibile l’elenco dei materiali militari inviati e di non dichiararne il valore. Il Kiel Institute redige anche un indice per indicare il livello di trasparenza dei donatori. Seppure l’Italia sia all’otta vo posto per il volume di aiuti inviati, siamo solo ventiseiesimi per la trasparenza con cui questi fondi vengono spesi o trasferiti. Durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, in un panel in cui venivano presentati i dati sugli aiuti, l’economista Christoph Trebesch ha spiegato che, in più di un caso, analizzando le dichiarazioni fatte da Parigi aveva riscontrato una discrepanza tra il valore delle armi trasferite e il costo reale di quel materiale. Dopo forti pressioni, il ministero francese della Difesa ha comunicato per la prima volta la lista delle armi effettivamente consegnate all’Ucraina nel 2023. Parigi sostiene che l’elenco sia completo, ma scorrendolo si legge su diverse linee Donnée confidentielle (“dati confidenziali”). C’è il numero dei caschi (6200) o dei sistemi gps (200), ma non quello dei missili terra-aria. Il totale è valore molto più alto di quello che si conosceva finora. Sul database Ukraine Support Tracker ri sultano 640 milioni di euro, ieri la Difesa francese ha dichiarato 2,6 miliardi a cui vanno aggiunti 1,2 miliardi versati allo European Peace Facility. I numeri prendono un’altra prospettiva se confrontati con quelli di Germania o Stati Uniti. L’Occidente ha inviato in due anni armi a Kiev per circa 108 miliardi di euro, 42 di questi sono la parte di Washington e 52 la parte dell’Unione europea, quasi tutti aiuti bilaterali. Berlino da sola si è impegnata per 17,7 miliardi. A questi fondi si aggiungono i 50 miliardi iscritti al bilancio dell’Ue e i 60 miliardi statunitensi che al momento sono bloccati dai Repubblicani al Congresso. In termini percentuali i Paesi che hanno donato di più sono i baltici e gli scandinavi. L’Estonia ha destinato all ’Ucraina il 4,1% del proprio Pil. In questo caso vengono conteggiati anche gli aiuti finanziari e umanitari. Le istituzioni europee e gli Stati membri si sono impegnati per un totale di 144 miliardi di euro. Questi fondi servono non solo a mantenere le truppe al fronte, ma anche a garantire il sostentamento finanziario allo Stato ucraino. Il ministro delle Finanze, Serhiy Marchenko, ha stimato che per il 2024 l’Ucraina avrà bisogno di aiuti internazionali per 34,5 miliardi di euro, leggermente di più dei fondi ricevuti nel 2023. Serviranno per garantire i servizi di base: stipendi, pensioni, sanità. Nel 2023 Kiev ha sborsato per la difesa più dell ’intera spesa pubblica nel 2021. Cifre insostenibili per un paese con l’economia al collasso. Prima dell ’invasione russa la popolazione ucraina superava i 41 milioni di persone, oggi si stima che siano rimasti nel paese 26/28 milioni di abitanti. Tra questi ci sono i soldati, oltre mezzo milione, più i feriti e gli invalidi di questi due anni di guerra. L’Italia ha versato a Kiev 410 milioni in sostegno finanziario e altri 220 di aiuti umanitari. Un calcolo in più e che si va a sommare a tutti i dati sopra, è quello della spesa per i rifugiati. Il Kiel Institute stima che Berlino abbia destinato all ’accoglienza 21,4 miliardi di euro, il costo per Varsavia è stato di 20,7 miliardi, Roma ha speso 2,25 miliardi di euro».
“NAVALNY FRA I GIUSTI DELL’UMANITÀ”
Oggi, 6 marzo, è la Giornata dei Giusti dell’Umanità. Sul web è stato rilanciato un appello di intellettuali e di “russi liberi in Italia” per ricordare Aleksei Navalny fra i giusti.
«La Giornata dei Giusti dell’Umanità, votata dal Parlamento europeo e da quello italiano, ha un grande valore morale soprattutto nei tempi difficili che noi viviamo, dove ogni cittadino è chiamato alla responsabilità. Mai come oggi di fronte alle guerre, alle minacce alle democrazie, alla messa in discussione di confini in Europa è necessario dare valore a chi lotta contro l’odio, per la libertà, per il rispetto della pluralità umana. Non dare rilievo a questa Giornata sarebbe un atto di rassegnazione, perché significherebbe non comprendere che in ogni tempo di crisi l’umanità viene salvata da uomini giusti che mettono a rischio la propria vita e condizione per salvaguardare la dignità umana. È quindi nostro compito fare conoscere le donne e gli uomini che, in ogni parte del mondo, cercano di porre argine all’odio, difendono i diritti e chiedono la libertà di pensiero ed espressione. Siamo chiamati a sottrarre questi Giusti dall’oblio e dalla solitudine affinché possano diventare un esempio morale per tutti. In questa Giornata dei Giusti un uomo in particolare merita di essere ricordato per il suo coraggio che lo ha portato al sacrificio estremo. Alexey Naval'nyj ha pagato con la vita per avere lottato contro la rassegnazione della società russa e dello stesso Occidente nei confronti della dittatura imperialista di Putin. Egli faceva paura al potere russo. Per questo ha subìto vari tentativi di avvelenamento, violenze fisiche e psicologiche, arresti e incarcerazioni dopo processi farsa. Le sue dichiarazioni non erano difese personali, ma occasioni per denunciare pubblicamente la corruzione, la violenza, l'illegalità del potere. E lo faceva sempre con grande ironia. Questa era forse una delle cose che, come sempre accade, dava più fastidio ai suoi aguzzini. L'ironia di chi mostra di non aver paura, di vedere lucidamente la ridicola fragilità di un potere violento. Come è stato scritto su GariwoMag: «La domanda “perché Alexey Naval'nyj è tornato in Russia?”, a farsi arrestare, a morire in carcere, continua a venire fatta da molti, in Russia e all'estero, da chi lo seguiva da anni e da chi scopre il suo messaggio soltanto dopo la sua morte. La risposta è semplice: perché era un politico, e sapeva che il diritto a diventare un leader e un modello non si guadagna nei salotti degli intellettuali liberali europei, ma nelle piazze, nelle aule del tribunale, dietro le sbarre. Nelson Mandela e Václav Havel non sarebbero diventati i candidati naturali a guidare la transizione dei loro Paesi alla democrazia se non fossero stati rinchiusi in carcere dai regimi autoritari che combattevano. Naval'nyj era diventato l'alternativa a Vladimir Putin». Egli ha cercato di svegliare il suo popolo dall'apatia e dalla paura. Ha insegnato anche a noi che bisogna sempre reagire al sentimento di rassegnazione e ascoltare la propria coscienza per ribellarsi alle ingiustizie, all'odio e alla violenza. Nella Giornata dei Giusti occorre ricordare il suo monito: «L’unica cosa necessaria perché il Male trionfi è che le brave persone non facciano nulla».
