Attenti a quei due
Parlano all'Onu Biden e Xi. Nonostante le rassicurazioni, il confronto è duro. Il vaccino per tutti è solo a parole. Approvato alla Camera il Green pass, maldipancia nella Lega. Il Papa contro i gufi
Il Presidente Usa Biden e quello cinese Xi hanno parlato ieri all’Onu. Il primo ha cercato di stemperare le tensioni e ha insistito che non c’è una nuova guerra fredda con la Cina. Ribadendo il valore della democrazia di fronte alle tentazioni dell’autoritarismo. Il secondo ha delineato l’ambizione di diventare la nuova super potenza mondiale. Non è affatto tramontato il dissidio degli americani con l’Europa, e con la Francia in particolare, per il caso dei sottomarini australiani. Interessanti le analisi di Rampini e Lerner. Ma la grande questione, davvero vergognosa, emersa all’Onu è quella della mancata vaccinazione nei Paesi poveri. Ne ha parlato il segretario generale Guterres, ma non si va oltre le buone intenzioni. Come nota Avvenire.
Dall’Italia le notizie riguardano ancora le misure anti-Covid. Ieri Montecitorio ha approvato il Green pass, mentre il Governo sta mettendo a punto il nuovo decreto che ne allarga l’obbligo ai lavoratori dalla metà di ottobre. Secondo il Corriere non ci sarà sospensione per chi non ne fa uso. Vedremo il punto di caduta finale della proposta governativa. Intanto nella Lega c’è malumore. Ha lasciato il partito Francesca Donato, diventata parlamentare europea per le sue sparate polemiche televisive (la sua scuola di partito sono state le discussioni nelle puntate dei talk show di Floris) contro l’Europa e contro la moneta unica. Come è accaduto ai prof anti-euro Borghi e Bagnai, la critica economica si è poi convertita in critica contro la dittatura sanitaria. Non essendoci più l’austerity europea, ma il Recovery Plan, il tema di politica economica è diventato moscio da qualche tempo. Così ecco il nuovo bersaglio: non più l’euro, ma il vaccino. Vaccino dipinto come causa di tutti i mali e fine della libertà. “Auguri”, le dice Matteo Salvini. Ma al di là del destino politico di Donato, va detto che tutti i populismi e gli autoritarismi polarizzano e separano le persone in campi fra loro in guerra. Una guerra permanente che, se non può essere su un tema, si sposta su un altro argomento. Ma sempre guerra deve essere.
Turbolenze anche nella Chiesa. Le parole di papa Francesco, a ruota libera con alcuni gesuiti di Slovacchia, fanno discutere assai. Oltre ai corvi, ci sono anche i gufi in Vaticano. Crippa ci ricorda i meriti di don Matteo, simbolo dell’Italia rimasta tutto sommato cattolica.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
La Repubblica sceglie l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York: Biden-Xi, duello all’Onu. Il Corriere della Sera anticipa il nuovo decreto sui lavoratori: Green pass, niente sospensione. Stessa linea Il Messaggero: Green pass, ecco le modifiche. Del voto di fiducia alla Camera che sancisce l’uso del certificato verde si occupa Il Manifesto: A strascico. Libero sintetizza: La Lega si vaccina. Il Giornale punta invece sulla copertura per i piccoli: Il Covid dei bimbi: i numeri dell’allarme. Il Mattino va sulla terza dose: «Faremo i richiami, i bus non sono ancora sicuri». La Verità vorrebbe lasciar circolare il virus: I ragazzi che si contagiano a scuola sono la chiave per battere il Covid. Avvenire vede il problema dal punto di vista della discussione all’Onu: «Vaccini per tutti». Ma ancora a parole. Il Domani va sulle discussioni nei popolari: A Bruxelles cade l’ultima barriera tra destra moderata e sovranisti. Il Fatto si occupa delle spese elettorali nei Comuni: Ecco i candidati più spendaccioni. Il Quotidiano Nazionale teme il paradosso di un aumento del Pil senza occupazione: L’incubo italiano: ripresa senza lavoro. Il Sole 24 Ore sottolinea l’approdo in Parlamento del nuovo codice: Dalla mediazione alle udienze veloci, ecco la riforma del processo civile. La Stampa annuncia: “In arrivo 43 miliardi, per la svolta ambientale”.
BIDEN E XI: CONFRONTO ALL’ONU
Giornata campale ieri a New York. All’Assemblea generale dell’Onu hanno preso la parola i presidenti americano e cinese. Biden ha cercato di rassicurare l’Europa e il mondo. Con due concetti chiave: non ci sarà una nuova guerra fredda con la Cina e nel mondo la democrazia non ha esaurito la sua spinta propulsiva. La cronaca di Paolo Mastrolilli sulla Stampa.
«Non cerchiamo una nuova Guerra fredda, o un mondo diviso in rigidi blocchi». Considerando le tensioni tra Usa e Cina, questa è la frase più consequenziale del discorso tenuto ieri da Biden all'Onu, poco prima che parlasse il rivale Xi. Il presidente però ha usato il primo intervento all'Assemblea Generale per delineare la sua visione, che punta a cambiare il paradigma dopo lo slogan isolazionista "America First" di Trump, rimettendo al centro dell'azione globale degli Stati Uniti diplomazia, multilateralismo, difesa della democrazia e collaborazione con gli alleati, a partire dall'allenza «fondamentale» con l'Ue, messa a dura prova prima dal caotico ritiro da Kabul e poi dal nuovo patto di sicurezza Usa-Australia-Gran Bretagna. In questo senso il ritiro dall'Afghanistan, con tutti i suoi errori, è un evento anche simbolico, perché «molte delle nostre preoccupazioni più gravi non possono essere risolte, o nemmeno affrontate, con la forza delle armi. Bombe e proiettili non possono difenderci dal Covid, o dalle sue varianti future». I problemi ora sono due. Primo, convincere gli alleati che fa sul serio, dopo le delusioni patite dall'Europa proprio in Afghanistan, e ora con l'accordo Aukus per fornire i sottomarini nucleari all'Australia. Secondo, articolare questa visione con iniziative concrete, per far capire a rivali e nemici che Washington non intende lasciare un vuoto sulla scena mondiale da occupare. Il segretario generale Guterres ha aperto l'Assemblea avvertendo che il mondo marcia verso l'abisso, e ha espresso una preoccupazione particolare per il «rapporto disfunzionale» tra Washington e Pechino. Biden gli ha risposto che non vuole una nuova Guerra fredda, ma «competeremo vigorosamente e guideremo con i nostri valori e la nostra forza, per difendere alleati e amici». Quindi ha aggiunto che «la nostra sicurezza, la prosperità, e le nostre stesse libertà, sono interconnesse come mai prima». Perciò l'uso della forza dovrebbe essere «lo strumento di ultima risorsa, non il primo». Il ritiro dall'Afghanistan dimostra nei fatti la volontà di aprire questa nuova fase, basata su una «diplomazia intensiva», che deve essere la prima opzione per ogni crisi: «Non possiamo risolvere tutto da soli, dobbiamo farlo insieme». Questo vale per emergenze come il clima, dove l'Onu ha proclamato il «codice rosso», o il Covid, dove nel vertice di oggi annuncerà iniziative per accelerare le vaccinazioni nei Paesi più poveri. Sul piano della sicurezza, poi, ha affermato che gli Usa sono pronti a tornare al pieno rispetto dell'accordo nucleare con l'Iran, se Teheran farà altrettanto. Biden resta anche convinto che la democrazia sia il modello da seguire: «Qualunque sia la sfida o la complessità dei problemi da affrontare, il governo del popolo per il popolo è ancora il miglior modo di soddisfare le esigenze dei cittadini». Quindi ha ammonito: «Il futuro appartiene a coloro che danno ai loro popoli la possibilità di respirare liberamente, non coloro che cercano di soffocarli col pugno di ferro dell'autoritarismo. Gli autocrati del mondo cercano di proclamare la fine dell'età della democrazia, ma sbagliano». Poco dopo Xi ha illustrato la visione alternativa della Cina, che ambisce al ruolo di superpotenza globale e rappresenta una sfida epocale per gli Usa. Il ministro degli Esteri italiano Di Maio, invece, si è fatto interprete dello scetticismo degli alleati: «L'accordo Aukus ci consente di accelerare la riflessione strategica sull'autonomia strategica dell'Europa». Non solo per la volontà di partecipare alla stabilizzazione della regione Indo-Pacifica o cogliere le opportunità economiche che offre per le nostre imprese, ma anche per il ruolo complessivo che vuole giocare il continente. Da questo punto di vista «il primo interrogativo dobbiamo porcelo al nostro interno», ad esempio cambiando il meccanismo delle decisioni operative di politica estera e di difesa: «L'unanimità a 27 non è più attuale. Può bastare una maggioranza di due terzi». Se ne comincerà a parlare oggi con l'Afghanistan, dove l'obiettivo è evitare il collasso economico del Paese, e la Libia, dove rischiano di saltare le elezioni e tornare le violenze. Ma è il segnale che il discorso di Biden non è bastato a ricostruire la fiducia degli alleati».
