Apocalisse rinviata
Non c'è stato il Venerdì nero che si temeva. Il G-day fila liscio fra proteste civili e boom di assenteismo. Polemiche sulla piazza pro Cgil, Calenda non va. Deputato Gb ucciso. Sinodo di "riforma"
I giornali tirano in ballo l’Italia nei titoli di stamattina. Grande enfasi per dire che ieri è andato quasi tutto molto liscio. Non è stata l’ora fatale, che era stata dipinta e temuta per settimane: in realtà gli italiani, nella stragrande maggioranza, hanno saggiamente aderito al Green pass come strumento per ritornare a vivere socialmente, da un bel pezzo. Da ieri accade anche sui posti di lavoro. Certo ci sono state le proteste, ma sono “fenomeni limitati”, come direbbe Mattarella. Bello il reportage di Fausto Biloslavo da Trieste sul Giornale che offre uno spaccato di chi si oppone.
Oggi sarà un’altra giornata di manifestazioni, dominata da quella in solidarietà con la Cgil convocata a Roma. Già nei giorni scorsi Antonio Padellaro sul Fatto aveva criticato la scelta di scendere in piazza alla vigilia del voto. Oggi Carlo Calenda, leader di Azione, spiega che alla fine non aderirà per la strumentalizzazione politica che il sindacato di Landini sta producendo. Intanto la Meloni torna ad accusare la Lamorgese proprio per l’assalto di una settimana fa.
In realtà la politica non è solo agitata dal Consiglio dei Ministri di ieri che ha visto una spaccatura sul reddito di cittadinanza. La polemica sul no Green pass e il voto amministrativo lasciano sul campo il riaffacciarsi dei 5 Stelle “vecchia maniera” (copyright Il Fatto): Beppe Grillo (che aveva chiesto “pacificazione” e tamponi gratis) spinge contro il Governo, mentre Virginia Raggi si blinda comunque all’opposizione dell’eventuale Sindaco Pd. Conte appare un vaso di coccio fra i due, checchè ne dica il guru del Pd romano Bettini sul Fatto. Il centro destra (risultato di Michetti a parte) appare molto diviso e confuso. Aggiungiamo un altro elemento: i pochi colleghi inviati al seguito del Presidente della Repubblica nel viaggio in Germania, appena rientrati, raccontano di una certa aria di smobilitazione al Quirinale. Tutti i segnali vanno nella stessa direzione: Sergio Mattarella sa essere molto deciso e tiene fede, di solito con tenacia, alle decisioni già prese. Il trasloco pare certo. Insomma l’inverno che sarà, dopo il voto amministrativo, è tutto da scoprire.
Dall’estero campeggiano due notizie drammatiche: un deputato conservatore inglese è stato ucciso in chiesa da un somalo e in Afghanistan c’è stato un nuovo attentato terroristico dell’Isis-K in una moschea, durante la preghiera del venerdì, per di più a Kandahar, tradizionale roccaforte dei Talebani. Per la Bbc il Sinodo aperto da Papa Francesco è un “ambizioso tentativo di riforma cattolica”, sul tema c’è un interessante articolo del Vescovo Massimo Camisasca su Avvenire.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Oggi si impone una notizia. La Repubblica la sintetizza così: Il G-Day passa il primo test. Ma la parola più usata in tutti i titoli oggi è la parola Italia. La usano Avvenire: L’Italia è Sì-Pass, il Corriere della Sera: Green pass, l’Italia non si ferma, il Quotidiano Nazionale: Pochi disagi, l’Italia non si è fermata, Il Mattino: Sì Pass, la vera Italia, Il Messaggero: Riparte l’Italia del Green pass, e anche Libero: Vince l’Italia che lavora. Stesso tema, ma con un taglio decisamente diverso Il Fatto: Effetto Green pass: più test e finti malati. Mentre la Verità che aveva previsto da settimane il “Green caos” elenca: Un Green pass, quattro autogol. Il Giornale vira sul contrasto in Consiglio dei Ministri: Ci salviamo dai No Vax ma non dal reddito 5S. Mentre La Stampa ha già trovato la nuova emergenza: Reddito di cittadinanza, governo in tilt. Sulla manifestazione di solidarietà alla CGIL vanno il Domani: La piazza antifascista di tutti quelli davvero contro Forza Nuova. E il Manifesto, che con una foto di bandiere rosse propone lo slogan: Ora è sempre. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sulla materia concreta delle decisioni economiche: Decreto fiscale, ecco tutte le novità.
NON È STATO UN VENERDÌ NERO
Non è stato poi così nero, com’era stato dipinto, il venerdì primo giorno dell’obbligo el Green pass sui posti di lavoro. L’Italia non si è fermata, le proteste sono state civili e non hanno creato disagi. Michele Bocci e Viola Giannoli per Repubblica sintetizzano così:
«Non tutte le piazze si sono riempite, l'Italia non si è fermata e comunque i timori della vigilia sui problemi di ordine pubblico sono tutti rientrati. Nessun revival del sabato di fuoco a Roma con gli scontri in centro e l'assalto squadrista alla Cgil, anzi proprio nella capitale, al Circo Massimo, si sono visti anche gesti distensivi con i fiori regalati ai poliziotti. Altrove invece si è invece esagerato. A Bologna, in una piazza Maggiore gremita da 7 mila manifestanti, uno degli organizzatori ha definito l'obbligo di Green Pass «fascismo 2.0» e poi ha accusato la senatrice Liliana Segre di tradire la sua storia e il suo passato appoggiando il certificato verde. «Una donna che ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia. Dovrebbe sparire da dove è». Di «attacchi vergognosi» hanno parlato il Pd, Italia Viva e i Cinquestelle, tra gli altri. I manifestanti No Green Pass sono scesi in piazza anche a Genova, Ancona, Firenze, Udine, Torino, Bolzano, Trento e altre decine di città. I cori «Libertà, libertà», «No Green Pass» si sono mescolati alle grida contro il premier Mario Draghi. Qualcuno ha sventolato il tricolore. A Pesaro alcune persone hanno srotolato uno striscione con su scritto: «Non iniziò con le camere a gas. Iniziò con i politici che dividevano le persone in "noi" e "loro"». A Cagliari invece alcuni cittadini hanno preso di mira il corteo: da un palazzo hanno lanciato secchiate d'acqua sui manifestanti. Uno dei pochi momenti di tensione del G-day, la prima prova superata».
Sul Fatto Alessandro Mantovani ammette che è andato tutto liscio ma sottolinea il vergognoso boom dell’assenteismo. E prevede che alla lunga i tanti tamponi richiesti diventino un problema.