I firmatari
Comunità dei Russi liberi in Italia. Anna Zafesova, Alberto Toscano, Andree Ruth Shammah, Vittorio Emanuele Parsi, Gabriele Nissim, Vito Mancuso, Pietro Kuciukian, Andrea Graziosi, Andrea Gullotta, Anna Foa, Marcello Flores, Francesco M. Cataluccio».
LA UE RILANCIA LA DIFESA, STANZIATI 1,5 MILIARDI
La Ue rilancia la difesa militare: più cooperazione, stanziati 1,5 miliardi. Con gli acquisti di armi in aumento, la Commissione punta sul «Buy European», arginando gli affari al di fuori della Ue, ma non passa l’idea di debito comune, sul modello della pandemia. Breton: se ne riparlerà nella prossima legislatura. Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«Stretta fra i paletti contenuti nei Trattati sul fronte militare e la riluttanza dei Paesi membri a trasferire competenze a Bruxelles, la Commissione europea ha presentato ieri un atteso piano industriale in campo militare a livello europeo. In buona sostanza si tratta di promuovere la cooperazione tra le aziende del settore, facilitando gli acquisti in comune degli armamenti. La scelta giunge a due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina. «La nostra spesa militare è destinata a troppi sistemi d’arma, acquistati principalmente al di fuori dell’Unione europea. Ora che i bilanci della difesa di tutti gli Stati membri sono in forte aumento, dobbiamo iniziare a investire meglio, il che significa soprattutto investire insieme e investire in Europa», ha spiegato ieri qui a Bruxelles la vicepresidente della Commissione Margrethe Vestager. Nei fatti, il progetto si basa su due programmi nati nel 2023, noti con gli acronimi EDIRPA e ASAP. Il primo promuove gli acquisti in comune; il secondo sostiene l’aumento della produzione di munizioni. In questo contesto, verrà creato un organismo dedicato al coordinamento tra i Paesi membri in un campo dove le prerogative restano prettamente nazionali (in inglese, il Defense Industrial Readiness Board). L’esecutivo comunitario propone obiettivi non vincolanti. Entro il 2030 il commercio intra-europeo di armi dovrebbe rappresentare il 35% del valore del mercato europeo della difesa. Entro il 2030, gli appalti comunitari dovrebbero pesare per il 50% di tutti gli appalti europei. Infine, sempre entro il 2030 i Paesi membri dovrebbero appaltare in comune il 40% dell’equipaggiamento in difesa. C’è il tentativo di imporre (o meglio di suggerire) una qualche forma di Buy European. Il nuovo programma industriale utilizzerà denaro comunitario (anche fondi di coesione) con una posta di bilancio già prevista del valore di 1,5 miliardi di euro tra il 2025 e il 2027. Ha voluto precisare l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Josep Borrell: «La Commissione europea vuole incentivare lo sviluppo dell’industria militare europea. Non diventarne il cliente». Ha aggiunto il commissario al mercato unico Thierry Breton: «Il nostro obiettivo è di creare le condizioni perché i Ventisette lavorino insieme». Lo stesso commissario francese aveva a un certo punto menzionato la cifra di 100 miliardi di euro per raggiungere gli obiettivi fissati, ma ieri ha ammesso che sarà necessario «più lavoro» per convincere gli europei a spendere una tale somma e a emettere nuovo debito europeo in questo settore. Se ne riparlerà, ha detto, «nel quadro della prossima legislatura». Sul fronte ucraino invece, Bruxelles propone di creare un centro di ricerca dedicato all’innovazione tecnologica in campo militare e che avrà sede a Kiev. Esponenti comunitari hanno voluto sottolineare che la Commissione europea non userà denaro comunitario per l’acquisto di armamenti; non si sostituirà ai governi nazionali nel prendere decisioni relative al settore della difesa; non oltrepasserà le sue competenze, così come sono specificate nei Trattati. La precisazione la dice lunga su quanto l’argomento sia politicamente delicato. Al di là di un confronto tra una Francia massimalista che vorrebbe nuovo debito europeo per finanziare la sicurezza in comune e una Germania tendenzialmente prudente all’idea di creare un nuovo Next Generation EU dedicato alla difesa, il tema tocca il nervo scoperto dell’industria militare, un settore sempre nazionale e spesso protezionista».
ABRUZZO, IL CENTRO DESTRA SUL PALCO
Tutto il centrodestra sul palco per la campagna elettorale. Manca Salvini. La spinta di Meloni, che dice: mi sono messa l’elmetto. E Tajani: Berlusconi amava questa terra. Monica Guerzoni per il Corriere.
