La Versione di Banfi

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Anno nuovo, virus vecchio

alessandrobanfi.substack.com

Anno nuovo, virus vecchio

140 mila italiani contagiati a Capodanno. Draghi vuole il Super pass. Memorabile discorso di Mattarella a reti unificate, silenzio di Mr. B. Prodi celebra i 20 anni dell'euro. Nuovo sindaco a New York

Alessandro Banfi
Jan 2, 2022
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Anno nuovo, virus vecchio

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Benvenuti alla prima Versione del 2022. Non voglio deludervi ma questo anno nuovo non sembra, per ora, molto diverso dal 2021. La pandemia è ancora la notizia principale, con più di 140 mila nuovi contagi e una crescita continua dei numeri. Il premier Mario Draghi sembra deciso a varare l’obbligo vaccinale di fatto per i lavoratori già nella settimana che si apre domani. Mentre è ancora evidente il caos su tamponi, quarantena e auto sorveglianza. Buone notizie dal Sudafrica, dove anche lì, com’è già accaduto in Est Europa e in Germania, all’impennata del contagio è seguito un crollo verticale della diffusione del virus. Nicoletta Dentico sul Manifesto ripercorre gli ormai quasi tre anni di convivenza con il Covid: la contraddizione più grande resta l’egoismo dei Paesi ricchi che non sono stati in grado di aiutare la diffusione dei vaccini in quelli poveri. Eppure l’Oms vuole mettere a punto un nuovo piano pandemico globale…

Il discorso di fine d’anno di Sergio Mattarella pronunciato la sera di san Silvestro (qui nella versione integrale sul sito del Quirinale) è stato per certi versi eccezionale. Stringato e sobrio, il Presidente ha disegnato l’identikit del suo successore, come di qualcuno in grado di guardare all’interesse generale: quello del Paese. Un super partes che dia fiducia ai giovani e che stimi le risorse della Patria in modo adeguato. Da incorniciare i passaggi sui vaccini e bellissima l’idea di leggere la lettera ai suoi giovani allievi del prof di Filosofia e storia, rimasto ucciso nella tragedia di Ravanusa, provincia di Agrigento. Colpisce che fra i leader politici l’unico a non commentare il discorso sia stato Silvio Berlusconi. Un silenzio assordante e politicamente significativo. I grandi elettori ne dovrebbero tener conto.

Si è insediato il nuovo sindaco di New York durante la tradizionale festa per il nuovo anno a Times Square. Quirico sulla Stampa dipinge un affresco inquietante delle conquiste “mercenarie” della Russia in Africa. Il Papa ha parlato della violenza contro le donne nell’omelia in San Pietro del primo gennaio. È morto a 80 anni don Luigi Negri, che è stato Vescovo di Ferrara.

Potete iniziare il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani, Lunedì 3. L’appuntamento orario resta intorno alle 9. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Pandemia e Quirinale sulle prime pagine. Il Corriere della Sera sottolinea: Lo scudo della terza dose. La Repubblica pensa al rientro nelle classi: Covid, ecco il piano per salvare la scuola. Il Mattino è preoccupato per il cambio di colore: I medici: superpass al lavoro. La Campania verso il giallo. Il Messaggero registra: Super pass, la spinta dei medici. La Verità contrappone il governo inglese al nostro: Londra molla le restrizioni qui preparano l’assalto finale. Libero invece è ottimista: Un milioni di positivi, pochi ricoveri. Omicron non fa paura. Il Quotidiano Nazionale mette il dito nella piaga del pasticcio burocratico: Il caos delle quarantene senza fine. Dell’ultimo discorso di Mattarella e del futuro sul Colle si occupano Il Giornale, quasi funerario: Mattarella, ultimo atto. Il Manifesto spiega che lo stringato messaggio del Presidente uscente è chiarissimo: Commiato di pietra. Mentre Il Fatto rivela le intenzioni del Cav: B. prepara il video del sogno da incubo. La Stampa intervista la Gelmini, che vuole incatenare il premier A Palazzo Chigi: “Non c’è alternativa a Draghi premier”. Il Sole 24 Ore fa i conti dei vari bonus nella legge di Bilancio: Nuova giungla da 24 miliardi.  Mentre Domani nota: Arrivano i soldi del Pnrr e nessuno cerca più le mafie e la corruzione. Avvenire apre sulla prima omelia di papa Francesco in San Pietro del 2022, dedicata alla difesa della donna: Dio al femminile.

UN MILIONE COL COVID, ALTRE REGIONI IN GIALLO

Domani altre 4 regioni saranno in giallo (per un totale di 9, più Trento e Bolzano). Nuovo record dei contagi ma la diga delle terze dosi per ora salva gli ospedali. Vaccini al lavoro, si va verso l'obbligo. Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«È il tassello mancante, la misura che il presidente Mario Draghi voleva inserire nel decreto approvato il 30 dicembre per cercare di fermare l'impennata della curva epidemiologica. I veti incrociati dei partiti che sostengono il governo hanno invece bloccato la norma, ma già il 5 gennaio potrebbe essere imposto l'obbligo vaccinale a tutti i lavoratori. La pressione affinché l'obbligo venga esteso all'intera popolazione cresce anche da parte di Confindustria e sindacati, ma al momento non sembra questa la strada che l'esecutivo intende percorrere. La situazione è di grande allarme, ieri - con 141.262 nuovi contagiati - è stata raggiunta la cifra record di 1 milione 21 mila e 697 italiani che hanno il Covid. Ma la situazione degli ospedali e delle terapie intensive non ha ancora oltrepassato il livello critico proprio grazie alla scelta della maggior parte dei cittadini di vaccinarsi con la seconda e la terza dose e all'adesione ancora alta alla campagna vaccinale di bambini e ragazzi. Dunque rimane la convinzione che l'estensione dell'obbligo a chi lavora possa essere sufficiente per scongiurare conseguenze peggiori. Anche perché il decreto approvato giovedì scorso impone di fatto il lockdown ai no vax impedendo l'ingresso in tutti i locali pubblici e nei luoghi dello spettacolo a chi non ha il green pass «rafforzato», la certificazione che viene rilasciata soltanto a guariti e vaccinati. Il bollettino Il tasso di positività è salito al 13%, venerdì era all'11,78% con 1.084.295 tamponi molecolari e antigenici processati. Ci sono stati 141.262 nuovi casi positivi e 111 vittime portando a 137.513 i morti dall'inizio della pandemia. Nelle terapie intensive ci sono 1.297 pazienti mentre i ricoverati con sintomi nelle aree mediche sono 11.265. Le regioni gialle Una situazione che porta a undici le regioni e province in zona gialla con alcune che rischiano l'arancione già la prossima settimana. Dal 3 gennaio 2022 passano in giallo, con la nuova ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza, Lombardia, Piemonte, Lazio e Sicilia. Si aggiungono a Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Marche, provincia autonoma di Bolzano, provincia autonoma di Trento e Veneto. Ma già tra sette giorni Liguria, Calabria e provincia di Trento rischiano di passare in arancione visto che l'occupazione dei posti in ospedale continua a crescere. Vaccini al lavoro Di fronte a questa risalita il presidente del Consiglio è convinto che la strada da percorrere sia appunto quella dell'obbligo vaccinale per tutti i lavoratori così come già accade per il personale sanitario, il personale scolastico, le forze dell'ordine e i dipendenti delle ditte esterne che svolgono servizi all'interno delle Rsa. Il ministro Speranza ha più volte ribadito di non vedere altra alternativa, «i numeri del Covid imporranno scelte nette e forti». Il ministro Dario Franceschini per il Pd e la ministra Elena Bonetti per Italia viva appoggeranno questa scelta, i rappresentanti di Forza Italia nel governo Renato Brunetta e Mariastella Gelmini appaiono determinati a superare i dubbi e le resistenze espresse dal leghista Giancarlo Giorgetti e dai 5 Stelle, anche se in realtà il titolare degli Esteri Luigi Di Maio ha sempre dichiarato che i vaccini sono «l'unico strumento che ci consente di tenere aperte tutte le attività». Studenti universitari La stessa misura potrebbe scattare per gli studenti universitari, anche se la discussione avvenuta durante l'ultima cabina di regia del governo ha fatto registrare numerose perplessità e per questo l'ipotesi di far entrare in vigore subito l'obbligo nei loro confronti è stato accantonato. La quarantena Sono invece operative dal 31 dicembre le regole per la quarantena di chi ha avuto contatti stretti con una persona positiva al Covid-19. Secondo il decreto e la successiva circolare firmata dal direttore della Prevenzione del ministero della Salute Giovanni Rezza chi «è vaccinato con tre dosi, guarito o ha effettuato il richiamo da meno di 120 giorni non deve fare quarantena ma deve sottoporsi ad autosorveglianza, indossare per dieci giorni la mascherina Ffp2 e, se diventa sintomatico, effettuare un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all'ultima esposizione al caso». Chi invece «è vaccinato da più di quattro mesi deve osservare 5 giorni di quarantena, con obbligo di tampone negativo al termine del periodo di isolamento». I non vaccinati devono rimanere in quarantena per 10 giorni. Mascherine Rimane in vigore in tutta Italia l'obbligo di indossare la mascherina all'aperto e sui mezzi di trasporto, anche quelli locali, è indispensabile avere la Ffp2. Green pass «rafforzato» In tutti i locali pubblici e nei luoghi dello spettacolo si può entrare solo se si è vaccinati o guariti, quindi se si ha il green pass rafforzato. Dal 10 gennaio l'elenco dei luoghi si allunga ai mezzi di trasporto, compresi quelli locali, agli alberghi e ai ristoranti e bar all'aperto, agli impianti di risalita delle piste da sci, alle piscine e agli sport di squadra ai centri benessere, culturali, sociali e ricreativi all'aperto. ».