«Il primo giorno del Green pass obbligatorio è scivolato via tra manifestazioni anche corpose senza danni, qualche incidente con i lavoratori a cui è stato impedito di entrare in uffici e fabbriche, cinque autisti del trasporto pubblico allontanati a Napoli perché trovati senza certificato verde, blocchi molto parziali in alcuni porti (come Ancona), un limitato numero di corse dei bus soppresse a Trento (210), a Como (il 6%) e in altre città. A Roma e altrove si sono formate lunghe code davanti alle farmacie per i tamponi: se dovessero chiederli tutti i lavoratori non vaccinati, il sistema collasserebbe. (…) Ma insomma, il Paese non si è fermato. Poi si vedrà. Perché in particolare nelle grandi aziende, specie quelle che non pagano i tamponi ai dipendenti non vaccinati, il problema rischia di emergere nel tempo, man mano che si dovranno fare i turni senza ricorrere ai tamponi ogni 48 ore, alle ferie (chi le ha) e alle malattie (chi può). Ecco, le malattie. Più delle vaccinazioni, con il Green pass sono aumentati i lavoratori assenti con certificato medico. Alle 12, secondo i dati Inps, nel pubblico e nel privato erano 47.393, in lieve aumento rispetto a due settimane fa (+5,5%) e assai di più (23,3%) rispetto a venerdì scorso. E poi i tamponi: se la sorveglianza sanitaria è sempre andata un po' a rilento, con il pass si fanno quelli che non abbiamo mai fatto. Anche in ambienti economici e di governo si prevede mano leggera sui controlli. Ieri, tra molecolari e antigenici, sono stati 506.043, il 55% in più rispetto a giovedì (324.614) e ben l'86% in più su venerdì 8 ottobre (271.566). E intanto il Viminale si è mosso per evitare il rischio di paralisi, domani, ai ballottaggi delle Comunali: presidenti e scrutatori esentati dall'obbligo del pass. Non c'è stato, almeno ieri, il disastro nell'autotrasporto paventato da alcune organizzazioni di categoria. Se ci ritroveremo con gli scaffali vuoti nei supermercati lo vedremo. La Confederazione nazionale dell'artigianato (Cna) ha rilevato problemi solo in Alto Adige, dove gli autisti non vaccinati sono tra il 5 e il 15%. Ha suscitato irritazione la circolare del ministero della Salute che consente agli autisti stranieri, per lo più dell'Est europeo, di condurre i mezzi sul territorio italiano ma senza scendere, nemmeno per scaricare. Gli italiani senza pass, invece, non possono nemmeno guidare. E poiché le tensioni sul dumping realizzato con gli autisti dell'Est risalgono a molto prima della pandemia, non potevano che acuirsi. Dalla Salute fanno sapere che si sta discutendo nell'Unione europea di un lasciapassare per chi si è vaccinato con il russo Sputnik e il cinese Sinovac. L'altro versante caldo è nei comparti sicurezza e difesa, che contano tra il 10 e il 20% di non vaccinati concentrati in alcuni settori come i reparti mobili (ex celere) della polizia».
Giovanna Vitale su Repubblica intervista il segretario del Pd Enrico Letta, che rivendica la rappresentanza della “maggioranza silenziosa” che si è vaccinata e fa il suo dovere.
«Segretario Letta, nel giorno di entrata in vigore del Green Pass la temuta paralisi non c'è stata. Dal porto di Palermo alla Mirafiori di Torino, dove lei ha chiuso la campagna elettorale di Stefano Lo Russo, la partenza è avvenuta senza troppi intoppi. Se lo aspettava o pensava peggio? «Ero sicuro che la notizia di oggi sarebbe stata che gli italiani vogliono lavorare. Ne ero certo sia per le esperienze precedenti, penso al paventato blocco dei trasporti di un mese e mezzo fa che poi non c'è stato; sia perché, e questa giornata lo dimostra, la stragrande maggioranza dei cittadini intende andare avanti, lasciarsi alle spalle la pandemia e non farsi bloccare da un incomprensibile atteggiamento sfascista». Il Pd si è schierato fin da subito sulla linea della fermezza di Draghi. Mai avuto incertezze? «No perché restiamo convinti che il Green Pass sia la chiave per la ripartenza del Paese. Basta parlare con i ristoratori che pure all'inizio avevano dubbi: i locali sono tornati a riempirsi - così come i cinema, i teatri, gli stadi - proprio perché c'è il passaporto verde. È scattato il meccanismo per cui sicurezza fa rima con libertà, senza la prima non c'è la seconda. Ho sempre pensato che fosse la linea giusta e oggi se ne raccolgono i frutti». Nessun Paese al mondo ha introdotto una misura tanto restrittiva. A parte la Francia, dove però il Green Pass serve solo per svolgere alcune attività, né in Spagna né in Germania è richiesto sui luoghi di lavoro. Chi ha ragione? «In realtà molti Paesi stanno guardando alla soluzione italiana come quella più utile ed efficace per garantire la sicurezza sul lavoro e convincere gli indecisi a vaccinarsi. E siccome funziona, non bisogna farsi spaventare dalle piccole opposizioni rumorose». Restano tuttavia diversi focolai di tensione: a Trieste, a Genova, nei vari cortei anti-Green Pass che si annunciano. Il clima nel Paese si sta surriscaldando. Come se ne esce? «A me pare che ci sia la volontà da parte di qualcuno di buttare benzina sul fuoco. Ma è una minoranza che vuole strumentalizzare una situazione oggettivamente complessa e occorre essere molto netti nel dividere chi vuole alzare la tensione, l'estrema destra, da chi invece scende in piazza perché ha paura, è poco informato, e va convinto a vaccinarsi. Se c'è una cosa che mi preoccupa è il doppio disegno criminale che si intravede dietro gravissimi episodi come quello di sabato scorso a Roma: si vuole bloccare, destabilizzare il Paese, soffiando sulla crisi sociale innescata dalla pandemia. Per fortuna c'è stata una reazione forte e bisogna continuare così». E come si fa a convincere quei 3-4 milioni di lavoratori che non ne vogliono sapere? «Innanzitutto difendendo, come abbiamo sempre fatto noi, la maggioranza silenziosa che fa il suo dovere, si è vaccinata e vuol lavorare. Con l'esempio e la persuasione si possono ottenere grandi risultati. Da parte del Pd non c'è mai stata nessuna ambiguità, a differenza di altri che hanno invece zigzagato tra la responsabilità e lo strizzare l'occhio alla minoranza rumorosa e antiscientifica».
Alessandro Sallusti su Libero scrive chiaro: “Il messaggio di ieri è soprattutto al centro destra”.
«I cantori dei no vax, del tanto peggio tanto meglio, del "noi siamo vaccinati ma...", insomma i nemici di questo Paese avevano pronosticato un'Italia paralizzata, supermercati con gli scaffali vuoti, pompe di benzina esaurite, uffici pubblici in tilt, aziende ferme. Invece, come era ovvio, l'invasione delle cavallette non c'è stata e salvo qualche marginale e inevitabile intoppo il primo giorno di introduzione dell'obbligo di green pass sui luoghi di lavoro non ha avuto alcun effetto drammatico. Ha vinto l'Italia che lavora e che vuole continuare a farlo, ha vinto l'Italia responsabile su quella sfascista che voleva vederla in ginocchio e che sicuramente darà qualche colpo di coda nei prossimi giorni perché ignoranza e violenza vanno sempre a braccetto. La fermezza del presidente Draghi, il buon senso dei partiti che lo sostengono, e nel pubblico impiego la calma del ministro Brunetta, hanno avuto la meglio sui profeti di sventura che nella maggioranza dei casi vivono nel chiuso dei social e non nel mondo reale. I pochi episodi di ribellione accaduti rientrano più nella categoria del cabaret, o del narcisismo esasperato, che in quella di partigiani della libertà. Contiamo le teste in carne ed ossa, non i click su internet. E la conta, che in democrazia ha un senso, dice chiaramente che il green pass non costituisce nessun pericolo alla propria libertà per la stragrande maggioranza degli italiani. Un fastidio, certo può essere, ma insignificante rispetto alla prospettiva di finire in camera di rianimazione o a quella di perdere il lavoro. Io mi auguro che a questo punto anche gli esponenti di Centrodestra che in questi mesi hanno strizzato l'occhio ai no pass- qualcuno, ma parliamo di casi limitati e clinici, addirittura schierato con i no vax - prendano atto che gli italiani la pensano diversamente. Sogno un Centrodestra che si candidi a governare il Paese, non uno che si mette alla testa di una minoranza nella migliore delle ipotesi impaurita ma più probabilmente ignorante, ostile alla scienza e in cerca di un ruolo che altrimenti non avrebbe».
TRIESTE SOTTO I RIFLETTORI, A ROMA FIORI AGLI AGENTI
Grandi reportage e riflettori puntati di tutta la stampa italiana su Trieste. I portuali hanno protestato, ma chi voleva è riuscito a lavorare, con tanto di Green pass. La cronaca di un inviato d’eccezione (ha girato il mondo scrivendo di guerre) è quella del triestino Fausto Biloslavo sul Giornale.