«Se la foto simbolo fosse quella finale, non sarebbe di buon auspicio. Salvini sul palco non c’è e Giorgia Meloni lo cerca e lo chiama: «Matteo, Matteo... Ma ’ndò sta , se n’è annato ?». Il leader della Lega se l’è svignata, sì, prima di intonare «fratelli d’Italia» anche con Tajani, Lupi, Rotondi e Marsilio. Eppure Meloni si mostra tranquilla, il centrodestra «è compatto e non litiga, nonostante quel che scrivono i giornali di sinistra». E nonostante l’ultima scena, che vede il segretario di Forza Italia e il leader di Noi moderati salutare i cronisti dal palco di piazza Salotto. Alla domanda sul perché Salvini sia andato via prima, Tajani sorride e spalanca le braccia. E Lupi, scherzoso: «Matteo? È scappato!». Comizio rocambolesco, prima frenato dal malore di un fan meloniano e poi accelerato dalla pioggia. Diluvia. E per fortuna, perché le previsioni meteo hanno suggerito allo staff di anticipare la photo opportunity. Lupi ha scaldato il pubblico con una metafora gastronomica: «Meglio un’alice fresca (la destra, ndr ) che un’aragosta fracica». Tajani ha appena finito di ricordare che «Berlusconi amava l’Abruzzo», quando gli portano un biglietto con su scritto che deve chiudere causa acquazzone. E lui: «Scommetto fagioli, arrosticini e frittura di pesce che questa regione sarà ancora governata dal centrodestra». Ovazioni, sventolio di bandiere di FdI e FI e la presentatrice che annuncia la «foto storica». Giorgia Meloni arriva con il piumino rosa e lancia baci con la mano, scatta quattro selfie in cui la formazione è al gran completo (Salvini, Cesa, Tajani, Lupi, Marsilio) e scaccia il timore di un sorpasso in corsa: «Ogni volta che salgo sul palco di Pescara piove. Ma l’ultima volta abbiamo vinto le Politiche e sono diventata premier. Quindi se oggi piove non sarà una cattiva cosa». Applaudono in duemila, le gridano «ti amo» e la leader si commuove: «Sono un po’ stanca». E forse un po’ preoccupata da un possibile effetto Sardegna? Ma no, «non abbiamo paura di niente». Due ore prima, a Teramo, si era detta «molto ottimista». Salvo poi scherzare sul rischio sconfitta: «Essendo io stata eletta qui sarebbe brutto se mi cacciate». Meloni ci ha «messo la faccia» anche stavolta, nella prima regione conquistata cinque anni fa dal suo partito con il fedelissimo Marco Marsilio. Se dal centrosinistra lo accusano di guidare l’Abruzzo «in smart working», Giovanni Donzelli rivela che il presidente «ha comprato casa a Chieti» e Meloni, facendo una di quelle vocette da attrice consumata, smentisce che sia stata «catapultato da Roma». Con lo staff di Palazzo Chigi al gran completo dietro le transenne, la premier parla a braccio e al posto del reddito di cittadinanza di Conte, che il suo governo ha abolito, lancia le «infrastrutture di cittadinanza». Rivendica i 720 milioni stanziati per la ferrovia Roma-Pescara e «tutti gli indicatori positivi» dell’economia, dall’occupazione «record» al maggior gettito di sei miliardi dichiarato dall’Agenzia delle entrate. L’ovazione scatta quando definisce «una priorità» il rinnovo del contratto per le forze dell’ordine e ricorda, dopo le tensioni con il Quirinale sulle manganellate agli studenti, che «l’anno scorso 121 agenti sono finiti all’ospedale, vergogna a chi dice che gli si deve sputare addosso». Le tensioni di Cagliari sembrano lontane. Facce distese, sorrisi, Meloni che scherza sul trattore che alcuni agricoltori vorrebbero regalarle («lo metterò nel cortile di Palazzo Chigi») e un’aria di vittoria, anche se qualche sondaggio riservato non esclude il testa a testa. Il momento più politico? Quando Giorgia Meloni alza le braccia fin sopra i capelli biondi e mima due volte il gesto, inarcando le dita a cerchio: «Succederà di tutto... Io c’ho l’elmetto, ho già messo l’elmetto. E vinceremo anche questa battaglia». La battaglia è quella delle Europee («il vero timore di tutti»), ma prima, imbocca l’ultimo miglio la leader della destra, bisogna far sì che Marco Marsilio sia «il primo presidente rieletto in Abruzzo». E che il centrosinistra non conquisti un’altra regione dopo la Sardegna. La trovata per sventare una seconda sconfitta è promettere che il governo Meloni «fa bene all’Abruzzo» e dipingere (anche sui manifesti) Luciano D’Amico come una marionetta manovrata dal vero candidato: l’ex governatore Luciano D’Alfonso. L’altra arma è sottolineare, come fa Meloni, che l’aspirante presidente chiede ai leader del campo progressista di non salire sul palco con lui: «Si vergogna. Sono tutti alleati, ma si vergognano di dirlo. Conte dice che non è alleato con Renzi, Renzi dice che non è alleato con Conte. Calenda dice che sulle alleanze stanno dicendo un sacco di balle». La chiusa è di quelle collaudate: «Niente ci fa paura. Finché ci sono gli italiani a sostenerci, non molleremo mai».
DONATELLA DI CESARE CELEBRA LA BRIGATISTA
La prof di Filosofia alla Sapienza Donatella di Cesare scrive un post su Barbara Balzerani: «La tua rivoluzione fu anche la mia». Poi cancella l’omaggio alla brigatista appena scomparsa. La condanna della rettrice della Sapienza. Lei: stupita della bufera. Alessandra Arachi per il Corriere.
