La Versione di Banfi

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Arrivano i soldi del Pnrr

alessandrobanfi.substack.com

Arrivano i soldi del Pnrr

Italia promossa, oggi la von der Leyen a Roma. Ma sui migranti Italia sola dopo il vertice Draghi-Merkel. Giù le mascherine dal 28. Slitta ancora il nuovo 5S. La santa sede chiede modifiche al DDL Zan

Alessandro Banfi
Jun 22, 2021
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Arrivano i soldi del Pnrr

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La visita della Von der Leyen a Roma, il vertice a Berlino ieri fra Draghi e la Merkel, le indiscrezioni sull’approvazione imminente del Pnrr italiano catalizzano l’attenzione dei giornali. Il nostro Premier a Berlino ha anche chiesto che la Finale dei campionati di calcio europei non si giochi a Londra, dove il contagio sembra ripartito per la variante Delta. Ma sarà la Uefa a decidere. Certo è che l’Italia viene promossa a pieni voti sul Recovery e che i primi finanziamenti arriveranno già il prossimo mese. Giustamente però l’Avvenire e il Domani sottolineano che sui migranti il dialogo Italia-Germania lascia insoddisfatti: “L’Italia resta sola”. E con un’estate di sbarchi da fronteggiare.

Sul fronte pandemia, cade l’obbligo delle mascherine all’aperto: il CTS ha dato il via libera dal 28 giugno. Mentre la campagna vaccinale prosegue sostenuta. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state fatte 584 mila 716 somministrazioni di vaccino. Interessante la studiosa italiana in Usa intervistata da Repubblica che conferma: i vaccini creano una grande quantità di anticorpi. Molto positivo per l’immunità di gregge. Il Foglio propone oggi che le dosi di AstraZeneca non utilizzate dai Paesi occidentali, Italia compresa, vengano destinate ai Paesi più poveri, che non stati ancora protetti dal virus.

Acque agitate nella politica, soprattutto nei 5 Stelle: slitta ancora il nuovo Movimento guidato da Conte, perché Grillo sarebbe fortemente contrario all’impianto del nuovo Statuto, così come pensato dall’ex premier. Letta ragiona sul dopo primarie e chiede a Renzi, ma anche a Calenda, di rafforzare l’alleanza per le amministrative a Bologna e a Roma. Nel centro destra non c’è ancora il candidato sindaco di Milano e prosegue la discussione sul partito unico.

Il solo Corriere della Sera pubblica la notizia di un passo ufficiale della Santa Sede, “nota verbale”, che chiede modifiche al Ddl Zan in discussione al Senato, in nome del Concordato che garantisce la libera presenza ed espressione della Chiesa cattolica nello Stato italiano. Libertà che sarebbe minacciata da alcuni aspetti del disegno di legge. Già i Vescovi italiani, in due prese di posizione ufficiali negli scorsi mesi, avevano chiesto modifiche al testo. Vediamo i titoli.  

LE PRIME PAGINE

Due grandi temi su tutti: il Pnrr approvato dall’Europa (col corollario del colloquio Draghi-Merkel, compresa la discussione sulla Finale degli Europei di calcio) e la fine dell’obbligo della mascherina all’aperto. Per la Repubblica è il momento del pagamento: L’assegno dell’Europa. Il Messaggero è didascalico: Recovery, sì al piano Italia. Avvenire: Italia promossa. Per Il Mattino: Recovery, Italia promossa. Il Manifesto legge il vertice Draghi-Merkel come una trattativa quasi impresentabile: Al bazar. Il Giornale: Draghi si prende il pallone (e il timone dell’Europa) e Libero, sempre sul calcio: Draghi dichiara guerra agli inglesi. Sui dispositivi di protezione non necessari open air va La Stampa: Giù la mascherina dal 28 giugno. Il Quotidiano Nazionale: L’Italia respira: mascherine via dal 28. Pessimisti sulla campagna vaccinale, Il Fatto: I medici di famiglia: «Non firmiamo AZ». E La Verità: Le vaccinazioni si inceppano. Ora puntano gli aghi sui bimbi. Notizie economiche diverse dal Pnrr per Il Sole 24 Ore: Più fondi al reddito di cittadinanza e per Il Domani: Nel settore del tessile l’emergenza del lavoro è già cominciata. Il Corriere della Sera valorizza il suo scoop sulla richiesta ufficiale della Santa Sede di modifiche al Ddl sulla omotransfobia: Legge Zan, Vaticano all’attacco.

VIA LE MASCHERINE ALL’APERTO

Ieri sera il CTS, il Comitato tecnico scientifico, si è pronunciato, su richiesta del Governo, a proposito delle mascherine all’aperto e ha dato il via libera. Fiorenza Sarzanini per il Corriere.

