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Andiamo tutti a Kiev
Perché non seguire l'esempio dei tre leader Ue e portare la solidarietà a Zelensky con la presenza fisica? Propone Casarini. Il Papa consacra i due Paesi a Maria. Ammirazione per Marina Ovsyannikova
Arriva in treno e in forma pacifica a Kiev l’Europa che sostiene Volodymyr Zelensky. I tre premier di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia sfidano le bombe russe per portare la loro solidarietà agli ucraini. Intanto il sindaco della città proclama un nuovo coprifuoco di 36 ore, che finirà solo domani mattina. Il timore è che i russi, dopo un intenso bombardamento, vogliano entrare in città e combattere strada per strada. Nello Scavo su Avvenire racconta il dramma della capitale. Mentre Andrea Nicastro per il Corriere racconta l’evacuazione da Mariupol. Ieri finalmente se ne sono riusciti ad andare in 20 mila, anche in 14 su una sola macchina. Quasi tutti giovani. I nonni sono rimasti nella città sotto assedio. Nell’ospedale, secondo la Bbc, ci sono ancora 400 persone tenute in ostaggio.
Il mondo è ammirato dal gesto eroico di Marina Ovsyannikova che lunedì sera durante il telegiornale è apparsa in diretta nello studio con un cartello “NO WAR”. Ieri a Mosca è stata multata dopo 14 ore di interrogatorio, ma rischia pesanti ritorsioni e 15 anni di carcere. Il suo gesto, secondo l’analisi della Zafesova sulla Stampa, sta contagiando colleghi e osservatori e potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova forma di opposizione al regime autoritario di Putin. Belli i commenti di Gramellini e Brambilla. Adriano Sofri sul Foglio suggerisce che ci ricordiamo di lei ogni giorno, scrive infatti: “Marina Ovsyannikova. Di qualunque cosa parliamo o scriviamo. Penso che non dobbiamo più scrivere una sola riga sui giornali, sui social media, sui muri, sugli schermi, senza scrivere prima il nome di Marina Ovsyannikova”. Che cosa può fare una singola donna contro la spietatezza e la violenza del potere e della repressione? Esercitare quello che Vaclav Havel aveva chiamato “il potere dei senza potere”.
Sul modello di quello che sta accadendo a Mosca e a Kiev, Luca Casarini, già leader No Global e oggi impegnato nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, propone a Enrico Letta di andare in massa a Kiev. Senza armi, ma in una forma di interposizione pacifica. Un’interposizione di massa. Dice fra l’altro al Manifesto: “Viviamo in un mondo dove decidono tutto i tre grandi imperi di Usa, Russia e Cina, ma rimane sempre una variabile inattesa: l'umano”.
Il Papa ha preso una decisione drammatica e di grande rilevanza: ha annunciato che consacrerà solennemente l’Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria. L'atto si compirà venerdì 25 marzo nella Basilica di San Pietro. Quello stesso giorno il cardinale Konrad Krajewski, l’elemosiniere del Papa, farà altrettanto nel Santuario di Fatima. Stasera ci sarà un Rosario per la pace dalla Basilica di Santa Sofia a Roma, in diretta su Tv2000 alle 21.
La disputa sul fatto che noi italiani siamo già in guerra non è poi così teorica, visto che il capo di Stato Maggiore ha emesso una circolare, già una settimana fa, in cui di fatto mette in allerta tutti i nostri soldati. Resta ancora intanto il segreto sulle armi che inviamo in aiuto agli ucraini per la resistenza all’invasione russa.
Due ricorrenze oggi da citare. Esattamente 44 anni fa veniva rapito Aldo Moro dalle Brigate Rosse in Via Fani e venivano uccisi gli uomini della sua scorta, si apriva così l’angoscioso e tragico sequestro dello statista democristiano. Dal tramonto di stasera e fino alla sera di di venerdì è la festa ebraica di Purim, la festa che ricorda il sovvertimento delle sorti e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine scelta per oggi non è di attualità. È un ritratto di tre ragazzi ucraini, realizzato dall'artista britannico Mark Neville che si è trasferito da Londra a Kiev, in Ucraina, l'anno scorso. Il lavoro di Neville "Stop Tanks With Books" esorta la comunità internazionale a sostenere l'Ucraina. Trovate le sue splendide foto sul sito www.micamera.com. Micamera è la più grande libreria italiana, che ha sede a Milano, specializzata in fotografia.
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera sintetizza: La diplomazia sfida i missili. Perché, come spiega il Quotidiano Nazionale, ieri nella capitale ucraina c’è stata la visita dei tre premier di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia: Kiev assediata, arrivano tre leader Ue. Per La Repubblica è: L’Europa a Kiev. Per La Stampa continua: La carneficina. Mentre per il Manifesto ieri è stato per: Kiev, il giorno più lungo. Il Mattino denuncia: Ostaggi delle bombe. Il Messaggero racconta del nosocomio di Mariupol: Ospedale in ostaggio. Per Avvenire: Bombardamento continuo. Domani spiega: Draghi tenta l’alleanza del sud per fermare i prezzi del gas. Il Fatto ricorda un altro conflitto: Yemen, stragi e fame. È la guerra dei buoni. Il Foglio ammette: Le bombe russe non temono le sanzioni. La Verità è critica: Le sanzioni messe alla cieca fanno male soprattutto a noi. Libero sottolinea la consacrazione dell’Ucraina e della Russia al cuore immacolato di Maria da parte di Francesco in chiave millenaristica: Il Papa vede la fine del mondo. Il Giornale amplifica l’allerta ufficiale del nostro esercito: L’Italia chiamò. Mentre Il Sole 24 Ore fa il punto sul prezzo della benzina: Il petrolio scende sotto i 100 dollari ma i carburanti restano ai massimi.
L’EUROPA A KIEV. TRE LEADER SI INTERPONGONO
I tre premier di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia portano a Kiev la solidarietà della Ue "contro la tirannia". Zelensky chiarisce: "Non entreremo mai nella Nato". I russi non ci credono ma gli ucraini insistono: "Ai negoziati spazi per compromessi". La cronaca di Fabio Tonacci per Repubblica.
«Un pezzo di Europa arriva nella capitale assediata a bordo di un treno in ritardo. Per la prima volta da quando Putin ha invaso l'Ucraina, tre primi ministri di Paesi che fanno parte dell'Unione Europea sono venuti fisicamente a Kiev per incontrare il presidente che non si arrende, Volodymir Zelensky. Assieme a loro anche il leader del partito polacco di maggioranza, Jaroslav Kaczynski, che in tarda serata ha lanciato un messaggio che rompe i fragili equilibri diplomatici tenuti fin qui dai Paesi della Ue: «Serve una missione di pace, della Nato e possibilmente ancora più larga, che operi in territorio ucraino. E che sia in condizioni di difendersi». «La tua lotta è la nostra lotta e insieme la vinceremo», è invece il messaggio comune portato dai tre premier, il polacco Mateusz Morawiecki, lo sloveno Janez Jana e il ceco Petr Fiala, scesi alla stazione centrale affollata di profughi nel tardo pomeriggio, assai dopo l'orario previsto. Trovano una città spaventata e assediata, con lo sguardo rivolto al cielo da cui piovono, a caso, proiettili di mortaio. Prima dell'incontro il governo ucraino non fornisce dettagli. «Motivi di sicurezza». Comprensibili, del resto: Zelensky e la sua famiglia sono nella lista delle persone da eliminare stilata dal Cremlino. Palazzo Mariinskij, sede della presidenza, è inaccessibile perché nel quartiere sulle rive del Dnepr è segnalata la presenza di sabotatori russi, incubo e psicosi di ogni soldato di guardia ai check-point: attorno al Palazzo non chiedono più solo i documenti, fanno aprire i bagagliai delle macchine e controllano le foto nella memoria dei telefonini. Giornata complicata, del resto. Dalle 5 della mattina un condominio di 16 piani nel distretto di Svyatoshinsky sta bruciando come un fiammifero, incendiato dal "martello di Stalin", come a Mosca chiamano il più letale tipo di mortaio a disposizione dell'artiglieria pesante russa: obici da 240 millimetri che sputano bombe da 130 chili a chilometri di distanza. Li stanno usando al posto dei più costosi missili balistici, per terrorizzare Kiev e fiaccarne la resistenza fisica e nervosa. Solo nelle ultime 24 ore due condomini sventrati nelle zone centrali, una casa distrutta e la stazione del metro Lukianivska, che si trova vicino a una postazione militare strategica, bersagliata: quattro i morti e decine i feriti. Davanti al palazzo ancora in fiamme, il sindaco ed ex pugile Vitaly Klitschko tuona: «Questa è casa nostra, Putin deve sapere che noi non ce ne andremo! Costi quel che costi! E all'Occidente, che è cauto sulla no fly zone, chiediamo sempre le stesse cose: aiuti e armi per difenderci». In una stanza protetta e non identificata, all'ora della cena, si tiene l'incontro dei tre premier con Zelensky, preceduto da un paio di dichiarazioni di una certa importanza del presidente ucraino sulla delicata questione dell'ingresso nella Nato. «Abbiamo sentito per anni parlare di porte aperte, ma abbiamo anche sentito dire che non possiamo entrarci, e dobbiamo riconoscerlo». E poi, in collegamento con i leader dei paesi nordici e baltici della Joint Expeditionary Force: «Noi possiamo fermare la Russia, ma se non ci aiuterete, punteranno poi verso di voi». Il premier polacco Morawiecki, spiega a Zelensky che sono venuti in nome e per conto del Consiglio europeo, ma che il viaggio «è organizzato d'accordo con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, con l'obiettivo di confermare il supporto dell'intera Unione europea per la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina». Zelensky ringrazia: «È un forte segnale di sostegno». I quattro si fanno fotografare (senza di lui) attorno a un tavolo davanti a una cartina geografica, «È qui, nella Kiev dilaniata dalla guerra, che si fa la storia», scrive Morawiecki su Twitter, a corredo della foto. «È qui che la libertà combatte il mondo della tirannia. È qui che il futuro di ciascuno di noi è in bilico». Più o meno alla stessa ora in cui il delegato per l'Ucraina Mykhailo Podolyak, durante una pausa dei negoziati, sempre su Twitter, comunica che gli accordi di pace sono difficili e scivolosi «ma, pur nelle contraddizioni fondamentali, c'è sicuramente spazio per un compromesso».Chi non accetterà compromessi, almeno a sentire i suoi abitanti rimasti, è la città di Kiev. Le forze armate ucraine hanno respinto un altro tentativo da parte delle truppe di Putin di attraversare il fiume Irpin, sfondando verso Huta, Mezhyhirska e Lyutizh. Siamo a nord-ovest, il punto più caldo dell'accerchiamento ancora imperfetto e, a quanto pare, in stallo. Il sindaco Klitschko ha dichiarato il coprifuoco totale fino alle 8 di giovedì mattina ed è una notizia che si può interpretare in due modi. Ufficialmente, il motivo è la caccia ai sabotatori e ai segnali elettronici che possono aver lasciato sul territorio urbano per orientare i cacciabombardieri russi. Non è escluso, però, che sia il preludio all'ora più buia: quell'attacco massiccio, dal cielo e da terra, che la capitale teme da giorni».