L’editoriale di Repubblica, sul confronto tra i due Presidenti, è affidato a Federico Rampini:
«L’ombra Lunga di Xi Jinping si staglia sul Palazzo di Vetro anche se il suo intervento è in streaming. La Cina, ancora e sempre, è il filo rosso che dà un senso alle parole di Joe Biden. Il presidente degli Stati Uniti arriva all'appuntamento dell'Assemblea generale Onu assediato dai dubbi altrui sulla leadership globale del suo Paese. «Non vogliamo una guerra fredda, ma una vigorosa competizione tra potenze», è la risposta che riassume la nuova strategia verso Pechino. No, io non sono Donald Trump: in risposta alle accuse velenose dei francesi questo è un altro messaggio implicito di Biden, quando elenca le emergenze da affrontare. Cambiamento climatico, pandemie. Lui prende sul serio queste minacce che incombono sull'umanità intera, e su questi terreni crede nella cooperazione tra nazioni. Su almeno un altro terreno però la continuità con Trump è reale: la visione di un impero o ex-impero americano che si ripiega, si rattrappisce, rinuncia a difendere tutte le periferie, richiama a casa legioni disperse, concentra l'attenzione e le risorse sull'unica sfida vitale. «Le guerre non risolvono i problemi», così Biden liquida l'Afghanistan, a un mese dall'evacuazione di Kabul che ha guastato i rapporti con tanti alleati. Difendere la democrazia e i diritti resta per lui una missione dell'America (a differenza di Trump), però il linguaggio delle armi vuole sostituirlo con una r elentless diplomacy . Invece delle guerre infinite, e delle missioni di nation-building a tempo indeterminato, propone questa diplomazia persistente, implacabile, inarrestabile. Chiede alle liberaldemocrazie del mondo intero unità contro le autocrazie e i loro assalti tecnologici (hacker, ransomware, le cyber- guerre endemiche e quotidiane). Consapevole dei malumori che serpeggiano in Europa, Biden ha avuto la presenza di spirito di far precedere il suo intervento alle Nazioni Unite dall'annuncio della prossima riapertura delle frontiere Usa. Un gesto importante, visti gli innumerevoli disagi che la mancanza di reciprocità infliggeva agli europei. Ma mentre annuncia che gli Stati Uniti abbassano il ponte levatoio, in parallelo Biden compie un gesto inequivocabile: ai margini dell'Assemblea Onu convoca il primo vertice dal vivo del Quad, il quadrilatero delle democrazie dell'Indo-Pacifico in funzione di contenimento dell'espansionismo cinese. India, Giappone e Australia sono gli altri tre angoli del quadrilatero, attorno al quale Biden vuole costruire una coalizione più vasta, che attiri alleati tradizionali come Corea del Sud, Indonesia, Filippine, Singapore. Il tasso di liberaldemocrazia è assai variabile in quell'area, ma è evidente l'interesse comune a controllare e limitare le mire egemoniche di Xi Jinping. La dottrina Biden è ispirata da realismo e modestia: quest' America sa che da sola non può fare da contrappeso a una nazione con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, un Pil che presto raggiungerà quello degli Usa, forze armate che almeno in Asia orientale sono già superiori. Solo le alleanze possono ristabilire qualche equilibrio nei rapporti di forze. Perciò l'importanza degli alleati verrà soppesata in base alla loro efficacia, al loro impatto nella grande sfida con la Cina. È qui che il gesto di convocare il summit Quad appare in tutta la sua dirompenza. Le geometrie delle alleanze americane si spostano e si ricompongono verso Oriente. Alleanze à la carte , in certi casi, perché ad esempio l'India non è né disponibile né adatta a integrarsi in un dispositivo militare come quello anglo- australo-americano. Ma è in questa nuova geometria delle alleanze che la vecchia Europa dovrà superare le sue prove. L'Amministrazione Biden non ha abolito uno solo dei dazi di Trump contro il made in China , se possibile vuole forme ancora più stringenti di embargo su alcune tecnologie strategiche. Il Vecchio continente, visto da Washington, appare pericolosamente tentato da una strategia di "terza forza", una equidistanza almeno economico-finanziaria tra la sfera russo-cinese e l'America. Biden ha reso omaggio alle Nazioni Unite, ma sul multilateralismo ha i suoi dubbi, da quando le istituzioni internazionali sono state penetrate da una diplomazia cinese onnipresente, e spesso dotata di potere di veto. L'appello alla cooperazione sul Covid non ha impedito a Biden di chiedere nuove indagini sull'origine cinese della pandemia; mentre la lotta al cambiamento climatico viene declinata a Washington e a Pechino soprattutto come una "vigorosa" competizione strategica per il dominio sulle tecnologie verdi».
Guerra fredda con la Cina di Xi? In Italia Pechino gode ancora di grande fiducia. Paginata di Gad Lerner sul Fatto quotidiano.
«Da giovane non ho mai sventolato il libretto rosso e da vecchio non ho alcuna intenzione di dedicarmi allo studio dello Xi Jianping pensiero. I maoisti nostrani vestiti da guardie rosse mi facevano piuttosto ridere. Ma nel 2021, lasciatemelo dire, quella con la Cina è una guerra fredda che non ci conviene. Per intuirlo, basterebbe non lasciarsi irretire dalla nostalgia di un'alleanza atlantica che va disfacendosi e non rinascerà di certo in funzione anticinese. Quando la Nato si formò per tenere a bada Stalin e il blocco sovietico, la Cina era uno dei Paesi più poveri della terra. Ci ha messo meno di settant' anni per candidarsi a prima potenza economica mondiale: il sorpasso sugli Usa ormai è molto più di una probabilità. Passerò per veterocomunista e filocinese se suggerisco che da quel modello (che si calcola abbia sollevato dalla povertà 800 milioni di persone), per quanto autocratico e dirigista, purtuttavia avremmo qualcosa da imparare? Di certo il modello cinese esercita già il suo fascino su altre nazioni meno sviluppate. E, qualora la guerra fredda si inasprisse, non mi stupirebbe vederlo conseguire consensi oggi impensabili anche nelle nostre società rese fragili dall'accrescersi di disuguaglianze e povertà. Guai se in troppi cominceranno a pensare che la libertà sia un lusso cui vadano anteposte maggiori tutele sociali. Sapremo nei prossimi giorni se lo scoppio della bolla immobiliare cinese provocato dal crac di Evergrande avrà effetti devastanti dentro al sistema cinese che aveva ripreso a crescere impetuosamente dopo l'effetto Covid. Di certo sarebbe un guaio anche per noi: le nostre economie sono legate a doppio filo. Ma intanto, dopo la disfatta in Afghanistan, la storia si è messa a correre in fretta e a suscitare scalpore è ancora una volta l'ennesima frattura del campo occidentale: la Francia che denuncia la "coltellata alla schiena" e richiama i suoi ambasciatori da Washington e Canberra a seguito della cancellazione di una fornitura di sommergibili all'Australia per 56 miliardi di euro. È ben comprensibile che l'Australia, pur essendo una nazione grande quasi quanto la Cina, si senta minacciata dall'espansionismo di Pechino. Corre ai ripari formando con gli Usa e il Regno Unito una specie di Nato dell'Indo-Pacifico che esclude gli europei: la cosiddetta Aukus. Ne ottiene in cambio sommergibili più potenti, alimentati da reattori nucleari. Ebbene, basterebbe ricordare che gli australiani sono solo 25 milioni mentre i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni per rendersi conto che nessuna cortina di ferro, e nessuna deterrenza nucleare, potrà fermare un riequilibrio - speriamo pacifico - di quell'area, ormai divenuta il nuovo motore trainante dell'economia mondiale. La frattura determinata da Aukus verrà probabilmente ricomposta sul piano diplomatico, ma evidenzia un'insanabile divaricazione di interessi nelle relazioni con la Cina tra gli Usa e i singoli Paesi europei, Germania in testa, già precedentemente emersa di fronte alla richiesta americana di boicottaggio della rete 5G di Huawei. E poi nel tentativo sostanzialmente fallito di convocare un G20 straordinario sull'Afghanistan da parte del nostro Draghi. Intanto pure l'Italia subirà un danno economico dall'accordo Aukus, preceduto a giugno dall'annullamento di una fornitura di nove fregate militari all'Australia da parte di Fincantieri, per un ammontare di 23 miliardi. Se questo è lo scenario - un Occidente sempre meno compatto nelle sue relazioni commerciali e strategiche con la Cina - restano da interpretare le possibili ripercussioni esterne delle recenti svolte impresse da Xi Jinping alla politica del suo paese. C'è chi le semplifica brutalmente nella formula: "Ritorno al comunismo". Troppo facile. Per restare agli slogan, meglio sarebbe storpiarne un altro a suo tempo in gran voga: " NON fare come in Russia". Traduzione: il Partito-Stato cinese, dopo l'apertura all'economia di mercato che nel 2000 portò all'ingresso nel Wto e avviò una politica neocoloniale in Africa e America Latina, ha iniziato ad adoperare metodi brutali per non restare ostaggio dei nuovi oligarchi com' è avvenuto nella Russia post-comunista. Il 2021 si è aperto con l'esecuzione della condanna a morte di Lai Xiaomin, top manager della società di gestione crediti deteriorati Huarong, accusato di distrazione di fondi aziendali e bigamia. Prima fatto scomparire per mesi e poi ridotto al silenzio il fondatore di Alibaba, Jack Ma, magnate in precedenza potentissimo. Minacciosamente indotta a tagli di bilancio la famiglia Zhang che controlla la Suning (ne sappiamo qualcosa noi interisti, con la vendita forzata di Lukaku), peraltro invischiata nella crisi immobiliare di Evergrande. Vietato ai minorenni l'uso dei videogiochi per più di un'ora al giorno, e il colosso Tencent china la testa potremmo continuare. Orbene, lungi da noi auspicare un colpo di pistola alla nuca per i capitalisti disonesti, ma il messaggio giunge forte e chiaro. Così lo ha riassunto il segretario a vita Xi in un discorso del 17 agosto scorso: "Dobbiamo regolamentare i redditi eccessivamente alti e incoraggiare le imprese ad alto reddito a restituire di più alla società". Con metodi più civili, non dovremmo aspettarci qualcosa del genere anche dai leader politici nostrani? Alla direttiva di Xi, "ripulire e regolare i guadagni non ragionevoli per favorirne la redistribuzione", fa seguito l'obiettivo: "Una prosperità condivisa, requisito essenziale del socialismo e caratteristica chiave della modernizzazione cinese". Inquieta sapere che il Xi Jinping pensiero dal 1º settembre scorso è diventato materia di studio obbligatoria nelle scuole, con apposito sussidiario. Ma nessuno può negare la sua brutale aderenza allo spirito dei tempi. Anche chi vuole difendere i valori fondamentali della democrazia farebbe bene a non aggirare lo scoglio della crescente ingiustizia sociale. Se la Cina è diventata superpotenza egemone, lo deve anche alla capacità del suo regime di rispondere a una conflittualità sociale mai sopita: lo testimonia l'ondata di aumenti dei salari minimi, dopo il Covid. Altro che guerra fredda».