«Dovemo fermar tuto e tuti» urla in dialetto Fabio Tuiach, pettorina gialla d'ordinanza dei lavoratori portuali, codino e naso schiacciato da pugile. Al valico numero 4 del porto di Trieste, la protesta contro il green pass è cominciata alle 6 del mattino, ma l'irriducibile di estrema destra non ci sta a far passare i pochi coraggiosi che non vogliono scioperare. «Se non lavoro io e neanche mia moglie dipendente di un supermercato, perché siamo No Pass, non devono farlo neanche gli altri», si inalbera Tuiach cercando di fermare un'utilitaria grigia infilata nella folla e più tardi ha tirato un pugno in faccia ad un altro portuale in uno scontro con l'ala di estrema sinistra. All'interno un pacato e barbuto dipendente del porto ribadisce: «Rispetto la loro protesta, che facciano lo stesso con me lasciandomi passare». I «fratelli» del Coordinamento lavoratori portuali di Trieste fermano Tuiach, che si consola agitando un rosario di Medjugorie e spiegando che «monsignor Viganò, vicino a Trump, e il direttore di Radio Maria» sono contro il green pass. I fan lo applaudono e lui ricorda «che in Europa è obbligatorio solo per noi stupidi italiani». La linea dei portuali duri e puri si è ammorbidita trasformando il blocco in sciopero e presidio. Chi vuole entra, ma a farsi largo fra la folla che aumenta sono neanche 10 macchine. I portuali cantano vittoria sostenendo che «su 800 sono andati a lavorare solo in 100». L'annunciata paralisi, però, è evaporata scontentando tanti No Pass e la protesta non si allarga ad altri scali strategici. A dettare la linea è Stefano Puzzer, portavoce dei portuali che ribadisce al Giornale: «Fino a quando non ritireranno il green pass manterremo questo presidio rispettando la libertà di scelta di tutti». Il capopopolo, detto Ciccio, è una star che signore attempate e nerboruti manifestanti rincorrono per immortalare con un selfie. Dopo qualche ora l'ingresso al porto si riempie con 6-7mila manifestanti No Pass, che arrivano dalla città, ma pure da Udine, Verona, Vicenza e Firenze. Tutti sono attratti dal clamore mediatico di Trieste «capitale No Pass». Le forze dell'ordine mantengono un basso profilo e vanno anche a prendere un caffè nell'improvvisata cucina da campo della manifestazione ricavata sotto un cavalcavia. «Prepariamo il cibo per la resistenza» dichiara Diego Sen, giovane cuoco che non vuole il vaccino. Un paio di pachidermi su ruote che trasportano merci devono fare marcia indietro davanti alla folla. I Tir vengono dirottati sul varco numero 1 del porto, che doveva essere pure presidiato. In realtà c'è solo un drappello di agenti e una fila di camion in attesa di entrare. La barriera umana in appoggio ai portuali è come sempre un mondo sorprendente. Quando si alza il sole c'è chi suona il corno come i vichinghi. Un vigile urbano non in servizio è convinto: «Bisogna eliminare la tessera verde, atto politico che di sanitario non ha nulla». Un signore con i capelli grigi si aggira sostenendo che «è tutto frutto dei satanisti». Loris Mazzorato già sindaco vicino a Treviso si presenta con una maglietta che riporta l'annuncio delle leggi razziali del 1938. Ex alpini cantano le strofe della Julia e un gruppetto indossa le magliette amaranto dei vigili del fuoco. I giornalisti bollati come «venduti» vengono presi di nuovo di mira. Sebastiano Grison, uno dei capi del Coordinamento dei portuali, sostiene che «siamo pronti a non lavorare fino al 31 dicembre, quando scadrà il decreto green pass. Per noi è un provvedimento criminale». La barriera umana, però, si indebolisce con il calare del buio. E una fonte del Giornale nelle forze dell'ordine spiega «che non verrà tollerata a lungo questa situazione. Siamo solo in attesa dell'ordine di sgombero».
Michele Serra nella su Amaca per Repubblica sfotte i triestini, che alla fine sono rimasti gli unici portuali sul piede di guerra: Genova, Livorno, Napoli e Gioia Tauro non hanno aderito alla mobilitazione.
«Sarà anche vero che le ideologie sono solo un retaggio del passato. Ma se prendete i portuali di Trieste e i portuali di Livorno, e valutate le differenti prese di posizione sul Green Pass e il blocco dei porti, non potete fare a meno di pensare che culture politiche differenti, in città con tradizioni politiche differenti, producono atteggiamenti differenti. A Livorno i portuali sono sembrati, diciamo così, un poco più portuali, l'accento preferiscono metterlo sulle dinamiche del lavoro, non certo sul Green Pass, accettato, come dalla grande maggioranza degli italiani, come una seccatura necessaria per tornare a una vita normale. A Trieste, forse suggestionati dai tempi e dai talk show, i portuali sono sembrati un poco più interessati alle polemiche sanitarie e antigovernative, magari ingigantite rispetto al loro effettivo peso. Come si dice nelle cronache, nella città giuliana non sono mancati momenti di tensione, però prontamente rientrati grazie al fatto che il momento di tensione era un giovanotto molto grosso, o forse anche lui ingigantito per l'occasione, che da solo voleva bloccare il porto. Ex leghista e poi esponente di Forza Nuova (chi l'avrebbe mai detto...), non è riuscito nel suo intento perché dissuaso, quasi con affetto, da un paio di colleghi meno prestanti, uno dei quali una ragazza, che devono avergli detto qualcosa come "dai, non fare il mona". Ha funzionato, a conferma che il buonsenso, per sedare tumulti e mitigare furori, funziona anche meglio della Celere. Il conflitto sociale è una faccenda molto seria, uno su mille non ce la fa, da solo, a buttarla in caciara».
LA PIAZZA ROSSA DI ROMA IN DIFESA DELLA CGIL
Carlo Calenda, leader del partito che a Roma ha ottenuto più voti, il 19 per cento, polemizza con Landini. Dice adesso a Luciano Capone che “non andrà in piazza”. Sempre oggi sul Corriere c’è un suo articolo programmatico, che trovate fra i pdf. Questo il colloquio col Foglio.