Bombardamento continuo sulla capitale ucraina: anche le case sono nel mirino. Il sindaco della città proclama un coprifuoco totale di 36 ore. Il racconto dell’inviato di Avvenire Nello Scavo.
«È iniziato a Kiev il coprifuoco totale di 36 ore imposto dalle autorità ucraine fino alle 8 di domani. La città è sottoposta a intensi bombardamenti, mentre lentamente ma inesorabilmente le truppe di Mosca avanzano preparandosi all'assedio. Ieri un palazzo di dieci piani è stato bersagliato provocando almeno una decina di morti. E in Bielorussia è stato avvistato un convoglio di equipaggiamenti militari in transito verso il confine con l'Ucraina. Se Mosca rifiuta le accuse di aver colpito deliberatamente i civili, le immagini che arrivano da tutto il Paese raccontano il contrario. Il condominio sventrato a Kiev si trova lontano da installazioni militari e fuori dalla linea di tiro verso obiettivi strategici. Sempre ieri i soccorritori hanno estratto sette corpi dalle macerie di una scuola colpita da un bombardamento aereo russo a Kykolayiv, nel sud dell'Ucraina. Altre tre vittime erano state accertate domenica, quando la scuola è stata colpita. Per giustificare la mattanza il Cremlino ha sostenuto di avere messo le mani su documenti che dimostrano come Kiev avesse pianificato di invadere la Crimea e le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolay Patrushev ha però commesso un passo falso nelle sue dichiarazioni. Ha sostenuto che queste prove sono state rinvenute «nel corso» dell'operazione militare e che Kiev «si stava preparando per invadere» entro marzo. Le prove non sono state mostrate. Ma, anche a prendere per buona questa versione, le parole di Mosca confermano che non vi erano evidenze prima dell'attacco del 24 febbraio, che dunque in alcun modo può essere ritenuto, come invece sostenuto da Putin, una reazione alle minacce di Kiev. Non è l'unica farsa di questa tragedia. Il principale alleato militare di Putin, il brutale leader ceceno Kadyrov, avrebbe piantato in asso i russi, sempre che abbia davvero messo piede in Ucraina. Dopo avere mostrato in un video la sua presunta presenza nei pressi di Kiev, ieri Ramzan Kadyrov è riapparso nella sua città, Grozny, dove ha detto di essere rientrato per incontrare proprio il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale russo, Nikolai Patrushev. Curioso, fanno notare gli analisti di intelligence, che Kadyrov sia dovuto tornare indietro quando l'incontro sarebbe potuto avvenire in Bielorussia, a meno di 200 chilometri da Kiev. La notizia ha galvanizzato la resistenza ucraina, ritenuto che i russi sono dovuti ricorrere allo spauracchio di Kadyrov per intimorire Kiev. A partire da domenica, le vittime civili accertate dall'Onu sono intanto salite a 636. Ma l'alto commissario per i diritti umani precisa che le cifre reali «sono probabilmente molto più alte, poiché i report devono essere corroborati, in mezzo a scontri sempre più intensi». Nella sola Mariupol, le autorità municipali riportano più di 2.500 morti civili, «in aumento rispetto ai quasi 1.600 dell'11 marzo», precisano le Nazioni Unite. A Donetsk, in un'area non controllata dal governo, almeno 20 civili sono stati uccisi e quasi altri 30 sono rimasti feriti quando un missile balistico Tochka-U ha colpito il centro della città. Il Tochka-U è in dotazione, con differenti varianti, sia all'esercito ucraino che a quello russo. Diversi analisti hanno spiegato che dall'analisi visiva dei rottami, l'ordigno precipitato, e in parte inesploso, sarebbe una variante esclusivamente adoperata dai russi. Alcune fonti parlano di "false flag", cioè di una strage provocata per attribuire le responsabilità agli ucraini. Molto più probabilmente il missile era stato scagliato contro il territorio ucraino ed era stato intercettato dai sistemi antimissile di Kiev che, colpendolo in volo, ne hanno fatto precipitare i detriti sulla città. I combattimenti a Kyivska, nel nord di Kiev, erano stati precedentemente limitati alla periferia della capitale, ma il bombardamento di un edificio residenziale di nove piani nel distretto settentrionale di Obolonskyy ha segnato un avanzamento degli scontri, con un morto e una decina di feriti nella giornata di lunedì. In un episodio simile a quello avvenuto a Donetsk una persona è stata uccisa e altre sei sono rimaste ferite quando i detriti di un missile intercettato sono caduti nel distretto Kurenivka, un sobborgo di Kiev. Domenica le autorità di Popasna (un'area controllata dal governo) hanno riferito che sono state usate munizioni al fosforo bianco. «L'uso della sostanza, che può causare orribili ferite, è proibito dal diritto internazionale in aree civili densamente popolate », ricorda l'Ufficio Onu per i diritti umani, che sta tentando di verificare le accuse. Secondo il governo di Kiev, intanto, altre 150mila persone sono state evacuate attraverso i corridoi umanitari a partire da lunedì, mentre la Russia ha riferito che 250mila sfollati hanno raggiunto il territorio russo. «L'Onu non ha ha i mezzi per verificare il numero effettivo di persone evacuate», viene precisato. Nonostante la tenace resistenza ucraina, i combattimenti continuano a intensificarsi «più vicino al cuore della capitale», si legge in un'altra nota delle agenzie Onu. E a questo punto «l'accerchiamento militare della capitale è una possibilità molto reale». Se dalla fase di attacco si dovesse passare al definitivo assedio, «le autorità municipali riferiscono che c'è cibo sufficiente per due settimane».
MARIUPOL, VIA DALL’ASSEDIO IN 20 MILA
Andrea Nicastro per il Corriere della Sera racconta la fuga da Mariupol: finalmente i corridoi umanitari funzionano e lasciano la città in 20 mila. Ma 300 mila sono ancora intrappolati. I più anziani lasciano il posto ai giovani: in 14 su un'auto con i nonni che restano.
«Una delle ultime auto ad approdare a Zaporizhzhia è stata la loro. Una Mazda CX grigia con il parabrezza piegato verso l'interno in una ragnatela di crac. È arrivata dopo mezzanotte. C'era il coprifuoco, buio pesto. Duecentocinquanta chilometri di autostrada sono diventati 400 di strade sterrate e paesi fantasma per evitare mine e ponti distrutti. Il motore si spegne, esausto come tutti. Esce un bimbo, un adulto, un ragazzino, un adulto e ancora e ancora. C'erano 14 anime in quella macchinetta. Tre famiglie più Sasha, 6 anni. Il papà e la mamma sono rimasti a Mariupol. Non avevano l'automobile per partire. Prendetelo. Portatelo via. Salvatelo. La Mazda col vetro rotto stava partendo, il «corridoio verde» era aperto, per Sasha si è trovato posto. Quattordici invece di tredici. Salvi, però. Generazioni I fuggiaschi dall'assedio di Mariupol non hanno bagagli, non hanno portato neppure la memoria. Olga ha provato a convincere i nonni, ma loro, cocciuti, hanno detto no, siamo vecchi, non riusciremmo ad abituarci, andate voi. La voce di Olga si rompe, lo sguardo cerca comprensione per la bugia a cui tutti vogliono credere. La verità è che spesso i nonni sono rimasti per non togliere il posto ai giovani. Dei 160 arrivati con la colonna di lunedì, la più anziana aveva 57 anni. Gli altri erano bambini e genitori tra i 30 e i 40 anni. Il giorno dopo Dopo una notte di sonno, i 14 della Mazda grigia sono ancora in uno degli asili di Zaporizhzhia riconvertiti a centro di accoglienza. Gli hanno dato vestiti, pasti caldi, la possibilità di lavarsi per la prima volta da 13 giorni. A 10 sottozero, senza acqua, i vestiti si irrigidiscono, cambiano colore, come la faccia e soprattutto le mani, ma non si puzza di sudore. Anche ieri, però, dopo la doccia, gli occhi vagano persi. Sono le donne a parlare, a sciogliersi in lacrime, a tremare mentre raccontano di quei giorni infiniti. Gli uomini stanno fuori a fumare o al telefono per riconnettere i fili della vita. Per loro non è finita. Non possono lasciare il Paese, devono arruolarsi o partecipare in qualche modo allo sforzo bellico, come se 12 giorni in una città sgretolata e affamata non fossero un obolo sufficiente alla patria. Natalia: «All'inizio non riuscivamo a credere che potesse durare tanto. Adesso finirà, dicevamo. Invece diventava sempre peggio. Quando sentivamo i botti, io e mio marito mettevamo sotto i bambini e ci seppellivamo tutti di coperte. Loro piangevano, non capivano, ma se il tetto fosse crollato, speravamo di proteggerli con i nostri corpi». In trappola Il Teatro di prosa dalle colonne bianche e i fregi neoclassici nel centro di Mariupol, spiega Irina, è diventato un rifugio. «Ci sono ancora mille persone là dentro. Mangiano solo quel che portano una volta al giorno i nostri militari». Sono partiti da una città in fiamme, con i cadaveri per le strade. Anche la stazione dei pompieri è stata colpita, così i palazzi bombardati bruciano tranquilli per ore, le fiamme passano da un piano all'altro fino al tetto. Sotto, la gente continua a ripararsi dalle bombe. Superati i controlli russi, ognuno doveva trovare la strada da sé. Lungo le vie secondarie, decine di auto carbonizzate o anche solo crivellate di colpi di chi aveva tentato la fuga nei giorni precedenti. Dentro i cadaveri. Chi l'ha visto Nel circo di Zaporizhzhia, un edificio d'epoca sovietica che sa ancora di tigri e cavalli, fa impressione un muro carico di appelli, numeri di telefono, nomi di chi dovrebbe essere già passato, ma non si trova: un chi l'ha visto di Mariupol. Le psicologhe a Zaporizhzhia dicono di poter cercare solo di rassicurarli. I fuggiaschi si vergognano di aver perso tutto, di essere come mendicanti. In mano hanno i documenti, gli atti di proprietà della casa, il telefonino e il bancomat. Nient' altro. Neppure i bambini hanno portato i loro giochi. I piccoli, appena ne trovano uno se ne impossessano, non lo lasciano più. Per i grandi, invece, è un conforto ritirare qualche soldo, sentirsi di nuovo padroni di qualcosa. Più che affrontare i traumi, adesso, si può solo abbracciarli, calmarli, fargli percepire che sono in un posto sicuro. Forse, visto che la guerra non si ferma. L'unico ospedale Da Mariupol ieri sera stavano arrivando altre auto. Molte, forse addirittura mille, a bordo ventimila persone, ma comunque un nulla rispetto ai 200 mila o 300 mila abitanti intrappolati. Il vicesindaco è riuscito a far uscire una notizia: l'unico ospedale ancora attivo è controllato dall'esterno dai soldati russi. Tra sanitari e malati, 400 prigionieri. Chi ha tentato di uscire è stato preso a fucilate. Intanto le navi russe nel mar Nero hanno iniziato, nella notte, a bombardare le coste vicino alla città di Odessa».