«Dal 28 giugno in zona bianca non si dovrà più indossare la mascherina all'aperto. Dopo il parere del Comitato tecnico scientifico, la conferma arriva dal ministro della Salute Roberto Speranza: «Sarà superato l'obbligo, sempre nel rispetto delle indicazioni precauzionali del Cts». Esulta la Lega - che chiede il via libera anche all'apertura delle discoteche - e sulla stessa linea c'è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio «perché questo favorisce il turismo, è un grande segnale a tutta l'Europa, per dire che l'Italia vuole essere protagonista di questa nuova fase». Il 28, con l'uscita della Valle d'Aosta dalla fascia gialla, tutto il Paese sarà nel livello di rischio minimo e si conquisterà un altro pezzo di libertà. Lasciando comunque alcune regole e restrizioni per evitare che possano risalire i contagi da Covid-19. Era stato il premier Mario Draghi, venerdì scorso, a sottolineare come molti Stati abbiano già consentito di stare all'aperto senza protezione «ma non possiamo dare date, chiedo al Cts». Il giorno dopo il ministro della Salute Roberto Speranza aveva depositato una richiesta di parere. «Dalla prossima settimana via le mascherine e discoteche riaperte», dichiara adesso il leader del Carroccio Matteo Salvini che in questo modo mette sul tavolo anche l'altro tema caldo legato alla riapertura dei locali da ballo su cui non c'è però ancora un accordo. Durante la discussione di ieri pomeriggio gli scienziati si sono trovati d'accordo sulla bassissima circolazione del virus quando si sta all'aperto e per questo non hanno avuto dubbi sulla possibilità di togliere la mascherina già dalla prossima settimana. Venerdì l'Istituto superiore di sanità esaminerà il nuovo monitoraggio settimanale. Se non ci saranno particolari criticità arriverà il via libera con un decreto del governo. La possibilità di stare senza protezione di naso e bocca varrà comunque soltanto per le regioni in fascia bianca. Gli indicatori dell'ultimo mese consentono di prevedere che difficilmente ci saranno peggioramenti della situazione epidemiologica, ma la presenza delle varianti suggerisce comunque di rimanere cauti e per questo gi scienziati hanno preferito specificare che l'obbligo può essere eliminato soltanto nelle aree di minimo rischio. Non bisogna indossarla ma si dovrà sempre tenerla con sé perché in caso di assembramenti, o comunque di situazioni in cui non è possibile mantenere la distanza dagli estranei, sarà obbligatorio metterla anche all'aperto. Quando si entra in un negozio bisognerà indossarla, stessa regola per chi va nei centri commerciali. Per i locali pubblici valgono le regole già in vigore. Se si sta al chiuso si può togliere la mascherina quando si è seduti al tavolo mentre bisogna metterla quando ci si alza per andare al bagno, per uscire o per avvicinarsi alla cassa. Il personale dovrà invece tenerla sempre indossata, anche se lavora negli spazi all'aperto. Rimane obbligatorio viaggiare con naso e bocca coperti. Su aerei e treni le regole non cambiano, anche tenendo conto che la capienza dei vagoni è stata portata all'80 per cento. Alla fermata dell'autobus si può togliere la mascherina, ma una volta saliti a bordo bisognerà mantenerla per la durata del tragitto. Si tratta infatti di un luogo chiuso e dunque non sono previste eccezioni».

Una studiosa italiana che lavora negli Usa, Valeria De Giorgi, parla con Elena Dusi di Repubblica e dà una buona notizia: chi è vaccinato sviluppa una quantità molto alta di anticorpi contro il Covid.

«Valeria De Giorgi lo ha confermato nel suo studio: 11 mesi dopo il contagio, il 91% delle 116 persone osservate ha anticorpi nel sangue. La direttrice della sezione Malattie infettive dei National Institutes of Health , il principale centro di ricerca medica pubblico negli Usa, crede «che una luce in fondo al tunnel ci sia». L'immunità di gregge, il momento in cui il 70-80% delle persone sarà immune dal Covid grazie ai vaccini o alla guarigione dal virus, non è un miraggio. Cosa avete visto nello studio? «All'inizio della pandemia siamo stati colti di sorpresa. Non sapevamo nulla del coronavirus, non sapevamo come trattare i pazienti. A marzo-aprile del 2020 abbiamo provato a usare il plasma dei guariti, ma avevamo bisogno di conoscere quanti anticorpi avevano sviluppato. Così, all'arrivo dei primi test, abbiamo imparato a misurarli. I donatori sono stati fantastici. In 116 hanno eseguito tutti i prelievi periodici, così abbiamo descritto l'andamento dei loro anticorpi. Un'osservazione di 11 mesi è una delle più lunghe che abbiamo». I dati vi hanno stupito in positivo. «Più del 91% dei volontari ancora oggi ha anticorpi. Il 73% ha anche gli anticorpi neutralizzanti capaci di bloccare il virus. Questo nonostante il 90% dei nostri donatori fossero stati malati in modo lieve, cosa che sembra associata a un declino degli anticorpi più rapido». Sappiamo perché alcune persone sviluppano più anticorpi di altre? «Una domanda simile è stata rivolta qualche giorno fa ad Anthony Fauci e lui ha risposto semplicemente: "No". Abbiamo donatori che provengono dalla stessa famiglia, hanno avuto lo stesso quadro clinico, ma con valori di anticorpi molto diversi. Abbiamo osservato una correlazione positiva tra anticorpi, età e obesità. Non sappiamo nemmeno qual è il minimo che ci permette di essere protetti. Quel che vediamo è che la quantità di anticorpi decresce col tempo e chi parte da valori più alti ha una risposta più lunga nel tempo». E i vaccini? «La quantità di anticorpi generata dai vaccini sembra molto più alta rispetto all'infezione naturale. I nostri donatori, ammalatisi un anno fa, sono stati anche vaccinati. I loro anticorpi sono saliti moltissimo». Dovremo fare la terza dose? «Con il tempo gli anticorpi tendono sempre a scendere. È vero che la memoria immunitaria è composta anche da altri attori, i linfociti B e T, ma è probabile che un richiamo periodico serva. Ce lo diranno i dati del futuro. Se vedremo l'immunità calare troppo, i contagiati tornare a salire, le nuove varianti circolare, servirà un richiamo». 

PNRR, ITALIA PROMOSSA NELLA PAGELLA UE

Oggi Ursula von der Leyen sarà in Italia per ufficializzare l’approvazione europea al Pnrr italiano. La cronaca di Francesca Basso per il Corriere.