«Carlo Calenda non parteciperà alla manifestazione dei sindacati di oggi "contro i fascismi", a meno che non arrivino chiarimenti da Maurizio Landini. Calenda era stato tra i primi a manifestare solidarietà alla Cgil dopo l'assalto squadrista di sabato guidato da Forza nuova e ad aderire alla manifestazione dei sindacati, ma ha cambiato idea dopo aver visto la piattaforma della manifestazione pubblicata dalla Fiom, di cui ha parlato ieri il Foglio: oltre alla lotta al fascismo e alla violenza, anche lotta alla precarietà, alle disuguaglianze, "redistribuire il lavoro" e ridurre l'età pensionabile ( con Quota 41 o una nuova Quota 100). Cos' è che non va? "Sono tutte cose di una superficialità enorme. Cosa vuol dire ' redistribuire il lavoro'? - dice Calenda - E poi ridurre l'età pensionabile, quando in realtà il problema è opposto: mancano soldi su istruzione e sanità perché spendiamo troppo in pensioni e rischiamo di avere un sistema che tra 20- 30 anni diventerà insostenibile. Ma il vero problema è un altro". E cioè? "E' di metodo. Sono stato subito al presidio della Cgil, perché il sindacato è un'istituzione democratica che non può essere attaccata dai fascisti o da chiunque altro. Ho immediatamente aderito alla manifestazione unitaria, ma su questo punto. Mi trovo invece una manifestazione con un preciso elenco di politiche economiche non in sintonia con quello che penso e che pensa il governo Draghi. E' scorretto annunciare una manifestazione su un tema trasversale, a cui la destra avrebbe dovuto aderire, e poi farla diventare una piattaforma sindacale. Ho chiesto a Landini un chiarimento, se non arriva Azione non aderirà". Si può obiettare che è naturale che, dopo essere stata vittima di un'aggressione, la Cgil rilanci la sua piattaforma. "Doveva essere una manifestazione in difesa della democrazia e della Costituzione - dice Carlo Calenda - e così diventa una questione di lotta politica, fatta tra l'altro il giorno prima delle elezioni durante il silenzio elettorale. Così non va bene". Non va bene solo a lei? "Mi domando perché il Partito democratico, gli altri partiti che intervengono e gli altri sindacati che partecipano chiedano un chiarimento. Possibile che in questo Paese non riusciamo a fare una cosa seria sulla difesa delle istituzioni democratiche?". Magari c'è chi preferisce passarci sopra e partecipare lo stesso. "Noi no, non su quei punti. Abbiamo mobilitato tutti gli iscritti e i simpatizzanti e ci troviamo, il giorno prima, con l'oggetto della manifestazione parzialmente cambiato ad uso di una piattaforma sindacale. Non capisco perché abbiano fatto una cosa del genere". Tra l'altro si tratta di punti programmatici che toccano la discussione sulla legge di Bilancio che dovrà essere conclusa nelle prossime settimane. E molti dei quali, ad esempio sulle pensioni, sono contrari all'orientamento del governo. "Sono punti in cui la realtà viene affrontata con il tradizionalismo del sindacato e colpi di slogan, a partire dai giovani. Non è un problema che puoi liquidare con la redistribuzione del lavoro e abbassando l'età pensionabile". Nel programma non c'è un riferimento al green pass, ma è probabile che se ne parlerà vista l'attualità del tema. "Qui c'è un problema di fondo: il rapporto tra diritti e doveri. Una parte larga della politica ormai è totalmente sottomessa al pensiero sovranista e populista, che rivendica diritti ma non prevede doveri. E così tutte le misure di sanità pubblica sono coercitive e alla fine arrivi alla Fiom che si chiede ' perché ci hanno attaccato, se anche noi siamo contro il green pass?'". Il sindacato dice che è contrario al green pass ma è a favore dell'obbligo vaccinale. "L'obbligo comporterebbe il licenziamento immediato per chi non si vaccina, non si tutelano così i lavoratori". Infatti la Cgil ha chiesto che non ci sia una logica sanzionatoria. "E allora vuole un obbligo senza sanzione. E che obbligo è? Se è un obbligo morale per quello ci sono la religione e l'etica privata". In questo modo però si tira fuori dalla piazza antifascista. "Non è che per essere antifascista bisogna sottoscrivere tutto il programma della Cgil. Altrimenti finisce che chi è contro Quota 100 è fascista. Così si estremizza il dibattito e, soprattutto, è poco rispettoso per cosa è stato l'antifascismo". Quindi con tutta probabilità non parteciperà alla manifestazione. "Se non c'è una smentita è una certezza. Se da quel palco Landini parla di Quota 100, nazionalizzazioni e tamponi gratuiti è un grosso problema"».
Passato il venerdì nero del Green pass, c’è ancora preoccupazione al Viminale sull’ordine pubblico. Fiorenza Sarzanini per il Corriere.
«A tarda sera, quando si capisce che il primo giorno con l'obbligo di green pass per i lavoratori non è stato un venerdì nero, si tira un sospiro di sollievo. Ma è solamente il primo, appunto. Perché il fine settimana più complicato da quando Luciana Lamorgese è ministra dell'Interno non è finito. E perché la vera prova per l'ordine pubblico arriverà oggi, con 50mila persone in piazza a Roma per la mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil, manifestazioni in tutta Italia e l'incubo di nuove proteste segnate dalla presenza di estremisti e no vax. Le ultime relazioni della polizia di prevenzione e dell'intelligence sono rassicuranti, ma anche quelle trasmesse alla vigilia del raduno di sabato scorso lo erano e il risultato è stato disastroso. Ora si cerca di voltare pagina, di abbassare la tensione provocata da un dispositivo di sicurezza che una settimana fa non ha retto all'assalto di Forza Nuova e dei suoi seguaci. I leader - Roberto Fiore, Giuliano Castellino, Pamela Testa e Luigi Aronica - sono in carcere, ma questo non basta a rassicurare. E allora il piano messo a punto per contenere i violenti è quello di massima allerta, con circa 5.000 uomini schierati per vigilare piazza San Giovanni, blindare le sedi istituzionali e gli altri possibili obiettivi sensibili, sorvegliare i seggi elettorali che si apriranno domattina alle 7, presidiare arrivo e deflusso dei tifosi che nella capitale assisteranno alla partita Lazio- Inter. Dopo gli attacchi e le accuse dei giorni scorsi per le falle che hanno consentito l'assalto alla sede della Cgil e scontri tra manifestanti e forze dell'ordine nel centro storico di Roma andati avanti per ore, la ministra sa bene che la partita più delicata del suo mandato si gioca nelle prossime ore. Per questo le riunioni nel suo ufficio al Viminale con i vertici degli apparati di prevenzione e per la messa a punto delle misure di sicurezza con il capo della polizia Lamberto Giannini vanno avanti fino a sera. Oggi Roma sarà una città blindata con uno spiegamento di mezzi a presidio delle sedi e migliaia di uomini. Un cordone di protezione che sarà confermato nei prossimi giorni e ulteriormente potenziato - con altri 500 militari dell'operazione «strade sicure» - in vista del 30 ottobre, quando comincerà il G20 e la capitale sarà al centro della scena mondiale con l'arrivo dei capi di Stato e di governo e migliaia di persone al seguito. I blocchi stradali, i picchetti di fronte alle aziende, i sit-in di protesta di ieri hanno causato danni limitati, nessuno scontro con le forze dell'ordine. I timori per le prossime ore e per i prossimi giorni rimangono altissimi, così come i controlli nei confronti degli estremisti già noti proprio per le azioni del passato. Negli atti dell'inchiesta sull'assalto alla Cgil di una settimana fa è ben evidenziata «la presenza di componenti del movimento politico di estrema destra Forza Nuova provenienti anche da altre città che sin dall'inizio hanno incitato la folla - sia con le parole sia con i gesti - alla violenza». Sono loro, con gli esponenti di vertice dei movimenti no vax e no green pass, a rappresentare il pericolo maggiore anche per le azioni di disturbo che potrebbero aver pianificato per arrivare fino a piazza San Giovanni. L'accordo con gli organizzatori della manifestazione dei sindacati prevede prescrizioni rigide. Chi partecipa dovrà rimanere nella piazza, non potranno essere esposti simboli dei partiti e nessun politico salirà sul palco anche perché è giornata di silenzio elettorale. Consentito soltanto un piccolo corteo per chi arriva da fuori, che dall'Esquilino raggiungerà la vicina piazza San Giovanni, e sarà controllato anche dal servizio d'ordine della Cgil. Vietate a Roma tutte le manifestazioni di dissenso, che invece sono previste in altre città. Con la consapevolezza che sono proprio le azioni estemporanee a rappresentare il pericolo maggiore».
Giorgia Meloni torna a polemizzare proprio con la ministra Lamorgese. Lo fa con un’intervista alla Verità di Alessandro Rico.
«Deriva fascista fomentata dagli «irresponsabili» sovranisti, o strategia della tensione, allestita all'uopo dal governo per screditare l'unica opposizione parlamentare? Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, non ci sta a passare per la sobillatrice che, in qualche modo, ha ispirato i disordini dell'estrema destra di sabato scorso, a Roma. Respinge ogni tentativo di delegittimazione e, anzi, ribalta le accuse: «È stato il governo a surriscaldare il clima». Onorevole, un'informativa di polizia dimostra che i militanti di Forza nuova erano stati autorizzati a sfilare verso la Cgil. «Quanto accaduto è gravissimo. E ancora più grave sarebbe se il ministro dell'Interno avesse mentito in Parlamento, rispondendo alla richiesta di spiegazioni di Fratelli d'Italia». In che senso? «Luciana Lamorgese non ha spiegato come sia stato possibile che soggetti sottoposti a Daspo e con il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche siano andati ad arringare la folla sul palco. Lo stesso ministro, che fa effettuare perquisizioni a casa di chi scrive dei post sui social contro il green pass, non ha reputato di fermare, la mattina prima dei disordini, questi delinquenti. Grazie anche alla Verità è ora venuta alla luce la gravissima circostanza che il corteo, finito con l'assalto alla Cgil, è stato concordato con i responsabili dell'ordine pubblico. Autorizzato, dopo che il leader di Forza nuova, Giuliano Castellino, aveva annunciato le loro intenzioni violente. Quindi le violenze non sono solo state solo permesse. Sono state agevolate». I giornali non hanno dato particolare risalto a quella carta. E chi ne ha parlato, l'ha usata per dire che non c'è alcuna regia dietro gli scontri, ma semplicemente degli «errori». «La linea di difesa sull'operato della Lamorgese è che non c'è stato un complotto e quindi sono solo incapaci. Non mi sembra il massimo». Il ministro dovrebbe dimettersi? «Il ministro si sarebbe già dovuto dimettere per l'incapacità dimostrata nel contrastare l'immigrazione illegale di massa, per la morbidezza dimostrata nei confronti di delinquenti e criminali mentre si usava il pugno duro nei confronti dei cittadini onesti, colpevoli solo di contestare le misure insensate del governo. Si sarebbe dovuta dimettere dopo lo scempio del rave illegale durato giorni e questo ultimo atto di piazza del Popolo è un ulteriore macigno sulla credibilità delle istituzioni italiane». Quindi? «Mi aspetto che il Pd, il M5s e la sinistra abbiano la decenza di ammettere i propri errori, di chiedere scusa per aver tentato di gettare sull'opposizione responsabilità che sono esclusivamente del governo, e di far dimettere la Lamorgese seduta stante. E mi chiedo anche come faccia Mario Draghi a tenere al Viminale un ministro del genere in quello che veniva definito "il governo dei migliori"».