LA GIORNALISTA RUSSA EROINA DEL NO WAR IN TV
Lunedì sera la giornalista Marina Ovsyannikova ha interrotto il principale telegiornale russo gridando: «Fermate la guerra. No alla guerra» e mostrando un cartello in russo. Per ora nessuna "punizione esemplare", ma la Ovsyannikova rischia 15 anni. La cronaca di Marta Ottaviani per Avvenire.
«Forse ha creato più problemi lei al Cremlino delle sanzioni. Marina Ovsyannikova, direttore di Piervij Kanal, la principale emittente pubblica russa, è stata condannata al pagamento di 30mila rubli, circa 260 euro, una cifra piuttosto ingente per gli standard locali, per aver esposto un cartello con su scritto «No alla guerra» durante una diretta televisiva, nella trasmissione del telegiornale della sera. La multa si riferisce all'accusa di «manifestazione non autorizzata». Ma in futuro potrebbe essere messa sotto processo anche per «diffusione di false notizie sulle operazioni militari speciali». In Russia, almeno sui canali ufficiali, il suo exploit è passato parecchio sotto traccia. Il Cremlino ha definito la sua azione «teppismo». All'estero, però, è diventata un simbolo della resistenza più coraggiosa alla guerra in Ucraina e al presidente Vladimir Putin, nonché al suo sistema di informazione. Tanto che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha proposto per lei una «protezione consolare». Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky l'ha ringraziata pubblicamente, mettendo una pezza alle dichiarazioni della deputata di Kiev, Inna Sovsun, per la quale la mossa della giornalista russa era, in modo abbastanza incomprensibile, uno show ordinato dal Cremlino, per mostrare in Russia c'è posto per il dissenso. Ovsyannikova, fino a due giorni fa, dirigeva uno dei megafoni del sistema media russo. E sul quel cartello, oltre al «no alla guerra», c'era anche un messaggio ben più pericoloso per Putin e la sua cerchia: non credete alla propaganda, qua vi dicono bugie. Padre ucraino e madre di Mosca, sposata e con due figli, da ieri è senza posto di lavoro. Serena nei confronti della sua scelta, all'uscita del tribunale, stretta al suo avvocato, ha ringraziato tutti per la vicinanza. Una presenza concreta che ha tolto di mezzo i dubbi che si erano susseguiti ieri e che la volevano ora al commissariato di Ostankino, quartiere a nord della capitale Mosca, ora sparita chissà dove. Sempre ieri, un'altra conduttrice di una tv filo Cremlino, Lilia Gildeeva, ha dato le dimissioni dalla NTV, sottolineando di aver lasciato già la Russia da qualche giorno. Se fuori dalla Russia capire quello che succede è sempre più difficile, dentro ai confini nazionali sembra tutto incredibilmente chiaro, non fosse che si tratta di una versione pesantemente edulcorata. I siti delle principali testate del Paese dedicano l'apertura alla guerra in Ucraina. Ma la chiamano voyennaya operatsiya, ossia «operazione militare». Vengono riportati i dettagli dell'avanzata russa, ma non c'è spazio né per le migliaia di morti fra le forse militari nazionali, né per le vittime innocenti di questa guerra chiamata con altro nome. Solo su qualche media più coraggioso, nei limiti del possibile, come, Izvestia, si rende noto il parere di un economista, che sconsiglia l'assalto ai negozi per la corsa ai beni di prima necessità, nel timore che questi possano venire a mancare. Per il resto, la narrazione è volta a tranquillizzare gli animi e a fare passare la Russia come la vittima della situazione o, almeno, la grande incompresa. Le grandi emittenti nazionali diffondo immagini di militari sereni, impegnati in azioni di pattugliamento, oltre alla notizia che la Russia si è formalmente ritirata dal Consiglio d'Europa. Solo sui social si riesce ad avere un minimo di versione alternativa. Ma fino a un certo punto. Incuranti delle leggi severe varate dieci giorni fa dalla Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, anche molti media russi vicini al Cremlino continuano a fare informazione come se nulla fosse, prime fra tutte l'agenzia Ria Novosti, puntuale nel diffondere tutti gli aggiornamenti».
Anna Zafesova sulla Stampa racconta che il coraggio di Marina potrebbe far uscire allo scoperto altri colleghi di giornali e tv:
«Quando è apparsa, nello studio del telegiornale serale principale della Russia, sembrava talmente impossibile che molti hanno pensato a un fotomontaggio, a un hackeraggio di Anonymous, a uno scherzo surreale, e sui social ieri girava l'ipotesi complottista che fosse un fake, un'operazione di depistaggio per mostrare che in Russia c'è la libertà di parola. Ma Marina Ovsiannikova è vera, è viva, e riemerge dopo quasi 24 ore in cui nessuno sapeva dove si trova come la donna più amata e cliccata della Russia. È stata ringraziata da Volodymyr Zelensky, che ha lodato in russo i cittadini del Paese nemico che protestano contro la guerra, è già stata portata ad esempio da Alexey Navalny, che nel suo ultimo discorso al processo che dovrebbe condannarlo ad altri 13 anni di carcere la chiama «splendida» e dice che le sue parole sono «le più importanti». Emmanuel Macron le ha offerto il suo aiuto e ha detto che parlerà di lei a Vladimir Putin, in una delle loro prossime interminabili telefonate negoziali. È l'eroina, la destinataria dei cuoricini, la ragazza che ha ridato dignità a tutti i russi che hanno paura ad alzare la voce, e creato il più grande imbarazzo per il Cremlino dove - dicono i canali Telegram che pubblicano i pettegolezzi del potere russo - lunedì sera le luci erano rimaste accese fino a tardi, in lunghe riunioni per decidere il suo destino. Il gesto di Marina è stato di quelli con i quali si entra nella storia in 10 secondi: si è alzata dalla sua scrivania nello studio del telegiornale del Primo canale, mentre la ieratica conduttrice del regime Ekaterina Andreeva raccontava delle misure del governo per reagire alle sanzioni internazionali, e si è messa alle sue spalle con un cartello che recitava: «No war. Fermate la guerra. Non credete alla propaganda. Qui vi dicono bugie. Russians against the war». Sembrava un film, e Marina è stata arrestata soltanto all'uscita dallo studio, dopo che i suoi colleghi si sono ripresi dallo choc. Subito dopo si è scoperto che la redattrice del Primo canale tv, la roccaforte della propaganda di regime, aveva registrato prima di compiere il suo gesto un video in cui spiegava le ragioni della sua protesta. Figlia di padre ucraino e madre russa, ha dichiarato che «la guerra in Ucraina è un crimine», ha chiesto scusa per aver collaborato alla propaganda che «ha trasformato i russi in zombie» e ha lanciato l'appello a scendere in piazza per protestare: «Siamo rimasti troppo silenti, anche quando hanno avvelenato Navalny, ma non possono metterci dentro tutti». Parole impensabili nella Russia di oggi, anche se diverse voci di corridoio dicono che le star della propaganda televisiva si stanno licenziando già da due settimane. Zhanna Agalakova, per anni conduttrice del tg e corrispondente della tv di Stato da Parigi, ha confermato di aver rassegnato le dimissioni: «Il motivo mi sembra evidente, ora divento libera», ha detto al giornale online d'opposizione Meduza. Intere redazioni stanno seguendo il suo esempio, mentre altri giornalisti e redattori si danno malati o assenti. Ivan Urgant, il popolarissimo conduttore di un varietà serale, è scappato con la famiglia in Israele dopo aver protestato contro la guerra ed essersi visto sospendere la trasmissione. Un'altra defezione clamorosa dal palinsesto è quella della trasmissione del sabato di Sergey Brilyov, per anni intervistatore di Putin, che secondo alcune voci si sarebbe licenziato. Brilyov era stato scoperto da Navalny in possesso di un passaporto britannico, e la sua defezione confermerebbe il desiderio di molti fedelissimi del regime di abbandonare un Cremlino in crisi e una Russia che in pochi giorni è diventata povera e isolata dal resto del mondo, per godersi le case e i conti all'estero, prima di venire colpiti da eventuali sanzioni. «Non è una buona notizia, questi propagandisti verranno sostituiti da altri più assetati di sangue», scrive Aleksandr Gorbunov, il blogger oppositore conosciuto con lo pseudonimo di StalinGulag. Ma è comunque il segno di un regime che si sta sgretolando. Proprio per questo la decisione di una punizione esemplare per Marina Ovsiannikova sembra non essere ancora stata presa. La redattrice del Primo canale è stata rilasciata dopo un interrogatorio di 14 ore, e una multa di 30 mila rubli (circa 200 euro al cambio attuale) per aver pronunciato un «appello a manifestazioni non autorizzate» nel suo video. La sua apparizione nello studio del telegiornale sembrava venisse qualificata come un «atto di teppismo», anche perché in una riunione notturna dei capi dei servizi di sicurezza si sarebbe deciso di sminuire il suo gesto e farla passare come una ragazza in cerca di celebrità. Ma il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto una «punizione esemplare», invocando «la severità del momento», e Marina potrebbe sperimentare i rigori della nuova legge sul «discredito delle forze armate», che promette fino a 15 anni di carcere in caso di «conseguenze gravi». All'uscita dal commissariato di polizia Marina era attesa dai migliori avvocati moscoviti pronti a difenderla, e a esigere clemenza per una madre di due figli. Ma lasciare correre significherebbe incoraggiare altre proteste tra le migliaia di persone che oggi si mandano il filmato di Marina che agita il suo manifestino in diretta nazionale. Uno schiaffo che il Cremlino difficilmente può permettersi di perdonare».