«Ci siamo: oggi la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sarà a Roma per presentare al premier Mario Draghi la valutazione del Pnrr italiano. La «pagella» del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza ha dieci A, cioè il massimo voto, e una B alla voce «Costi», come i piani degli altri Stati approvati finora. Next Generation Eu entra nel vivo, dopo che la scorsa settimana la Commissione ha anche emesso il primo bond da 20 miliardi. I fondi che saranno messi a disposizione dell'Italia, che è la prima beneficiaria, dalla Recovery and Resilience Facility (RRF) - lo strumento principale di Next Generation Eu, il pacchetto di aiuti da 800 miliardi in prezzi correnti - ammontano a 191,5 miliardi tra sovvenzioni e prestiti, che Roma dovrà impiegare entro il 2023 e spendere entro il 2026. Ma per avere i circa 25 miliardi di pre-finanziamento è necessario che il Consiglio dia a sua volta il via libera sulla base della proposta della Commissione (è atteso nell'Ecofin del 13 luglio) e che vengano firmati i financing agreements tra Commissione e governo nazionale. Il Recovery plan è un «tassello decisivo» per l'uscita dalla crisi, ha osservato il ministro dell'Economia Daniele Franco: «La sfida è ora quella di realizzarlo», si tratta di «uno sforzo senza precedenti». Nessun Paese finora è riuscito a rispettare le indicazioni della Commissione sulla definizione dei costi delle misure: giustificare costi di investimenti futuri per portare avanti le rivoluzioni ambientali e digitali non è cosa semplice, le stime si sono basate su misure simili. I primi a ricevere semaforo verde dalla Commissione sono stati mercoledì scorso i piani di Portogallo e Spagna, cui sono seguiti quelli di Grecia, Danimarca, Lussemburgo. Ieri Austria e Slovacchia. Oggi oltre al piano italiano, luce verde anche per quello tedesco e lettone».

Ma chi pensa al lavoro? Norma Rangeri per il Manifesto.

«Molti considerano Mario Draghi una specie di taumaturgo capace di traghettarci fuori dal disastro economico -sociale aggravato dalla tragedia della pandemia. Di sicuro si tratta di una persona preparata, capace di scelte economiche espansive e drastiche (come ha dimostrato nel corso degli ultimi anni in cui ha guidato la Bce). Tuttavia la sua è una storia tutta interna al capitalismo e certamente il lavoro non è la sua barra perché a indicargli la rotta sono gli investimenti, gli interessi, il Pil, il rating nazionale, le aziende (che infatti gli esprimono un alto gradimento, inversamente proporzionale all'opposizione riservata al governo Conte). Non si può chiedere a chi ha nel suo Dna una formazione, un'esperienza, una credibilità apprezzata dalle banche e nel concerto internazionale, di stravolgere la propria immagine, indossando la tuta da lavoro. Semmai questa ipotetica tuta dovrebbe indossarla il Partito democratico, che, viceversa, appare sempre più coinvolto nelle logiche di potere che stravolgono chi è abituato a stare da troppo tempo nelle stanze dei bottoni, dove conta soltanto la capacità di decidere, influenzare. E di vincere (sempre meno) la battaglia del potere. Il lavoro è, dovrebbe essere, comunque la chiave di volta politica, sociale, economica, perfino culturale di un partito che dice di difendere questo mondo. Però così non è».

Luciano Nigro per Repubblica ha intervistato Romano Prodi. Temi: l’Italia promossa, Draghi e Mattarella, il Pd di Letta. Soprattutto il Pnrr.

«Se sarà approvato, come credo, sarà un passo avanti importantissimo. Quel piano è la condizione necessaria per la ripresa. Guai, però, se lo considerassimo la soluzione di tutti i problemi». Vuole dire che non bastano 235 miliardi complessivi? «Voglio dire che per attuare quei progetti occorre un cambiamento radicale del nostro Paese. E non intendo soltanto le riforme che ci siamo impegnati a realizzare: la pubblica amministrazione, il fisco e la giustizia che attendono da decenni. È l'intero sistema produttivo che va trasformato in profondità». Non solo la politica: deve cambiare anche l'economia? «Sicuro. Se pensiamo di fare la rivoluzione ecologica comprando la tecnologia in Cina, le fabbriche chiudono e la gente prende i forconi. Per questo serve un balzo di tutta la nostra struttura produttiva. Il mondo sta cambiando con grande rapidità e dopo la pandemia lo farà ancora più velocemente». Si riferisce all'America di Biden? «Gli Stati Uniti stanno investendo 6 mila miliardi di dollari, infrastrutture comprese, con un obiettivo radicale: ridurre le diseguaglianze. Un passaggio inedito. Finora Clinton e Obama, al massimo proponevano cambiamenti parziali, come la riforma sanitaria. Con Biden c'è qualcosa di diverso: una reinterpretazione del welfare, della redistribuzione della ricchezza, di un intervento pubblico in economia... Se Dio vuole dopo 40 anni di liberismo assoluto e selvaggio assistiamo, proprio in America, a una svolta radicale». Biden chiede però all'Europa di fare una scelta tra Usa e Cina. «Non possono esserci dubbi sulla vicinanza dell'Europa con gli Usa, dal punto di vista militare, politico e dei valori. Ciò non toglie che abbiamo anche interessi diversi e, insieme ad altri Paesi europei, non si possa dialogare con la Cina. Pechino però non può pensare di dettare legge. La Via della Seta, per esempio, era una bella idea, ma richiedeva un ruolo ben più attivo dell'Europa». Come vede l'Italia in questo momento? «Come un Paese che ha mille problemi da risolvere, ma finalmente può riprendere a correre mettendosi in contatto con il mondo che cambia. La mia fiducia nasce anche dal fatto che ritengo l'Italia ben rappresentata da Mattarella, Draghi e Letta». Si sente rappresentato anche dal Pd e dalle sue primarie? È scorso il sangue come lei aveva notato avviene in ogni consultazione? «Intendevo dire che le primarie funzionano quando c'è battaglia di idee. Domenica, soprattutto a Bologna, c'è stato un bel contrasto. C'è chi parla di crisi dei gazebo del Pd, ma la crisi vera è quella della democrazia. Guardate alla Francia dove domenica ha votato solo un terzo degli elettori. In questo contesto le nostre primarie sono ancora un miracolo. A Bologna hanno votato in più di 26.000: un quinto di quanti andranno a votare per il centrosinistra ad ottobre. Poi, certo, sulle primarie si può discutere e sicuramente vanno regolamentate». A Roma, però, il Pd avrà per avversari anche Raggi e Calenda. Sul fronte delle alleanze Letta incontra parecchi ostacoli mentre il centrodestra si presenta unito. Tanto che Berlusconi parla già di un Partito repubblicano modello Usa per l'Italia. «Partito repubblicano come negli Stati Uniti? E chi si trasforma in Trump? Meloni o Salvini?». Le difficoltà che oggi incontra Letta a sinistra sembrano ancora maggiori. «Letta ha cominciato da poco, in una situazione difficile, ma sta facendo bene. Del resto non è detto che la coalizione debba funzionare in tutte le città. Le autonomie locali, si chiamano appunto autonomie. Quel che conta è trovare un accordo generale per le elezioni politiche». Per farlo, il segretario del Pd ha bisogno di rifondare un partito diventato un insieme di correnti. Ci riuscirà? «Ci riuscirà se partirà da una solida base programmatica e se farà un grande appello alla base. Lo spazio c'è e c'è bisogno di una nuova linea. Il mondo sta cambiando. Guardate ancora gli Stati Uniti, dove Biden sta correggendo l'iniqua distribuzione dei redditi in un Paese dove di fatto i super ricchi non pagano le imposte». Le prime scelte del segretario del Pd, dallo Ius soli alla tassa di successione sui grandi patrimoni, non sembrano tuttavia molto popolari. «Delle sue proposte è stato colto solo un aspetto e in modo strumentale. Sappiamo tutti che in Italia chi parla di tasse perde le elezioni. Ma quello che ha in mente Letta è un'altra cosa: è un disegno di giustizia sociale. E credo che questo la gente lo capisca». 