VIGILIA DEL VOTO, COME CAPIRE CHI VINCERÀ
Al di là dei comizi, sui giornali di oggi c’è una piccola guida “scientifica” per poter capire lunedì come andrà veramente il voto del secondo turno delle amministrative. Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore.
«Il primo turno delle comunali ha espresso due verdetti. La mancanza dei dati completi sui comuni sotto i 15mila abitanti ci costringe a ragionare solo sugli esiti nei 118 comuni superiori. In questo aggregato il verdetto è parziale, perché sono ancora 61 i comuni al voto, ma il risultato è solido. Il secondo verdetto riguarda la distribuzione dei voti tra i partiti. Questo è un verdetto certo, perché al ballottaggio non si votano le liste, ma altamente aleatorio sia per la bassa affluenza sia per la presenza di un 21,8% di voti andati a liste civiche, sia per l'effetto-candidati. Nei 118 comuni in cui si è votato con il sistema elettorale a due turni è opportuno distinguere l'insieme dei 6 comuni capoluogo di regione dagli altri comuni, vista la loro importanza e l'attenzione dei media. Nel primo di questi due aggregati, le sei grandi città, il Pd ha ottenuto una vittoria netta che potrebbe diventare ancora più netta dopo i ballottaggi di domenica e lunedì. È arrivato primo in cinque casi su sei. Solo a Roma è arrivato terzo dietro alla lista di Azione e a quella di Fdi. Ha già vinto in tre città. Domenica molto probabilmente vincerà a Roma e forse anche a Torino. Il risultato finale potrebbe quindi essere 4 a 2 o 5 a 1. Comunque vada, un successo che il dato dei voti alle liste conferma. In percentuale il Pd è risultato di gran lunga il partito più votato. Con il suo 19% supera la somma di Lega e Fdi (18,8%). Insieme al partito di Letta, Fdi è l'altra forza politica che può ritenersi soddisfatta. Non ha vinto in nessuno dei grandi comuni e il suo candidato non vincerà a Roma, mentre a Trieste e a Torino, dove il centrodestra può vincere, i candidati in corsa non sono suoi. Però con il suo 12,8% ha raddoppiato in percentuale sia i voti presi alle Europee del 2019 sia quelli presi alle comunali del 2016. Ed è l'unico partito ad averlo fatto. I perdenti sono Lega e M5s. Il dato relativo al partito di Salvini è particolarmente negativo. Tanto negativo da non essere credibile. Non è possibile che la Lega oggi abbia nei 6 comuni capoluogo solo il 6,8%. Molti fattori hanno giocato contro in questa tornata elettorale. Purtroppo mancano ancora oggi i dati di sezione di Milano e Roma (detto per inciso, è incredibile che il comune di Napoli abbia messo on line tempestivamente i dati ma non Milano e Roma). In ogni caso i flussi calcolati dal Cise e dal Cattaneo su Torino, Bologna e Napoli concordano nell'indicare che la Lega ha perso molto verso l'astensione oltre che verso Fratelli d'Italia. Non sono voti persi definitivamente. Ma il dato di oggi segnala inequivocabilmente che la Lega è in difficoltà. Questo è il verdetto sui 6 capoluoghi. Il verdetto sui 118 comuni superiori ai 15mila abitanti è più sfumato. Sono 57 quelli in cui il sindaco è già stato scelto. In 42 casi si tratta del sindaco uscente che si è ricandidato. La distribuzione delle vittorie è questa: 24 centrosinistra, 18 centrodestra, 4 destra (senza Forza Italia), 1 M5s, 1 sinistra (senza Pd), 9 civici. Disaggregando i dati per area geografica si vede che le coalizioni di centrosinistra prevalgono chiaramente su quelle di centrodestra nella ex Zona Rossa (8 vittorie contro 2) e nel Sud (11 vittorie contro 1), mentre al Nord prevale chiaramente il centrodestra (15 vittorie contro 5). È un quadro che denota un sostanziale equilibrio tra l'area di centrosinistra-sinistra e quella di centrodestra-destra, 25 vittorie della prima contro le 22 della seconda. Un bilancio quindi ben diverso da quello emerso dal voto nei 6 comuni capoluogo. E questo nonostante il fatto che le percentuali di voto ai singoli partiti nell'insieme dei 118 comuni non siano sostanzialmente diverse da quelli che abbiamo già citato a proposito dei 6 comuni capoluogo. Un po' più bassa per il Pd (19%), per il M5s 6,3% e per Fdi (11,1%); un po' più alta per la Lega (7,7%); praticamente la stessa per Forza Italia (5%). Cosa succederà domenica e lunedì nei 61 comuni superiori in cui si vota? È difficile fare previsioni. Il secondo turno è una competizione completamente diversa da quella del primo. È una sfida a due, dove conterà molto non solo mobilitare i propri elettori ma anche convincere a votare chi ha votato per uno dei candidati esclusi dal ballottaggio. Da questo punto di vista i casi di Torino e Roma sono i più interessanti. Quando si avranno a disposizione i dati di sezione si vedrà cosa avranno fatto gli elettori di Calenda e Raggi a Roma e quelli della Sganga a Torino. L'ipotesi più attendibile è che una quota di loro si asterrà mentre tra quelli che andranno alle urne saranno più i voti per candidati di centrosinistra che per quelli di centrodestra. Al secondo turno centrosinistra e centrodestra fanno la parte del leone. Sono 41 i candidati di centrosinistra, di cui 23 si sono classificati al primo posto, e sono 40 quelli di centrodestra, di cui 18 sono risultati primi. Anche in termini di sfide le più numerose (26) sono quelle tra i due schieramenti maggiori a conferma del fatto che il sistema si sta di nuovo assestando su un formato bipolare. Il M5s sarà presente solo in 9 ballottaggi. In due casi affronterà candidati di centrosinistra e in quattro casi quelli di centrodestra. Ma a proposito del partito di Conte il dato rilevante è che solo in 29 comuni su 118 si è presentato insieme al Pd. Non è un bel segnale sullo stato dei rapporti tra i due maggiori partiti del centrosinistra».
APPROVATO IL DECRETO SUL FISCO, SCINTILLE SUL REDDITO
Confronto duro ieri al Consiglio dei Ministri, che ha approvato un decreto legge con nuove norme fiscali e sul lavoro. La cronaca di Enrico Marro sul Corriere.