All’eroina dell’informazione libera Massimo Gramellini dedica la sua rubrica in prima pagina sul Corriere di oggi:
«Dal mio comodo sgabello italico non riesco nemmeno a immaginare che cosa significhi essere Marina Ovsyannikova, la giornalista russa con due figli adolescenti, quindi con moltissimo da perdere, che nel pieno di una guerra decide di compiere il gesto meraviglioso e scriteriato di irrompere nel Tg della sera con un cartello che inneggia alla pace e smaschera le bugie del regime. Criticare Putin a casa sua sembrerà provocatorio a chi non ha il coraggio di criticarlo nemmeno a casa nostra. Ma Marina ha fatto di più. Questa «kamikaze» della parola ha registrato un video in cui, anziché vantarsi del suo ardire, ha chiesto scusa ai connazionali per avere propinato loro per anni un sacco di panzane. E invece di esortare la resistenza ucraina ad arrendersi in nome della pace, come propugnano certi neutralisti nostrani, proprio in nome della pace ha esortato i russi a protestare contro il despota, «perché non possono rinchiuderci tutti». Intanto è possibile che, dopo il processo, rinchiudano lei, a lungo. E il giorno benedetto in cui Putin cadrà nella polvere non è certo alle inaffidabili come Marina che daranno la direzione del Tg: le preferiranno qualche voltagabbana dell'ultimissima ora. Però che donna, che giornalista, e che fegato. Gridare «pace» da qui, mettendo il Cremlino e l'Ucraina sullo stesso piano, è da sofisti. Ma gridare «pace» da lì, rivelando il nome dell'assassino, è da teppisti, come ha detto il portavoce di Putin. In altre parole, da eroi».
Bell’articolo di fondo del direttore Michele Brambilla sul Quotidiano Nazionale:
«Perché la giornalista russa Marina Ovsyannikova ha interrotto il tg di Stato esibendo un cartello con scritto «No war, non credete alla propaganda, qui vi stanno ingannando»? Forse pensava che nel giro di poche ore una rivolta popolare o una congiura di palazzo avrebbe rovesciato Putin e fermato la guerra? O più semplicemente s' illudeva di cavarsela con una lettera di richiamo del direttore del personale? No, sapeva benissimo che il despota non sarebbe caduto. E sapeva benissimo a quali rischi (al di là della multa di trentamila rubli, che è fumo negli occhi) va ora incontro. Eppure, quel che ha fatto, l'ha fatto ugualmente, contro ogni speranza. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui don Giovanni Fornasini, il parroco di Marzabotto ucciso dai nazisti a 29 anni il 13 ottobre del 1944, pedalò per chissà quanti chilometri per salvare la sua gente. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere Hitler: ma quello che sentiva di fare, lo fece. O forse Marina Ovsyannikova l'ha fatto per lo stesso motivo per cui il carabiniere Salvo D'Acquisto, il 23 settembre del 1943 alla periferia di Roma, confessò ai nazisti un attentato che non aveva commesso e si fece fucilare salvando la vita ai ventidue civili rastrellati per la rappresaglia. Aveva 23 anni e sapeva che il suo gesto non avrebbe cambiato le sorti della guerra. Ma lo fece. O forse la giornalista russa ha fatto quello che ha fatto per lo stesso motivo per cui padre Massimiliano Kolbe, il 14 agosto del 1941, ad Auschwitz, si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. E morì a 47 anni. O forse la Ovsyannikova ha pensato ai ragazzi della Rosa Bianca, decapitati nel 1943 su ordine di Goebbles per aver distribuito opuscoli e volantini contro la guerra di Hitler. O forse ha pensato a quel cinese di cui neppure si conosce il nome - oltre che la sorte - che il 4 giugno 1989 si parò davanti ai carri armati del regime comunista cinese in piazza Tienanmen a Pechino. Marina Ovsyannikova ci ricorda che esistono ancora donne e uomini capaci di un'eroica disobbedienza civile, e mostra - a chi sostiene che Zelens' kyj deve abdicare - ciò che più disturba i dittatori: l'esistenza di qualcuno che dice no. Il 20 luglio del 1944 l'ufficiale tedesco Claus Schenk von Stauffenberg cercò di uccidere Hitler per fermare la guerra. L'attentato fallì e lui fu fucilato alla schiena la sera stessa. Sua moglie Nina era incinta e partorì prigioniera della Gestapo. Nacque Konstanze, alla quale, molti anni dopo la fine della guerra, chiesero che cosa avesse imparato dalla storia di suo padre. Rispose: «Che non bisogna guardare dall'altra parte se hai di fronte l'ingiustizia».
LA DIPLOMAZIA, IL SENTIERO STRETTO DEL DIALOGO
La doppia mossa di Zelensky che si appella all’Occidente ma conferma: mai nella Nato. Mano tesa dell'Est Europa con i leader di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca in missione a Kiev. Sullo sfondo Usa e Cina. Francesca Sforza per La Stampa.
«Un presidente ucraino scosso e capace di scuotere, quello che ieri ha parlato in collegamento video a una sessione congiunta del parlamento canadese. «Vorrei che voi capiste e sentiste cosa stiamo vivendo in Ucraina - ha detto - Quanti altri missili devono cadere sulle nostre città perché ci si decida alla creazione di una no fly-zone?». La chiusura dello spazio aereo in Ucraina è però una scelta che né il Canada né gli alleati Nato hanno ancora messo in agenda, viste le minacce di Putin e i rischi (non è esagerato dire la certezza) di un imprevedibile allargamento dello scenario di guerra in Europa. Nella stessa giornata, però, il presidente Zelensky avrebbe dichiarato che il suo Paese è disposto a restare fuori della Nato: «L'Ucraina non è membro della Nato, ci è chiaro. Per anni ci siamo sentiti dire che le porte erano aperte, ma anche che non avremmo potuto aderire. È una verità, e deve essere riconosciuta, e sono felice che la nostra gente stia iniziando a rendersene conto e a contare su se stessa e sui partner che ci stanno aiutando». La dichiarazione, riportata da fonti giornalistiche, è stata rilasciata nel corso di una telefonata con i rappresentanti del Joint Expeditionary Force guidato dal Regno Unito (un formato multinazionale a cui appartengono anche Danimarca, Estonia, Finlandia, Islanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia). Tuttavia, nel comunicato del Jef, che pure non risparmia alla Russia critiche e attacchi - «il mondo riterrà la Russia responsabile delle sue azioni. Putin deve fallire. Stiamo lavorando a stretto contatto con alleati e partner internazionali per imporre sanzioni senza precedenti al regime di Putin in risposta alla sua invasione illegale» - non si accenna a questo passaggio, e la cosa si spiega con l'intenzione, da parte di Zelensky di far arrivare il messaggio più a Mosca che al resto dell'Occidente, facendo intravedere qualche spiraglio di negoziato in una fase in cui i contatti si trovano di fronte a un'evidente fase di stallo. Lo dimostra la telefonata tra Putin e il presidente del Consiglio Ue Michel. «L'Ucraina non è seria nel voler trovare una soluzione accettabile», ha detto Putin. A portare il loro sostegno direttamente a Kiev sono inoltre scesi in campo i primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, che in treno hanno raggiunto la capitale ucraina dove incontreranno Zelensky e il premier Shmyhal. In missione per conto dell'Europa? Non esattamente, anzi a Bruxelles la mossa è stata interpretata come una fuga in avanti proprio nel giorno in cui un nuovo pacchetto di sanzioni si abbatteva sulla Federazione Russa. In particolare si sono rafforzate le misure restrittive per il trasferimento di beni e tecnologie nel settore dell'energia, il divieto di importazione in relazione ai prodotti del ferro e dell'acciaio e il divieto di esportazione dei prodotti di lusso, oltre all'estensione di misure individuali che hanno colpito, insieme all'oligarca Abramovich, altre 14 persone tra dirigenti d'azienda e giornalisti. La ritrovata centralità dei Paesi dell'Est Europa nell'ambito della crisi ucraina era del resto già emersa al vertice di Versailles, dove Polonia, Repubbliche baltiche e Cechia si erano fatti portavoce dell'ingresso di Kiev in Europa al più presto possibile, opzione al momento congelata per evitare ulteriori collisioni con Mosca. Decisa invece a prendere le distanze dal conflitto in corso è l'Ungheria, che ieri, con le parole di Viktor Orban, ha detto che «la Russia guarda agli interessi russi, l'Ucraina a quelli ucraini», e ha aggiunto: «Né gli Stati Uniti né Bruxelles penserebbero con la mente ungherese e il cuore ungherese» (un modo per dire che i rapporti con Mosca sono tanto importanti quanto problematici, e che è meglio restare il più possibile ai margini, anche in vista delle prossime elezioni parlamentari, il 3 aprile). Sul fronte americano, è stato annunciato che il presidente Biden raggiungerà Bruxelles il 24 marzo per un incontro con i rappresentanti Nato per discutere degli sforzi di difesa dell'alleanza e per partecipare al Consiglio Europeo. Il portavoce della Casa Bianca non ha però voluto dire se Biden andrà anche in Polonia (un player destinato ad assumere sempre maggior peso nella crisi) e soprattutto se ha in programma un incontro con Zelensky. Troppo presto per dirlo».
L'Europa è avvelenata dal clima intossicato della guerra. Serve l'arte del confronto e del dialogo. Mario Giro sul Domani spiega: è il tempo del compromesso, se non vogliamo che vinca l’odio.