IL NODO MIGRANTI

C’è un aspetto del faccia a faccia, ieri a Berlino, fra Mario Draghi e Angela Merkel che agita i commentatori di tutti i quotidiani: il nodo migranti. Il Domani titola: Sui migranti niente effetto Draghi sugli sbarchi l’Italia resta sola. Ecco l’articolo.

«La sintonia è grande tra il premier Mario Draghi e la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma non al punto da rimettere in discussione il punto fermo della politica migratoria europea dell'ultimo decennio: gli sbarchi sono un problema italiano, non europeo. Nel 2021 finora sono arrivati sulle coste italiane 19.119 persone, contro le 6.184 del 2020 e le 2.390 del 2019, alcune hanno diritto d'asilo, altre sono migranti economici che vanno incontro all'ipotesi di rimpatrio. Ma mentre i centri di accoglienza a Lampedusa o Pantelleria tornano a essere saturi come prima della crisi da Covid, dagli altri Paesi europei non arriverà alcun vero aiuto. «Ci vuole tempo, si sta discutendo», ammette Draghi. «Noi e l'Italia abbiamo caratteristiche diverse, la Germania è oggetto dei movimenti secondari, l'Italia è un paese di primo approdo», è l'anodina dichiarazione descrittiva della cancelliera Merkel. Sui ricollocamenti, cioè la presa in carico delle persone che chiedono asilo e la loro gestione successiva, non si fa alcun passo avanti. La sintesi di un alto diplomatico italiano che conosce la politica europea è questa: «L'effetto Draghi si vede in tutti i campi tranne che in quello migranti, su quel fronte non c'è reputazione europea che tenga, nessuno vuole farsi carico di problemi che sono percepiti come soltanto italiani». La cooperazione si svolge su tutti i fronti del problema migratorio tranne quello di interesse dell'Italia, cioè gli sbarchi via mare. Sia Draghi sia Merkel promettono maggior impegno diplomatico ed economico nel Nord Africa, in Libia in particolare, ma anche in Tunisia, e poi nel Sahel, nelle zone cruciali di partenza e di transito del flusso che poi è impossibile fermare sulle coste libiche. Non manca poi l'auspicio di creare canali di ingresso legali che sostituiscano quelli illegali, che è la formula di rito per invocare corridoi umanitari che non sono mai andati oltre una dimensione simbolica. La partita che interessa alla Germania è soltanto quella del rinnovo dell'accordo tra Unione europea e Turchia che ferma il flusso di migranti che arrivano via terra, dalla Siria e non solo, e dunque possono raggiungere la Germania (mentre quelli che sbarcano in Italia faticano molto di più). «La Turchia ha tutti i diritti di essere aiutata perché gestisce 3 milioni di rifugiati, siamo tutti d'accordo», scandisce la cancelliera Merkel, Draghi la supporta. L'accordo del 2016 fortemente voluto dalla Germania è in scadenza, la Turchia ha incassato oltre 7miliardi di euro per fare da tappo e fermare all'origine la rotta balcanica che è un grosso problema politico per molti Paesi, a cominciare dalla Germania. Il flusso inverso In teoria la Turchia avrebbe anche dovuto ospitare migranti che, arrivati nell'Ue senza avere i requisiti per l'asilo, venivano rimpatriati nel Paese, ma in cinque anni appena 2140 persone hanno seguito il flusso inverso della migrazione, dalla Grecia alla Turchia. In compenso il numero di accessi è crollato: dalle rotte turche arrivavano 861.360 persone nel 2015, dopo l'accordo sono scese a 36.310. C'è qualche aumento soltanto quando, come a marzo 2020, Ankara incoraggia i migranti a partire per tenere sotto pressione Bruxelles. Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas chiede un aggiornamento del patto, Angela Merkel presenta come un'ovvietà il rinnovo, non obietta il premier Draghi, che pure aveva dato del "dittatore" a RecepTayyp Erdogan quando aveva umiliato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (sedia negata, in quanto donna in un Paese islamico, nella visita ufficiale di aprile ad Ankara)».

Marco Tarquinio scrive un articolo di fondo per Avvenire molto polemico. Si chiede: fino a quando fingeremo?