L’EUROPA E LA NUOVA NATO DEL PACIFICO
Sarà anche vero che la tensione con la Cina non è una nuova guerra fredda, l’Europa si sente comunque ferita ed esclusa. Soprattutto la Francia, tagliata fuori da Aukus. Anais Ginori per Repubblica
«Non si placa la rabbia francese per il "subgate", lo scandalo intorno alla vendita di sottomarini all'Australia spazzata via dal patto "Aukus" per la Difesa nell'Indo-Pacifico. A pochi giorni dall'annuncio fatto dal presidente americano Joe Biden con i suoi omologhi australiani e britannici, Scott Morrison e Boris Johnson, a Parigi si sottolinea che la «crisi di fiducia tra alleati » va al di là del progetto industriale sfumato, e che il «contratto del secolo» (oltre 50 miliardi di euro) non era solo bilaterale. Anzi, gli americani erano già presenti visto che la statunitense Lockheed Martin doveva fornire i sistemi di attacco. È stato il governo di Canberra - aggiungono a Parigi - a non voler acquistare sottomarini a propulsione nucleare, come sono invece quelli ora previsti dal patto Aukus. La Francia avrebbe potuto fornirli visto che Naval Group - al centro della commessa - li produce già per la Marina nazionale. Fonti diplomatiche confermano che la Francia ha saputo dell'accordo Aukus solo qualche ora prima del 15 settembre. Eppure la svolta era nell'aria da tempo. La decisione di ribaltare l'accordo con i francesi - secondo la ricostruzione fatta a Repubblica da fonti governative - è stata presa diciotto mesi fa dal premier Morrison, condivisa in un piccolo cerchio di persone tenute alla riservatezza assoluta. Il leader australiano ha poi contattato Johnson per coinvolgere il Regno Unito, chiedendo a Downing Street di intercedere presso gli americani. Le trattative segrete si sono accelerate a giugno, durante il G7 in Cornovaglia, in un incontro tra Biden, Johnson e Morrison da cui non era trapelato nulla. Emmanuel Macron aveva chiesto delucidazioni sui rumors al premier australiano, che però li aveva smentiti. Al punto che il patto con la Francia era stato confermato da Canberra il 30 agosto con una lettera. Il "subgate" è l'epilogo di un giallo internazionale che ha messo in scacco diplomazia e intelligence d'Oltralpe, tanto che i parlamentari francesi chiedono l'apertura di una commissione d'inchiesta. E ora si capisce meglio perché il ministro Jean-Yves Le Drian ha parlato di «pugnalata alle spalle» e la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen critica un «comportamento inaccettabile». Nelle ultime settimane, Macron non ha trovato una sponda neppure a Washington dove i negoziati sono stati condotti tra pochi consiglieri di Biden che forse, è l'ipotesi benevola fatta da alcuni diplomatici d'Oltralpe, hanno sottovalutato l'impatto del ribaltone sulle relazioni con la Francia. Il 10 settembre l'ambasciatore francese Philippe Étienne, già sherpa di Macron, ha chiesto alla Casa Bianca rassicurazioni su voci sempre più insistenti, ma è stato umiliato senza ottenere neppure risposta. La telefonata - con la conferma del nascituro patto Aukus - è arrivata solo qualche ora prima della comunicazione formale di Biden. L'ambasciatore Étienne è stato richiamato a Parigi, fatto inedito nelle relazioni bilaterali, insieme al suo collega a Canberra, Jean-Pierre Thébault. Il presidente Macron, che non si è ancora espresso pubblicamente sul caso, ha incassato la solidarietà di molti dirigenti dell'Unione europea e telefonato al premier indiano Narendra Modi per concordare una strategia nell'Indo-Pacifico «aperta e inclusiva ». Il leader francese ha convocato ieri un Consiglio di Difesa dedicato alla crisi diplomatica. Un incontro che deve preparare il colloquio telefonico che si terrà prossimamente tra Macron e Biden. ».
Enrico Franceschini spiega su Repubblica che in questa fase emerge una nuova alleanza post Nato sull’asse del Pacifico.
«Non ha un nome ufficiale, ma negli ambienti diplomatici si comincia già a chiamarla Alleanza Indo-Pacifica. È presto per paragonarla alla Nato, l'Alleanza Atlantica che ha difeso l'Europa dall'Unione Sovietica durante la Guerra fredda, ma a Nuova Delhi, Tokyo e in altre capitali asiatiche la si considera un'evoluzione benvenuta e necessaria per contrastare le ambizioni della Cina nei mari di casa loro. Perciò l'Aukus, il patto annunciato fra Stati Uniti, Regno Unito e Australia per contrastare Pechino, fonte di comprensibile irritazione in Francia e nell'intera Unione Europea, viene quietamente applaudito in Estremo Oriente. Per il presidente cinese Xi, intervenuto ieri all'Onu nello stesso giorno di Biden, l'intesa fra i tre alleati occidentali è "la realizzazione di una paura di vecchia data: la multilateralizzazione delle alleanze americane nella regione", scrive Antoine Bondaz, analista di questioni di sicurezza globale. "Oggi è il turno di Australia e Regno Unito, domani potrebbe toccare al Giappone". La reazione positiva in Asia all'accordo anglo-americano per dare sottomarini a propulsione nucleare al governo di Canberra, osserva Gideon Rachman, il più autorevole commentatore di affari internazionali del Financial Times, "ha più importanza per Washington della rabbia di Parigi", che si è vista cancellare il proprio contratto per forniture di sommergibili (non atomici) all'Australia. Contenere il potere e l'ambizione della Cina è ora la maggiore priorità strategica per gli Usa: la crisi con la Francia, per quanto spiacevole, viene vista dalla Casa Bianca come un prezzo che vale la pena di pagare per rafforzare le alleanze nell'Indo-Pacifico. L'irrigidimento della posizione britannica verso Pechino, in precedenza più ambivalente per ragioni commerciali, è un altro punto a favore per Biden, che in qualche modo pareggia il danno - si spera temporaneo - nelle relazioni con la Francia e per estensione con la Ue. Come già si era visto con il ritiro dall'Afghanistan, nell'atteggiamento americano si avverte una continuità tra la linea di Trump e quella del suo successore democratico, alimentando la battuta che circola nel vecchio continente secondo cui "Joe è un Donald senza Twitter". Ma l'Europa unita, nel valutare come rispondere all'Aukus, deve tenere presente che il mondo visto da Oriente ha orizzonti e interessi differenti. Le nazioni dell'Indo-Pacifico preoccupate dalla crescente belligeranza cinese guardano all'America, non alla Francia, per contrastare Pechino. Giappone e India, le due maggiori economie regionali a parte la Cina, hanno accolto con favore il patto trilaterale Usa-Uk-Australia, e questa settimana Washington ospita un summit del Quad, l'alleanza che unisce Usa, India, Giappone e Australia. Anche Singapore ha reagito bene all'Aukus. In Canada i leader dell'opposizione criticano Justin Trudeau per non essersi unito all'iniziativa. Del resto il Canada, insieme a Corea del Sud, Giappone, India e Uk, ha partecipato alle recenti manovre navali congiunte di Usa e Australia. Se e quando i rapporti con Parigi verranno riparati, pure la Francia potrebbe aderire a future esercitazioni militari. Il significato della cooperazione avviata dall'Aukus, conclude Rachman sul quotidiano della City, va dunque al di là della vendita dei sottomarini, sottolineando che forse Pechino ha troppa fiducia nella forza di dissuasione del proprio potere economico e dimostrando che gli Stati Unti e i loro alleati sono pronti a tracciare una linea nella sabbia, come si usa dire, o in questo caso sott'acqua».