IN SUDAFRICA DRASTICO CALO DEI CONTAGI

In Sudafrica la curva dei contagi si è dimezzata in quindici giorni. Nel Paese è stato tolto il coprifuoco e le restrizioni sono state allentate: «Ospedalizzazioni inferiori». Monica Ricci Sargentini per il Corriere.

«Per la prima volta in Sudafrica, dopo quasi due anni di restrizioni, è stato tolto il coprifuoco notturno, che costringeva i cittadini a restare in casa fra mezzanotte e le 4 del mattino. Così il 31 dicembre si è potuta festeggiare la fine dell'anno senza stare a guardare l'orologio. È questo il segno più tangibile di come sia ormai stato superato il picco della quarta ondata di Covid-19, legata alla variante Omicron individuata proprio nel Paese a fine novembre: «La velocità di questa variante è stata sbalorditiva. Picco in quattro settimane e declino precipitoso in altre due», ha scritto su Twitter Fareed Abdullah del South African Medical Research Council . Il governo di Cyril Ramaphosa ha sottolineato che il dilagare di Omicron non ha causato un aumento significativo dei decessi e, quindi, ha deciso di proseguire sulla strada già intrapresa la scorsa settimana, cioè la fine dei tracciamenti e quarantena più breve per gli asintomatici, estendendo l'orario di apertura per i negozi che vendono alcolici e fissando un limite molto ampio per i raduni: 1.000 persone al chiuso e 2.000 all'aperto. «Le strategie di contenimento non sono più necessarie» ha detto un portavoce del governo. Il Sudafrica è stato il Paese maggiormente colpito del continente durante tutta la pandemia, con circa 3,5 milioni di contagi e 91 mila vittime. Secondo il governo, tuttavia, le infezioni sono diminuite del 29,7% nella settimana che si è conclusa il 25 dicembre rispetto alla precedente - 89.781 infezioni, contro le 127.753 dei 7 giorni precedenti - e sono calati anche i ricoveri ospedalieri in otto delle nove province sudafricane. «Mentre la variante Omicron è altamente trasmissibile, ci sono stati tassi di ospedalizzazione inferiori rispetto alle precedenti ondate» ha spiegato il governo in una nota. Ad essere speranzosi sono gli imprenditori che, provati da due anni di pandemia, intravedono la luce alla fine del tunnel: «Spero che Cape Town possa tornare alla gloria dei vecchi tempi - ha detto alla Reuters Michael Mchede, manager dell'Hard Rock cafe che sorge sulle spiagge bianche di Camps Bay Beach -, molte attività sono state costrette a chiudere, è stato veramente un periodo duro». La speranza del governo è che l'allentamento delle restrizioni non porti a un nuovo aumento dei casi: «Noi cerchiamo di trovare un equilibrio tra la vita della gente, i mezzi di sussistenza e la necessità di tutelare le vite umane» ha spiegato il ministro Mondli Gungubele».

TRE ANNI DI PANDEMIA E PIÙ DISUGUAGLIANZA

Nicoletta Dentico sul Manifesto analizza la reazione dei sistemi di salute occidentali alla pandemia. In questi anni c’è stato un epocale fallimento compensato dalla straordinaria conquista dei vaccini. Vaccini che però i Paesi ricchi non vogliono cedere a quelli più poveri.

«Tre anni fa, in questi giorni, non avevamo ancora contezza del grande spaventoso evento che avrebbe bruscamente interrotto le cinetiche della globalizzazione e segnato la storia con uno strascico inenarrabile non solo di natura sanitaria, ma con effetti dirompenti anche nella sfera psicologico-esistenziale, sociale, economica. Una Chernobyl nel campo della salute, è stato definito. Sono avvenute talmente tante cose, in questi due anni sul fil di lama. Alcune positive, oltre ogni attesa, come il fulmineo sviluppo di vaccini e più recentemente - di nuove terapie contro il Covid. Mai si era visto uno sforzo scientifico di questa portata: 23 diversi vaccini approvati in un anno nel mondo e centinaia in fase di sviluppo. Si è calcolato che questa incredibile svolta abbia salvato la vita di 750.000 persone in Europa e negli Usa soltanto. Molte più cose sono andate male però. Molto male. Il Covid ha definito il 2021, un anno che passerà alla storia per le numerose commissioni, panel, summit che, almeno a parole, hanno inteso fare tesoro delle lezioni di questa pandemia, così da non ritrovarsi nella stessa situazione la prossima volta perché di sicuro ci saranno prossime volte. Nuove commissioni si profilano all'orizzonte: la comunità internazionale infatti ha deciso - in una recente assemblea ad hoc dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) di imbarcarsi nel negoziato di un nuovo trattato pandemico. Quasi che quello pandemico fosse un accettabile nuovo statuto del mondo, la cifra sgraziata di un nuovo ordine delle cose, e non il frutto di un epocale fallimento di visione e di governance su scala mondiale. Ma alla vigilia del terzo anno di Covid-19 ci sono lezioni importanti da condividere. La prima è che agire subito è fondamentale, anche a costo di esagerare. Tra gennaio e febbraio 2020, per ragioni inspiegabili, il mondo non comprese che il virus sconosciuto scoppiato a Wuhan non sarebbe rimasto confinato in Cina. Bastarono poche settimane per far tracimare il nuovo patogeno ampiamente annunciato in altri Paesi. È vero che in precedenza altri coronavirus, come SARS nel 2003 e MERS nel 2012, non avevano scatenato pandemie. E' vero pure che le autorità sanitarie pagano a caro prezzo l'annuncio di allarmi per emergenze che poi non si rivelano tali; l'Oms fu letteralmente messa alla berlina dal Parlamento europeo nel 2009 per aver dichiarato la pandemia da influenza H1N1, evento dagli effetti non particolarmente gravi. Tutto il mondo sa che il principio guida di ogni risposta all'emergenza sanitaria è prepararsi al peggio, con adeguati investimenti e formazione del personale. Ma avviene raramente. La scelta, sperimentata a più riprese in due anni, di attendere che l'evoluzione del virus si manifesti appieno prima di assumere le misure necessarie ad alterarne la traiettoria presuppone la decisione di rendere il virus molto più pericoloso, e di aprire il varco alla pandemia, continua ad avere il sopravvento sulla salute pubblica. In due anni di pandemia ne abbiamo viste di tutti i colori. Quanti leader politici hanno messo a repentaglio la vita dei loro cittadini, strumentalizzando la crisi, sminuendola o infilando bugie a raffica, solo perché la verità su COVID-19 avrebbe potuto ledere i loro destini politici? In Europa, capi di governo hanno ritenuto la pandemia l'occasione per una bonifica sociale nazionale vantaggiosa per le casse dello Stato. In molte parti del mondo, le misure di emergenza sono servite agli autocrati di turno per «fare pulizia» liberandosi di avversari politici, attivisti e giornalisti, ovvero per imporre regimi di sgraziata (in)sicurezza. In Brasile il negazionista presidente Bolsonaro, emulando lo scriteriatoTrump, ha concesso al virus di scorrazzare indisturbato in un Paese disuguale e con strutture sanitarie insufficienti ai bisogni della popolazione. Come se non bastasse, ha disarcionato tre ministri della salute e abbandonato al proprio destino intere comunità indigene nelle regioni amazzoniche. Ci sarà un giudice a Brasilia o all'Aja in grado di impugnare i crimini del presidente il quale, incurante dei 600.000 morti, punta a farsi rieleggere il prossimo ottobre? Quello che sappiamo con certezza scientifica è che se il virus fosse scoppiato negli Stati Uniti invece che a Wuhan le conseguenze sarebbero state assai peggiori, checché ne dica la foga anticinese di Federico Rampini. Nonostante 824.000 morti, i programmi vaccinali negli Usa restano avvolti da una spregiudicata fuorvianza ideologica e anche portare la mascherina identifica politicamente, in una polarizzazione che toglie respiro più del virus. Nella fase estrema e forse terminale del capitalismo finanziario dominata dalla «ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell'esistenza umana e della natura da trasformare il più rapidamente possibile in denaro», per dirla con Luciano Gallino, il cinismo geopolitico la fa da padrone sulle ragioni della salute globale. La comunità internazionale si rassegna alle nuove varianti pur di non cedere sulla vexata quaestio della sospensione dei diritti di proprietà intellettuale in tempo di emergenza. Abbiamo perso un anno, e la storia ci giudicherà severamente. La disuguaglianza vaccinale che ha infangato il 2021 non verrà sanata nel 2022 se un piccolo nucleo di governi continueranno a dimostrarsi sensibile alle ragioni delle multinazionali del farmaco e indifferenti al diritto alla salute. Se non cambiamo strada, non c'è trattato pandemico che tenga».