 «Roma e Berlino sono d'accordo su parecchie cose: dalla lotta al Covid e alle sue conseguenze socio economiche a cruciali dettagli degli Europei di calcio. Mario Draghi e Angela Merkel lo hanno confermato ieri, al termine del loro vertice bilaterale in vista del prossimo Consiglio Ue. E questa è una buona notizia per i due Paesi fratelli, per l'Europa e per un bel pezzo di mondo. Non per tutto il mondo e non per tutti. E questo può anche apparire scontato: Italia e Germania qualche avversario ce l'hanno, eccome. Ma c'è qualcosa che scontato non è nello scontento per le convergenze italo tedesche. È un'assenza, il vuoto scavato dal dolore di tante persone che non hanno voce. Quel dolore non ha trovato eco, neppure piccola, nelle parole di due grandi e apprezzati leader dell'Unione. Il pensiero va in particolare ai profughi (una percentuale minima dei profughi del mondo) che sono inchiodati ai confini d'Europa, in Turchia e in Libia, o appena dentro quei confini, nei 'campi' di Grecia che hanno cancelli d'entrata ma non di uscita. A Roma e a Berlino sta bene rinegoziare un patto anti migrazioni da Oriente con la Turchia di Erdogan, «dittatore» (Draghi dixit) e protagonista del più misogino degli sgarbi protocollari riservato alla presidente con passaporto tedesco della Commissione Ue. Sta bene, dunque, a entrambi continuare a pagare (miliardi e miliardi di euro, sinora) per avere la sicurezza del 'congelamento' di là dall'Egeo e del Bosforo delle persone in fuga che fino in Asia Minore sono arrivate. In massima parte, rifugiati dalla Siria, famiglie intere, che in molti casi vorrebbero chiedere accoglienza e protezione nella Ue e, per le regole che noi stessi abbiamo scritto, dovrebbero riceverle. È una delle pagine più tristi e dure della politica europea di questi anni. Pesante come quella scritta, a lacrime e sangue, nei campi di detenzione libici. Anche nei campi finanziati dalla Ue e di cui è responsabile il governo di Tripoli e che, perciò, non dovrebbero essere 'lager' come troppi altri centri di reclusione su quella sponda sud del Mediterraneo. Proprio alla vigilia del vertice Merkel-Draghi, portavoce Onu hanno denunciato nuove violenze in un campo pagato dalla Ue, stavolta su ragazze minorenni. L'agenzia Ap è riuscita anche a raccogliere e rilanciare strazianti dettagli dalla voce di una delle giovanissime vittime di stupro. Ma nessuno ha fatto domande ai leader andando al cuore della questione dell'«esternalizzazione delle frontiere» costi quel costi in termini di umani 'danni collaterali'. E nessuno ha dato risposte. Fino a quando si potrà continuare a tacere? Fino a quando a fingere di non sapere chi e che cosa viene pagato per la tranquillità falsa e senza coscienza d'Europa?». 

PASSO DEL VATICANO PER MODIFICARE IL DDL ZAN

La Santa Sede ha fatto un passo formale, una “nota verbale” vaticana recapitata alle autorità italiane, in cui chiede alcune modifiche al Ddl Zan, attualmente all’esame del Senato. Giovanni Viafora per il Corriere della Sera:

«Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il «ddl Zan», ovvero il disegno di legge contro l'omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all'esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in «alcuni contenuti l'accordo di revisione del Concordato». Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati - o almeno, senza precedenti pubblici -, destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell'iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso). A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l'alto prelato si è presentato all'ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta «nota verbale», che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento - pur redatto in modo «sobrio» e «in punta di diritto» - le preoccupazioni della Santa Sede: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato - recita il testo - riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall'articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato». Un passaggio delicatissimo. Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell'accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale» (è il comma 1 ); e, dall'altro garantiscono «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (il comma 2 ). E sono i veri nodi della questione. Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata «libertà di organizzazione» - sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l'articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall'organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia -; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l'approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano. Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all'Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all'attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all'ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all'attivazione della cosiddetta «commissione paritetica» (prevista dall'articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L'unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion».

SCONTRO CON GRILLO, SLITTA IL NUOVO 5 STELLE DI CONTE

Slitta ancora la presentazione del nuovo Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte. L’iter si sarebbe fermato per una forte contrarietà di Beppe Grillo sul nuovo Statuto. Luca De Carolis per Il Fatto.