“VACCINI PER TUTTI”, MA NON SI DECIDE
Il mondo non guarda solo alle nuove spese militari e all’economia. La pandemia è ancora in primo piano. Lo è soprattutto la disuguaglianza clamorosa, sulla vaccinazione, fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Viviana Daloiso per Avvenire.
«Giù, giù, all'ultimo scalino della classifica, sta il Congo. Ottanta milioni di abitanti, appena 130mila vaccinati (di cui 96mila con una dose soltanto). Lo 0,1% della popolazione. Pensare che in Israele oltre tre milioni di persone hanno già ricevuto la terza, di dose. Potere dei vaccini, si dirà: chi più ne ha, più ne usa. E invece no: l'ultima beffa dell'«apartheid vaccinale», come l'ha definito senza mezzi termini un editoriale pubblicato sul British medical Journal quest' estate, sono le dosi da buttare. Scadute o in scadenza, perché inutilizzate da chi le aveva accumulate nei propri magazzini in barba ai calcoli e al destino del resto del mondo. La denuncia è arrivata nelle ultime ore dalla società di analisi e informazione scientifica britannica Airfinity: oltre 100 milioni di dosi di vaccino anti Covid acquistate dai Paesi ricchi del mondo saranno inutilizzabili a fine anno (il 40% delle quali si trovano nell'Unione europea). Basterebbero per vaccinare in un colpo solo tutto il Congo e invece potrebbero finire in spazzatura, a meno che i leader globali non decidano di donarle alle nazioni più povere: un passo che, insieme alle donazioni già effettuate e a quelle previste per i prossimi mesi, permetterebbe di proteggere dal coronavirus il 70 per cento della popolazione nei Paesi a medio e basso reddito. Ma serve passare dalle parole ai fatti, un abisso che nemmeno le buone intenzioni del programma internazionale Covax riescono a colmare. Un po' per la partenza della (imprevista e imprevedibile fino a un paio di mesi fa) campagna di richiamo, un po' per la paura di una recrudescenza improvvisa dell'epidemia. Così i numeri del divario vaccinale restano spietati: secondo il contatore di Our World in Data solo il 2% delle persone residenti nei Paesi poveri ha ricevuto almeno una dose, circostanza che non solo condanna a morte migliaia di esseri umani ma aumenta esponenzialmente il rischio che emergano nuove varianti del virus, capaci di aggirare gli stessi vaccini. Ad alzare la voce, nelle ultime ore, è tornato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che ha definito le disuguaglianze «un'oscenità» e chiamato tutti i Paesi a fare la loro parte «senza aspettare prima le mosse degli altri»: «Abbiamo passato il test dal punto di vista della scienza, ma in etica abbiamo preso zero». Secondo l'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, «nessuno è al sicuro finché non lo sono tutti. Il 16 settembre, il 31% della popolazione mondiale era completamente vaccinato. Nell'Ue è stato così per il 61% della popolazione adulta». Un divario e una «linea di faglia» che rischia di dividere ancora di più il mondo e di penalizzare tutti quanti. Githinji Gitahi, ai vertici di Amref (la più grande onlus sanitaria in Africa) e commissario per la lotta al Covid dell'Unione Africana, denuncia che «nonostante l'obiettivo di immunizzare il 20% delle popolazioni di tutto il mondo entro la fine del 2021, chi avrebbe dovuto fornire vaccini all'Africa non l'ha fatto. Mentre i vaccini dei Paesi ricchi scadono, la nostra gente muore». E secondo l'ex primo ministro britannico Gordon Brown l'eventualità che decine di milioni di dosi di vaccino vengano gettate via perché scadute «rappresenta una delle più grandi vergogne dell'Unione Europea e degli Stati Uniti». Anche perché il punto adesso non è più la carenza di vaccini: da inizio estate, sempre secondo il rapporto Airfinity, si producono circa 1,5 miliardi di dosi al mese (che arriveranno a 2 entro la fine dell'anno) ed entro dicembre dovrebbero esserci vaccini a sufficienza (12 miliardi di dosi) per tutta la popolazione mondiale di età superiore ai 12 anni. L'accumulo, invece, continua: alla fine del 2021 Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Regno Unito disporranno di un surplus di 1,2 miliardi di dosi, una stima che tiene conto persino dei vaccini necessari per somministrare la terza dose all'80% della popolazione over 12. Proprio sulla terza dose ormai da settimane sta conducendo la sua battaglia - pressoché inascoltata - l'Organizzazione mondiale della sanità: secondo una revisione condotta da un gruppo internazionale di scienziati, fra cui anche esperti di Ginevra e dell'Agenzia del farmaco americana (Fda). non solo «gli studi attualmente disponibili non forniscono prove credibili di un sostanziale declino della protezione contro la malattia grave, che è l'obiettivo primario della vaccinazione», ma anche se alla fine la somministrazione di un booster potrebbe produrre un certo beneficio, «questo non supererà i vantaggi di fornire una protezione iniziale ai non vaccinati». È il motivo per cui l'agenzia dell'Onu chiede una "moratoria globale" sulla terza dose, che potrebbe sì essere necessaria, ha spiegato il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, «per le popolazioni più a rischio, dove ci siano evidenze di una riduzione dell'immunità contro la possibilità di sviluppare Covid grave e morte», ma non per tutti. La proposta è semplice allora: fermarsi coi richiami fino alla fine del 2021 per consentire a ogni Paese di vaccinare almeno il 40% della propria popolazione».
Intanto le Big Pharma, Pfizer compresa, non pagano neanche le tasse allo Stato italiano. Alessandro Rico per la Verità.
«Le case farmaceutiche? Ricche, ma morose. È per questo che l'Aifa, per la prima volta, s' è decisa a pubblicare la lista nera delle grandi aziende che non hanno versato la loro quota di «payback», cioè il rimborso allo Stato della spesa in eccesso per i medicinali, dovuta agli acquisti da parte degli ospedali. Per l'anno 2019, si tratta di 1 miliardo e 361 milioni, che andavano corrisposti entro il 30 giugno scorso. Tuttavia, alcune ditte non hanno ancora tirato fuori un euro, o non hanno saldato del tutto il debito. A stringere, le casse pubbliche reclamano 604 milioni, il 44% del totale. Nell'elenco dei cattivi pagatori figurano Novartis, che non ha sborsato alcuno dei 139 milioni dovuti, pur avendone incassati 929; Bristolmyers (deve 57 milioni, ne ha portati a casa 319); Janssen, azienda produttrice del vaccino anti Covid, che dovrebbe rimborsare 74 milioni, a fronte di introiti per circa 420; l'altra big dei vaccini, Pfizer, che ha incassato 397 milioni e ha, sì, versato una somma, ma solamente il 66% dei 70 milioni dovuti. Astrazeneca è stata più virtuosa: ha pagato tutti i suoi 34 milioni di debito, a fronte di guadagni per 195. Idem la Roche: s' è assicurata un ritorno di 624 milioni, ne ha restituiti 110. Il sistema del «payback», introdotto nel 2007, punta a far contribuire Big Pharma agli esborsi per i medicinali, che, ogni anno, assorbono quasi il 15% del fondo sanitario nazionale. Il tetto agli acquisti è diviso in due voci: un budget destinato alla copertura dei prodotti distribuiti in farmacia (circa il 7% della dotazione complessiva, per l'anno 2019) e uno per la spesa diretta, da parte dei nosocomi (il 7,85% per il 2019). Nel caso di quest' ultima, però, si determina regolarmente uno sforamento dei massimali. La legge, pertanto, prevede che il surplus non venga addossato tutto sul groppone delle Regioni: per metà, sono proprio le aziende farmaceutiche a garantire, in proporzione alle loro quote di mercato. La manovra è comunque vantaggiosa per l'industria, perché alla spesa diretta, appunto, non ci sono limiti. E poi, agli incassi per gli approvvigionamenti degli ospedali, vanno aggiunti ovviamente quelli per i medicinali distribuiti nelle farmacie e quelli per i vaccini. L'Aifa, adesso, lamenta che «risulta versato» solo «il 56% del totale richiesto». Il termine per i pagamenti è scaduto da quasi tre mesi, ma non si può escludere che qualche assegno venga sganciato proprio in questi giorni. L'agenzia, infatti, «si riserva di fornire ulteriori aggiornamenti a seguito della ricezione di ulteriori attestazioni di pagamento».Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria e dipendente di Janssen, ricorda che «ci sono ricorsi sulle metodologie di calcolo delle quote» di rimborso in capo alle società. «Il Tar si esprimerà il 23 ottobre. A quel punto i giudici fisseranno quanto realmente dovuto». Certo, un tempo le aziende pagavano prima delle sentenze. Ora Scaccabarozzi taglia corto: «Aspettiamo il Tar e poi si vedrà». Se il creditore è Pantalone, può attendere».