MATTARELLA CHIEDE DOPO DI LUI UN ALTRO SUPER PARTES

Il messaggio di fine d’anno del Presidente Mattarella è stato sobrio ma preciso: ha disegnato l’identikit costituzionale del suo successore. Un super partes al servizio dell’interesse generale. L’analisi di Ugo Magri per la Stampa.

«È stato un messaggio diverso dal solito. Per la prima volta nella memoria della Repubblica un presidente ha colto l'occasione degli auguri per compiere un gesto trasparente e offrire ai concittadini il bilancio del proprio operato. Sergio Mattarella lo ha fatto - specie nel finale - con accenti commossi che sono tipici dell'addio e non lasciano trasparire alcuna intenzione di concedere il "bis", casomai gli venisse richiesto (solo una parte del Pd, per adesso, ci sta pensando). La sua preoccupazione è sembrata quella di lasciare tra i cittadini un buon ricordo che, solitamente, si accompagna a un pizzico di rimpianto. Insomma, di concludere bene tra gli applausi. Tanto è vero che nel discorso - piuttosto breve, 15 minuti in tutto - ha evitato di dilungarsi sui problemi che tutti conoscono, di sollecitare risposte ai guai dell'Italia, insomma di proiettare lo sguardo sul futuro perché il gong sta per scadere: non toccherà più a lui occuparsene, ma al suo successore. Ormai si considera un ex. Da adesso in avanti e sino alla fine del mandato (il 3 febbraio) Mattarella eviterà qualunque gesto potenzialmente in grado di interferire nella scelta del "dopo". Vuole tenersene il più possibile alla larga. Dunque silenzio stampa: basta dichiarazioni, discorsi e cerimonie pubbliche. Sul sito del Quirinale l'Agenda del presidente è completamente vuota. L'altro inedito del messaggio di Mattarella è che mai in passato un presidente aveva così puntigliosamente esposto, davanti a una platea che ha superato i 13 milioni di spettatori, quali sono le sue funzioni, segnalato l'essenza dei suoi doveri, precisato le proprie prerogative secondo Costituzione. Un chiarimento era necessario per ribadire la correttezza di certe scelte che in momenti di particolare agitazione (si pensi alla nascita del primo governo Conte) era stata messa in dubbio fino al punto da evocare nei suoi confronti l'impeachment. «Mi sono adoperato sempre, in ogni circostanza, per svolgere il mio compito nel rispetto rigoroso del dettato costituzionale», ha voluto rimarcare nel messaggio il presidente. Ma oltre a questo scrupolo c'è probabilmente dell'altro. Forse - ma è solo un sospetto - si aggiunge il desiderio di mettere un po' di chiarezza in questa fase magmatica, creativa e piuttosto confusa, in cui si ipotizza per dirne una che il capo dello Stato possa fare contemporaneamente l'arbitro e il giocatore, il garante delle regole e nello stesso tempo dirigere la politica di governo sovrapponendosi al premier. Dalla visione che Mattarella ha illustrato al Paese non si ricava niente del genere. Il presidente incarna l'unità nazionale. È per definizione «super partes» e, non appena eletto, corre a «spogliarsi di ogni precedente appartenenza» politica per «farsi carico esclusivamente dell'interesse generale, del bene comune di tutti e di ciascuno». Deve difendere con le unghie le sue funzioni dai prepotenti di turno in modo da restituirle intatte a chi verrà dopo di lui. Porta sulle spalle la responsabilità di collaborare lealmente con tutte le altre istituzioni, specie nel momento attuale, senza calpestarne nessuna. E gli compete il compito per niente facile di garantire la governabilità, scongiurando «pericolosi salti nel buio». Cioè avventure politiche di ogni tipo. Guarda caso, è proprio il motivo per cui Mattarella è stato sempre contrario a sciogliere anticipatamente le Camere quando più volte, nel settennato, gli è stato richiesto di mandare tutti a casa; pur di evitare l'infarto della legislatura in piena pandemia, col rischio di non incassare i miliardi dell'Europa, è arrivato a promuovere un governo di larghe intese (quello guidato da Mario Draghi) spingendo al limite l'esercizio dei suoi poteri. Ne è venuto fuori, come molti hanno percepito, una sorta di "identikit" del presidente ideale. Un vademecum di ciò che un capo dello Stato dovrebbe fare e rappresentare, secondo Costituzione. Un prezioso libretto di istruzioni a beneficio dei 1009 "grandi elettori" che fra tre settimane si riuniranno per eleggere il nuovo inquilino del Colle. Se sarà anche un patriota, come si augura Giorgia Meloni, lo scopriremo vivendo. L'importante, fa rispettosamente notare Mattarella, è chiarirsi su che cosa si intende. Per lui un vero patriota è chi si batte in prima linea per una Repubblica «unita e solidale»; chi nei momenti più disperati si sforza di tenere insieme il Paese; non chi gioca a spaccarlo».

Filippo Ceccarelli su Repubblica: dall'arcobaleno alla nebbia i presagi atmosferici di sette anni carismatici.

«Proprio nel momento in cui, l'altra sera, il presidente Mattarella cominciava il suo ultimo discorso televisivo una insolita coltre di nebbia si è posata sulla Capitale. Alla fine del collegamento dal Colle era sempre più densa e ovattata, tale da nascondere le festose luminarie dei fuochi della mezzanotte. Allo stesso modo le incoraggianti parole di Mattarella hanno comunque lasciato al buio la vita pubblica e il destino stesso dell'Italia. Ci sono eventi della natura, a loro modo straordinari, che fanno simbolo. E l'offuscamento del 31 dicembre evoca la più esemplare, e compiuta immagine del distacco, dell'incertezza e dello straniamento, con tanto di rimando ai sacri testi: "Tra 'l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta" (per dirla con Guicciardini). Dispiace qui insistere con presagi e ulteriori corbellerie oracolari, ma fra la meteorologia e il potere esistono dei legami che, scavalcando la razionalità, tanto più paiono irresistibili in tempi bui. Così il 30 gennaio del 2015, due giorni prima dell'elezione, mentre era in corso la terza votazione un vento fortissimo stracciò la bandiera tricolore in cima al Torrino del Quirinale; quindi sopraggiunse una forte pioggia, culminata in grandine notturna. Di buon mattino, poco prima che a Montecitorio andasse in scena l'elezione di Mattarella, il fotografo Fabio Cimaglia ebbe la fortunata abilità di effettuare un magnifico scatto nel quale il chiarore di un arcobaleno rompeva il cielo collocandosi con perfetta simmetria fra la scultura equestre dei Dioscuri e il palazzo del Quirinale. Volendo strafare, quella foto era presa ai piedi del Palazzo della Consulta, nella cui foresteria in quell'istante si trovava, abitandoci, lo stesso Mattarella. Forse sette anni sono veramente troppi; specie se, rotto lo specchio dei partiti e delle istituzioni, sono stati sette anni di guai; e ancora più se per via di una crisi economica ed emergenza sanitaria, sono stati sette anni anche di vacche magre, magrissime. Eppure, a dispetto della superstizione e dell'Antico Testamento, il settennato di Mattarella appare oggi generalmente impeccabile. L'altro ieri sera le reti televisive l'hanno riproposto nei suoi passaggi, pure con qualche scontata pigrizia encomiastica e bislacco accompagnamento sonoro (lo Schiaccianoci). Fa piacere sapere che egli non si sia "mai sentito solo", anche se in tutta sincerità resta l'impressione che sia stata esattamente la sua solitudine umana e politica, il suo essere irriducibilmente altro rispetto all'odierna classe politica, ciò che ha reso la presenza di Sergio Mattarella un vantaggio più unico che raro al vertice della Repubblica. Arrivato lì senza più un partito, con gli amici di una vita scomparsi, e vedovo. Un anziano signore prossimo agli 80, le spalle curve sotto il peso di una storia drammatica, le braccia avare di gesti, un'espressione che oscillava fra un sorriso tenue e un'ombra di malinconia, un'oratoria senza svolazzi, a voce bassa e sussurri, una discrezione al giorno d'oggi davvero inusitata, una serietà per certi versi sconvolgente, una dignità che nel perenne carnevale politico si era più che dimenticata. "Uno Scalfaro minore" disse Berlusca; per altri fu "la Mummia"; altri spiritosi si dilungarono sul fatto che possedeva una Panda grigia e trovarono una somiglianza che ibridava il dottor Stranamore e Malgioglio; "uno zio sfigato nel tinello" lo bollò Oliviero Toscani dopo il primo messaggio. In realtà la fiducia che fin dall'inizio suscitò Mattarella era tanto più potente quanto più evidente il collasso di credibilità che, ormai ai limiti dell'euforia e del delirio, trasmetteva la classe politica. In più, eccezionale e prezioso carisma, non solo sapeva comprendere la sofferenza altrui, ma con imperturbabile naturalezza si spingeva a considerare la fragilità una via di salvezza. È possibile che tali virtù, accompagnate da una straordinaria pazienza, l'abbiano guidato nel no a Savona e a Lagarde, o dinanzi all'impeachment televisivo annunciato da Di Maio; così come il suo essere uomo d'altri tempi e d'altre temperie l'ha ispirato a reggere le intemerate di Salvini, le corse di Ciampolillo o il pressing di Trump che in un indimenticabile video si ostinava a chiamarlo Mozzarella, e dopo ogni battuta occhieggiava verso i giornalisti. La dignità è oggi risorsa assai poco reperibile, e senz' altro vale più del pop, a cui pure Mattarella ha saputo adattarsi. Ma la nebbia l'altra notte era fitta - e anche se poi si è diradata, sta ancora lì».