«Lunedì sera tardi il post è spuntato (copiato) sull’account «X» di Giovanni Donzelli. Subito dopo Donatella Di Cesare lo ha cancellato dal suo, di account. Inutilmente. Perché lo screen shot di Donzelli era ben visibile, ben chiari le parole e il significato di quanto scritto da Di Cesare, docente della Sapienza: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna#barbarabalzerani». L’ultimo capo carismatico delle Brigate rosse era morta da poco e le polemiche sono arrivate a pioggia. Dalla maggioranza di governo, ma anche il Pd e Italia Viva hanno fatto sentire la loro indignazione. Quella vicinanza intima e complice alla brigatista rossa mai pentita, ha turbato gli animi di molti. Eppure Donatella Di Cesare davanti alla valanga di polemiche è stata capace di smentire se stessa. «Sono stupita e sconcertata per la tempesta che si è sollevata. Ho ricordato la morte di Barbara Balzerani da cui sono sempre stata distante...». Davvero bisogna sottolinearle di aver scritto: «La tua rivoluzione è stata anche la mia»? Donatella Di Cesare, interpellata dal Corriere , dice di voler rispondere soltanto a domande scritte: «Sono vittima di attacchi pretestuosi», dice. E se si prova a chiedere se valuta pretestuoso anche l’intervento della sua rettrice Antonella Polimeni, si ritrae: «Non rispondo ho detto, non mi lascio ingannare da domande così». Donatella Di Cesare alla Sapienza ha la cattedra di Filosofia teoretica. La rettrice dell’ateneo, Antonella Polimeni, si è dissociata e ha affidato il suo sconcerto ad una nota ufficiale: «A nome di tutta la comunità accademica, ricordo l’altissimo tributo di sangue pagato dall’Università Sapienza nella stagione del terrorismo, confermo la ferma condanna di ogni forma di violenza e prendo le distanze da qualsiasi dichiarazione di condivisione o vicinanza a idee, fatti e persone che non rispettano o hanno rispettato le leggi della Repubblica e i principi democratici espressi dalla Costituzione». Per Matteo Salvini il post su «X» è un inaccettabile insulto alle vittime del terrorismo rosso, una vergogna». Dall’altra parte Dario Parrini, senatore Pd, per quel post non esita a definirsi «impietrito. Di Cesare insegna proprio nell’ateneo dove le Br trucidarono nel 1980 Vittorio Bachelet». Ma Donatella Di Cesare non arretra di una virgola. Ribadisce la correttezza del suo post e rilancia: «Ho reagito alla morte di Barbara Balzerani con un post molto breve ricordando il titolo di un suo libro». Compagna luna è l’autobiografia che Balzerani scrisse quando era ancora in carcere, con riflessioni critiche ma mai pentimenti su quegli anni che la videro protagonista del sequestro di Aldo Moro. Per questo Licia Ronzulli, vicepresidente azzurra del Senato, tuona: «Non si può accettare che una professoressa, alla quale è affidato il futuro culturale dei nostri figli, possa glorificare pubblicamente una terrorista che non si è mai pentita di aver preso parte al sequestro di Aldo Moro e ad altri omicidi». Enrico Borghi , capogruppo di Italia Viva al Senato dice: «Quel post è talmente incredibile che sembrava una fake». Per Tommaso Foti, capogruppo di Fdi alla Camera: «è necessaria una profonda riflessione sulla pericolosità di dare risonanza, nelle università e nelle tv, a nostalgici di un tempo oscuro, in cui si affermavano le idee malsane e rivoluzionarie a colpi di mitra, con le bombe». Ma lei continua per la sua strada. Se le si chiede perché ha rimosso il suo post risponde: «Non volevo che venisse frainteso..». C’è solo un’interpretazione possibile in quel suo elogio funebre che dice: «Con malinconia un addio alla compagna Luna...».
DON CIOTTI: NON CHIAMATECI PRETI ANTIMAFIA
Don Luigi Ciotti scrive l’editoriale di Avvenire per commentare i recenti episodi di minacce e violenze nei confronti di preti e Vescovi nel sud Italia.
«Nelle ultime settimane abbiamo saputo di nuove minacce contro alcuni sacerdoti, da parte di ambienti mafiosi. E c’è chi, anche con intenti lodevoli, ha parlato di “preti antimafia”, “preti di frontiera”. Queste definizioni però non aiutano, lo dico come qualcuno che se le è viste attribuire a sua volta. Non sono d’aiuto perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo. Noi siamo sacerdoti come gli altri, coi nostri limiti, le nostre fatiche, ma anche con la gioia di spendere la vita per dare vita. Sappiamo che testimonianza cristiana e responsabilità civile devono saldarsi, per offrire un esempio coerente di servizio alle persone. La Parola di Dio è spesso scomoda, provocante, «urticante», come diceva don Milani, ma è parola di vita e speranza. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini nell’osservare che «missione della Chiesa è essere coscienza della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e spirituali». Senza dimenticare, secondo l’insegnamento continuo di papa Francesco, che la Chiesa deve abitare la storia, non può rimanere ai margini della lotta per la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il rispetto dell’ambiente: tutti i cristiani sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Anche se, come ha detto sempre il Papa, ad alcuni «dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia». Noi sacerdoti abbiamo il compito di tradurre quella Parola in ogni contesto, dunque anche di “sporcarci le mani” nelle grandi questioni sociali. Ecco perché dico che dobbiamo rifiutare certe etichette, e l’idea che esistano delle “specializzazioni” nel nostro ruolo. Sono immagini stereotipate che non rispettano la ricchezza della missione che abbiamo scelto, quella di saldare la Terra con il Cielo. Ognuno ha la sua vocazione, nella Chiesa come nella vita. A me fu affidata, da padre Michele Pellegrino, una parrocchia inusuale: la strada. Ma qualsiasi parrocchia ha le sue specificità e difficoltà, anzi, possiamo dire che non esista una realtà più complessa: lì accompagni la vita delle persone, dalla nascita alla morte, ti trovi ad ascoltare e consolare, a misurarti con le situazioni più delicate. Tocchi davvero con mano le preoccupazioni e il sentire della gente. Ed è per questo che ai bravi preti di alcuni territori, che ce la mettono tutta per costruire spirito di comunità e usano parole ferme rispetto al male, la mafia risponde. Facciamo un passo indietro di una trentina d’anni: un momento cruciale. Dopo l’accorato discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, la mafia è “stizzita”. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia fa una dichiarazione che ci aiuta a capire cosa accadrà di lì a poco: «Gli uomini d’onore mandano a dire ai sacerdoti di non interferire». Ecco la parola chiave, “interferire”. I boss si sentono toccati e destabilizzati dall’autorevolezza del Papa, dalle sue parole cristalline contro il crimine. Così il 27 luglio 1993 due attentati con esplosivo colpiranno San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, a Roma. È una risposta alle “interferenze”. Altre più tragiche verranno: gli omicidi di don Puglisi e don Diana. A trent’anni di distanza da quei fatti, e di fronte e nuove minacce più o meno esplicite, non possiamo voltarci dall’altra parte. Vogliamo che la gente veda che viviamo il Vangelo senza compromessi, senza timidezze, senza paura. Per questo i sacerdoti minacciati non vanno lasciati soli. Devono sentire che la comunità cristiana cammina compatta insieme a loro. In questa come in altre circostanze, dobbiamo ribadire che c’è una totale convergenza tra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune».