IL GREEN PASS APPROVATO ALLA CAMERA
Veniamo all’Italia. Mentre il Governo studia le ultime modifiche per l’allargamento del Green pass ai lavoratori, ieri il lasciapassare è stato approvato alla Camera. Marco Galluzzo sul Corriere:
«L'Aula della Camera ha approvato la fiducia posta dal governo al secondo decreto green pass e oggi toccherà agli ordini del giorno e al voto finale sul provvedimento che poi passerà all'esame del Senato: ma la polemica, da parte di Fratelli d'Italia, è scattata proprio sulla fiducia posta dall'esecutivo. «Il governo chiede quattro voti di fiducia in 48 ore su temi sensibili come la giustizia penale e civile e il Green pass - ha detto la presidente di FdI Giorgia Meloni -. Il Parlamento è mortificato, l'opposizione non può dire la sua. Una deriva preoccupante». «A questo punto - ha attaccato il capogruppo FdI in Senato Luca Ciriani - meglio chiudere il Senato e fa tutto il governo...». L'esecutivo guidato da Mario Draghi ha sempre spiegato il ricorso al voto di fiducia come una necessità dovuta ai tempi stretti imposti dalla necessità di ottenere i fondi del Recovery: acceleratore premuto, dunque, per incassare il via libera alle nuove norme sul green pass e, soprattutto, per mettere in sicurezza le riforme del processo penale e del processo civile, legate alle risorse previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. E se nel pomeriggio (413 sì inclusi 80 deputati della Lega, 52 gli assenti nel Carroccio, di cui 41 ingiustificati) è stata votata la fiducia sul secondo decreto della certificazione verde - firmato ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella -, in serata è stato il turno, in Senato, della fiducia sulla riforma del processo civile (passata con 201 sì e 30 no). Poi, oggi, l'Aula di palazzo Madama voterà le due fiducie sulla riforma del processo penale (la prima sulle norme direttamente operative, la seconda sulla delega al governo) e giovedì mattina si svolgerà il voto definitivo. Quindi, toccherà al secondo decreto green pass, sul quale il Senato darà l'ok finale sempre con voto di fiducia. Intanto l'obbligo della certificazione verde scatterà anche per senatori e deputati. Lo hanno annunciato i due presidenti di Camera e Senato. «Come sempre in questi mesi ci siamo mossi rispettando tutto quello che veniva normato per decreto legge, quindi anche questa volta quello che vale per i cittadini fuori varrà per i dipendenti della Camera e per i parlamentari dentro», ha annunciato il presidente di Montecitorio, Roberto Fico. Identica posizione per la presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Casellati, che lo ha spiegato durante la conferenza dei capigruppo. La questione sarà discussa nei prossimi giorni».
Alessandro Sallusti per Libero commenta il voto e insiste: più usiamo il Green pass e prima usciamo dall’emergenza da pandemia.
«Il Green pass supera, come scontato, la prova della fiducia parlamentare. Io proverei ora a superare la sfiancante discussione se è giusto o no introdurre un simile obbligo e sposterei il tiro su un altro quesito: funziona sì o no? Perché se funzionasse, e fino ad oggi i dati di ricoveri e decessi lo confermano, vorrebbe dire uscire prima dalla fase emergenziale e quindi anche dal Green pass medesimo con il quale tra l'altro molti di noi hanno già imparato a convivere e a scoprire che è cosa non così drammatica come qualcuno sostiene. Si dice anche: altri Stati europei, Francia a parte, non hanno adottato, vedi la Gran Bretagna, una misura così stringente. Vero, ma i paragoni sono sempre semplicistici. In altri Paesi i cittadini rispettano i limiti di velocità perché così è stato stabilito mentre in Italia senza i controlli elettronici (e relative sanzioni) dubito che viaggeremo tutti in autostrada sotto i 130 chilometri l'ora. Come dire: in casi eccezionali e gravi, quale è l'epidemia, a estremi mali estremi rimedi. Non siamo appassionati del Green pass, per la verità di nessun pass. Ma vedere bambini e ragazzi che tornano a scuola in presenza (liberando i genitori da un enorme problema) con un tasso di infezioni che grazie alla campagna vaccinale oggi è allo 0,1% ci fa molto piacere. Scoprire che solo lo 0,1% dei passeggeri dei treni veloci è salito a bordo senza essere vaccinato o tamponato è notizia che ci rincuora. Che ristoranti e ritrovi viaggino sul tutto esaurito è cosa buona dopo un anno e mezzo di stenti. Detto che per fortuna la libertà di espressione è garantita al punto che ogni sera nei dibattiti televisivi opinionisti scettici, critici, no pass e no vax giustamente esprimono le loro idee, mi permetto di dare un consiglio non richiesto: se qualcuno ha dubbi non ascolti né me né chi la pensa all'opposto di me, non passi le serate a consultare dottor Google. Parli con il medico di fiducia, si confronti con chi dalla malattia ci è già passato e con chi si è vaccinato. Basta con le ideologie e i pregiudizi. Andiamo sulla sostanza del problema e vedrete che il Green pass avrà vita breve».
LA LEGA DIVISA SUL LASCIAPASSARE
Maldipancia leghista, anche nei gruppi parlamentari, per l’approvazione della misura anti Covid chiesta da Draghi. Emanuele Lauria per Repubblica.
«Ci prova, Matteo Salvini, a stemperare le tensioni. Tenta di nascondere le divisioni che riemergono da una fiducia alla Camera, sul Green Pass della discordia, disertata da quattro leghisti su dieci. Il segretario, nel tardo pomeriggio, posta alcune immagini con il ministro Giancarlo Giorgetti e con i governatori Zaia, Fedriga, Fontana. Un modo per rispondere anche alle polemiche suscitate dall'addio dell'eurodeputata No vax Francesca Donato e dai messaggi pubblicati da Repubblica in cui Marco Zanni, presidente leghista del gruppo di Identità e democrazia a Strasburgo, prevede un «trauma nel governo o nel partito» dopo le amministrative e quasi si augura una scissione: «L'importante è che ci sia un evento che tiri fuori Matteo dal pantano: e se è una spaccatura tanto meglio», scrive Zanni. Il day after vede il partito chiudersi a riccio, con Salvini a fare i «migliori auguri» a Donato - che si è fatta da parte additando una Lega in cui «ormai prevale Giorgetti» - mentre lo stesso Zanni non torna sul merito delle sue affermazioni ma, assieme al capogruppo Marco Campomenosi, accusa la parlamentare No vax «di gettare discredito sui colleghi». I presidenti di Regione, dal canto loro, continuano a tenere un profilo basso in vista delle elezioni: Luca Zaia, ad esempio, dice che «la diversità di opinioni in un grande partito non è uno scandalo». Fedriga sostiene di essere al fianco di Salvini ma segna un solco: «Le nostre porte sono chiuse per i No vax». Che ci sia bisogno di una verifica, dopo le amministrative, lo sanno ormai tutti. Ne è convinto persino lo stesso Salvini, orientato a concedere un momento di confronto, se non una conta: i suoi stessi fedelissimi, d'altra parte, stanno suggerendo al capo del Carroccio di indire in tempi brevi il congresso federale proprio per consolidare la leadership. Se non un congresso, ad ottobre si celebrerà comunque una riunione della segreteria politica che non viene più convocata dal 21 aprile, cioè da quando la Lega si astenne in consiglio dei ministri sul coprifuoco. Da quel momento la linea dura di Salvini è stata progressivamente ridimensionata da un atteggiamento decisamente favorevole a vaccini e Green Pass dell'ala "istituzionale" del partito. Il numero uno di via Bellerio, in ogni caso, sa di avere ancora un grande consenso, oggi dovrebbe annunciare il passaggio nella Lega di un gruppo di consiglieri comunali di Fi, e non teme scalate interne. Anche se è alla guida di un partito che rimane plasticamente diviso: conferma ne è il voto di ieri alla Camera sul decreto sul Green Pass del 6 agosto, quello che ha introdotto il certificato per i viaggi a lunga percorrenza. La Lega, in ossequio alla posizione dominante, ha votato la fiducia. Un altro round ai "governisti" ma il conteggio delle assenze è significativo: su 132 eletti del Carroccio, solo 80 hanno partecipato al voto. Sono il 60,61 per cento. Nessun altro gruppo ha lamentato tanti forfait. Sullo sfondo restano altri elementi di divisione. In politica estera, ad esempio: nei prossimi giorni alcuni dirigenti del partito di via Bellerio, a partire da Lorenzo Fontana, dovrebbero partecipare ad una iniziativa sul tema della famiglia in Ungheria, organizzata da una fondazione vicina a Fidesz. Un evento culturale che però avrà un peso politico perché unirà tutti i sovranisti e va nella direzione nel disegno della Lega di arrivare ad un unico gruppo europeo. Posizione che Giorgetti in passato ha affermato di non condividere e certamente diversa da quella di Silvio Berlusconi che sta saldamente del Ppe. Proprio dal capogruppo del partito popolare europeo, Manfred Weber, ieri è arrivata una frecciata per il segretario del Carroccio. A una specifica domanda sulla possibilità che la Lega di Salvini diventi europeista, Weber ha risposto: «È importante dire che se volete avere un buon futuro per l'Italia, per esempio lavoro ai giovani e crescita, servono politici ragionevoli». In questo clima, Salvini prosegue il suo tour elettorale condito da nuovi avvisi per Draghi: «La riforma del catasto rischia di essere un salasso per milioni di famiglie, un danno per il mercato immobiliare e un colpo alla ripresa. Risultati in contraddizione con lo spirito del governo. L'Italia non ha bisogno di ricette suicide già viste con Monti, dall'aumento delle tasse al ritorno alla Fornero».