«Prima lo scontro con le Regioni sulle competenze in materia di sicurezza sul lavoro, poi quello tra Lega e 5 Stelle sul rifinanziamento del Reddito di cittadinanza. Il Consiglio dei ministri, convocato per ieri alle 11 per approvare il decreto legge con norme fiscali e contro gli infortuni sul lavoro, è cominciato con un paio d'ore di ritardo per via della riunione tra il governo e le Regioni sull'articolo 15 della bozza di decreto dedicato alle misure per combattere la piaga degli infortuni sul lavoro. Si è discusso soprattutto delle norme che rafforzano le competenze dell'Ispettorato nazionale del Lavoro a scapito delle Asl. Le Regioni, contrarie a questa sottrazione di competenze, considerano la partita non chiusa. Così come non è chiusa la partita sul Reddito di cittadinanza, dove c'è stato scontro in Consiglio dei ministri. In particolare, i ministri della Lega hanno contestato il rifinanziamento di 200 milioni per il 2021 del sostegno ai poveri. «È beffardo usare i soldi di chi ha lavorato duramente per una misura simile», ha attaccato il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, che poi ha telefonato a Matteo Salvini, ieri a Torino per la campagna elettorale. «Dovremo intervenire sul Reddito di cittadinanza - ha detto il leader della Lega, che ieri dopo il cdm lo ha ribadito con una telefonata al premier Draghi -. Garantirlo a chi non può lavorare è sacrosanto, ma il tema sono gli abusi che oramai sono quotidiani. È tutto da rivedere, perché sono 8 miliardi di spesa. Con quei fondi quante assunzioni farebbero le imprese?». A difesa del Reddito si sono schierati i ministri Stefano Patuanelli, titolare dell'Agricoltura e capo delegazione dei 5 Stelle, e il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd). «Ogni giorno - ha poi replicato il leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte - Salvini e Meloni si svegliano e lottano contro i sostegni alle famiglie in difficoltà economica». Fonti del Movimento attaccavano inoltre il ministro dello Sviluppo: «Mentre la nostra viceministra Todde cerca di chiudere la vertenza Whirlpool Giorgetti è in campagna elettorale a Varese, insultando i cittadini sotto la soglia di povertà. Che torni a Roma a lavorare». La partita non è affatto conclusa perché, al di là dei 200 milioni per il 2021, si tratta di decidere cosa fare dal 2022. La Lega, Fi e Italia viva sono per una forte stretta al Reddito, che comporterebbe un drastico taglio degli stanziamenti, i 5 Stelle si oppongono, il Pd è per correttivi importanti ma che non mortifichino la spesa. Anche il premier Draghi,è per una riforma, che da un lato elimini gli abusi e dall'altro leghi il sostegno a precise condizioni di reinserimento lavorativo e sociale dei beneficiari. La legge di Bilancio 2022 sarà approvata dal Consiglio dei ministri la prossima settimana.».
Ma qual è davvero la posizione di Draghi? Il premier prepara modifiche alle clausole che limitano l'accesso al reddito di cittadinanza e l'assegno potrebbe cominciare a scendere dopo un certo lasso di tempo. Annalisa Cuzzocrea per Repubblica.
«Il reddito di cittadinanza resta, ma deve cambiare. La posizione di Mario Draghi è questa ed è una sorta di via mediana tra le richieste del centrodestra - «non funziona, aboliamolo» - e quelle di M5S e Pd, secondo cui l'unica parte da rivedere riguarderebbe le politiche attive del lavoro. In realtà, le modifiche proposte - già oggetto di riunioni tecniche con i ministri delle diverse forze politiche - sono di più. Il presidente del Consiglio avrà una serie di incontri, la prossima settimana, proprio su questo tema. Perché non si tratta solo di far funzionare i centri per l'impiego, impresa titanica finora mai riuscita a nessuno. Si tratta prima di tutto di potenziare di molto le clausole ostative, quelle che impediscono di avere accesso al sussidio, come le condanne o la mancanza di cittadinanza continuativa. A cambiare, dovrà essere proprio la natura dei controlli, che - dice un esponente di governo - «adesso sono fatti dopo, a campione, tutti in carico all'Inps». L'idea è quindi quella di aggredire anomalie e irregolarità e di correggere il più possibile alcuni degli elementi distorsivi prodotti. Ad esempio, il fatto che - soprattutto nelle aree più difficili del Paese - possa diventare un incentivo a non lavorare. Ci sarà quindi quello che nelle riunioni tecniche hanno cominciato a chiamare «décalage»: l'assegno potrebbe cominciare a scendere dopo un determinato lasso di tempo e si dovrà trovare un modo per incentivare le persone che lo ricevono ad accettare anche lavori meno redditizi di quanto non accada. Perché l'effetto denunciato - ancora ieri in Consiglio dei ministri - dal fronte che si oppone alla misura, è che la platea invece di contrarsi, come avrebbe dovuto essere se le politiche attive avessero funzionato, si allarga. Rendendo alla lunga l'impianto insostenibile. Quando Giancarlo Giorgetti prende la parola durante la discussione sul decreto fiscale, protestando per il rifinanziamento di 200 milioni presi da altri fondi, le parole del ministro dello Sviluppo leghista vengono subito sostenute prima dal forzista Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica, e poi dalla titolare della Famiglia Elena Bonetti, di Italia Viva. Un fronte compatto, cui hanno cercato di fare argine sia il ministro del Lavoro Andrea Orlando sia quello dell'Agricoltura Stefano Patuanelli. Ricordando entrambi - per conto del Partito democratico e del Movimento 5 stelle - quanto il reddito di cittadinanza abbia significato, anche in termini di tenuta sociale, durante questo lungo periodo di pandemia. Draghi interviene. Rimanda la discussione alla legge di Bilancio. Ricorda, a tutti, che le politiche attive devono cambiare non solo rispetto al reddito, ma con una riforma ben più organica e profonda. Un pezzo fondamentale della prossima manovra. Ma in tutto questo, gli equilibri del governo rischiano di vacillare. I 5 stelle, dopo le amministrative, sono in grande difficoltà. Giuseppe Conte, molto in ritardo con il varo della struttura che dovrà sostenere il nuovo Movimento, sembra preoccupato di coprire l'area su cui oggi lo sfida Virginia Raggi. Non può permettersi cedimenti su misure simbolo come il reddito, dopo aver dovuto incassare la fine del cashback. «Giù le mani », ha reagito subito ieri, attaccando Salvini e Meloni che «ogni giorno si svegliano e lottano contro i sostegni dello Stato alle persone e alle famiglie in difficoltà economica ». Solo qualche settimana fa, Beppe Grillo era tornato a chiedere il reddito universale, predicando un ampliamento della misura, non certo una sua contrazione. Quindi, politiche attive a parte, i 5 S non possono permettersi troppi correttivi senza rischiare nuovi sconquassi interni. Il Pd li sostiene, ma fino a un certo punto. E dall'altra parte, il centrodestra non farà passi indietro. La Lega - che deve accettare la fine di Quota 100 e ha perso la sua battaglia sul Green Pass - ha bisogno di uno scalpo da agitare. La lotta contro la misura è diventata uno dei primi obiettivi, tanto da aver portato a proporre un referendum abrogativo insieme a Matteo Renzi e Italia Viva. Non sarà quindi semplice, per Draghi, tenere insieme posizioni così distanti. Com' è successo per la Giustizia, resteranno scorie, e non saranno facili da smaltire».
Anche Francesco Verderami sul Corriere, nel suo consueto retroscena, ragiona su che cosa dovrà fare il Presidente del Consiglio, dopo voto di domani.