QUIRINALE 1. L’ASSE FRA LETTA E DRAGHI

Preso buona nota del discorso di San Silvestro, la corsa al Quirinale non si ferma. Giovanna Vitale su Repubblica racconta i contatti fra il premier e il segretario del Pd.

«C'è chi parla di un incontro a quattrocchi tenuto rigorosamente riservato per evitare speculazioni. Chi invece minimizza, derubricando il tête-à-tête a semplice telefonata di auguri. Fatto sta che tra Natale e Capodanno Mario Draghi ed Enrico Letta avrebbero avuto un lungo colloquio che, avvenuto in presenza oppure via cavo, si sarebbe comunque concentrato su due aspetti: la partita del Quirinale e la prosecuzione della legislatura, sia in caso di trasloco del premier al Colle, sia di sua permanenza a palazzo Chigi. Sebbene al Nazareno continuino a sostenere la tesi per cui «Draghi è soltanto una delle opzioni», il segretario dem appare sempre più determinato a pilotare la successione di Sergio Mattarella sull'unico nome in grado di riscuotere un ampio consenso, evitando al centrosinistra di restare tagliato fuori dai giochi. Il solo sul quale, almeno in teoria, nessuno avrebbe la forza di tirarsi indietro. A dispetto delle resistenze interne al Pd, oltre che del M5S e di buona parte della Lega, i cui deputati e senatori vivono come un incubo l'ascesa di Draghi al Quirinale: possibile anticamera del voto anticipato. Ipotesi che non per niente Letta, deciso a non scoprire troppo presto le sue carte, ha escluso con nettezza nell'intervista a Repubblica: «Il 13 gennaio dirò alla direzione del Pd e ai gruppi parlamentari che la via maestra è la continuità di governo e la stabilità», ha scandito il leader dem per tranquillizzare le truppe. «Il 2022 non può essere un anno elettorale, non possiamo permetterci almeno cinque mesi di interruzione dell'attività di governo. Quindi c'è bisogno di una larghissima maggioranza, un capo dello Stato non divisivo e non eletto sul filo dei voti». Dichiarazione mai tanto esplicita, unita al disegno - illustrato con altrettanta chiarezza - di mettere al riparo l'ex banchiere centrale da agguati e franchi tiratori: «Quello che Draghi sta portando all'Italia è enorme », perciò «va protetto e tutelato per il bene del Paese», ha avvertito il segretario. E poiché, come ha pure ribadito Mattarella nel suo discorso di congedo, il prossimo settennato non sarà privo di insidie è necessario insediare nell'ex dimora papale la personalità più autorevole, imparziale e riconosciuta nel mondo di cui il Belpaese dispone. Per Letta l'unica capace di scongiurare la fine prematura della legislatura: se difatti il nuovo capo dello Stato venisse incoronato da «una maggioranza più stretta» dell'attuale «il governo cadrebbe» e rimettere insieme i cocci non sarebbe più possibile. Da qui la proposta: «Servirebbe una sorta di doppia elezione, un accordo contestuale anche sul nome del sostituto » a palazzo Chigi. Individuare cioè chi, fra le ipotesi in campo, da Daniele Franco a Marta Cartabia, possa guidare l'esecutivo per qualche mese, fino alle Politiche. Una strategia che tuttavia non sembra convincere né gli alleati grillini, né Salvini, per non parlare di Berlusconi, ancora persuaso di poterlo conquistare lui il Colle. Ma alla quale potrebbe essere interessata - anche se solo fino a un certo punto - Giorgia Meloni. Diventata, sebbene per motivi opposti a quelli di Letta, la più grande sponsor di Draghi. «Si dice che se andasse al Quirinale si tornerebbe a votare», ha ribadito la leader di Fdi nella diretta social dell'ultimo dell'anno: «Secondo me si deve tornare al voto comunque. Il mandato di Draghi è legato a quello di Mattarella». Dunque, vada come vada, l'epilogo per lei rimane lo stesso: le urne dopo l'elezione del capo dello Stato. Tanto più se toccasse all'attuale premier. Aspettativa che tuttavia rischia di restare delusa: eccetto il suo partito, non ce n'è uno che non tifi per arrivare a scadenza naturale. Inclusi i centristi, che hanno già cominciato a manovrare (vedi l'avvicinamento di Renzi a Toti) per non finire esclusi dalla partita, stringendo proprio su Draghi. «Ha tutte le qualità per essere il presidente della Repubblica », ha scandito l'altro ieri il governatore. Che ha pure avvisato Berlusconi: «Se non verifica bene i numeri, rischia di fare la fine di Prodi». Indizi che portano nella medesima direzione: solo "SuperMario" può garantire la prosecuzione della legislatura, dando all'area moderata il tempo di organizzarsi in vista delle prossime elezioni».

QUIRINALE 2. MR. B PREPARA UN SUO VIDEO

Silvio Berlusconi starebbe preparando una nuova discesa in campo, questa volta per il Quirinale. E questa volta l’appello in video sarebbe un messaggio "pacificatore" di tre minuti. Giacomo Salvini per Il Fatto.

«Il cluster della vigilia di Capodanno a villa San Martino - 5 dipendenti positivi, oltre ad Antonio Tajani - ha rallentato un po' i lavori. Tutti a casa fino a domani, quando si entrerà nel vivo dell'operazione Quirinale. Un sogno che Silvio Berlusconi cavalca da settimane e che lo porterà a Roma già nei prossimi giorni per intensificare lo scouting parlamentare. Deve trovare ancora una cinquantina di voti che gli servono per essere eletto. E poi scendere in campo. L'idea che sta prendendo piede negli ultimi giorni ad Arcore, come raccontato dal Fatto a inizio dicembre, è quella di farlo con un videomessaggio simile a quello della discesa in campo del 27 gennaio 1994. Esattamente ventotto anni dopo. Oppure, in alternativa, con un nuovo "predellino" come quello di piazza San Babila (era il 18 novembre 2007) con cui l'allora Cavaliere annunciò la nascita del Popolo delle Libertà fingendo che tutto fosse casuale. Stavolta, però, il "predellino" del Colle dovrebbe essere a Roma, vicino al Palazzo. Sta di fatto che per far eleggere Berlusconi al Colle è stata creata una war room ad Arcore. Chi ne fa parte contatta parlamentari, aggiorna il pallottoliere e studia le mosse della comunicazione. Si articola su due livelli: il primo è quello di coloro che tengono l'agenda e si occupano di andare alla caccia dei parlamentari e ne fanno parte Tajani, Licia Ronzulli, il capogruppo di Forza Italia alla Camera Paolo Barelli, Sestino Giacomoni e Andrea Orsini; il secondo invece sta più in alto ed è formato dalle tre eminenze grigie di Berlusconi: Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Marcello Dell'Utri. Hanno il compito di agganciare i leader di partito e di capire le mosse degli avversari di Berlusconi al Colle, a partire dal premier Mario Draghi. Niente è lasciato al caso. Ogni mossa del leader di FI è studiata nel minimo dettaglio, dagli auguri di Natale e Capodanno fino alle interviste rilasciate ai giornali, lette e rilette dai suoi spin doctor anche per una settimana. Obiettivo: lisciare il pelo al M5S ("il reddito di cittadinanza aiuta i poveri"), ai peones del Misto ("Draghi deve rimanere a Chigi, se eletto c'è il voto") o ai centristi cattolici (vedi la mozione al Parlamento Ue contro le persecuzioni in Myanmar). Ogni frase è rivolta a un singolo parlamentare. La priorità è trovare i voti in Parlamento. Poi, se nel vertice del 10 gennaio i suoi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni decidessero di puntare su di lui, a ridosso della prima "chiama", ci sarà l'annuncio. Che potrebbe arrivare con un videomessaggio stile '94: un discorso breve, da 3-4 minuti, in cui il leader di Forza Italia si rivolgerebbe agli italiani invocando speranza per un 2022 migliore fatto di "vaccini per tutti", la ripartenza del Paese e la pacificazione nazionale dopo "trent' anni di guerra politica". "Un nuovo sogno italiano" dovrebbe essere lo slogan. In questo caso sarebbe registrato ad Arcore o a villa Grande. L'altra opzione che sta prendendo piede ad Arcore è quella di una breve dichiarazione a tv e stampa da fare nei pressi dei palazzi della politica romana per ufficializzare la sua candidatura. Un segnale è arrivato venerdì con gli auguri di fine anno. Se Matteo Salvini ha ringraziato Mattarella rilanciando i referendum sulla giustizia e lavora per un vertice con i leader del centrodestra entro una settimana, Berlusconi non ha mai nominato il capo dello Stato. Dopo aver sentito l'amico Vladimir Putin al telefono, l'ex premier si è rivolto al Paese ergendosi a presidente in pectore: "Che il 2022 sia l'anno della rinascita, della ripresa, del ritorno alla serenità", ha scritto Berlusconi sui social. Resta un piccolo problema: i voti che gli mancano. E Giovanni Toti, che dovrebbe portargli in dote i 31 di "Coraggio Italia", già lo avverte: "Se non fa bene i conti, Berlusconi rischia di fare la fine di Prodi". Il suo peggiore incubo».