POPOLARI E CENTRO DESTRA
Sullo sfondo del confronto interno alla Lega, c’è anche la questione dei rapporti di forza in Europa. Ieri Berlusconi è intervenuto al vertice del Ppe che chiude oggi a Roma. Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore.
«L'Europa oggi è più che mai una «necessità», qualunque «osservatore responsabile» ne è consapevole. Di questa Europa il principale interprete resta il Ppe, il Partito popolare europeo custode dei valori su cui si fonda «il processo d'integrazione» dell'Unione. Ecco il messaggio lanciato da Silvio Berlusconi, in occasione del vertice del Ppe tenutosi a Roma e oggi alla giornata conclusiva. Parole - pronunciate in collegamento da Arcore perché la salute precaria ha sconsigliato il viaggio - i cui destinatari sono non solo i big del Ppe presenti nella Capitale italiana ma anche (indirettamente) il suo principale alleato: la Lega di Matteo Salvini nella quale da tempo si discute della collocazione in Europa. Salvini finora ha escluso un ingresso nel Ppe e resta confinato nel gruppo dell'estrema destra Identità e democrazia assieme a Marine Le Pen e ai tedeschi di Afd. L'obiettivo però resta quello di costruire un nuovo gruppo assieme al premier ungherese e leader di Fidesz, Viktor Orban, che ha abbandonato il Ppe poco prima di esserne espulso, e dal numero uno del Pis, il polacco Jarosaw Kaczysk, che è la componente più numerosa del gruppo Ecr (Conservatori riformisti) dove un ruolo di primo piano lo ha conquistato Fratelli d'Italia e la stessa Giorgia Meloni, divenuta presidente del partito. Proprio Polonia e Ungheria sono i due Paesi sotto osservazione da parte del resto d'Europa per le leggi liberticide su giustizia, stampa, istruzione. «Devono ancora fornire alcune garanzie», ha sottolineato Valdis Dombrovskis durante il vertice del Ppe. Il vicepresidente della Commissione ha fatto esplicito riferimento ai Piani di ripresa e resilienza ma in ballo c'è la procedura d'infrazione aperta a luglio contro ungheresi e polacchi per le leggi omofobe approvate nei mesi scorsi. Di fatto i principali alleati di Salvini e Meloni sono anche quelli che sono accusati di violare i diritti e i valori fondanti dell'Europa. Ecco perché le parole di Berlusconi (ma anche del coordinatore di Fi, Antonio Tajani) vanno lette anche rispetto alla collocazione della Lega e in generale dei due principali partiti del centrodestra italiano al momento presente a Strasburgo in ordine sparso. A confermarlo sono anche le parole del presidente del Ppe, Manfred Weber. Forza Italia, con la «leadership» di Silvio Berlusconi - ha detto Weber ieri -, si è sempre impegnata per un approccio proeuropeo, anche quando i «populisti» tentavano di vendere agli italiani il «messaggio facile del nazionalismo e dell'egoismo». Facile capire a chi si riferisse. A chi gli ha chiesto di un possibile futuro governo Salvini, il numero uno del Ppe ha risposto che all'Italia «servono politici ragionevoli». Il punto è che anche nella Lega c'è una parte del partito che ritiene ormai superata e controproducente l'idea del gruppo sovranista a Strasburgo. Anzi c'è chi, come Giancarlo Giorgetti, non ci ha mai creduto e da tempo tesse la tela con quella parte della destra del Ppe che guarda alla Lega come a una possibile risorsa, visto che il partito di Salvini a Strasburgo non è secondo a nessuno. A maggior ragione dopo che il Carroccio ha deciso di appoggiare il Governo di Mario Draghi».
PRODI E LETTA DI NUOVO INSIEME
Pace fatta tra il Professore e l’allievo di Andreatta. Prodi e Letta hanno voluto fugare ogni dubbio di contrasto e polemica. Maria Teresa Meli sul Corriere.
«Romano Prodi ed Enrico Letta decidono di fugare gli equivoci con un lungo abbraccio a favore di telecamere e fotografi prima della presentazione del libro edito da Solferino Strana vita, la mia, che il Professore ha scritto con Marco Ascione del Corriere della Sera. I due smentiscono dissapori e tensioni. L'ex presidente della Commissione europea nega di aver voluto rimproverare il segretario del Pd, quando lo ha esortato a non rinchiudersi solo nel campo dei diritti civili e a fare «proposte forti». «Prima di tornare da Parigi - racconta Prodi - Letta mi ha chiamato. Ricordo la telefonata: non ci siamo nascosti le difficoltà. Il mio voleva essere un aiuto alla riflessione». Dunque, l'ex presidente della Commissione Ue sostiene di essere in sintonia con il leader dem sulla sfida che il Pd ha di fronte e «sulla possibilità di riuscirci»: «È divertente - osserva - come funzionano le notizie. I titoli dicevano "Prodi bacchetta Letta", poi non c'erano i contenuti. Semplicemente siamo d'accordo sul fatto che la ripresa debba andare avanti insieme a un grande slancio dell'economia e della solidarietà sociale. Se non se ne occupa il Pd, chi lo deve fare? Ed Enrico è assolutamente in grado di farlo». Lo scambio di cortesie a beneficio dei giornalisti continua con Letta che ammette: «Romano è una delle poche persone nella vita a cui ho chiesto consigli». Perciò il segretario è «pronto a modificare i punti cardinali della bussola», seguendo le indicazioni del Professore. Prodi incassa il ruolo di padre nobile del Pd e affida a Letta il compito di fare «il federatore» con i 5 Stelle. Un compito difficile, rileva l'ex presidente della Commissione europea: «È un lavoro di una fatica...». Ma a suo avviso è una strada obbligata: «Perché se non si federa con il M5S il Pd con chi si federa?». Il segretario del Pd fa capire di essere più che pronto per quel ruolo, sottolineando che le Agorà sono la sua versione contemporanea dell'Ulivo di prodiana memoria. L'obiettivo è lo stesso: coinvolgere pezzi di società, aprire il partito e allargare il campo. La vera sfida delle elezioni politiche del 2023 sarà tra Letta e Conte: chi dei due dovrà essere il candidato premier della grande coalizione che competerà con il centrodestra? Sondaggi alla mano, il leader dem parte nettamente favorito rispetto all'ex presidente del Consiglio. Derubricate a utili suggerimenti le bacchettate di Prodi, il Professore e il segretario affrontano con l'autore del libro i temi del momento. Letta ribadisce il sostegno a Draghi: «Il Pd sta nel governo senza però». Ed entrambi puntano l'indice sulle difficoltà del centrodestra. «L'Europa sta spaccando la Lega», sottolinea Prodi. Mentre il leader dem pone l'accento sulle differenze che attraversano quello schieramento: «Senza un federatore il centrodestra non esiste e il federatore era Berlusconi. Ora i nodi stanno cominciando a venire al pettine. Il centrodestra di Berlusconi, infatti, era ancorato al Ppe e nulla aveva a che fare con la destra di Salvini e Meloni». La ritrovata armonia tra il segretario e il Professore non sembra convincere tutti i dem. Più di un parlamentare del Pd, infatti, ritiene che l'ex presidente si sia mosso così per sollecitare Letta, avendo in mente in mente ancora il Colle. Lui nega: «Io presidente? A 82 anni un incarico settennale sarebbe un'incoscienza. E comunque 101, che poi erano i 120, secondo me ci sono ancora e hanno fatto figli e nipoti». Ma le continue smentite del Professore non sopiscono illazioni e boatos. E le parole pronunciate in questi giorni da Prodi in difesa dell'ex arcinemico Silvio Berlusconi, anche sulla richiesta di perizia psichiatrica avanzata dai magistrati, non fanno che rinfocolare queste voci. «La linea è sempre quella: eleggere il presidente con una maggioranza Ursula», confida non a caso un autorevole dirigente del Pd».