«Il confronto è tracimato in lite, o meglio in stallo. Una palude che se si allargasse potrebbe inghiottire il Movimento. In bilico, per davvero, perché la sospiratissima presentazione del nuovo Statuto e della nuova Carta dei valori, prevista per giovedì in una sala a Roma, è saltata: forse alla prossima settimana, ma chissà. È sospesa la rifondazione. Con il suo potenziale artefice, Giuseppe Conte, che ora lascia intendere come la sua pazienza non sia infinita, e figurarsi il suo tempo. E parla innanzitutto al Garante, al Beppe Grillo furibondo, sul serio. Sostiene, il padre dei 5Stelle, che non gli avrebbero detto certe cose sullo Statuto e che gli volevano rifilare un progetto chiuso, finito. Prendere e approvare. Soprattutto, sarebbe irritatissimo perché con le nuove norme vorrebbero asciugare i suoi poteri, formali e non. Ma non è questa la verità del ri fondatore e capo prossimo venturo, ossia Conte. L'avvocato fa sapere tramite fonti a lui vicine che per carità, a suo dire non c'è alcuno scontro con Grillo, nessuna frattura, e che al Garante dello Statuto è stato raccontato tutto, con confronti quotidiani. Piuttosto - fanno notare - di scrivere il progetto di rifondazione glielo avevano chiesto proprio Grillo e tutti i big del M5S su una terrazza di un hotel romano, in un soleggiato 29 febbraio. E nella riscrittura dello Statuto, è la tesi delle fonti contiane, "'l'ex premier ha articolato l'organizzazione del Movimento con nuovi organi di garanzia e di rappresentanza, con il risultato che ora vi è una più puntuale e chiara distinzione di ruoli e competenze tra vecchi e nuovi organi, come è normale che sia se una forza politica abbraccia un nuovo corso. Ma non c'è nessun ridimensionamento del ruolo del Garante". Traduzione, si doveva cambiare qualcosa, e tutti sapevano che l'ex premier lo avrebbe fatto. Ora che si fa? "È ovvio che la condizione imprescindibile perché questo progetto vada in porto è che Grillo ne sia ancora pienamente convinto - è il ragionamento - Diversamente, non vi sarebbero le condizioni per rilanciare il M5S". E sono sillabe affilate, quasi un avviso ai naviganti. Con l'avvocato che fa capire di non avere voglia di cambiare spartito. Li aveva chiesti gli ampi poteri, subito, sulla terrazza in cui gli avevano chiesto in coro di caricarsi il Movimento senza rotta. E ora non è disposto a mediazioni al ribasso. O così, "o non vi sarebbero le condizioni". E magari non è proprio un aut aut, ma un pugno sul tavolo sì, e anche bello forte. Però la rogna Grillo è di quelle complicate. Pare che le nuove regole ne conservino i poteri, è vero, ma che tutte le decisioni importanti le dovrà sempre condividere con il capo, cioè sempre con Conte. Insomma, da solo il Garante non potrebbe più imporre o bloccare nulla. Dal Movimento e dal giro contiano non confermano né smentiscono. Ma le telefonate più che irritate a vari 5Stelle, quelle non le nega sempre casa sua", come ricorda un deputato della vecchia guardia. E potrebbe trovarne, di sponde. Anche perché nella pancia del M5S sta deflagrando il tema simbolo. "In certe bozze del nuovo logo era cambiato perfino il numero delle stelle..." sibila una fonte di peso. E quasi tutti ora sospettano che Grillo possa comunque scendere a Roma in questi giorni, per incontrare i parlamentari (…). Mentre la preoccupazione per lo slittamento continuo della rifondazione si è fatta allarme. Comprensibile, eccome. "Se si va oltre metà luglio scadranno i termini per presentare alle Comunali liste con il simbolo del Movimento" ricordano atterriti vari grillini. E sarebbe una evidente sciagura».

SU ROMA LETTA CHIEDE UNA MANO A ZINGARETTI

Soddisfatto per le primarie, Letta chiede adesso una mano ai renziani per Bologna e a Zingaretti per il Campidoglio. Maria Teresa Meli per il Corriere.

«Letta non vuole perdere i voti di Iv a Bologna, anche se lì i Cinque Stelle saranno alleati del Pd. Fosse per lui il segretario cercherebbe di convincere anche Carlo Calenda a giocare in squadra con il Pd a Roma. Ma è fatica sprecata. «Sono mesi - dice il leader di Azione - che i dem cercano di farmi ritirare, ma la mia controproposta è questa: si ritirasse Gualtieri, lo faccio assessore al Bilancio». Da quella parte, dunque, niente da fare. Ma Letta sa che «Roma è la madre di tutte le battaglie» e perciò vuole supportare Gualtieri, il quale ha vinto le primarie non con il 70% previsto ma con il 60,6. Perciò il segretario invita a pranzo al Nazareno Nicola Zingaretti e gli chiede di «impegnarsi di più» per la campagna elettorale capitolina. Il presidente della Regione, soprattutto dopo la gestione della somministrazione dei vaccini, è molto popolare a Roma. Anzi, per essere esatti, è il dem più popolare della Capitale: «C'è bisogno di te», gli dice Letta. «Devi essere più presente», aggiunge. E a Zingaretti che conosce bene il territorio non deve spiegare le difficoltà e le preoccupazioni. L'ex segretario assicura: «Io ci sarò». Tenere tutti insieme, le Sardine, i 5 Stelle, Iv e la società civile, non sarà certo un'operazione facile, tanto più che non si capisce ancora bene quale fisionomia assumerà il Movimento di Conte. Farà sua l'agenda Draghi, come intende fare il Pd «con responsabilità e protagonismo, perché è questo che ci chiedono gli elettori», spiegano al Nazareno? Oppure scarterà, magari da subito, sulla riforma della giustizia? Certo, Letta non crede che il M5S uscirà dal governo, ma ritrovarsi un alleato che un giorno sì e uno no cerca di mettere in difficoltà Draghi non è esattamente quello che si augura. Vi sarebbero inevitabili ripercussioni pure sulle alleanze locali per le primarie. Perciò il segretario dem tiene aperto anche il canale di comunicazione con il più lealista (nei confronti del governo) Luigi Di Maio. E nel frattempo riflette se sia meglio candidarsi a Siena per essere presente in Parlamento nei momenti «clou»: «Non escludo di presentarmi». 

PERCHÉ IL PARTITO UNICO SERVE A FORZA ITALIA

Nel centro destra ancora fumata nera sul candidato sindaco di Milano, mentre si discute la proposta di Silvio Berlusconi di federare le forze politiche. L’editoriale di Alessandro Sallusti per Libero (titolo: Futuro triste per chi non ha coraggio) è proprio sull’idea del partito unico fra Lega e Forza Italia.