PRODI CELEBRA I 20 ANNI DI EURO

A proposito di Romano Prodi, il prof bolognese dedica il consueto editoriale domenicale sul Messaggero alla ricorrenza ventennale dell’introduzione dell’euro.

«Lo stato moderno è da sempre fondato su due pilastri: la moneta e l'esercito. Quando, venti anni fa, i cittadini di dodici Paesi europei si sono trovati in mano la nuova moneta, ci si è resi immediatamente conto che si era di fronte non solo a qualcosa di assolutamente inedito, ma a un avvenimento che avrebbe cambiato in modo irreversibile la storia dell'Europa e, oltre ad essa, parte della storia del mondo. Condividere la stessa moneta non produce solo conseguenze economiche, ma assume un enorme significato politico: significa cambiare totalmente il concetto di sovranità, trasferendola dal livello nazionale al livello sovranazionale. Si trattava allora di un processo nuovo, di una portata tale che molti osservatori, soprattutto americani, lo ritenevano impossibile o comunque destinato a durare pochi mesi, al massimo pochi anni. Forse perché, anche se in modo non dichiarato, la nascita dell'Euro avrebbe avuto il risultato di riequilibrare i rapporti di potere nel mondo, ridimensionando quello che era da molti definito lo strapotere del dollaro. Ricordo come, durante i lunghi anni di preparazione dell'Euro, i presidenti cinesi erano spasmodicamente attenti a questo nostro progetto, non tanto nella prospettiva della facilitazione dei loro rapporti commerciali con l'Europa, ma in quanto, come si esprimevano in modo esplicito, se accanto al dollaro vi fosse stato l'Euro vi sarebbe stato posto anche per il Renminbi cinese. Da un lato del mondo l'Euro era quindi considerato come un errore passeggero della storia mentre, dall'altro, era visto come un'innovazione che avrebbe potuto cambiare la politica mondiale, trasformandola da un sistema monopolare, dominato dal dollaro, in un sistema multilaterale. L'Euro, dopo venti anni, non solo esiste ancora, ma è adottato da 19 Paesi, è la moneta comune per 360 milioni di europei, viene trattata in Euro una quota crescente dei pagamenti internazionali e oltre un terzo delle nostre banconote circola al di fuori della zona dell'Euro. Un successo quindi molto superiore a quello previsto dai pur numerosi premi Nobel che lo pensavano destinato a morire nella prima infanzia. Tuttavia un ruolo non ancora alla pari del dollaro, come era nelle nostre speranze, nonostante l'Euro sia la moneta esclusiva di un numero di persone maggiore di quelle che adottano il dollaro. Gli obiettivi non sono pienamente raggiunti perché, dopo i primi anni di grande progresso, le divisioni fra i Paesi europei hanno reso impossibile una risposta adeguata di fronte alla crisi finanziaria mondiale e hanno rallentato il processo di armonizzazione delle politiche economiche che avrebbe dovuto accompagnare l'unione monetaria. Il cammino dell'Euro si è tuttavia rianimato negli ultimi anni, con la perdita di vigore dei partiti populisti e, soprattutto, con le inedite e provvidenziali decisioni di politica economica comune che hanno dato vita al Next Generation Eu. Dopo vent' anni l'Euro è quindi forte e adulto, ma per mettersi alla pari del dollaro ha bisogno di camminare ancora, deve essere sostenuto dalle necessarie riforme delle regole di bilancio dei Paesi aderenti e da un'unione bancaria in grado di rendere il mercato finanziario europeo paragonabile a quello americano. Un cammino ancora lungo, complesso ma che, ormai impossibile da interrompere, costituirà, insieme al necessario esercito comune, l'obiettivo fondamentale della nuova Europa. In questo mio ricordo dei primi vent' anni dell'Euro non poteva certo mancare una breve riflessione sull'Italia che, se fosse rimasta fuori dal nuovo assetto monetario, sarebbe stata espulsa dall'intero sistema politico europeo. Nessuno dei nostri partner era di fatto disposto a tollerare ancora un paese che fondava le proprie esportazioni su una continua svalutazione della propria moneta, così come l'Italia non poteva più contare sulla svalutazione della lira, invece di puntare sul progresso tecnologico e sull'aumento di produttività. Il tumultuoso avvicendarsi dei nostri governi e le ripetute crisi politiche dello scorso decennio, hanno impedito la messa in atto delle riforme che avrebbero dovuto accompagnare i cambiamenti prodotti dall'entrata in vigore della nuova moneta e hanno quindi molto rallentato il nostro cammino nei confronti degli altri membri dell'Euro. Il Next Generation Eu ci fa però concretamente pensare che la nuova solidarietà europea renderà il ruolo dell'Euro crescente nel mondo, così come renderà urgenti le riforme di cui il nostro paese ha bisogno per recuperare il terreno perduto nei confronti dei Paesi europei che, nel recente passato, sono stati ben più virtuosi di noi. Abbiamo finalmente disponibili le risorse necessarie, godiamo di una fiducia dei nostri alleati europei che prima ci mancava: dobbiamo solo confermare che l'attuale impegno per le riforme non solo non verrà meno, ma sarà più rapido ed intenso. Questo è il modo migliore con cui il nostro Paese può celebrare il compimento del ventesimo anno di una delle più importanti decisioni della sua storia politica. Da parte mia non potevo in questi giorni dimenticare che vent' anni fa, come Presidente della Commissione Europea, ebbi l'opportunità di fare il primo acquisto di tutta la storia dell'Euro. Ricordo che, in visita a Vienna, ospite del Cancelliere austriaco, proprio nella notte del 1 gennaio, abbiamo battezzato la nuova moneta comprando un mazzo di rose per le nostre mogli. La più grande soddisfazione personale che mi ha dato l'Euro è stato di potere ripetere la stessa operazione a venti anni di distanza, con la stessa moneta e gli stessi sentimenti».

PAPA FRANCESCO: PRIMO DISCORSO DEDICATO ALLE DONNE

Il 2022 è iniziato per Papa Francesco nella Basilica di San Pietro con la Messa dedicata a Maria, occasione per toccare il tema della violenza contro le donne. "Tessiamo fili di comunione che contrastino i fili spinati delle divisioni" ha anche detto il Papa. La cronaca di Paolo Rodari per Repubblica.

«Come Sergio Mattarella ventiquattro ore prima di lui, anche Papa Francesco chiede con forza che si fermino i femminicidi: «Quanta violenza c'è nei confronti delle donne! Basta!», dice nella omelia del primo gennaio che apre in Vaticano il nuovo anno. E aggiunge: «Ferire una donna è oltraggiare Dio». La sponda col Quirinale che da tempo trova espressione su più temi, si riverbera nella basilica di San Pietro anche su un tema più che ricorrente nel pontificato in corso, la violenza maschile contro le donne giudicata dal Papa un crimine contro l'umanità e nello steso tempo un oltraggio a Dio. Sono diverse le notizie di violenza che arrivano a Papa Francesco da tutto il mondo. Vescovi, sacerdoti e anche laici riportano casi incresciosi di fronte ai quali il vescovo di Roma non resta indifferente. Già a Buenos Aires, Bergoglio interveniva in difesa delle donne schiave della tratta, sfruttate dalla prostituzione, costrette a mercificare il proprio corpo. E in Argentina, come a Roma, continua a tenere il genere femminile al centro del suo magistero. Poco prima di Natale, non a caso, ha citato il lavoro del giornalista di Vatican News Salvatore Cernuzio - "Il velo del silenzio" (San Paolo) - che racconta degli abusi di potere, di coscienza e anche sessuali all'interno di ordini, monasteri e istituti religiosi, che portano donne e ragazze a spegnere il fuoco della vocazione e abbandonare il percorso religioso intrapreso, anche dopo anni. E più volte ha ricordato il fatto che la stessa Chiesa sia «donna». Sul volo di ritorno dagli Stati Uniti, nel settembre del 2015, disse che «nella Chiesa le donne sono più importanti degli uomini, perché la Chiesa è donna». Nella messa celebrata a Santa Marta il 21 maggio 2018 replicò dicendo che la Chiesa «è madre e se viene a mancare questo tratto "femminile" diviene un'associazione di beneficenza o una squadra di calcio». E così ieri: «La Chiesa è madre, la Chiesa è donna. Non possiamo trovare il posto della donna nella Chiesa senza rispecchiarla nella donna madre, questo è il posto della donna nella Chiesa». Per Francesco sono le donne che più gli uomini che sanno tenere assieme sensibilità diverse, senza alimentare e soffiare sui conflitti: «C'è bisogno di gente in grado di tessere fili di comunione, che contrastino i troppi fili spinati delle divisioni», dice ancora ieri nella festività in cui viene celebrata la Giornata Mondiale della Pace. Dopo la messa, durante l'Angelus in piazza San Pietro, il Papa ringrazia sia la Cei sia la Comunità di Sant' Egidio per le iniziative messe in campo: «Il mondo - dice - cambia e la vita di tutti migliora solo se ci mettiamo a disposizione degli altri, senza aspettare che siano loro a cominciare a farlo. Se diventiamo artigiani di fraternità, potremo ritessere i fili di un mondo lacerato da guerre e violenze». L'empatia del Papa con le donne ha radici lontane nel tempo. Importanti sono state nella sua vita diverse figure femminili, fra tutte le sue due nonne Maria e Rosa, e anche sua madre Regina. In Vaticano, Papa Francesco ha affidato responsabilità importanti alle donne, continuando una politica già fatta propria da Benedetto XVI».