«L'Europa si sta avvelenando. Russi e ucraini, pur parte della medesima storia culturale, si allontanano avvelenati da un abisso di odio reciproco. I russi, chiusi in gabbia da Putin, si avvelenano d'odio per l'occidente, salvo pochi coraggiosi. Polacchi, baltici, rumeni e altri europei orientali si avvelenano, caricandosi di ancor più odio contro i russi di quanto la storia non abbia già lasciato loro in eredità. Gli europei occidentali si avvelenano, imparando a odiare i russi come forse nemmeno durante la Guerra fredda. Avvelenate le relazioni tra ortodossi e cattolici e tra ortodossi stessi. Si avvelenano i rapporti culturali e accademici, quelli della ricerca e dello sport: la corsa all'odio contamina i cuori e toglie lucidità. La causa è la guerra di Vladimir Putin ma i protagonisti del processo di avvelenamento si trovano anche laddove non li aspetteresti. Possibile che non ci si renda conto che la guerra ci sta trascinando tutti in un baratro di odio che ci stritola, uccidendo il pensiero, il dialogo, il dibattito, anche il semplice dubbio? Si dice che occorre condannare e non spiegare. Sui grandi giornali si accettano foto di bambini in armi che rifiutavamo inorriditi in altri contesti. A nulla paiono servire logica, lucidità e analisi: c'è un nemico (finalmente siamo tutti d'accordo su questo) che incarna il male e l'unica cosa che serve è sostenere chi combatte. Pare che non si riescano a comprendere le grida di papa Francesco quando chiede di cessare il massacro: sembrano le parole di un'anima bella, cos' altro può dire un papa? Non è così: a contatto con le guerre mondiali prima, e con il rischio di guerra nucleare poi, la storia del pensiero cristiano sulla guerra ha fatto un salto nel XX secolo. I papi ci dicono che la guerra è un male "in sé", che ogni guerra lo è e che non esiste una guerra giusta soprattutto in epoca nucleare. Pur prodotto di processi politici umani, la guerra possiede una sua logica interna che la rende autonoma dalle decisioni, anche di chi l'ha iniziata. La guerra ha una sua forza intima e malvagia che travolge e ingoia tutto: è lei il male assoluto perché crea un ingranaggio di odio e violenza a cui è difficile sottrarsi. Le ultime guerre di questi anni ce lo dimostrano: chi le ha vinte e chi se ne è giovato (a parte i mercanti d'armi)? Per questo le guerre vanno fermate il prima possibile. Lo vediamo sul campo: Putin stesso non sa come uscirne se non aumentando la violenza. Anche la leadership ucraina è bloccata. Le vittime aumentano, a milioni fuggono lasciando una terra bruciata. La guerra è una trappola che dobbiamo disinnescare subito, non fomentare. Ora è il tempo del compromesso; verrà poi quello della giustizia».
INTERVISTA A LECH WALESA
Il fondatore di Solidarnosc Lech Walesa è stato raggiunto da Elisabetta Rosaspina del Corriere della Sera. E dice: «Putin compie un genocidio vuole ripulire l'Ucraina dagli ucraini».
«Bisogna riconoscergli che lo diceva già otto anni fa: «Putin va convertito. Non doveva scendere in campo con i carri armati e prendersi la Crimea. Occorre fermarlo, e per riuscirci ci vuole una grande solidarietà tra Paesi». Usò proprio il termine «convertito», parlando alla conferenza stampa di presentazione del film di Andrzej Wajda sulla sua vita: Lech Walesa, l'uomo della speranza . A 78 anni, l'ex elettricista dei cantieri navali di Danzica, fondatore e leader di Solidarnosc, il primo sindacato libero nella Polonia comunista del 1980, vincitore del Premio Nobel per la pace tre anni dopo, e presidente della Repubblica tra il 1990 e il 1995, conosce bene i codici di accesso alla mentalità sovietica che dirige le truppe da Mosca. Dalla prima fila dell'opposizione cattolica al regime socialista del tempo aveva imparato a interpretarne le mosse e così, il 6 giugno 2014, a Roma, suggeriva all'Onu e alla Nato di formare un gruppo di dieci o venti saggi che, in risposta ai tank, portassero le istanze della comunità internazionale al presidente russo: «Soltanto così riusciremo a convertire Vladimir Putin». Che adesso, tutt' altro che redento, sta occupando con i suoi blindati il resto dell'Ucraina.
Presidente Walesa, quale contromossa suggerirebbe, adesso, per fermarlo?
«All'inizio del conflitto avevo proposto un'iniziativa alle Nazioni Unite: previa discussione al forum dell'Onu, e con il suo consenso, si sarebbe potuta istituire una zona umanitaria all'altezza di Leopoli e introdurre unità internazionali per il mantenimento della pace, a protezione dei civili, sia residenti sia in arrivo dalle zone dove si sta combattendo. Sarebbe stato il segno di una lungimirante solidarietà».
Invece?
«Invece si è preferito spostare l'attenzione sui corridoi umanitari da aprire in ogni grande città dell'Ucraina».
Esiste per la diplomazia la reale possibilità di giungere a un compromesso?
«Io penso che si dovrebbe parlare con Putin in un altro modo. È indispensabile fargli capire che adesso non è il momento di distruggere, ma di costruire. E che la sua volontà di misurarsi con le forze della Nato non ha senso».
Tre capi di governo europei, i primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia hanno deciso di andare Kiev. È coinvolto anche lei nei negoziati sul versante polacco?
«No, non sono coinvolto, ma ho dato la mia disponibilità».
Teme che la Russia possa attaccare anche i Paesi Baltici, la Polonia o la Moldavia?
«Putin è imprevedibile e il peggio può ancora accadere se lo lasciamo continuare a conquistare territori e a uccidere persone. Quello che sta facendo è un nuovo genocidio. Putin vuole ripulire la terra ucraina dagli ucraini».
Otto anni fa chiese alla Nato di potenziare le difese a est inviando missili alla Polonia: è sempre dell'idea?
«Ripeto, adesso servono colloqui, colloqui e diplomazia».
Henry Kissinger nel 2014 si era opposto all'adesione di Kiev alla Nato, proponendo una posizione a livello internazionale simile a quella della Finlandia. Le sembra un'idea ancora valida?
«Per quell'epoca Kissinger ragionava molto bene. Ma i tempi sono cambiati. Quindi adesso io penso che l'Ucraina dovrebbe entrare a far parte della Nato».
La «normalizzazione» dell'Ucraina cui aspira Putin è paragonabile a quella tentata dall'Urss in Polonia?
«La normalizzazione dell'Ucraina? Questa è soltanto una pazzia. Non è improbabile che alcuni dei suoi fedelissimi gli voltino le spalle per ciò che sta accadendo».
Papa Francesco ha cercato di mediare recandosi, lui, dall'ambasciatore russo presso la Santa Sede.
«Sì. Il comportamento del Papa è stato molto bello, ma Putin è molto determinato, quindi non basta».
L'attacco a Yavoriv, a 20 chilometri dal confine polacco, è stato un avvertimento alla Nato?
«Putin ha sempre provocato la Nato, fin dall'inizio della guerra in Ucraina».
Presidente, che cosa direbbe a Volodymyr Zelensky?
«Che è una brava persona: sta combattendo per l'Ucraina e per tutta l'Europa. E spero che questa guerra finisca molto presto, e che sia lui a vincerla».
IL PAPA CONSACRA UCRAINA E RUSSIA A MARIA
L'atto si compirà venerdì 25 marzo nella Basilica di San Pietro. Papa Francesco consacrerà l’Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Quel giorno il cardinale Krajewski, l’elemosiniere del Papa, farà altrettanto nel santuario di Fatima. La decisione fa seguito alla richiesta presentata il 2 marzo scorso dai vescovi cattolici ucraini di rito latino con la denuncia del terribile calvario patito dal loro popolo. La cronaca di Gianni Cardinale su Avvenire.
«Papa Francesco ha deciso di consacrare la Russia e l'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria. Lo farà il prossimo venerdì 25 marzo durante la Celebrazione della Penitenza che presiederà alle 17 nella Basilica di San Pietro. Lo stesso atto, sempre nel giorno in cui la Chiesa festeggia la Solennità dell'Annunciazione del Signore, sarà compiuto a Fatima dal cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere di sua Santità, come inviato del Santo Padre. La notizia è stata diffusa ieri con una Dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni. Una richiesta in tal senso era stata formulata lo scorso 2 marzo, con una lettera al Papa, dai vescovi cattolici di rito latino dell'Ucraina. «In queste ore di incommensurabile dolore e di terribile calvario per il nostro popolo - scrivevano i presuli -, noi, vescovi della Conferenza episcopale dell'Ucraina, siamo portavoce della preghiera incessante e accorata, sostenuta dai nostri sacerdoti e dalle persone consacrate, che ci viene da tutto il popolo cristiano per la consacrazione della nostra Patria e della Russia». «Rispondendo a questa preghiera, - aggiungevano - chiediamo umilmente a vostra santità di compiere pubblicamente l'atto di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria dell'Ucraina e della Russia, come richiesto dalla Beata Vergine a Fatima». Come ricorda Vatican News Maria, nell'apparizione del 1917 a Fatima, aveva chiesto la consacrazione della Russia al Suo Cuore Immacolato, affermando che, qualora non fosse stata accolta questa richiesta, la Russia avrebbe diffuso «i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa». «I buoni - aveva aggiunto - saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte». Dopo le apparizioni di Fatima ci sono stati vari atti di consacrazione. Con Pio XII nel 1942 e nel 1952, con Paolo VI nel 1964, con Giovanni Paolo II nel 1981 e nel 1984. Nel giugno del 2000 la Santa Sede ha rivelato la terza parte del segreto di Fatima e l'allora arcivescovo Tarcisio Bertone, segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, sottolineò che suor Lucia, in una lettera del 1989, aveva confermato personalmente che l'atto del 1984 corrispondeva a quanto voleva la Madonna. Sempre nella giornata di ieri la Sala Stampa vaticana, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha confermato che papa Francesco ha ricevuto la lettera del sindaco di Kiev a recarsi nella capitale ucraina «ed è vicino alle sofferenze della città, alla sua gente, a chi ne è dovuto fuggire e a chi è chiamato ad amministrarla ». Il Pontefice «prega il Signore che siano protetti dalla violenza» - prosegue il portavoce Vaticano a proposito della missiva del primo cittadino Vitaliy Klitschko - «e per loro e per tutti ribadisce l'appello fatto domenica scorsa con la Preghiera dell'Angelus: "Davanti alla barbarie dell'uccisione di bambini, di innocenti e di civili inermi non ci sono ragioni strategiche che tengano: c'è solo da cessare l'inaccettabile aggressione armata, prima che riduca le città a cimiteri"». La lettera con cui il sindaco di Kiev ha invitato il Papa risale allo scorso 8 marzo ed è stata diffusa ieri attraverso canali giornalistici. «Per conto del sindaco di Kiev Vitaliy Klitschko vorremmo invitare sua santità papa Francesco a visitare Kiev» si legge nel testo della missiva, redatta in inglese su carta intestata della "Amministrazione comunale di Kiev" e scritta nella prima persona plurale ma recante la firma dello stesso sindaco. «Riteniamo che la presenza in persona di questo leader religioso mondiale sarebbe di importanza basilare per salvare vite umane e aprire la strada alla pace nella nostra città, nel nostro paese e anche oltre», prosegue il testo. Quindi la richiesta che «qualora il viaggio a Kiev non fosse possibile», comunque «si tenga una conferenza video congiunta, che possa essere trasmessa in diretta o registrata». In questo caso «saranno avviate inziative per includere in essa anche il presidente Zelensky». Di Ucraina, e di Libano, si è parlato anche nel corso del tradizionale incontro bilaterale tra Chiesa e Stato in occasione dall'anniversario dei Patti Lateranensi, che si è svolto ieri pomeriggio a Palazzo Borromeo, sede della rappresentanza diplomatica italiana presso la Santa Sede. A fare gli onori di casa il nuovo ambasciatore Francesco Di Nitto. Presenti il presidente Sergio Mattarella e il premier Mario Draghi da una parte e i cardinali Pietro Parolin, Segretario di Stato, e Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, con il vescovo segretario Stefano Russo dall'altra. Una nota stampa vaticana informa che nel corso dei colloqui «particolare attenzione è stata data alla situazione internazionale, con riferimento anzitutto alla guerra in Ucraina, fonte di estrema preoccupazione, e alla crisi in Libano». In tal senso «si è sottolineata anche la necessità di uno sforzo condiviso per rendere più umane le condizioni di vita dei migranti, particolarmente di coloro che fuggono dalla guerra, anche tramite specifici interventi presso le nazioni di transito o che accolgono rifugiati».