IL DRAMMA DEGLI UNDICIMILA MINORI SCOMPARSI
Marco Birolini su Avvenire denuncia: il fenomeno dei bambini spariti (11.810) è aumentato in Italia negli ultimi anni, di pari passo con gli sbarchi. Molti minori scappano dalle strutture d’accoglienza: c’è il rischio che finiscano vittime di traffici e sfruttamento. Provengono soprattutto da Tunisia, Egitto e Guinea.
«In Italia c’è un buco nero che ogni anno inghiotte decine di migliaia di minori. Secondo la relazione del Commissario straordinario per le persone scomparse, nel 2023 sono stati 29.315 coloro che una maledetta sera non sono più rientrati a casa. Ben 21.951 denunce di scomparsa (il 75%) hanno riguardato gli under 18. E di queste, 17.535 sono state presentate relativamente a bambini e adolescenti stranieri. Si tratta di un salto enorme rispetto al 2022, quando le scomparse erano già state 13 mila. Il fenomeno si è intensificato negli ultimi anni, in concomitanza con l’aumentare degli sbarchi (dal 2015 in poi), superando di gran lunga il dato concernente i minorenni italiani. Molti sono stati poi ritrovati: 5723 in vita, 2 purtroppo deceduti. Ma all’appello mancano ancora 11.810 ragazzi arrivati in Italia senza accompagnatori: nessuno sa dove siano finiti. Una cifra che sgomenta, e che non può più lasciare indifferenti. Nel 91% dei casi si tratta di maschi. Molti scappano dalle case d’accoglienza e lasciano l’Italia per raggiungere familiari e amici in Francia o in Nord Europa. In gran parte sono 17enni (6.146 soggetti) che si allontanano spontaneamente da comunità o famiglie di affidamento. Diversi fanno perdere le tracce e finiscono in clandestinità: lavorano in nero con la complicità di alcuni connazionali, poi spediscono il denaro alle famiglie rimaste nel Paese d’origine. È il caso ad esempio degli egiziani: un flusso che si è intensificato nell’ultimo biennio, diretto soprattutto in Lombardia e in altre città del ricco Nord. Sbarcano in Sicilia, oppure entrano in Italia dopo aver percorso la rotta balcanica, dopo mesi di viaggio tra violenze e privazioni. Sono “addestrati” per presentarsi - una volta giunti nel nostro Paese - presso questure e caserme dei carabinieri, per farsi prendere in carico dai servizi comunali del luogo. Poi molti escono dai radar e iniziano il loro percorso di vita, non sempre entro i binari della legalità. Il timore è proprio questo, cioè che l’esercito dei ragazzini perduti vada a ingrossare le file della malavita oppure, ancora peggio, finisca vittima dei traffici a sfondo sessuale. Qualche fonte investigativa sussurra che ci sia anche il pericolo del traffico d’organi, ma non ci sono prove di nessun tipo. Ufficialmente, solo 25 giovani stranieri di quelli scomparsi nel 2023 potrebbero essere rimasti vittime di un reato. Ma che fine facciano tutti gli altri è un mistero che nessuno è ancora riuscito a decifrare. Al netto di coloro che per qualche ragione, magari burocratica, possono essere sfuggiti alle statistiche, i numeri documentano uno scenario che lascia aperte domande angoscianti. I minorenni stranieri scomparsi provengono soprattutto da Tunisia (3.362), Egitto (2.861) e Guinea (2.589). Seguono nell’ordine Costa d’Avorio (1.572) e Afghanistan (1.106). Provenienze diverse, con un unico comune denominatore: nazioni poverissime, in cui la vita di un bambino o di un adolescente può avere un prezzo. Per tentare di fare un po’ di luce su una questione che resta avvolta in un cono d’ombra pressoché totale, a dicembre 2023 il Commissario per le persone scomparse ha firmato un protocollo d’intesa triennale con l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, con l’obiettivo di scambiarsi informazioni utili a prevenire il fenomeno. L’idea però è non limitarsi alla fase d’osservazione, ma mettere in campo iniziative concrete. La tratta dei minori è una delle grandi emergenze della nostra epoca, ma dietro ai numeri (impressionanti) si stenta a trovare spiegazioni plausibili. Di recente il film “Sounds of freedom” (poco distribuito in Italia), ha provato ad affrontare il delicatissimo tema con riguardo alle sparizioni di bambini e adolescenti in Sudamerica, legate alla piaga della pedopornografia online. È tratto dalla storia vera di un ex agente Fbi, che riuscì a salvare un bimbo rapito in Honduras. Un tema scottante e doloroso, che cozza contro ipocrisie e logiche commerciali: secondo la casa di produzione, più di una piattaforma online ha declinato l’invito a distribuire la pellicola. Un argomento tabù, insomma, che anche l’Italia fatica ad affrontare».