ERIC ADAMS NUOVO SINDACO DI NEW YORK

L'insediamento del nuovo sindaco di New York. L’ex poliziotto Eric Adams giura nella festa di Times Square per il nuovo anno. La cronaca di Massimo Gaggi per il Corriere.

«L'era di Bill de Blasio è finita e quella di Eric Adams, il nuovo sindaco, è iniziata a mezzanotte a Times Square, durante la tradizionale festa di Capodanno (ripristinata dopo la cancellazione di un anno fa causa Covid, ma limitata a 15 mila spettatori per precauzione sanitaria). Bill ha ballato in piazza con la moglie Charlene tra i fuochi d'artificio mentre il conduttore televisivo Andy Cohen, telecronista dell'evento per la Cnn insieme ad Anderson Cooper, lo salutava con uno sfrontato « sayonara sucker » (addio babbeo), dopo aver definito il suo secondo mandato in municipio «il più schifoso» della storia di New York. Subito dopo sul palco allestito tra i tabelloni luminosi è salito Adams, secondo sindaco nero della città dopo David Dinkins che, tenendo in mano un'immagine della madre Dorothy, scomparsa nella primavera scorsa, ha giurato su una copia della Bibbia sorretta dal figlio. Costretto, in una città stremata che affronta l'ennesima emergenza con i 40 mila contagi quotidiani da variante Omicron, a rinunciare alla cerimonia inaugurale in calendario ieri nel King' s Theatre di Brooklyn, Adams ha scelto di fare tutto all'aperto in Times Square, sfruttando il momento del benvenuto al nuovo anno per dare un tono più gioioso a un evento che altrimenti rischiava di svolgersi in un clima cupo. Figlio di una donna delle pulizie che ha tenacemente allevato sei figli, il 61enne Adams, poliziotto per 22 anni prima di entrare in politica e divenire presidente del borough di Brooklyn, si è presentato alla città come il suo primo sindaco blue collar , cioè operaio. E col suo «New York is back» ha promesso svolte rispetto alla città dei sindaci «colletti bianchi». Ma non sarà facile riportare all'aspetto scintillante di qualche anno fa una città nella quale la criminalità ha rialzato la testa con omicidi, rapine, stupri e violenze domestiche ai massimi degli ultimi dieci anni (anche se siamo lontani dai livelli disastrosi degli anni Ottanta) e nella quale la disoccupazione è al 9,4 per cento. Un livello più che doppio rispetto alla media nazionale perché New York è stata colpita molto più del resto d'America dalla pandemia: paralisi del turismo, industria essenziale per la città, e grattacieli degli uffici di Midtown e del Distretto finanziario semideserti perché i dipendenti di molte società ormai lavorano stabilmente da casa, lontano dal centro. In periferia, a Long Island, nella valle dell'Hudson o, addirittura, fuori dallo Stato: in New Jersey o in Connecticut. Adams ha provato a «caricare» i suoi concittadini esaltando la resilienza di New York, passata attraverso tante crisi potenzialmente mortali - l'ultima, vent' anni fa, l'attacco terroristico alle Torri Gemelle - e sempre risorta: «Abbiamo vissuto tanti momenti Pearl Harbour, dalla Grande Depressione all'emergenza Covid, e ne siamo sempre venuti fuori. L'energia di New York è inesauribile: ce la faremo anche stavolta». E, per dare il segno di una partenza «operaia» e a passo di carica, ieri, Capodanno, Adams ha preso la metropolitana dalla sua casa di Brooklyn di buon mattino, è arrivato in municipio alle 8 e mezzo e alle nove ha presieduto la prima riunione dei suoi assessori. Poi, prima conferenza stampa serale nel commissariato del 103° distretto di polizia di Jamaica, nel quartiere di Queens, un luogo per lui simbolico: qui, da ragazzino, venne picchiato dalla polizia. Fu allora, ha sempre raccontato, che decise di diventare lui stesso un agente: per cercare di cambiare le cose».

LA SOPPRESSIONE DI MEMORIAL GRAVE ERRORE DI PUTIN

Sergio Romano commenta la messa al bando della Ong russa Memorial, nella sua consueta rubrica diplomatica: “il patriottismo di Putin sbaglia a zittire la storia”.

«Memorial, l'istituzione moscovita di cui un tribunale russo ha decretato la morte negli scorsi giorni, ha avuto per qualche decennio nella storia del Paese una parte molto importante e ammirevole. Fu creata il 28 gennaio 1989 e il suo primo presidente fu Andrej Sacharov, uno scienziato che aveva avuto un ruolo decisivo nella costruzione della bomba atomica e negli esperimenti nucleari degli anni successivi; ma era diventato negli anni seguenti (insieme alla moglie, Elena Bonner) un tenace paladino della pace, un coraggioso difensore dei diritti umani, una delle voci più critiche del regime. Elena Bonner non era da meno e si dimostrò col passare degli anni ancora più tenace e combattiva. Sacharov era stato esiliato a Nizhny Novgorod, una città nella zona del Volga, e condannato al silenzio, ma durante il segreteriato di Gorbaciov ricevette un giorno nella sua casa un tecnico che aveva avuto l'ordine di installarvi un telefono (sino ad allora gli era stato proibito). L'apparecchio squillò qualche ora dopo e Sacharov apprese dalla voce di Michail Gorbaciov che il suo esilio era finito. Tornato a Mosca si dedicò con Elena non soltanto alla difesa dei diritti umani e civili, ma anche alla ricerca dei luoghi (carceri e lager) che erano stati teatro dei peggiori crimini staliniani. Memorial fu fondato nel dicembre 1989, quasi un anno dopo la morte di Sacharov, e Elena Bonner morì nel giugno del 2011 a Boston, negli Stati Uniti, dove era divenuta molto popolare. Memorial intanto ha continuato a operare secondo i principi dei suoi fondatori ed è diventato un nemico di Vladimir Putin. Il presidente della Russia non è mai stato comunista e non difende Stalin. Ma la sua ideologia è il patriottismo e non può dimenticare che l'URSS fu una grande potenza, uno dei maggiori protagonisti della scena mondiale, mentre Stalin era la sua guida nella sua vittoriosa guerra contro Hitler. Putin ritiene che le iniziative di Memorial mettano in cattiva luce il suo Paese ed è convinto (non sempre a torto) che i nemici della Russia se ne servano per meglio screditarla agli occhi del mondo. Per sbarazzarsi degli eredi di Sacharov e Bonner, Putin ha voluto una legge con cui ogni istituzione che critica la storia sovietica deve «confessare» di essere «straniero» perché sostenuto finanziariamente da un altro Stato. Memorial, beninteso, non gli ha obbedito ed è caduto negli artigli di un magistrato putiniano. Il patriottismo di Putin può essere comprensibile e talora persino scusabile. Ma non quando sopprime una istituzione che ha avuto tanti meriti nella storia del suo Paese e non merita di essere zittita».

REPORTAGE DAL MESSICO: IL CHIAPAS RISCHIA LA GUERRA CIVILE

Reportage di Lucia Capuzzi inviata a San Cristóbal per Avvenire. La situazione del Chiapas, stato meridionale del Messico, sull’orlo della guerra civile.