PROFUGHI, PRIMI VOLI UMANITARI
Pronti due voli umanitari della Caritas italiana per portare in Italia 400 profughi ucraini “vulnerabili”. Il punto per Avvenire di Paolo Lambruschi dalla Polonia.
«Due voli umanitari della Caritas italiana per portare a Roma la prossima settimana da Varsavia 400 profughi ucraini vulnerabili. L'annuncio è stato dato dalla delegazione dell'organismo pastorale della Cei che ha concluso ieri il viaggio iniziato venerdì nei tre Stati europei più coinvolti nell'accoglienza dei profughi: Moldavia, Romania e Polonia. Il volo è offerto da un donatore - la compagnia privata Comlux che ha già effettuato con Caritas italiana un volo umanitario portando i profughi dal Niger - che a bordo di un Boeing 787 trasferirà gratuitamente martedì 22 e mercoledì 23 marzo dalla Polonia all'Italia i profughi più fragili, quelli non in grado di affrontare un lungo viaggio in auto. «Con questo segno - afferma il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello - vogliamo favorire l'ingresso dei profughi ucraini più deboli e fragili. E ribadire che il nostro stile è andare a cercare chi ha bisogno, non attenderlo. Mettiamo al centro la persona e la sua storia e la cura che vogliamo avere inizia con il farli arrivare nel miglior modo possibile». Davanti all'aumento costante di persone in fuga nelle prime tre settimane di conflitto, il sacerdote ribadisce la risposta data dalla rete delle Caritas diocesane. «Ci stiamo muovendo su due versanti. Sul territorio nazionale, attraverso le Caritas diocesane, tantissimi operatori e volontari si stanno prendendo cura delle persone con l'allestimento dei luoghi di accoglienza. Dall'altro stiamo sostenendo lo sforzo delle Caritas di Moldavia, Romania e Polonia che stanno affrontando l'emergenza in prima linea. I numeri dicono che la situazione peggiore è quella polacca mentre quella più commovente è quella della Romania, dove una chiesa minoritaria vuole fare la sua parte al meglio. La Moldavia è un Paese fragile che si apre all'accoglienza nonostante i carri armati russi siano vicini. La chiesa moldava va oltre la paura e vuole fare la sua parte. Siamo con loro». Alle frontiere si vede la fuga dalle bombe russe della classe media ucraina, che si può permettere il viaggio verso ovest. Questa è un'emergenza umanitaria senza precedenti dal 1945 secondo l'Onu. In Polonia si è fermato oltre il 60% dei tre milioni finora fuggiti secondo l'Acnur. In molti casi li ospita un famigliare: dal 2014 il paese ha accolto infatti quasi due milioni di immigrati ucraini. Ma anche l'Italia con 250 mila immigrati ucraini è una delle destinazioni privilegiate. La Caritas italiana, forte dell'esperienza di 30 anni fa nei Balcani, guarda dunque al lungo periodo. «Quando - prosegue don Pagniello dalla stazione di Przemsil, prima fermata dopo la frontiera venendo da Leopoli - se la guerra non finirà, arriveranno i più poveri. Secondo l'Onu un altro milione potrebbe presto varcare la frontiera e per noi è la sfida più grande. Superata questa prima fase, la rete Caritas deve includere queste persone nelle comunità e fare la propria parte per la tenuta sociale affinché anche questa emergenza non venga strumentalizzata per altri scopi. Credo la Caritas e la Chiesa abbiano anche il ruolo di vigilare perché ognuno faccia la propria parte. Abbiamo visto in queste settimane una grande solidarietà spontanea ed è stata molto positiva. Ora, però, bisogna pianificare la vo- lontà di fare del bene perché la carità va organizzata. Abbiamo sconsigliato alcune raccolte, ad esempio. In Polonia c'è bisogno di molto, ma non di tutto quello che noi pensiamo». La Caritas polacca ha trasformato la stazione in una mensa e un centro di primo soccorso. Guarda il flusso di donne e bambini che scende dai vagoni e riflette sul lungo periodo anche il responsabile immigrazione della Caritas italiana Oliviero Forti. «Credo che difficilmente la Polonia riuscirà a reggere a lungo un numero così importante di profughi. Sarà quindi responsabilità dei governi dell'Ue varare un piano serio di redistribuzione assegnando una quota di persone da accogliere agli altri Stati. Per ora chi è arrivato in Italia è sistemato presso familiari e amici, però diverse persone si stanno rivolgendo alle organizzazioni per trovare una sistemazione». Quali sono le novità di questa crisi umanitaria? «Gli ucraini - risponde - per ora non hanno progetti di permanenza definitiva. A differenza di profughi di altre guerre nutrono grandi speranze di rientrare. E poi lo status. In base a un accordo pre-bellico, possono circolare per tre mesi con un visto equiparabile a quello turistico, ora hanno una marcia in più per integrarsi perché a breve gli verrà riconosciuto un permesso di un anno rinnovabile che gli consentirà di lavorare. È un'opportunità anche per il nostro Paese. Infine l'accoglienza. Accanto all'ampliamemto del sistema istituzionale la Caritas infatti propone un modello di accoglienza diffusa già sperimentata con gli ultimi progetti per rifugiati nelle comunità. Insieme alla Protezione civile e alle altre organizzazioni stiamo costruendo una proposta di sistema misto per affiancare a quello tradizionale un circuito nuovo dove i protagonisti sono le comunità, le famiglie, la società civile che ha già messo a disposizione un numero eccezionale di posti. È un orizzonte nuovo, un'occasione che non va sprecata».
CASARINI: “CARO LETTA, ANDIAMO TUTTI A KIEV”
La proposta di interposizione di Luca Casarini, già capo No global e oggi leader di Mediterranea. Dice Casarini: «Caro Letta, andiamo a Kiev per fare la no fly zone con i nostri corpi». Giansandro Merli per il Manifesto.
«Luca Casarini ha proposto dalle colonne de Il Riformista di mettere da parte le divisioni sull'invio di armi e organizzare una marcia per la pace a Kiev per fermare le bombe. L'idea circola da giorni nel movimento No War. Casarini la spiega mentre termina i preparativi per la doppia missione di Mediterranea: partenza oggi via terra da Napoli e Bologna verso il confine ucraino, nuove operazioni della Mare Ionio la prossima settimana.
Ha proposto una mobilitazione europea che vada a Kiev a fare da scudo umano, una No Fly Zone dal basso. È una provocazione?
Sì e no. In questi giorni gli editorialisti dei principali quotidiani si accaniscono contro i No War. Credo sia una forma di frustrazione. Dicono che bisogna difendere i nostri valori, la nostra democrazia, ma quando Zelensky chiede la No Fly Zone e ci invita a combattere viene fuori tutta l'ipocrisia dell'invio di armi. Non sono nessuno per dire cosa devono fare gli ucraini, ma penso che noi possiamo fare qualcosa di coraggioso. Allora propongo a questi opinionisti con stivali ed elmetto di fare un'iniziativa politica coraggiosa ma disarmata. Vorrei Gianni Riotta, Antonio Polito, Francesco Merlo alla testa di un grande corteo di italiani ed europei a Kiev.
Vuole passare all'azione per sfidare chi accusa i pacifisti di essere disfattisti e filo-Putin?
Certo. Chi dice che in gioco ci sono democrazia e valori europei non può stare a guardare. Proviamo a fare qualcosa allora. Creiamo una variabile nuova in una storia che sembra già scritta. Viviamo in un mondo dove decidono tutto i tre grandi imperi di Usa, Russia e Cina, ma rimane sempre una variabile inattesa: l'umano. Può cambiare le cose. Io ci credo veramente.
Ha invitato politici e parlamentari a prendere la testa di questa iniziativa. Ma lunedì la Farnesina ha detto No alla partecipazione di 30 deputati e senatori alla missione umanitaria in Ucraina della Comunità Papa Giovanni XXIII. Non si rischia di creare il casus belli per l'allargamento del conflitto?
Non possiamo stare a guardare i civili in trappola. Sta succedendo vicino a casa nostra, siamo coinvolti. Dobbiamo provare a proteggere queste persone, a farle scappare. La Farnesina fa la Farnesina. E comunque ha sconsigliato di andare. Non può vietarlo. I parlamentari hanno votato l'invio di armi a gente che sta combattendo per loro. Così è comodo. Invece andiamo insieme a fare qualcosa. Tra l'altro la Farnesina ha detto No ai parlamentari italiani, ma ieri tre premier europei sono andati a Kiev in treno. Certo bisogna rischiare. Quelli che si scatenano contro i pacifisti sono pronti o quando devono mettersi in gioco si imboscano?
Azioni di interposizione nonviolenta sono state fatte in ex Jugoslavia, Uganda, Iraq, Palestina. Ma ogni guerra è una storia a sé. In questa ci sono davvero le condizioni?
Dobbiamo costruirle. Dobbiamo crederci. Dobbiamo rischiare. Basta con questo assurdo scontro tra tifoserie contrapposte. Mi rivolgo al segretario del Pd Enrico Letta: andiamo insieme a Kiev. Penso che Letta non voglia l'allargamento della guerra e sappia che i discorsi di alcuni membri del suo partito sulla No Fly Zone sopra le centrali nucleari siano assurdi. Entrare in guerra con la Russia può portare a milioni di morti. Sono convinto che Letta abbia questa stessa preoccupazione. Allora gli propongo: siamo divisi dall'invio di armi, ma vogliamo tutti che questa guerra si fermi e le persone siano protette. Diciamo che in gioco c'è l'Europa. Allora costruiamola quest' Europa, con un'azione non prevista e non convenzionale. Fuori dal solco del Novecento che, come dice papa Francesco, non ci ha insegnato nulla. Un conto è se partono uomini e donne di buona volontà, come a Sarajevo, un altro se facciamo una grande campagna e portiamo 30, 40, 50 mila europei con in testa parlamentari, segretari di partito, editorialisti e personalità pubbliche. Io sono il primo ad aderire. Loro ci stanno?».