«L'idea di unire Lega e Forza Italia in un unico partito fa storcere il naso a non pochi forzisti giustamente orgogliosi del loro passato e gelosi della propria piena autonomia. Legittimo, ma iniziare una avventura come minoranza - tale sarebbe Forza Italia nei confronti della Lega - non significa necessariamente condannarsi a essere marginali a vita. La storia del Pd insegna: nato nel 2008 dalla fusione tra una componente maggioritaria (gli ex Pci in quel momento Pds) e una minoritaria composta dagli ex Dc di sinistra (La Margherita) negli anni ha visto riequilibrare e a volte ribaltare i rapporti di forza al suo interno tanto che oggi il segretario è l'ex responsabile dei giovani democristiani Enrico Letta. La differenza, insomma, la fa chi vede lontano - in questo Silvio Berlusconi è un maestro - e non chi per paura ferma il proprio orizzonte all'oggi o al massimo a domani. Quest' ultimi propongono, in alternativa alla fusione, di cambiare la legge elettorale in modo proporzionale per diventare nel dopo elezioni, anche con un risultato modesto, indispensabili a chiunque vinca per governare. Ma davvero qualcuno immagina per Forza Italia un ruolo di stampella tipo quello che nella prima repubblica svolsero Pri, Pli e Psdi o nella seconda l'Udc di Casini, cioè raccogliere briciole di potere proporzionali alle briciole elettorali? Evidentemente sì, qualcuno immagina per Forza Italia un futuro triste e mediocre, alle grandi sfide preferisce il galleggiamento escludendo in partenza che la partita si possa riaprire proprio mischiando le carte. E poi perché qualcuno dovrebbe votare un partito stampella avendo a disposizione quelli con gambe sane, perché dovrebbe essere attrattivo un partito senza un leader carismatico escludendo che Berlusconi sia così generoso da mettere la sua faccia su una operazione al ribasso? Dare per scontato che la Lega soffocherebbe lo spirito liberale e modernizzatore di Forza Italia è non credere fino in fondo alla forza delle proprie idee. Semmai è vero il contrario: la fusione costringerebbe la Lega a fare sue molte di queste idee con benefici reciproci. Ma soprattutto con grande beneficio del Paese che si troverebbe con una grande forza politica in grado di contrastare la sinistra meglio di quanto non accada oggi».

INDULTO PER I LEADER CATALANI

Annuncio a sorpresa del premier spagnolo Pedro Sanchez ieri a Barcellona: sarà approvato oggi l’indulto per i nove leader indipendentisti catalani in carcere da quattro anni. Elisabetta Rosaspina per il Corriere.

«Vorrebbe apparire innanzitutto un generoso gesto conciliatorio, ma in realtà era una mossa inevitabile per Pedro Sánchez che ha scelto ieri uno dei luoghi più simbolici di Barcellona, l'ottocentesco Gran Teatro del Liceu, per annunciare a una platea di trecento rappresentanti della società civile che il governo spagnolo approverà, nel Consiglio dei Ministri di oggi, l'indulto per nove leader indipendentisti, in prigione da quasi quattro anni per tentata secessione. Indulto, non amnistia generale, come vorrebbe la Generalitat, che considera la decisione soltanto «un primo passo» e, come tale, «insufficiente e incompleto», per usare le parole del presidente Pere Aragonès, assente dal teatro (come gli altri membri del Govern e la presidente del Parlament). Il negoziato tra Madrid e Barcellona, insomma, è ancora in alto mare, ma che fosse ormai tempo di liberare i condannati per sedizione, malversazione e disobbedienza dopo aver organizzato il referendum per l'indipendenza dell'ottobre 2017 e aver votato e proclamato il distacco della Catalogna dal governo centrale, non era evidente soltanto al president e ai vertici della comunità ribelle. Sánchez ha fornito ieri delle motivazioni rivestite di buon senso e di buoni propositi: «Abbiamo deciso di dedicare il nostro tempo e le nostre energie a risolvere il problema e scommettere sulla concordia, che significa letteralmente "con il cuore" - ha detto tra fischi e applausi -. L'importante è la vita, vivere insieme, abbiamo bisogno gli uni degli altri», ha aggiunto, ricordando che un anno e mezzo di pandemia «ha cambiato tutto». Oltre a un ramoscello di olivo, ha offerto anche qualche delucidazione tecnica: l'indulto è possibile adesso che le condanne sono diventate definitive e, in secondo luogo, il governo è tenuto a prendere in esame le richieste di indulto e a dare una risposta positiva o negativa, dopo aver valutato le conseguenze». 

IN FRANCIA LA VOGLIA DI UNA DESTRA “CLASSICA”

Le elezioni amministrative francesi, le ultime prima delle presidenziali, hanno aperto uno scenario inedito: e se a battere la Le Pen fosse un ritorno della vecchia “destra normale”, quella gollista? Il candidato c’è e si chiama Xavier Bertrand. E secondo un sondaggio de Le Figaro ha più possibilità di Macron.