IL PPE SPOSA IL MODELLO RUANDA
Francesca Basso per il Corriere sottolinea che il Ppe punta a difendere “i confini dall’immigrazione illegale” e apre alla deportazione dei richiedenti asilo in Paesi “sicuri” fuori dalla Ue.
«Proteggere, difendere, prosperare. Quasi uno slogan. Sono le azioni che ritornano nel manifesto del Partito popolare europeo per le elezioni di giugno, che guarda molto agli elettori di destra, più che al centro, e sarà presentato oggi al congresso di Bucarest. Il Ppe vuole un’Unione che «protegge i cittadini» e «sé stessa». Chiede «la sostituzione dell’Alto Rappresentante con un ministro degli Esteri dell’Ue». Vuole un’Europa «che difende i confini dall’immigrazione illegale». Ma è sulla politica d’asilo che il Ppe chiede «un cambiamento fondamentale» (voluto dalla Cdu tedesca), ipotizzando il coinvolgimento dei Paesi terzi ritenuti sicuri, sul «modello Ruanda» britannico. «Vogliamo implementare il concetto di Paesi terzi sicuri — si legge —. Chiunque richieda asilo potrebbe anche essere trasferito in un Paese terzo sicuro e svolgere lì la procedura». I criteri per identificare questi paesi «saranno in linea con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e con la Convenzione europea sui diritti umani. Nessuna delle due prevede il diritto di scegliere liberamente il Paese che dà protezione». Il Ppe propone anche di «ammettere nell’Ue una quota di persone bisognose di protezione attraverso quote umanitarie annuali». Quanto al Green Deal, il manifesto sottolinea: «Senza un’economia competitiva non ci può essere nemmeno una protezione del clima sostenibile».
FERRARA: “CESSATE IL FUOCO CONTRO I NASCITURI”
L’aborto come diritto viene iscritto nella Costituzione francese. Ma, sostiene Giuliano Ferrara sul Foglio, è la vita il primo diritto di un individuo, e il concepito è un individuo.
«Cessate il fuoco, parola d’ordine che incanta, dilaga senza senso, e che andrebbe usata sì, e senza circospezione, per quanto la Costituzione francese oggi considera un diritto assoluto, l’aborto. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dalla comunità internazionale tranne il Sudafrica dell’apartheid, l’Unione sovietica della dittatura del proletariato e l’Arabia Saudita, dice che il primo diritto dell’individuo è la vita. Bisogna accertarsi che un individuo sia un individuo, non si può negargli una personalità giuridica, e a quel punto il diritto alla vita è assoluto. Il concepito è per la scienza un individuo. Lo è per statuto cromosomico, individuo differente da tutti gli altri e irripetibile nella struttura. E’ un individuo in atto, non solo in potenza, dotato di tutto quel che fa di un maschio un maschio e di una femmina una femmina. Lo si fotografa abitualmente attraverso tecniche visualmente perfette. C’è, incontestabilmente, e risiede per un atto di concepimento nel corpo di una donna. Agisce e patisce, come sapevano per tradizione le donne incinte, dunque si segnala, batte colpi, prova piacere e dolore. Degradarlo, torturarlo, annientarlo è contrario alla concezione della vita, e poi e solo poi della libertà e del resto, che definimmo all’uscita della Seconda guerra mondiale con le eccezioni dette tra i firmatari, sulla scia della dichiarazione di Indipendenza americana e della dichiarazione seguita alla Rivoluzione francese e scritta dal marchese La Fayette. Insomma, i diritti naturali. Quando provammo a fare una campagna contro l’aborto, con pochi mezzi e tra le provocazioni e i fraintendimenti, nel 2008, fummo sconfitti. Eravamo partiti dal rigetto di quella che ci sembrava un’oscenità morale, una contraddizione etica devastante: l’esibizione vanitosa del diritto alla vita quando si parlava di pena di morte, e si invocava una moratoria delle esecuzioni capitali, combinata con l’aborto come diritto: nell’obiettivo nostro era la vocalità umanitaria di Emma Bonino, che riciccia ora. Chiedemmo una moratoria per l’aborto, facendo scandalo, combattendo per una breve stagione culminata in una bruciante sconfitta elettorale della lista di scopo “Aborto? No, grazie”, e prima ancora in una disfatta culturale. Dopo qualche incertezza sulla legislazione abortista, che peraltro in Italia si intitolava alla “tutela sociale della maternità” (legge 194), sostenemmo che non era in questione la punibilità dell’aborto, ma l’orientamento contrario all’aborto da manifestare e inverare nelle politiche pubbliche, nella coscienza etica della società: bisognava offrire un’alternativa all’aborto moralmente sordo, una possibilità diversa a chi ricorreva al cosiddetto aborto di necessità, finanziare i programmi di assistenza e aiuto di eroici gruppi volontari che quell’alternativa cercavano in dialogo con le donne incinte e i loro partner, censurare l’aborto degradato da dramma a scelta di carriera o affermazione volitiva generica, proponemmo la sepoltura e catalogazione dei non nati ancora oggi considerati “rifiuti speciali ospedalieri” eccetera. Unico impotente alleato strategico di una campagna laica e fatta da laici con metodi laici, alleanza esperita con tutte le cautele dell’istituzione, fu la Chiesa di Ratzinger e Ruini. Le mille testimonianze ideologiche, letterarie, poetiche a favore del no all’aborto, dal mitico Pasolini a Natalia Ginzburg a molti altri non solo italiani, furono considerate eccentricità e anticaglie. Oggi quell’impresa sarebbe da riproporre, con tutto il suo carico di disperazione e fallimento, di fronte all’umanitarismo falso per i bambini di Gaza. Oggi dovremmo dire, come fu per la moratoria, “cessate il fuoco” contro i nascituri abortiti o in via di aborto, cioè annientati, nel segno del diritto costituzionale ormai iscritto nella Costituzione francese all’unanimità o quasi. Un mondo in cui si viaggia verso il miliardo e mezzo di aborti legali e condivisi dai primi anni Settanta, epoca delle leggi abortiste, non ha il diritto di assumere pose sconvolgenti di compassione, empatia o quel che volete voi verso la strage dei bambini a Gaza e, se è per questo, in molte altre parti del mondo».