QUANTO CONTA IL FATTORE CINA
Dopo i colloqui di Roma con gli Usa, Guido Santevecchi si chiede sul Corriere della Sera quanto conti la Cina sul destino della guerra in Ucraina.
«È chiara la richiesta dell'Occidente alla Cina: dovrebbe, se non proprio sposare le sanzioni contro Mosca, almeno mantenere i rapporti commerciali all'interno di una prudente decenza (dopotutto, anche gli europei non hanno ancora completamente rinunciato al gas russo). E poi, evitare di fare l'errore supremo di accogliere la richiesta di forniture militari all'esercito che ha invaso l'Ucraina. Ci sono millequattrocento miliardi di buone ragioni, espresse in dollari ed euro, perché Xi Jinping non si allinei a Vladimir Putin sulla via dell'avventurismo: tanto vale l'interscambio totale della Cina con Stati Uniti e Unione Europea. Dieci volte più della relazione commerciale tra Pechino e Mosca. Sembra un conto facile per i tecnocrati comunisti, anche se è altrettanto evidente che proprio per questi grandi numeri sarebbe impossibile congelare i rapporti con la seconda economia del mondo. Xi deve aver fatto i suoi calcoli il 4 febbraio, mentre le truppe russe erano già ammassate al confine ucraino: i cinesi, se non lo avessero notato da soli ne erano stati informati dall'intelligence americana. Quel giorno a Pechino, Xi e «l'amico del cuore» Putin si sono promessi un'alleanza «senza limiti, potenzialmente in tutti i campi». Ora la Casa Bianca ha aperto una sorta di via di fuga onorevole, osservando che forse i cinesi non avevano compreso quanto sarebbe stata vasta e grave l'azione russa: «È possibile che Putin abbia mentito a Xi allo stesso modo in cui ha mentito agli europei e al resto del mondo», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Strategia brillante, ma non considera il corollario: in quel caso, il leader cinese dovrebbe di fatto riconoscere di aver sbagliato, di aver commesso il suo più grande errore in politica internazionale. Ecco il problema principale del segretario generale comunista: come può un leader che ha il suo Pensiero iscritto nella Costituzione cambiare rapidamente fronte? Ammesso che lo voglia fare: perché il gioco di sponda con Putin nasce dalla sfiducia comune nei confronti degli Stati Uniti e dalla convinzione che i valori occidentali fossero in irreversibile declino e quelli dell'Est in continua ascesa (Xi ha usato lo slogan più volte, soddisfatto dal caos elettorale seminato da Donald Trump e dal ritiro inglorioso di Joe Biden dall'Afghanistan). Il ricompattamento, costruito sui valori, tra americani ed europei sul fronte ucraino potrebbe portare a un ripensamento cinese. Già subito dopo il 4 febbraio, qualcosa di strano era successo a Pechino: durante le Olimpiadi, invece di comparire sul campo dei Giochi per sfruttare il prestigio dei successi sportivi cinesi, l'intero gruppo dirigente comunista è scomparso dalla scena. Si è ipotizzato che stesse dibattendo una mossa per limitare il danno d'immagine dell'abbraccio a Putin. Ci sono altri segnali: l'astensione cinese nei voti di condanna dell'invasione all'Onu (in Consiglio di Sicurezza dove Pechino ha diritto di veto e poi in Assemblea generale) ha segnato un limite all'intesa «senza limiti» con la Russia. Con formule da decifrare, i cinesi hanno lasciato intendere di voler contribuire a spegnere le fiamme della guerra in Europa, che nelle parole di Xi «tengono in pena il popolo cinese». Da ultimo, l'incontro di Roma Sullivan-Yang è stato il primo «in presenza» e di alto livello tra Cina e Stati Uniti da molti mesi e pure tra reciproche recriminazioni ha dichiarato la volontà di tenere aperto il dialogo (non era scontato ed è una brutta notizia per Putin). Intanto, al momento non ci sono prove che la Cina abbia lanciato un salvagente all'economia e alla finanza russa, né che abbia inviato armi all'armata d'invasione. Che cosa può chiedere la Cina? Dopo l'Ucraina, Xi ha capito sicuramente che gli Stati Uniti non assisterebbero passivi a un'impresa militare a Taiwan. L'inviato cinese a Roma ha evocato il «Consenso di Shanghai 1972», il riconoscimento che esiste «Una Cina» firmato da Richard Nixon per ottenere il grande disgelo. Può essere letto come il modo tortuoso di Pechino per invocare un ritorno al passato e a relazioni normali con Washington, all'interno dell'ambiguità delle posizioni sul futuro dell'isola democratica. Xi ha il culto della «stabilità» e mai come in questi mesi ne ha bisogno, perché in autunno il Congresso del partito comunista dovrà confermarlo al potere per altri cinque anni. I pianificatori dell'economia hanno appena fissato un obiettivo di crescita per il 2022 al 5,5%, sufficiente per mantenere stabile l'occupazione, mentre già si calcola che la depressione globale causata dalla guerra ucraina costerà alla Cina almeno un punto di Pil. Il politologo Hu Wei, che a Shanghai è nel gruppo dirigente di un think tank associato al governo, ha mandato al Carter Center americano un'analisi nella quale prevede la sconfitta, politica se non militare, di Putin e ricorda che «non ci sono eterni alleati, né nemici perpetui, sono eterni e perpetui solo gli interessi nazionali». Un appello a una scelta drastica per la Cina, a un riposizionamento. Sui blog specializzati in affari internazionali dei social cinesi l'intervento è stato aspramente criticato e poi oscurato. Restano comunque le tracce di un dibattito interno che in Occidente va seguito senza cadere nello stesso (vero) errore di Xi: la sfiducia verso il mondo esterno».
UNA CIRCOLARE ALLERTA I SOLDATI ITALIANI
Una circolare dell'Esercito, scritta una settimana fa, mette i soldati italiani in allerta. Lo racconta Il Fatto che sostiene: siamo pronti alla guerra (ma un po' di nascosto). L’articolo è di Marco Grasso e Thomas Mackinson.
«Con l'invio di armi "l'Italia è già in guerra", si sente da giorni. Nel dubbio, l'Italia prepara anche le proprie, ma senza farlo sapere. Ora però lo dicono le carte dell'Esercito. E pure i lavoratori dell'aeroporto civile di Pisa che le maneggiano, ma a loro insaputa: ufficialmente erano "aiuti umanitari" per le popolazioni dell'Ucraina. Ha fatto clamore, ieri, la scoperta di un documento interno allo Stato maggiore dell'Esercito, datato 9 marzo, che impartisce nuove disposizioni operative a tutti i comandi: stretta sui congedi, reparti in prontezza operativa "alimentati al 100%", addestramento orientato al warfighting e "massimi livelli di efficienza" di tutti i mezzi. La circolare ha rinfocolato le polemiche sull'"entrata in guerra" taciuta agli italiani, con un premier Draghi che ancora venerdì ribadiva: "Non vedo il rischio di un allargamento del conflitto". Ma intanto gli alti comandi dell'Esercito stavano già mettendo in riga uomini e mezzi. La circolare dispone una stretta sui congedi e sul personale in "ferma prefissata", che dovrà "alimentare i Reparti che esprimono unità di prontezza nei prossimi due anni". Unità che devono "essere alimentate al 100% con personale ready to move, senza vincoli di impiego operativo, anche ricorrendo all'istituto del comando". Leggi: pronti a partire. Le attività di addestramento, anche quelle dei minori livelli ordinativi, "dovranno essere orientate al warfighting". Lo stesso vale per gli assetti sanitari. Tre righe riguardano i "sistemi d'arma": "Provvedere affinché siano raggiunti e mantenuti i massimi livelli di efficienza di tutti i mezzi cingolati, gli elicotteri (con focus sulle piattaforme dei sistemi di autodifesa) e i sistemi d'arma dell'artiglieria". Il documento fa discutere, a tutti i livelli. Il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo lo definisce "gravissimo": "Chi ha prestato servizio nelle forze armate negli ultimi trent' anni non ha mai visto una circolare di questo tenore". Lo Stato Maggiore ridimensiona: le disposizioni sarebbero "di carattere routinario", si stanno solo adeguando le priorità delle unità dell'Esercito, "al fine di rispondere alle esigenze dettate dai mutamenti del contesto internazionale". Non si nasconde dietro un dito, né si scompone, l'ex generale Mauro Del Vecchio: "In Macedonia, Kosovo, Afghanistan ricevevo dispositivi simili, mai a scopo di difesa dell'Italia. Ma con un conflitto di questa portata, che può anche degenerare, chi ha responsabilità di comando deve adoperarsi per garantire efficienza dei sistemi di difesa". Altro tema dibattuto. "L'efficienza menzionata? Non esiste", dice Tiziano Ciocchetti, responsabile dell'area "mondo militare" di Difesa On Line. "Si parla di cingolati, ma una componente corazzata reale e operativa esiste solo sulla carta: abbiamo 200 vecchi Ariete 200 C1 , ma quelli funzionanti sono solo 30. E questo non vale solo per le forze di terra. L'Italia non è in grado di affrontare un conflitto a bassa intensità. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa Generale Enzo Vecciarelli lo disse due anni fa in commissione Difesa. È rimasto inascoltato". Si sono fatti sentire invece, sostenuti dal sindacato Usb, i lavoratori dell'aeroporto di Pisa che si sono rifiutati di caricare armi destinate all'Ucraina su aerei in partenza per la Polonia, mascherati da convogli umanitari. I fatti risalgono a venerdì: i due voli, un cargo e un 737, erano in partenza per la Polonia. Il comunicato dell'Usb fa riferimento ad "armi di vario tipo, munizioni ed esplosivi". Dopo l'ammutinamento del personale le operazioni sono state completate da militari. La direzione dello scalo ha messo frettolosamente una pezza sull'"incidente": "Ai dipendenti - spiega Cristina Della Porta - è stato assicurato che non sarebbe più accaduto. Un'ammissione implicita dell'irregolarità dell'accaduto". Questo però non è bastato a placare le polemiche. Sabato alle 15 davanti ai due aeroporti sfilerà una manifestazione contro la guerra, a cui hanno aderito anche le sigle di base, maggioritarie nello scalo: "È gravissimo che dei lavoratori civili, non formati per operare in sicurezza, siano stati messi in questa condizione - continua Della Porta - Era stato detto che quei velivoli trasportavano medicine e viveri. Il sospetto è che il Galileo Galilei fosse già stato utilizzate di notte per questo tipo di viaggi". Va ricordato che a oggi i decreti con cui il governo ha deciso l'invio di armi a Kiev rimangono secretati: non si sa né quali armi l'Italia spedisca in Ucraina, né come le faccia arrivare. Pisa è uno snodo strategico: accanto allo scalo internazionale c'è infatti uno dei più importanti aeroporti militari italiani e a soli dieci chilometri Camp Darby, base dell'esercito italiano che ospita in modo stanziale truppe americane. Per Acerbo, cui si deve l'ampia diffusione del documento dell'Esercito, è un'ulteriore conferma: "Dall'inizio di marzo sono moltissimi gli aerei militari partiti da Pisa per la Polonia, la cittadinanza ha diritto di sapere che operazioni militari sta conducendo il proprio Paese. Sembra che ci troviamo di fronte a un ponte aereo militare verso la base di Rzeszow, nella Polonia orientale, dove già dai primi di febbraio opera un comando logistico Usa".».