«C'è qualcuno che può scongiurare il pericolo che Marine Le Pen diventi presidente di Francia? Visti i risultati del primo turno delle elezioni regionali, che per il partito di Emmanuel Macron e i suoi rappresentanti sguinzagliati in tutta la Francia è stato un disastro, tanti francesi iniziano a guardare piuttosto verso un altro personaggio, Xavier Bertrand. In lotta perenne con qualche chilo di troppo e un passato da oscuro assicuratore in una landa depressa del settentrione francese, l'uomo non ha niente a che vedere con il piglio brillante di Macron. Neppure si sogna, come lui, di proclamare la fine del divario fra destra e sinistra. Perché Bertrand si autodefinisce un «rappresentante della destra sociale e popolare» o, all'occasione, «della destra gollista». Non alza i toni ed è rassicurante (un falso modesto, secondo le malelingue). Ma forse proprio lui è l'antidoto anti estrema destra. Domenica negli Hauts-de-France, la regione del Nord, dove il partito della Le Pen cresce da anni, sfruttando il disagio sociale della deindustrializzazione, Bertrand, che è originario di lì, ha fatto sbarramento. Al primo turno, a capo di una lista della destra classica, ha conquistato il 41,4% dei consensi e Sébastien Chenu, il capolista del Rassemblement national, la formazione lepenista, si è fermato al 24,4. Un magro 9,1% è andato al macronista Laurent Pietraszewski. Bertrand non dovrebbe avere problemi a passare al ballottaggio domenica prossima. Lui è già governatore, eletto nel 2015, ma allora al primo turno aveva trionfato Marine Le Pen, candidata nel Nord, e Bertrand era stato eletto al ballottaggio solo grazie ai voti della sinistra. Questa volta, invece, la vittoria è tutta sua. Ad aprile si è candidato alle presidenziali del 2022. E pochi giorni fa un sondaggio del Figaro ha indicato che, se andasse al ballottaggio con la Le Pen, la distaccherebbe più ampiamente di Macron. Ma chi è Bertrand? Ha 56 anni. Figlio di due impiegati bancari di provincia, all'età di 16 anni si avvicinò all'allora Rpr, il partito della destra neogollista, attratto dalla figura di Jacques Chirac. Si è laureato in diritto pubblico a Reims e ha preso un master in amministrazione locale. Ma non ha fatto Sciences-Po, la prestigiosa scuola universitaria di Scienze politiche di Parigi, e l'Ena, la scuola d'amministrazione dell'élite, come Macron o simili. «Il sistema non mi ha mai accettato, non faccio parte dell'aristocrazia politica», ha confidato a Le Monde. Ma la forza di rivincita del provinciale lo fece eleggere deputato a 37 anni. I colleghi lo chiamavano «floc floc», per il rumore che facevano le sue scarpe troppo grosse, comprate in un emporio di Saint-Quentin, la città da dove veniva. Ma Xavier saliva, saliva. E sarà ministro della Sanità con Chirac presidente e tre volte quello del Lavoro con Nicolas Sarkozy. «È il più affamato di tutti noi», ha detto di lui Rachida Dati (pure lei nella destra emarginata dai «compagni» della borghesia). Nel 2015 Bertrand viene mandato dal partito (diventato Ump, oggi sono i Repubblicani) ad affrontare la sfida con la Le Pen nel Nord. La vince e capisce, passando da un mercatino all'altro, in mezzo alla sua gente (l'aveva un po' dimenticata), «il fallimento della nostra politica da trent' anni a questa parte». Nel 2017 ha addirittura lasciato i Repubblicani (che però sarebbero pronti a sostenerlo, se il fenomeno Bertrand si confermasse ulteriormente). Xavier risponde a una domanda di destra classica e dal volto umano che hanno oggi i francesi, di un conservatorismo non gridato. La nostalgia di Jacques Chirac, che mangiava il salame con i simpatizzanti (e parlava mentre masticava). Xavier forse è l'uomo giusto al momento giusto».

RAI, LE OPERE D’ARTE NON ERANO ASSICURATE

Il Messaggero torna ad occuparsi del caso delle opere d’arte sparite dalle sedi della Rai a Roma e a Milano, oggi se ne occuperà anche la Commissione di Vigilanza:

«Il danno è milionario. E probabilmente non ci sarà alcun risarcimento per i 120 dipinti spariti da diverse sedi della Rai, perché nessuna assicurazione sullo smarrimento delle opere d'arte è stata stipulata per 2.199 beni artistici, che hanno un valore complessivo che sfiora i 100 milioni di euro. Ad ammetterlo è la stessa azienda, come emerge da una dettagliata denuncia presentata alla Corte dei Conti dal legale della televisione pubblica: «Si segnala che nel contratto assicurativo in essere al 31 dicembre 2020 non era previsto il diritto all'indennizzo per ammanchi e smarrimenti rilevati in occasione di operazioni inventariali». È l'ennesima beffa sull'inchiesta ribattezzata il sacco della Rai. Anche perché, come si legge sempre nella querela, i dipinti, anche quelli che non si trovano più, «sono tuttora iscritti nel bilancio Rai». Tele originali sostituite con false riproduzioni e poi vendute. Semplicemente rubate. O nella migliore delle ipotesi, perse. Sono, appunto, 120 i pezzi pregiati di cui non si ha più traccia. Il sospetto che molte di loro siano state trafugate da dipendenti infedeli è molto più di un'ipotesi. Anche perché in una circostanza i carabinieri tutela patrimonio culturale hanno già appurato che un ex impiegato di Viale Mazzini si era portato a casa un dipinto di Ottone Rosai per poi venderselo. A tutto ciò si aggiunge anche un nuovo caso, poiché nella televisione pubblica si dissolvono anche gli arredi degli archistar. A Milano il faro è puntato soprattutto sul secondo piano di Corso Sempione, la storica sede meneghina della tv di Stato. L'intera struttura è stata costruita dal celebre architetto e designer italiano, fra i più importanti del dopoguerra, ed anche lo stesso mobilio è griffato Gio Ponti. O forse sarebbe meglio dire, lo era. Infatti mancherebbero diversi pezzi all'appello. Il sacco della Rai è una vicenda che ha ormai superato i confini dell'inchiesta giudiziaria per divenire una questione politica. Stasera i vertici di viale Mazzini sono stati convocati dalla commissione parlamentare di vigilanza della Rai. A presentarsi di fronte a deputati e senatori dovrà essere Nicola Sinisi, il direttore di canone e beni artistici, ingegnere, ex assessore alla cultura a Bologna che ha ricoperto ruoli di spicco anche all'Unesco. Al manager deve essere dato atto, assieme ai vertici dell'azienda, di aver voluto denunciare ai carabinieri le misteriose sparizioni delle opere. Ovviamente dalla Vigilanza vogliono capire in modo dettagliato come sia stato possibile che nessuno, fino a pochi mesi fa, non si sia accorto degli ammanchi. Furti, in certi casi, compiuti negli anni Settanta e scoperti solo lo scorso maggio. Inoltre, un altro capitolo rilevante, riguarda il fatto che i mobili pregiati realizzati da archistar come Gio Ponti non siano mai stati catalogati. Un dettaglio non da poco, poiché in mancanza di un registro diventa complicato scoprire cosa ancora ci sia in Rai del celebre designer - una sua sedia può valere fino a 15mila euro - e cosa manchi all'appello».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana   https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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Arrivano i soldi del Pnrr

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