«Il Chiapas è sull'orlo della guerra civile». Parola del Subcomandante Galeano, meglio noto come Subcomandante Marcos, nome che ha abbandonato nel 2014 per assumere quello di un compagno assassinato, il maestro Galeano appunto. Dietro il passamontagna, però, è sempre lui, il docente di città, Rafael Guillén Solís, "non volto" simbolo - lo ha sempre tenuto coperto - dell'Ejercito zapatista de liberación nacional (Ezln). Ventotto anni dopo l'insurrezione del movimento indigeno al grido «terra e dignità» per i nativi del Chiapas - i tre quarti della popolazione -, tenuto ai margini da un sistema latifondista semi-feudale rimasto immutato nei secoli, il conflitto dilania di nuovo lo Stato più meridionale e più povero del Messico. Da qui la preoccupazione dell'Ezln, espressa nell'ultimo comunicato ufficiale del 19 settembre scorso. E reiterata di continuo in via informale. La situazione è grave nonostante lo "scudo sociale" che il movimento zapatista è riuscito a costruire intorno all'oltre un migliaio di comunità locali sotto il suo controllo, in base agli accordi di pace del 1997. «Entità autonome rispetto al governo da cui non accettano sussidi, il principale strumento di corruzione. Non vivono di assistenza ma grazie a progetti di autoproduzione. E sono rette da regole proprie che vietano di coltivare e commerciare droga e di trafficare migranti e impegnano gli abitanti a curare la natura. Le decisioni sono prese con un sistema collettivo e la criminalità trova poco spazio per infiltrarsi», spiega Arturo Lomelí, antropologo e ricercatore sociale dell'Università autonoma del Chiapas, tra i maggiori esperti di zapatismo. Nel resto del territorio, è stato il patto tra i principali gruppi delinquenziali - in particolare cartello di Sinaloa e Zetas - e autorità a tenere lo Stato in posizione defilata nella narcoguerra che da due decenni devasta il Paese. La "pax mafiosa" era funzionale a garantire la stabilità di uno degli snodi cruciali del traffico di droga e di migranti dal Sud del Continente. Con la scomparsa de Los Zetas e l'irruzione del cartello di Jalisco Nueva Generación, l'equilibrio criminale, però, si è incrinato. A farlo saltare del tutto, le elezioni amministrative dello scorso giugno che hanno ridefinito la mappa politica. Elemento quest' ultimo cruciale, dato che in Messico, fin dal principio, il crimine non è nato né in opposizione né in assenza delle autorità nazionali, bensì con la loro cooperazione. Ancor più in uno Stato dove il potere è in mano a proprietari terrieri e politici fedeli, abituati a utilizzare guardie armate per tenere a bada i contadini. Ora, questi gruppi paramilitari sono diventati manodopera per i narcos. Risultato, si sono moltiplicati i gruppi armati e gli attacchi nei confronti dei civili. Migliaia e migliaia di persone sono state costrette alla fuga. Questo ha determinato la nascita di formazioni di autodifesa, con il rischio di un'ulteriore escalation. «Sono un effetto dell'offensiva sferrata dalla criminalità organizzata», racconta padre Marcelo Pérez, parroco del popolo tsotsil della chiesa di Guadalupe, a San Cristóbal, tra le figure più impegnate per la costruzione della pace nella regione. Ruolo che lo porta a vivere sotto perpetua minaccia. Uno dei suoi più stretti collaboratori, il catechista e attivista Simón Pérez, è stato assassinato a luglio. «Il killer ha confessato che poi sarebbe dovuto toccare a me. Ma non ho paura. Il sangue dei costruttori di pace non resta sterile». Anche le comunità zapatiste sono nel mirino. Almeno cinquanta di loro - secondo Lomelí - hanno subito aggresioni. L'Ezln, però, è deciso a proseguire la sua «lotta per la vita». Una resistenza radicata in ambito locale, basata sul rafforzamento del tessuto sociale. E, per questo, spesso, invisibile. Come dimostra la scelta di non fare incontri pubblici durante il tour europeo appena terminato. A parlare è, invece, María de Jesús Patricio Martínez alias «Mary Chuy», leader del Congresso indigeno nazionale, tagliata fuori all'ultimo dalle ultime presidenziali per motivi burocratici. «Quando cresce la violenza, con i suoi progetti di morte, come ora, aumenta anche la nostra determinazione a combatterla. Senz' armi, ma con molta forza».

BURKINA FASO, LA VIOLENZA ISLAMISTA

Nel Burkina Faso continuano gli assalti jihadisti. Monsignor Pier Giorgio Debernardi lancia un appello: «Dobbiamo sostenere le scuole danneggiate». Da Dakar Matteo Fraschini Koffi per Avvenire.

«Decine di persone sono rimaste uccise nell'ultimo attacco jihadista del 2021 in Burkina Faso avvenuto il 23 dicembre. Nonostante il grave bilancio registrato lontano dai riflettori della stampa internazionale, tali massacri fanno parte di una lunga serie di violenze che dal 2016 hanno causato la rapida implosione del Paese un tempo più stabile nella regione del Sahel. Da nord a sud, da est a ovest, l'intero territorio burkinabé è infatti sotto assedio. «Almeno 41 persone hanno perso la vita due giorni prima di Natale», aveva riferito un comunicato delle autorità locali. «L'attacco è stato lanciato vicino alla cittadina settentrionale di Ouahigouya, a pochi chilometri dalla frontiera con il Mali». Secondo le ricostruzioni, i jihadisti hanno preso di mira commercianti e miliziani dei gruppi di auto-difesa dei villaggi. A causa dei gravi livelli di insicurezza, il presidente burkinabé, Roch Kaboré, ha licenziato a inizio dicembre il primo ministro e cambiato la leadership militare. Varie località del Paese sono state teatro di proteste contro Kaboré, il quale è accusato dalla popolazione di non saper gestire la crisi da quando è salito al potere sei anni fa in seguito alla cacciata dell'ex presidente, Blaise Compaoré. «Decine di migliaia di profughi stanno vivendo da anni nei campi tendati senza sapere se potranno tornare nelle loro case - spiega monsignor Pier Giorgio Debernardi, 77 anni, vescovo emerito di Pinerolo ma residente a Ougadougou dal 2017 -. Nella zona di Kaya cerchiamo di aiutare con progetti legati soprattutto al sistema scolastico danneggiato dall'insicurezza». Dal 2017 sono infatti state chiuse circa 2.500 scuole che per ora non hanno speranza di essere aperte nuovamente. «In questi giorni mi sono recato tre volte a Kaya dove all'inizio gran parte degli sfollati vivevano ammassati in uno stadio della cittadina -continua il religioso piemontese -. Ho inoltre incontrato il parroco di Dablo, cittadina nel nord, la cui chiesa era stata attaccata nel 2019 dai jihadisti e dove ora non c'è più anima viva». Il Burkina Faso è stretto nella morsa di numerosi gruppi di radicali islamici affiliati ad al-Qaeda e al Daesh. Secondo gli esperti sono stati «oltre 2mila i morti e più di un milione i profughi» dall'inizio delle violenze. I miliziani islamici, responsabili di decine di sequestri di persona, hanno attaccato civili, luoghi di culto e molte basi militari, uccidendo centinaia di soldati. Per questo il governo ha sostenuto la formazione di controversi gruppi di autodifesa come i Volontari per la difesa della patria ( Vdp). Questi ultimi sono stati spesso massacrati ma, secondo alcune organizzazioni per i diritti umani, hanno anche partecipato a massacri contro alcune comunità estranee al jihadismo. La capitale, Ouagadougou, è stata inoltre presa di mira tre volte tra il 2016 e il 2018 dagli islamisti che hanno provocato decine di morti e feriti. I loro attacchi hanno colpito bar, hotel, il Parlamento e alcune ambasciate».

AFRICA, I MERCENARI AGLI ORDINI DI MOSCA

L’Africa dei mercenari è quella della Wagner, una compagnia privata di mercenari russi e armata fantasma di Vladimir Putin. Domenico Quirico per La Stampa.