«La priorità di Draghi è mettere in sicurezza le riforme, seguendo il crono- programma che ha impostato. Ma ora il raggiungimento dell'obiettivo si fa più faticoso, sebbene il premier sapesse che questo momento sarebbe arrivato. Le Amministrative hanno incrinato l'equilibrio su cui poggia la maggioranza, e in fondo il titolare della Difesa era stato facile profeta un mese fa: «Se il voto produrrà un risultato sbilanciato a favore di una parte - disse Guerini ad alcuni dirigenti del Pd - le ripercussioni tra partiti si scaricheranno nei rapporti e nell'azione di governo». Ieri lo scontro sul rifinanziamento del reddito di cittadinanza in Consiglio dei ministri è stato il segno visibile della tensione che sta montando. Il punto non è capire come mai la norma contestata dal centrodestra e da Iv fosse stata tenuta «nascosta» durante la riunione preparatoria in cabina di regia. Il tema è la friabilità del quadro politico. Finora Draghi aveva sostenuto che «gli atti divisivi non vengono dal governo» - dove è sempre riuscito a comporre una soluzione - «ma dall'attività del Parlamento», con il gioco delle mozioni usate dai gruppi come strumento di competizione. Una tattica contro la quale Palazzo Chigi aveva trovato le contromisure. Il cambio di fase però ha indotto il premier a cambiare il metodo di lavoro che applicava fin dai tempi della Bce, e che aveva adottato con successo appena giunto alla presidenza del Consiglio. Se l'ha fatto è perché deve adesso trovare il modo di superare i problemi politici, evitando che diventino un intralcio per i suoi obiettivi. La difficoltà del passaggio è stata evidenziata dieci giorni fa dal presidente di Confindustria, in un'intervista passata (quasi) inosservata nel Palazzo: «La spinta per le riforme che aveva contraddistinto la prima fase del governo - ha detto Bonomi a Zapping - si è rallentata. E noi non possiamo permettere che la politica blocchi questo processo, perché siamo davanti a un'occasione storica». Nelle stesse ore, durante una riunione di Iv, il ministro Bonetti accreditava questa tesi, riconoscendo «il rischio che ci sia chi mira a rallentare il percorso delle riforme. Per quanto possiamo, dobbiamo impedire una simile deriva: questi sono i metodi di una vecchia politica che si legittima solo attraverso la contrapposizione». Era chiaro a chi si riferisse, così come noti i tornanti che l'esecutivo dovrà affrontare. Già la prossima settimana c'è la legge di Bilancio e Draghi sarà chiamato a una mediazione complessa: dal reddito di cittadinanza, che il centrodestra e Iv non accetteranno di rifinanziare ancora; alla flat tax e «quota Cento», che sono indigeste al blocco giallorosso. E non c'è dubbio che si arriverà a un'intesa, siccome non accadrà nulla fino alla conclusione della corsa al Colle. Lì si concentra l'attenzione dei partiti: gli occhi sono puntati su Draghi. E il fatto che il consigliere giuridico di Mattarella, Cabras, sia passato ieri al Consiglio di Stato, è vissuto come un ulteriore segnale che l'attuale presidente della Repubblica non intende farsi rieleggere. Mancano tre mesi a quell'appuntamento. Il problema è che per allora Draghi vorrà aver completato «i compiti a casa» del governo. Il clima di tensione nella maggioranza potrebbe però rallentare l'iter delle riforme. Sulla revisione degli ammortizzatori sociali, per esempio, i partiti sono sulle barricate: altro che revisione del jobs act, il progetto di Orlando è giudicato «inaccettabile» dal leghista Giorgetti, dai forzisti e dai centristi, perché «sembra scritto dai sindacati» e «ricaccerebbe il sistema indietro di cinquanta anni». Spetterà al premier spegnere il cerino, mentre tutto il governo attende di conoscere la riforma della Concorrenza, che tocca gli interessi dei partiti e che Draghi (non a caso) tiene ancora top secret».
GB: DEPUTATO CONSERVATORE UCCISO IN CHIESA
La prima notizia dall’estero è drammatica: un deputato britannico, David Amess, è stato ucciso in una chiesa da un 25enne di origini somale. Luigi Ippolito sul Corriere.
«Ancora un deputato britannico accoltellato a morte, cinque anni dopo l'assassinio di Jo Cox: Sir David Amess, 69 anni, è stato ucciso ieri a colpi di pugnale all'interno di una chiesa metodista, durante un incontro con gli elettori della sua circoscrizione. La polizia ha arrestato un 25enne di origine somala: e sul suo gesto indaga ora l'antirerrorismo, il che vuol dire che non si esclude la matrice politica, possibilmente islamica. Tutto si è svolto in pochi secondi attorno a mezzogiorno, nella cittadina di Leigh-on-Sea, nella contea dell'Essex. Sir David si stava intrattenendo con i concittadini quando un giovane è stato visto entrare di corsa nella chiesa, brandendo un coltello: il somalo si è avventato contro il deputato e lo ha colpito più volte. Immediati i soccorsi, ma non c'è stato nulla da fare: Amess è spirato prima che potesse essere trasportato in ospedale. Immediate le reazioni di choc e orrore da parte del mondo politico. Il primo ministro Boris Johnson ha ricordato «una delle persone più gentili che ci fossero in politica», che «promuoveva leggi per aiutare i più vulnerabili». E infatti Amess, che sedeva in Parlamento da quasi 40 anni, era unanimemente apprezzato da tutti gli schieramenti, al di là delle divisioni di partito. E ciò nonostante il fatto che fosse un ultra-conservatore, euroscettico della prima ora e strenuo sostenitore della Brexit. Amess, di fede cattolica, aveva anche votato contro l'introduzione dei matrimoni gay e contro l'aborto; ma dall'altro lato era un convinto animalista che aveva sostenuto diversi provvedimenti a favore del benessere degli animali e si era pure schierato contro la caccia alla volpe, a differenza della maggioranza dei suoi colleghi conservatori. Nel 2015 era stato fatto Sir dalla regina per i suoi meriti al servizio del pubblico. Amess era particolarmente amato dagli elettori della sua circoscrizione, con i quali intratteneva un rapporto strettissimo. Ma ieri lo speaker del Parlamento ha detto che sarà necessario rivedere le regole di sicurezza per i deputati in pubblico: e questo perché, mentre attorno a Westminster si erge un cordone invalicabile, i politici sono vulnerabili e senza scorta quando si mischiano con i cittadini. Questo è uno dei cardini del sistema democratico britannico: in virtù del sistema uninominale, i deputati sono innanzitutto dei rappresentanti locali che vivono del rapporto diretto con gli elettori. Questo fa sì che gli onorevoli trascorrano parte della settimana nella propria circoscrizione, impegnati nelle cosiddette «surgery», incontri col pubblico in cui ascoltano richieste, ragioni e rimostranze della gente. Una prassi che li espone a molti rischi, nel momento in cui anche in Gran Bretagna il clima ideologico si è polarizzato e i politici - in special modo le donne - sono spesso oggetto di insulti e minacce online: pure Jo Cox venne uccisa durante una delle sue «surgery». Qualche deputato ha detto, dopo la tragedia di ieri, che è ora di cambiare, che bisognerà accettare incontri magari solo su appuntamento: ma anche fra gli amici di Amess c'è chi ha ribattuto che il rapporto diretto e costante con la gente è vitale per la tenuta della democrazia. Che ieri, in Gran Bretagna, ha vissuto un giorno nero».
AFGANISTAN, NUOVO ATTENTATO IN MOSCHEA
Nuovo attentato del Venerdì in moschea nell’Afghanistan dei Talebani. Questa volta l’Isis-K colpisce a Kandahar. Luca Geronico su Avvenire.