GIOVEDÌ LE MISURE DEL GOVERNO
Verso il Consiglio dei Ministri di domani, c’è stato un vertice serale ieri a Palazzo Chigi. Celestina Dominelli e Giovanni Trovati per il Sole 24 Ore.
«Un taglio al fisco di benzina e gasolio per frenare i prezzi impazziti al distributore, un allargamento delle rateizzazioni per le bollette e nuovi aiuti alle imprese più colpite, in primis quelle del settore agroalimentare. Corre su questi tre binari il lavoro tecnico per il nuovo decreto energia atteso in consiglio dei ministri giovedì, salvo slittamenti ulteriori. Il premier Mario Draghi ha chiesto di accelerare al massimo, ma il calendario balla ancora insieme alle cifre perché il colpo di reni chiesto alla finanza pubblica dall'ennesimo shock sull'economia è forte. Al punto che il nuovo decreto, nell'ordine di qualche miliardo, sarà solo il prologo di un provvedimento più grande, che arriverà con il Def a fine marzo quando con ogni probabilità si rivedranno al rialzo gli obiettivi di deficit di quest' anno abbandonando la linea del 5,6% scritta a ottobre scorso. Lì si risolverà anche il nuovo dibattito sullo «scostamento», chiesto a gran voce da molti nella maggioranza («non è più opinabile», ha detto ieri l'ex premier Conte) ma tecnicamente impossibile da fare in 48 ore. Per il nuovo provvedimento, quindi, le coperture dovrebbero seguire la falsariga dell'ultimo Dl energia, con il congelamento di altri fondi ministeriali e forse un'ulteriore mossa allo studio sugli extraprofitti dove si starebbe valutando un allargamento anche al di là dell'energia, che va però modulato con attenzione per evitare una nuova Robin tax e un'altra bocciatura della Consulta. A fine mese il quadro cambierà per tre ragioni: il Def aprirà nuovi spazi di finanza pubblica grazie all'aggiornamento degli obiettivi di deficit e all'inserimento nei saldi tendenziali del gettito fiscale aggiuntivo prodotto anche dal caro-carburante: solo a gennaio sono entrati 8,18 miliardi di Iva, con un aumento del 40% rispetto a 12 mesi prima. A quel punto dovrebbero essere pronte anche le nuove deroghe Ue sugli aiuti di Stato, che permetteranno alle imprese di ottenere sostegni ulteriori senza incappare in obblighi di restituzione. Il problema oggi è allora quello di costruire questo primo tempo del nuovo giro anti-crisi in modo da far andare d'accordo le necessità di economia e politica, che chiedono un intervento immediato, con quelle di finanza pubblica che imporrebbero di aspettare un paio di settimane. Il dossier è stato al centro ieri sera di un vertice a Palazzo Chigi fra il ministro dell'Economia Daniele Franco, i colleghi dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti e della Transizione ecologica Roberto Cingolani, con il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli. E a via XX Settembre i tecnici lavorano come al solito a pieno ritmo nella nuova acrobazia necessaria al provvedimento. Per contrastare il caro-carburante, si diceva, la via è quella del taglio fiscale più che dello sconto diretto "alla francese". In gioco ci sono soprattutto le accise (Sole 24 Ore di ieri), ma si è studiata anche l'opzione di una riduzione temporanea dell'Iva. In entrambi i casi, il nodo resta ovviamente quello delle coperture. Se si optasse infatti per un taglio dell'Iva, sul modello di quanto già fatto, per esempio, dalla Polonia che l'ha ridotta dal 22% all'8%, il beneficio alla pompa per gli automobilisti sarebbe di 21 cent per la benzina e di 20 sul diesel, stima l'Unem (l'Unione energie per la mobilità), ma con un costo per le casse dello Stato di 1,3-1,4 miliardi per un trimestre. Se, invece, la scelta dell'esecutivo fosse quella di sterilizzare parzialmente le accise, come è più probabile, i numeri cambierebbero: con una decurtazione di 20 centesimi, il vantaggio per l'utente finale salirebbe a 25 cent (in quanto il taglio delle accise restringerebbe la base imponibile su cui si calcola l'Iva riducendo anche l'impatto di quest' ultima). Il maggiore beneficio farebbe, però, salire il conto per lo Stato a 1,4-1,5 miliardi per tre mesi. Le prossime ore, dunque, serviranno a definire l'assetto complessivo dell'intervento, nel quale dovrebbero rientrare la possibilità di rateizzazioni delle bollette anche per le imprese in difficoltà, nonché un potenziamento del bonus, lo sconto in fattura per i nuclei con disagio economico e fisico. Ma saranno le risorse a disposizione, come detto, a delineare il quadro finale. Per fronteggiare i riverberi della crisi energetica, amplificata dal conflitto russo-ucraino, il governo ha poi messo nero su bianco l'annunciata accelerazione sugli stoccaggi prevista nel Dl energia e annunciata da Cingolani nell'ambito del piano per l'emergenza gas. Dal Mite è infatti arrivato il decreto che anticipa il riempimento dei depositi, il cui livello dovrà essere pari ad almeno il 90%. Le principali novità riguardano la possibilità di allestire un sistema di navi spola per collegare il rigassificatore di Panigaglia con i terminali nel Mar Mediterraneo, in particolare quelli spagnoli, attualmente non collegati alla rete europea. Si tratta di un modello di pipeline virtuale simile a quella, regolata, già ipotizzata per la Sardegna e che vedrà impegnata anche in questo caso Snam. Per favorire, poi, l'arrivo in Italia di volumi aggiuntivi di gas da infrastrutture non direttamente connesse con la rete Ue, l'Arera stabilirà poi dei corrispettivi, anche di tipo giornaliero, per gli operatori (shipper) che importano gas da Sud. Ed è previsto, in linea con quanto indicato dal Dl energia, che, nel corso del ciclo di erogazione invernale, le imprese di stoccaggio possano effettuare iniezioni in controflusso, anche attraverso servizi dedicati, per i quali l'Authority fisserà incentivi ad hoc».
COVID. FINISCE L’ERA DEL SUPER GREEN PASS
Domani il governo si dovrebbe occupare anche delle misure anti-covid. La frenata dei vaccini e l’aumento dei contagi preoccupano. Si va però verso un’estate senza restrizioni.
«Il Super Green Pass è al capolinea, anche nei luoghi di lavoro per chi è sottoposto a obbligo vaccinale. Per le attività al chiuso ci vorrà la certificazione verde base (da vaccino, guarigione o tampone) e sarà ancora obbligatorio indossare la mascherina. All'aperto invece non sarà più necessario alcun documento. Stop ai codici Qr su cellulare o foglietti ripiegati. Il governo si prepara ad allentare le misure anti Covid. Ecco le tappe: oggi una cabina di regia per sciogliere gli ultimi nodi e le proposte delle Regioni riunite in Conferenza. Domani il Consiglio dei ministri che licenzierà il decreto, con uno sguardo ai contagi in forte risalita (ieri erano 85.288, 180 i morti). I dati preoccupano il responsabile della Salute, Roberto Speranza, che nel corso della riunione di ieri a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Mario Draghi, avrebbe manifestato qualche dubbio, avanzando l'ipotesi di una "clausola di salvaguardia", che consenta di stringere le maglie delle aperture in tempi rapidi, se la situazione dovesse precipitare. D'altronde anche l'Europa si muove con cautela. Per domenica 20 in Germania era previsto il cosiddetto Freedom day, l'abolizione d'ogni misura: rimandato a data da destinarsi per la fiammata del virus. Mentre gli Usa guardano con preoccupazione ai numeri del Vecchio Continente e soprattutto a quelli del Regno Unito (110 mila contagi) che sta smantellando le restrizioni. Nulla è ancora scolpito su pietra ma l'indirizzo preso dall'esecutivo Draghi sembra questo: un abbandono, da subito, di tutte le certificazioni verdi per mangiare ai tavolini all'esterno di bar e ristoranti, per svolgere attività sportiva all'aria aperta, per sedersi a vedere un film, uno spettacolo, un concerto o una partita en plein air. Il Green Pass resisterà invece fino al primo maggio nei luoghi al chiuso, ma - dai trasporti pubblici, ai cinema, ai locali, agli hotel, ai musei, alle biblioteche - dovrebbe bastare quello base, ottenuto anche con il tampone, e non più quello rafforzato. Il confronto però è ancora aperto, attività per attività, con particolare attenzione a quelle più a rischio assembramenti. Al tramonto - e qui sta la novità maturata nelle ultime ore - pure la certificazione rafforzata per gli over 50, le forze dell'ordine e i docenti sui luoghi di lavoro: basterà il test antigenico o molecolare. Resta, però, formalmente fino al 15 giugno l'obbligo vaccinale, con multe e sospensioni. Gli stadi dovrebbero tornare al 100% (si preme per una deroga per la partita della Nazionale del 24 marzo) mentre per i palazzetti la capienza dovrebbe fermarsi al 75%. Fine anche per le quarantene da contatto, anche per i non vaccinati. La novità riguarderà anche le scuole, dove dovrebbe sparire l'obbligo della Ffp2 in favore della chirurgica. Il generale Figliuolo ha già detto addio alla struttura commissariale. Due le ipotesi: le funzioni potrebbero passare a strutture interne alla Salute o alle Regioni. Addio anche al Cts, ma Locatelli e Brusaferro rimarranno come consulenti del governo. «Ci avviamo - ha spiegato il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa - a un ritorno alla normalità. Avremo un'estate senza restrizioni».
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