«C'è l'Africa dei cinesi, tutta materie prime e contratti con qualche ambizione imperialistica ma ancora timida, per metà sì e per metà ni; c'è l'Africa francese ormai decadente e azzoppata da penurie di bilancio impegnata a perderla, si spera, con un certo garbo; c'è l'Africa jihadista efficacemente votata all'andirivieni del convertire, destabilizzare e nuocere. E poi c'è l'Africa della «Wagner», compagnia privata di mercenari russi e armata fantasma di Putin, tutta baccano di kalashnikov e luccichio di miniere, che sta silenziosamente riempiendo gli spazi lasciati in bianco dai vecchi padroni del continente. Un'altra pista, con Siria e Ucraina, del revival imperiale sovietico. Perché si cura del saccheggio di risorse ma anche del controllo politico dei piccoli caudilli locali. I veri-falsi mercenari della Wagner non assomigliano certo ai politicamente ottusi mastini della guerra delle ultime convulsioni dell'Africa bianca. Dalla Libia al Mozambico, dal Centrafrica al Sudan al Sahel, ormai i russi spuntano ovunque, in battaglia e nei palazzi presidenziali, hanno lacchè nei ministeri che contano, che in Africa son quelli che controllano le materie prime. Attenti: il soft power di Putin, dalla forma molecolare, impressionista e diffratta è già ingombrante, offre una alternativa ai piccoli despoti africani con cui un tempo bastava una telefonata da Parigi o Washington perché si dileguassero ammansiti. Il Mali è un esempio: ufficialmente i russi non ci sono, sono un fantasma. Ma in realtà sono lì da ottobre chiamati dalla giunta al potere per fronteggiare i jihadisti e garantire «sicurezza». Si dice che il capo dell'aeronautica li preferisca a quegli arroganti dei francesi. Un dispetto a Parigi che sta ritirando l'Armée. La fattura sarà pesante: dieci milioni di dollari al mese per mille uomini. Ma a Bamako, come sempre con la Wagner, è arrivata anche la intendenza: ovvero un gruppo di geologi che fanno prospezioni nella promettente zona aurifera di Menankoto, nel Sud. Sotto le concessioni ci saranno le firme di società minerarie russe, legate ovviamente alla Wagner. Parigi ha fatto scorrere molta saliva diplomatica e inchiostro militare minacciando ritorsioni. Poi si è rassegnata a coabitare coi russi. Gli americani si disinteressano. Forse bisognava analizzare meglio quanto è accaduto in Centrafrica. A maggio del 2020 lo stadio «Boganda» di Bangui è stracolmo, non per una partita di calcio. Migliaia di persone aspettano di vedere in film: «Touriste». L'azione non manca: battaglie, agguati, sparatorie nella savana, gli eroi «salvatori dell'Africa», sono i russi della Wagner, i cattivi sono neri e indigeni, i ribelli del Centrafrica, feroci, bruttissimi e per di più musulmani. Muoiono a migliaia tra gli applausi e le maledizioni del pubblico. Anche qualcuno degli amici russi muore: ma eroicamente come nelle tavole di Achille Beltrame, fino all'ultimo respiro da una mano ai volenterosi soldatini del presidente Toudéra. Cinema patriottico staliniano ed effetti speciali. Successo. Il film è stato prodotto per il Centrafrica da un personaggio tipico dell'era putiniana, autoritario e opportunista, violento e carrierista, Evgeni Prigojine. Se si evoca il nomignolo, «il cuoco del Cremlino», gli si fa torto. Non c'è nulla da ridere sulla sua gastronomia autocratica: l'uomo che ha fatto i soldi nella Mosca malavitosa degli anni Novanta con fast food e hot dogs (ma è anche finito in galera per truffa e sfruttamento della prostituzione) è un intimo di Putin. Al Cremlino entra non certo dalle cucine per il catering, che gli rende contratti di miliardi. È lui che ha preso in mano la gestione imprenditoriale della Wagner, all'inizio affidata a happening muscolari di ottusi ex militari delle forze speciali e barbe finte del Gru. Con Prigojine la Wagner è diventata un successo politico e imprenditoriale, l'Africa è il suo esotico businnes, una occasione da non perdere. A Bangui ha salvato il presidente ma cura anche l'immagine: è un posto dove metter radici, le guerre si vincono prima di tutto nelle teste di quelli che stanno a guardare. Fa infatti distribuire una rivista gratuita, «Il foglio volante del presidente», ha creato una radio e distribuito per i bambini un cartone animato di successo: la storia di un simpatico orso russo che viene a salvare gli animali della foresta messi in pericolo dalle iene. Anche i pargoli congetturano l'allusione. Non è sfuggita al «cuoco» nemmeno la ghiotta sponsorizzazione del concorso di miss Centrafrica. A Bangui ormai mancano solo i soviet per respirare il remake degli anni Sessanta. Quelli della Wagner sul campo di battaglia funzionano? Hanno ricacciato i temibili ribelli della Coalizione dei patrioti. Non fatevi ingannare, sono banditi anche loro, fanno capo all'ex presidente Bozizé. Il copione africano: tribù, politici canaglie, potere e appunto miniere. La Wagner ha solo copiato un ordito di buon tessuto: quello della Cia che usava soldati privati per eliminare nel cortile di casa presidenti e regimi antipatici. I metodi dei russi sono brutali. Li inseguono accuse di requisizioni abusive, stupri, sequestri, torture esecuzioni sommarie. Fabbricano vedove e orfani, sono un incubo senza sonno. In fretta hanno adottato i metodi delle guerre africane. Il governo di Bangui non può permettersi di indagare sulle accuse. Le candeggia attribuendo violenze e delitti ai ribelli. La Wagner mette paura anche alle sgangherate fanterie alleate: se sono poco combattive i russi le spingono all'attacco con raffiche di mitra. Chi non si presenta in caserma in orario è considerato disertore: son cose mai viste in Africa, neppure al tempo dell'Empire. I russi giorno dopo giorno stringono i bulloni del controllo politico. Al vecchio palazzo dove Bokassa, paranoico Nerone equatoriale copiava le follie napoleoniche e conservava in frigorifero gli avversari fatti a pezzi, comandano i discreti ma autoritari manager delle società russe. Piazzano ai ministeri i loro simpatizzanti locali come nei bei tempi dell'Urss. Sono già passati alla «stabilizzazione» ovvero al controllo delle dogane e dell'esercito dove sono loro che distribuiscono decorazioni e saccheggi. Lo stesso modello è applicato nei Paesi che hanno chiesto aiuto alla Wagner (e al Cremlino). In Sudan dove i mercenari hanno dato una mano nel 2013 a tenere a bada le piazze in rivolta. Tre società russe sono state pagate con vaste concessioni minerarie. In Libia i mercenari a fianco di Haftar (tra i 600 e i duemila nel periodo della fallita offensiva contro Tripoli) hanno impiegato armamenti pesanti come droni, carri armati e cacciabombardieri. Hanno costruito la Maginot di sabbia che, esaurita la commedia delle elezioni democratiche, segnerà il nuovo confine cirenaico. Un investimento in geopolitica e petrolio. Scenario più complesso in Mozambico dove i mercenari sono stati chiamati nell'agosto del 2019 dal governo per liberare la provincia di Cabo Delgado invasa da un gruppo jihadista. Bisognava salvare le succulente vene petrolifere che imbottiscono le prospezioni delle grandi compagnie, compresa l'Eni. Anche qui la mandibola mineraria ha attirato i guerrieri a contratto. I jihadisti si sono rivelati però un avversario troppo duro: i russi, mal organizzati, hanno subito perdite. Ma ad uccidere alcuni mercenari sarebbero stati i soldati mozambicani per vendicare violenze e saccheggi».

MORTO LUIGI NEGRI, VESCOVO EMERITO DI FERRARA

È morto all’età di 80 anni Luigi Negri, vescovo emerito di Ferrara-Comacchio. Docente all'Università Cattolica, era stato allievo di don Giussani e fra i suoi primi collaboratori. Mercoledì le esequie con Zuppi. La cronaca di Avvenire.

«È stato l'arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, insieme con il clero diocesano ad annunciare la morte del suo predecessore, Luigi Negri. L'arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio aveva 80 anni ed è deceduto nella casa di cura della Sacra Famiglia a Cesano Boscone, nell'hinterland di Milano, dove il presule era ricoverato. La notizia è stata resa nota venerdì 31 dicembre e Perego lo ha ricordato nella Messa nell'ultimo giorno dell'anno invitando l'intera comunità a pregare per lui durante le celebrazioni di ieri. Pastore dal piglio energico e senza peli sulla lingua, fra i primi e più stretti collaboratori del fondatore di Comunione e Liberazione, don Luigi Giussani, aveva assunto sia negli anni del suo episcopato, sia dopo la rinuncia al governo pastorale posizioni forti e talvolta divisive su alcuni temi (dai migranti alla po-litica, dall'omosessualità al rapporto con l'islam) fino alle critiche al magistero e alla persona di papa Francesco. Anche se poi, nel vortice della polemica, aveva affermato: «Il Papa non si contesta e non si adula». Benché si considerasse un «propugnatore dell'ortodossia» cattolica, negli ultimi anni si era avvicinato alle posizioni del dissenso sposando parti delle teorie dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò e sottoscrivendo nel 2020 l'appello "Veritas liberabit vos", pubblicato da alcuni siti anticonciliari, per chiedere che la pandemia non fosse «il pretesto» per «ledere i diritti inalienabili » tra cui la «libertà di culto, di espressione e di movimento». Scelte che però non possono mettere in ombra la sua «preferenza » verso «l'educazione di generazioni di giovani », la sua «passione missionaria che non perdeva occasione di richiamare al popolo cristiano» e il suo «fervore culturale che si è tradotto in un'intelligente lettura della modernità alla luce dell'avvenimento cristiano», ricorda in una nota Davide Prosperi, presidente "ad interim" della fraternità di Cl. Nato a Milano il 26 novembre 1941, Negri aveva frequentato il liceo classico Berchet del capoluogo lombardo dove aveva incontrato l'amico e ispiratore don Giussani, suo insegnante di religione. Dopo esserne stato uno dei primi allievi, era entrato a far parte del movimento Gioventù Studentesca. «Da quando è rimasto travolto da giovane dall'incontro con don Giussani, si è instancabilmente dedicato alla costruzione del movimento di Cl con intelligenza e affezione», sottolinea Prosperi. E aggiunge: «Ha così contribuito con dedizione a far crescere la nostra compagnia in tutta Italia». All'Università Cattolica di Milano Negri si era laureato a pieni voti in filosofia nel 1965, discutendo una tesi sul problema della fede e della ragione in Tommaso Campanella. Nel 1967 l'ingresso nel Seminario ambrosiano e nel 1972 l'ordinazione sacerdotale a Milano con l'imposizione delle mani del cardinale arcivescovo Giovanni Colombo. Ottenuta la licenza in teologia e fino all'ordinazione episcopale, era stato docente di introduzione alla teologia e storia della filosofia all'Università Cattolica. Nel 2005 la nomina a vescovo di San Marino-Montefeltro da parte di Giovanni Paolo II verso il quale Negri ha sempre nutrito un particolare attaccamento. Ricevuta la consacrazione episcopale dal cardinale Dionigi Tettamanzi, aveva scelto come motto le parole Tu, fortitudo mea. Nel 2012 era stato nominato padre sinodale al Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione. E nel dicembre 2012 Benedetto XVI lo aveva voluto arcivescovo di Ferrara- Comacchio, Chiesa che Negri avrebbe guidato fino al 2017 quando aveva lasciato per raggiunti limiti di età. Le esequie si terranno mercoledì alle 10 nella Basilica di San Francesco a Ferrara, presiedute dal cardinale Matteo Zuppi».

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