AFGHANISTAN, LE DONNE E LA BONINO
L’inviato del Corriere della Sera a Kabul Lorenzo Cremonesi incontra il portavoce dei Talebani e cerca di capire il destino delle donne afghane, alle quali per ora è negata anche la frequenza a scuola.
«Credo sia un mutuo interesse per noi e per voi europei avere le nostre rispettive ambasciare aperte. Noi abbiamo bisogno del vostro aiuto. Per voi resta necessario capire il nostro Paese. Ma dovete anche comprendere che l'Afghanistan non è l'Europa. Per noi talebani le nostre tradizioni sono importantissime. Abbiamo lottato vent' anni per difenderle, compreso la nostra concezione del ruolo della donna. Capisco che per voi i vostri valori siano importanti. Ma dovere rispettare i nostri». Incontriamo Zabihullah Mujahed per quasi un'ora appena dopo la sua conferenza stampa in cui ha annunciato l'aggiunta di nuovi ministri e loro vice al «governo provvisorio» nato dopo la presa di Kabul a Ferragosto. Il suo ruolo di portavoce dell'Emirato islamico e capo della Commissione culturale lo ha reso il volto più noto dei talebani. Lo hanno scelto anche perché riesce a comunicare ai media stranieri, senza peraltro dimenticare le componenti più oltranziste dell'universo talebano. Dietro di lui sta un movimento diviso da laceranti contrasti interni, ma anche preoccupato dall'incipiente crisi economica. Voi avete bisogno degli aiuti economici internazionali. Ma allora perché limitare gli studi delle ragazze, vietare alle donne di lavorare, se poi lei stesso sostiene che queste misure saranno addolcite? «Non possiamo ignorare che le donne sono una componente importante della nostra società. Sosteniamo che devono poter studiare e lavorare, ma nel rispetto della legge islamica. Dobbiamo garantire la loro sicurezza morale e fisica. Negli ultimi anni erano minacciate. E dobbiamo creare i meccanismi necessari a proteggerle. Va però anche aggiunto che nei nostri ministeri dell'Educazione, Sanità e negli aeroporti le donne sono già tornate a lavorare. Dateci tempo e le cose si metteranno a posto». Scusi, ma visto da fuori tutto questo sembra molto un alibi. Come mai il sindaco di Kabul ha mandato via le dipendenti della municipalità? Non è che state prendendo tempo per poi imporre misure ancora più draconiane? «Ci sono stati casi di donne violentate a scuola, vittime degli allenatori delle squadre femminili nelle competizioni sportive, sul lavoro». E se fosse un pretesto per tenerle a casa? Non sembra fosse un fenomeno poi così diffuso. «Era invece un problema grave. Noi, comunque, lo stiamo affrontando nel rispetto della sharia, la legge islamica. Dateci tempo». Quanto tempo? E lei sa bene che la sharia può essere interpretata in molti modi. I sauditi la leggono diversamente dagli iraniani o da Isis e Al Qaeda, o dagli egiziani e i tunisini. «Sul tempo non posso dare dei termini. Ci vuole pazienza. I nostri mullah ed esperti ci stanno ragionando sulla base della nostra tradizione Dehobandi dell'Islam. I nostri testi sacri sono quelli hanafiti. Hanno radici millenarie e non intendiamo affatto tradirli». Perché non può dire con chiarezza che le donne potranno studiare come gli uomini? «Se ne sta parlando. Ma certamente si sta preparando la strada per l'educazione femminile regolare. Le donne studieranno le stesse materie degli uomini. Matematica, chimica, storia, biologia: non ci saranno programmi diversi a seconda del sesso e i loro titoli avranno valore internazionale». Lei stesso appena dopo la presa di Kabul aveva annunciato che non ci sarebbero state donne ministro, ma sicuramente avreste scelto delle viceministre. Anche le nuove nomine però sono tutte maschili. L'ennesima promessa tradita? «Continuo a ripetere che ci stiamo muovendo in modo graduale. È tutto nuovo per noi. Ci avevate accusato di non rispettare il principio dell'inclusività, che però oggi mettiamo in pratica. Tra le nuove nomine ci sono tagiki panshiri e hazara. Le donne arriveranno. Il lavoro non è finito, seguiranno altri annunci». Tre giorni fa il ministero per gli Affari Femminili è stato sostituito da quello per la Promozione della Virtù contro il Vizio, che propone le memorie terribili dell'oppressione negli anni Novanta. State tornando al passato? «Impossibile. Ci sono differenze enormi con il periodo del primo Emirato talebano. Allora la società era molto più semplice. In questi ultimi vent' anni le donne hanno studiato, sono diventate attive, consapevoli. Per forza le cose saranno diverse. Qui a Kabul c'è chi gira con la barba e chi si rasa, chi indossa i pantaloni e chi i vestiti tradizionali. Anche i rivoluzionari più entusiasti dovranno adattarsi a questa situazione». Isis sta rialzando la testa. L'Afghanistan torna ad ospitare il terrorismo internazionale? «Isis non rappresenta una minaccia per gli afghani. Le sue radici sono altrove, non nel nostro territorio. Lo combatteremo, ma sarà facile debellarlo».».
Emma Bonino vuole lanciare una Commissione internazionale sui diritti umani in Afghanistan. Le donne di Kabul non possono essere dimenticate. L’intervista è per Repubblica.
«Sul piccolo tavolo da pranzo in legno di casa sua, Emma Bonino sparpaglia pile di documenti tutti sottolineati a penna o con l’evidenziatore. “Questo è l’accordo di Doha, quello tra americani e talebani. Non è segreto, lo può scaricare chiunque. Sono quattro paginette e non c’è nemmeno una riga sui diritti umani o sulle garanzie per le donne. Zero, si parla solo di terrorismo e, al massimo, si chiede un governo inclusivo. E si è visto il concetto di inclusività dei talebani: sono tutti pashtun, nessun tagiko o hazara, figuriamoci una donna. Non si riesce nemmeno a sapere chi c’era a Doha: a parte Baradar, il documento è firmato solo 'taliban'. Questo è il punto di partenza, dobbiamo sapere chi abbiamo di fronte a noi: un governo formato da ministri che sono nelle liste nere per terrorismo, ricercati dall’Fbi, hanno festeggiato persino il ritorno del braccio destro di Osama Bin Laden a Tora Bora, il signor Amin Ul Haq”.
Senatrice Bonino, siamo tutti colpiti dal coraggio delle donne di Kabul che sfidano i barbuti armati fino ai denti e scendono ancora in piazza per difendere la loro libertà. Ma davvero non possiamo fare nulla per aiutarle?
“Me lo stanno chiedendo in tanti, persone in buona fede che vorrebbero far qualcosa, in loco o da noi. Ma in loco sono rimaste le agenzie Onu e poche Ong coraggiose come Emergency e la Croce rossa, in situazione molto precarie. La prima cosa da fare è attivarsi per tenere alta l’attenzione. Perché tra qualche giorno arriverà un’altra tragedia, i riflettori si spegneranno, i giornalisti se ne andranno, e quelle donne (ma anche gli uomini) resteranno da sole di fronte ai talebani”.
Tenere viva l’attenzione: vasto programma.
“Io un’idea ce l’ho, l’ho elaborata in parte con loro: una Commissione internazionale di monitoraggio sui diritti umani. Un istituto che è stato già usato in passato in altre circostanze e che dovrebbe nascere dal Comitato per i diritti umani di Ginevra”.È solo un’idea o già c’è qualcosa in movimento?
“Ne ho parlato prima con la viceministra Marina Sereni, poi con il nostro sottosegretario Benedetto Della Vedova, il quale ne ha parlato con il ministro Di Maio. Qualcosa si è messo in moto, abbiamo la fortuna che l’Italia fino a dicembre è membro a rotazione del Comitato per i diritti umani. Insomma, grazie anche all’impegno della Farnesina siamo andati avanti e la scorsa settimana è uscito questo Joint Statement firmato da 47 Stati membri che chiede l’istituzione della Commissione”.