CINA, ANCORA DEBITO E PIL AL 5 PER CENTO
Ripresa difficile per l’economia della Cina: maxi emissione di bond per sostenere la crescita e Pil al 5%. Nel Work Report letto in Plenaria dal premier Li Qiang l’apertura nel 2024 all’emissione di titoli del Tesoro a lungo termine. Il punto è di Rita Fatiguso per Il Sole 24 Ore.
«C’è ancora più debito nell’immediato futuro della Cina, e l’obiettivo dichiarato è quello di sostenere la crescita e il Pil atteso nel 2024, pari a circa il 5%, identico a quello dell’anno scorso. È lo spunto principale di un Work Report più stringato del solito, letto ieri in apertura di Plenaria dal premier Li Qiang, al suo debutto davanti alla platea dei tremila delegati dei due rami del Parlamento cinese. Con un’inflazione programmata, in un contesto di grave deflazione, al 3% e una disoccupazione del 5,5% Pechino setta il rapporto deficit/Pil per quest’anno al 3% e il disavanzo pubblico a 4,06 trilioni di yuan, con un aumento di 180 miliardi di yuan rispetto alla cifra del budget 2023. Forte del fatto che le entrate fiscali, a suo dire, continueranno a crescere nel 2024, il premier Li Qiang ha parlato di un bilancio del Governo pari a 28,5 trilioni di yuan, con un incremento dell’1,1 trilioni di yuan rispetto al 2023. Ma, ha aggiunto a ruota, c’è un elemento cruciale: quest’anno, 3,9 trilioni di yuan di obbligazioni speciali verranno emessi a livello di governi locali (pari a circa 500 miliardi $), con un incremento di 100 miliardi di yuan rispetto allo scorso anno. Com’è noto, lo stesso Governo centrale aveva messo un tetto all’indebitamento degli enti locali riaprendo all’emissione di bond municipali solo sotto la pressione della pandemìa per aiutare le comunità a superare la difficile fase del Covid-19 e dei lockdown. Poi, però, a fine 2021 è scoppiata la bolla immobiliare, un bubbone esploso a causa delle regole più restrittive imposte ai bilanci gonfiati delle società immobiliari, un fenomeno che sta devastando l’economia del Paese con grosse ripercussioni anche sui corporate bond emessi offshore e non onorati alle scadenze. I big del mattone sono in disarmo, Evergrande è in liquidazione, Country Garden seguirà probabilmente la stessa sorte, i debiti corporate hanno raggiunto livelli stellari. Già il rapporto tra debito complessivo (pubblico e privato)/Pil è salito al 279,7% nel primo trimestre del 2023, stando agli stessi i dati della Banca centrale e dell’Ufficio centrale di statistica rispetto al trimestre precedente, il più grande in tre anni. Il rapporto tra debito pubblico e Pil in Cina, in media del 36,55% del Pil dal 1995 al 2022, ha raggiunto un massimo storico del 76,90% nel 2022 rispetto al minimo storico del 20,60% del Pil nel 1997. Nonostante ciò, la strada per riorientare il Paese davanti a queste difficoltà scelta dal Governo centrale «è quella di affrontare sistematicamente le carenze di finanziamenti che affliggono alcuni importanti progetti costruendo un grande Paese e promuovendo il ringiovanimento della Nazione, quindi - si legge nel testo - si propone che, a partire da quest’anno e per ciascuno dei prossimi anni, vengano emessi buoni del Tesoro a lunga scadenza, obbligazioni che verranno utilizzate per implementare importanti nazionali strategie e rafforzare la capacità di sicurezza in settori chiave. Un trilione di yuan di questo tipo di obbligazioni saranno emesse nel 2024». Se nel 2008, anno della grande crisi finanziaria globale, la Cina reagì d’impulso con un mega pacchetto di stimoli orientato a pompare una valanga di denaro nel sistema che si rivelò un boomerang in grado di alimentare il debito del Paese, stavolta, in un contesto difficile anche a livello interno, Pechino sceglie la strada dell’emissione di titoli a debito. «Sono necessari ulteriori investimenti pubblici in molti settori - ha aggiunto il premier cinese - Questo significa che dovremmo migliorare ulteriormente la struttura della spesa pubblica, garantire finanziamenti sufficienti per i principali compiti strategici nazionali e per gli sforzi volti a soddisfarli bisogni primari della vita delle persone e controllare rigorosamente le spese generali». L’invito alla morigeratezza nella gestione della spesa, da solo, non sarà sufficiente a tenere a bada un indice di indebitamento che come si è detto già nel primo trimestre del 2023 aveva raggiunto livelli record. Un triennio di lotta al Covid-19 e di crisi immobiliare hanno lasciato le municipalità piene di debiti, anch’esse sull’orlo del fallimento, prive della leva immobiliare utilizzate per alimentare le casse comuni. Non è servita a molto nemmeno la spinta del Governo centrale sul sistema bancario a prestare soldi alle imprese per far ripartire l’economia né la strategia di limare i tassi, continuata fino al taglio consistente del prime rate di qualche giorno fa».