«Esplosioni, in rapida sequenza, appena terminata la Grande preghiera del venerdì. «Gli spari sono iniziati quando abbiamo finito di pregare», riferisce uno dei sopravvissuti. Sarebbero state tre esplosioni, secondo le ricostruzioni più attendibili: la prima vicino alla porta, altre due all'esterno della mosche sciita di Bibi Fatima, a Kandahar. È la seconda strage del venerdì, ancora contro la comunità sciita dopo quella dell'8 ottobre a Kunduz che fece almeno 90 vittime. Ma questa volta si è colpito a Kandahar, la seconda città dell'Afghanistan culla del movimento dei taleban. Le immagini di distruzione, non lasciano dubbi sulle intenzioni di chi ha voluto colpire: uno o più kamikaze, mandati a seminare morte fra la folla di fedeli nell'ora di maggiore affollamento. «Tre uomini armati con fucili automatici ed esplosivi hanno prima aperto il fuoco sui fedeli e poi si sono fatti esplodere» in tre differenti aree della moschea, la ricostruzione di alcuni testimoni a Tolo News. Subito pesantissimo il bilancio: in poche ore le vittime da 16 salgono fino a 41, ma il conteggio pare destinato a crescere. Sono almeno 70 i feriti. «Molti corpi di morti o di feriti erano a terra, mentre cercavo di fuggire da uno dei finestroni della moschea», ha riferito alla France PresseAhmadullah. Subito le forze speciali dell'Emirato islamico si sono recate sul posto per «definire la natura dell'incidente» e per «portare davanti alla giustizia i responsabili», ha affermato un portavoce del ministero degli Interni del governo taleban. Ancora nessuna rivendicazione del massacro, ma gli occhi sono puntati sulla branca locale dell'Isis-K (Daesh), che ha già firmato l'attacco di venerdì scorso alla moschea di Gozar-e-Sayed Abad a Kunduz. Sarebbe, quindi, la prima volta che il Daesh colpisce a Kandahar: una sfida aperta nella città santuario degli "studenti coranici" e che potrebbe segnare l'inizio di uno scontro aperto tra il Daesh e i taleban. Da quando sono saliti al potere il 15 agosto, gli "studenti coranici" hanno dovuto fronteggiare un'ondata di sanguinosi attacchi sferrati dal gruppo sunnita rivale dell'Isis-K. Una dimostrazione in più che i taleban, che hanno sempre sbandierato la ritrovata sicurezza per il Paese come una loro prerogativa, in realtà non hanno il controllo del Paese. Gli attacchi agli sciiti, in gran parte appartenenti alla minoranza degli Hazara, servirebbe ad affermare l'intransigenza del Daesh nell'instaurare l'ideologia jihadista cercando così una legittimazione rispetto a un regime taleban accusato di essere più "pragmatico" nei rapporto con le minoranze. La Turchia ha subito condannato «con fermezza» i «disumani attacchi terroristici» che hanno preso di mira alcune moschee in Afghanistan nell'ultimo periodo. Ferma condanna pure dall'ambasciata dell'Iran che ha chiesto al regime taleban di «reagire fermamente». Ma l'Emirato islamico pare già incrinato alla base».
VIA AL NUOVO GOVERNO TEDESCO
Il socialdemocratico Scholz sarà il nuovo Cancelliere tedesco. Ieri ha annunciato che c’è un primo accordo con i Verdi e i Liberali. Tonia Mastrobuoni da Berlino per Repubblica.
«Nella sua consueta asciuttezza, Olaf Scholz ha parlato di un risultato "molto buono". Dopo giorni di negoziati a porte chiuse, il candidato alla cancelleria ha annunciato che la Spd, i Verdi e i Liberali hanno raggiunto un'intesa per tentare di formare un governo "semaforo". Insieme ad Annalena Baerbock (Verdi) e Christian Lindner (Fdp), l'attuale ministro delle Finanze ha annunciato l'avvio dei "colloqui di coalizione" in cui sarà approfondito l'accordo contenuto in un documento di 12 pagine. I cardini sono: il Patto di stabilità europeo resta così com' è e il freno al debito tedesco idem. Il salario minimo sarà aumentato a 12 euro l'ora, il discusso sussidio al reddito Hartz IV sarà sostituito da un "reddito di cittadinanza" e alcune tasse per sgravare le bollette saranno alleggerite, mentre non ci saranno aumenti di imposte. Sparisce anche ogni riferimento a un limite di velocità sulle autostrade, vero feticcio dei tedeschi. C'è un ultimo ostacolo per il via libera alle trattative: un mini- congresso dei Verdi programmato per sabato e una discussione ai vertici della Fdp. Va segnalato, a proposito del freno al debito - che l'anno prossimo resterà ancora sospeso - che in questi giorni è partito un dibattito stimolato da un autorevole economista, Clemens Fuest, che ha suggerito di approfittare di un anno in cui non varrà ancora il limite per indebitarsi e creare un "tesoretto di spesa" per gli anni a venire. È appena il caso di ricordare che attualmente i tassi di interesse sono azzerati e che l'anno prossimo con ogni probabilità lo saranno ancora, mentre dal 2023 la Bce potrebbe essere costretta a politiche monetarie più restrittive che aumenterebbero il costo del debito. Secondo l'Handelsblatt , la proposta del direttore dell'Ifo ha incontrato reazioni entusiaste nel ministero di Scholz - ma anche tra i Liberali. È chiaro che se la Germania vuole affrontare, come si evince dal documento di ieri, un "decennio di investimenti" e dovrà fare i conti con una costosa riconversione ecologica ed energetica, avrà bisogno di un "tesoretto" come quello suggerito da Fuest. Il "freno al debito", però, resta. Una vittoria della Fdp, che va di pari passo con la promessa di «non alzare l'imposta sul reddito, né sulle imprese o l'Iva» né di introdurre patrimoniali, come era stato promesso da Spd e Verdi. Per garantirsi i margini fiscali per il "decennio degli investimenti" i tre partiti intendono tagliare sovvenzioni «superflue, inefficaci, dannose per il clima». Il Patto di stabilità, invece, «ha dimostrato di avere la necessaria flessibilità. In base ad essa vogliamo garantire la crescita, la sostenibilità del debito e investimenti a tutela dell'ambiente ». Spd, Fdp e Verdi promettono una "svolta nel digitale" che dovrà essere garantita da una velocizzazione e sburocratizzazione dei processi di autorizzazione. Sul clima, il testo promette un "piano d'azione" che sarà formulato entro il 2022 e che investirà tutti i settori, «trasporto, costruzioni, edilizia, produzione energetica, industria e agricoltura» per garantire gli Accordi di Parigi. Il peso fiscale per la svolta energetica sarà ridotto «per ridurre i costi elettrici per famiglie e imprese». La Germania «sosterrà il programma Ue Fit55», ritenuto da molti Paesi membri troppo ambizioso. In arrivo anche un "Buergergeld", un "reddito di cittadinanza" che prenderà il posto di Hartz IV, l'integrazione al reddito legata finora a vincoli molto rigidi per facilitare un rientro nel mondo del lavoro. Quei vincoli saranno ammorbiditi. Per contrastare il caro-affitti niente tetto ma si punterà a 400mila nuovi appartamenti all'anno».
SINODO SIGNIFICA CAMMINARE INSIEME
La Bbc l’ha definito “il più ambizioso tentativo di riforma cattolica degli ultimi 60 anni”. È il Sinodo appena aperto e voluto da papa Francesco. Oggi sull’Avvenire c’è un interessante intervento del vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca, che trovate nella versione integrale fra i pdf. È un “evento”, spiega Camisasca, “che riguarda tutta la nostra Chiesa, tutti i suoi membri, che vi potranno partecipare in forza del loro battesimo”. E ancora: “Aprire i confini della nostra tenda significa uscire dalle nostre chiese e dalle nostre case per andare incontro alle persone”. Segnalo anche una paginata di Matteo Matzuzzi sul Foglio, titolo Il Concilio di Francesco, anche questo lo trovate tra i pdf.
«Perché questo percorso sinodale, chi lo ha voluto, che cosa ci chiede e quali sono i primi passi da compiere Per la Chiesa inizia una nuova missione L'invito a partecipare con la preghiera, la testimonianza della fede, il racconto della propria vita, l'ascolto delle voci degli altri Perché questo cammino sinodale? Perché ora? Chi lo ha voluto? Che cosa ci chiede e quali sono i primi passi che dobbiamo compiere? 'Sinodalità' per la Chiesa è un termine assieme antico e recente. Antico, perché connesso alla storia dei sinodi diocesani e regionali che hanno segnato tutta quanta la vicenda della Chiesa latina. Recentemente papa Francesco, a partire dall'«Evangelii guadium» e in alcuni interventi rivolti sia alla Chiesa italiana che alla Chiesa universale, ha ridato a questo tema una rinnovata grande importanza. Che cosa ci ha voluto dire? Il termine 'Sinodo' sta in un rapporto stretto e significativo con tutta la vita della Chiesa. La parola italiana ricalca letteralmente una espressione greca composta di due termini: Syn, che vuol dire assieme, e Odós, strada. Sinodo significa dunque camminare assieme. «Chiesa e Sinodo sono sinonimi», ha scritto san Giovanni Crisostomo».
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