LE BANDE CRIMINALI GOVERNANO HAITI
Con l’aeroporto internazionale e il porto nelle mani dei gruppi armati, il premier Ariel Henry non riesce a rientrare nel Paese. In sua assenza è il caso: in fiamme ministeri e commissariati. Altre 15mila persone in fuga dai combattimenti che si sommano ai 320mila sfollati interni. Molti dei 10mila agenti si nascondono per salvarsi. Per Avvenire Lucia Capuzzi.
«L’epicentro della battaglia è l’aeroporto Touissant Louverture di Port-au-Prince. I cecchini delle gang hanno le armi puntate sull’unica pista di atterraggio. L’hanno già colpita più e più volte da sabato come confermano i buchi sparsi nell’asfalto. L’obiettivo è bloccare il traffico e impedire il ritorno nell’isola del premier Ariel Henry. Fonti ben informate sostengono che il leader ad interim abbia lasciato da oltre 48 ore Nairobi, dove si era recato per avviare lo schieramento della missione internazionale a guida kenyana. E ora sarebbe bloccato negli Stati Uniti nell’intento di tornare nell’isola. In sua assenza, a rappresentare il governo è il ministro dell’Economia, Patrick Michel Boisvert. Ma di fatto, negli ultimi cinque giorni, anche gli brandelli superstiti di architettura istituzionale sono stati polverizzati dal “golpe delle bande”. Il boss Jimmy Chémizier alias Barbecue sembra essere riuscito a unificare la variegata galassia di gruppi armati informali che, nel vuoto istituzionale, già da tempo, hanno conquistato oltre l’80 per cento della capitale. Ora, però, non si tratta più di aggiudicarsi frammenti di territorio da cui estrarre risorse, soprattutto con l’estorsione. L’attacco è rivolto direttamente contro lo Stato. Dopo il penitenziario nazionale e la prigione di Croixdes- bouquets, sono stati presi di mira i ministeri e le infrastrutture di base, molti commissariati sono stati incendiati e perfino gli hotel sono stati assaltati. Anche l’ospedale dei camilliani e quello di San Francesco di Sales sono a rischio. Nei quartieri del centro di Port-au-Prince si combatte casa per casa. Altre quindicimila persone – dopo le migliaia della settimana scorsa – sono fuggite dalle case distrutte e molti stanno cercando disperatamente di lasciare la capitale. I nuovi sfollati si sommano ai 320mila registrati dall’Onu l’anno scorso e tuttora accampati in tendopoli di fortuna. La Repubblica Dominicana ha ribadito il rifiuto di aprire un corridoio alla frontiera e di allestire dei campi profughi per chi fugge. La paura è palpabile. E sta contagiando anche le colline di Petionville, zona tradizionalmente residenziale dove vivono gli stranieri. Con le vie di fuga – via mare e aria – bloccate, gli abitanti si sentono in trappola. Il coprifuoco dichiarato fino alla notte di oggi non è in grado di fermare la battaglia. I diecimila poliziotti in servizio non riescono a fronteggiare le bande, superiori in numero – si parla di alcune decine di migliaia di esponenti, giovani e giovanissimi, tra il 30 e il 50 per cento sono minori – e, soprattutto, in armamenti, grazie al florido contrabbando dagli Usa. Secondo gli esperti ci vorrebbe almeno il triplo degli agenti. Anche perché le bande hanno subito reclutato i quasi 5mila detenuti fatti evadere dopo il doppio assalto alle prigioni. In realtà già i 10mila attivi sono un dato al rialzo: gran parte hanno lasciato la divisa e sono nascosti per salvarsi la vita. Proprio dalla sproporzione di forze è nato, già a ottobre 2022, il grido di aiuto al mondo di Henry. Un appello tuttora inascoltato nonostante il via libera dell’Onu. Ci è voluto un anno di continui tira e molla perché, a settembre, si arrivasse alla configurazione di un contingente internazionale coordinato dal Kenya. Il 26 gennaio scorso, però, l’Alta corte di Nairobi ha bloccato l’iniziativa a causa della mancanza di un accordo bilaterale con Haiti per gli scambi di forze di polizia. Henry si era recato nel Paese proprio per siglarlo. Grazie alla pressione di Usa e Comunità dei Caraibi (Caricom), la settimana scorsa, la missione sembrava finalmente prendere forma. Oltre al Kenya, Benin, Ciad, Bangladesh, Barbados e Bahamas avevamo messo a disposizione truppe, per un totale di circa tre migliaia di agenti. Burundi, Senegal, Belize, Antigua, Barbuda, Suriname, inoltre, avevano espresso una disponibilità. Certo, delle centinaia di milioni di dollari promessi da Usa, Canada e Francia solo 11 milioni sono stati effetti-vamente depositati. Ma il più sembrava fatto. Non è un caso che il “golpe anomalo” sia maturato proprio in questo contesto. Al momento è difficile prevedere come si evolverà la situazione. Molto dipenderà dall’effettivo rientro di Henry, considerato l’unico interlocutore da parte della comunità internazionale in assenza di alternative. Per questo gli Usa premono per il ritorno. Con i voli di linea fermi, si profila l’ipotesi di un charter. Il punto è dove e se riuscirà ad atterrare. Nel frattempo, la guerra infinita di Haiti va avanti. E il mondo resta a guardare».
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