Be’ allora è fatta!
“Non è così semplice. Per diventare operativo lo Statement si deve trasformare in una risoluzione del Consiglio. Se passa lì, allora si fa. I problemi sorgono ora: al Consiglio di Ginevra non abbiamo la maggioranza, molti ancora resistono a questo passaggio finale”.Il ministro Di Maio è a New York per una riunione ministeriale in sede Onu dedicata alle donne afghane. Può fare qualcosa?
“Certo, può andare a scovare i contrari e provare a convincerli…”.
Se non ricordo male la presidenza del Consiglio per i diritti umani è del Pakistan, il principale alleato dei talebani. È un ostacolo in più?
“Certo non aiuta che alla presidenza ci sia uno Stato che non è propriamente un alfiere dei diritti umani. Comunque vedremo. Da qui a dicembre il Consiglio si riunirà altre 2 o 3 volte, c’è ancora spazio per intervenire”.Ma anche ammesso che l’Italia riesca a portare a casa questo risultato, alla fine è solo un organismo di monitoraggio, che cosa può cambiare per le donne afghane?
“A parte gli auspici e gli auguri, io altri meccanismi in questa situazione non ne conosco. I talebani hanno riconquistato l’Afghanistan, punto. Gli americani hanno firmato con loro gli accordi di Doha, tagliando fuori gli alleati. Abbiamo in mano solo due strumenti molto fragili per fare pressione sul nuovo governo: il non riconoscimento internazionale e la Commissione di monitoraggio sui diritti umani. Se qualcuno ne trova altri, io sono contenta”.
Molto fragili…
“Si certo, ma non vanno nemmeno sottovalutati. Nel ’98, quando ero commissaria Ue per i diritti umani, riuscimmo a bloccare il riconoscimento dei talebani e tutta l’Europa ci seguì. Li riconobbero solo gli Emirati e per loro fu un disastro. Adesso la situazione è diversa, ma se in questo momento fanno finta di moderarsi e accettano che i giornalisti se ne vadano in giro è solo perché hanno disperatamente bisogno di essere riconosciuti”.
La Commissione, ammesso che si riesca a istituirla, quali spazi di manovra avrebbe?
“Questo organismo potrebbe chiedere al governo di poter girare liberamente per il Paese, ascoltare testimoni… Se invece i talebani chiudono i membri della Commissione in un albergo e non li fanno lavorare, sarà un segnale in più per non riconoscerli. Serve anche a spingere gli amici dei talebani – in primis Cina, Pakistan, Russia – a fare pressioni”.Quindi con i talebani si deve parlare? Da noi le parole di Conte hanno creato una grande polemica… Lei cosa ne pensa?
“Se hanno il controllo dell’aeroporto e le Nazioni Unite devono far atterrare un aereo, è chiaro che ci devono parlare. L’Unhcr, la Fao, Emergency e gli altri organismi umanitari ci devono parlare per forza, anche per garantire la sicurezza del proprio personale. Un conto è parlarci, un altro è riconoscere il loro governo”.
Qual è la cosa più importante ora?
“Tenere insieme gli europei su questo obiettivo. Dobbiamo assolutamente provarci, almeno per una volta. E poi continuare a tenere le donne afghane in mente, anche quando la nostra attenzione si sarà spostata su altre priorità. Anche a questo serve la Commissione di monitoraggio”.
Parla ancora con le donne afghane rimaste lì?
“Con qualcuna sì. Qualcuna osa chiamarci, ma sanno di essere controllate. Sono tipe toste, come la governatrice di Bamiyan o l’ex ministra per le donne e i diritti umani. Ma visto che non possiamo più essere lì al loro fianco per difenderle, è nostro compito parlare forte nelle capitali europee affinché l’Occidente non si sogni di riconoscere quel regime. Il portavoce del governo afghano, Mujiad, ha detto chiaramente 'prima il riconoscimento poi vedremo sui diritti'”.
E poi?
“Un’ultima cosa, magari simbolica ma nemmeno tanto. Il 25 novembre è la giornata contro la violenza sulle donne. In passato è stata dedicata al #MeToo o alle violenze domestiche. Quest’anno potremmo dedicarla a loro, alle coraggiose donne che a Kabul scendono in piazza a volto scoperto”.».
IL PAPA E I VELENI NELLA CURIA
Ieri La Stampa ha pubblicato un colloquio riservato fra Papa Francesco e alcuni gesuiti della Slovacchia, nel quale Bergoglio è andato a ruota libera. Oggi ci tornano un po’ tutti i giornali. Ecco la cronaca di Franca Giansoldati per il Messaggero.
«È con una buona dose di rassegnazione che Francesco arrivato all'ottavo anno di pontificato fa i conti con quel variegato dissenso che spesso sfocia nel dileggio. Rasentando in taluni casi persino l'odio strisciante. Ma non è un mistero. Basta dare una occhiata sui social dove non è difficile imbattersi in pattuglie di cattolici di varia nazionalità (compreso qualche prete) evidentemente insofferenti per l'atteggiamento pop del pontefice, per le forme di riorganizzazione in corso e anche per il suo modo un po' iconoclasta di abbattere simboli. L'ultimo bastione che il pontefice ha abbattuto ha riguardato la messa in latino, un rito sopravvissuto al Vaticano II e praticato da una sparuta minoranza alla quale è stata vietata la messa tridentina. A parlare degli effetti collaterali del dissenso è stato il Papa stesso con i gesuiti della Slovacchia, incontrati durante l'ultimo viaggio. Con loro si è lasciato andare e quando un gesuita gli ha chiesto notizie sulla sua salute, ha provato a scherzare. «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto». Poi però l'analisi si è fatta seria: «So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene. Fare quell'intervento chirurgico è stata una decisione che io non volevo prendere: è stato un infermiere a convincermi». In un successivo passaggio ha aggiunto che esistono anche forme più strutturate di denigrazione diffuse dai media. «C'e una grande tv cattolica che continuamente sparla del Papa senza porsi problemi. Io personalmente posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo: è opera del diavolo». Il discorso a questo punto si è fatto ancora più serio. «Ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto. A me, a volte, viene a mancare la pazienza, specialmente quando emettono giudizi senza entrare in un vero dialogo. Li non posso far nulla. Io comunque vado avanti senza entrare nel loro mondo di idee e fantasie. Non voglio entrarci e per questo preferisco predicare. Alcuni mi accusavano di non parlare della santità. Dicono che parlo sempre del sociale e che sono un comunista. Eppure ho scritto una Esortazione apostolica sulla santità, la Gaudete et exsultate». Non deve essere un periodo tanto facile per il pontificato in corso: da una parte pressato dalle riforme avviate ma non ancora concluse, dall'altra sottoposto a forti resistenze sia interne che esterne. Senza contare che in Vaticano lo scontento è ormai palpabile dato il clima di sfiducia che aleggia un po' ovunque. Già alcuni anni fa il preposito generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa Abascal aveva denunciato l'esistenza di «un complotto» per far terminare in anticipo il pontificato. Spiegava che ci sono «settori fuori e dentro il Vaticano che premono per far dimettere Francesco, con lo scopo ultimo di fare in modo che il prossimo Pontefice agisca in senso contrario alle linee guida espresse dall'attuale pontificato». Padre Sosa aggiungeva che questi settori sono al lavoro per «incidere sull'elezione del prossimo Pontefice, creando le condizioni affinché il prossimo Papa non continui ad approfondire il cammino che Francesco ha invece indicato e intrapreso». Di fatto non è un mistero che in questa fase sia frequente guardare all'orizzonte e pensare ad una ipotesi di conclave. E già si fanno i nomi di quei cardinali collocati da Bergoglio in posizioni particolarmente visibili, tali da garantire (sulla carta) buone chance. Il filippino Tagle, per esempio, ma anche l'arcivescovo Zuppi, e il segretario di Stato, Parolin. Tutti però conoscono bene l'antico adagio: chi entra Papa in Sistina ne esce cardinale. Con i gesuiti in Slovacchia Papa Francesco ha parlato anche del gender. Una «ideologia pericolosa» perché «astratta dalla vita concreta, come se una persona potesse decidere a piacimento se e quando essere uomo o donna». Niente «a che fare con la questione omosessuale». Con le coppie gay la Chiesa continuerà a fare pastorale».
ATTENTI A QUEI DUE. IN TV
Se il mondo in queste ore guarda al duello Biden-Xi, Maurizio Crippa nella sua rubrica in prima sul Foglio scova in tv un’altra coppia, tutta italiana, che fa riflettere: Jo Squillo-Terence Hill. Non lamentiamoci, dai.
«Che la tivù sia il ricettacolo di ogni schifezza è un pregiudizio che dovremmo evitare di avere, anche a rischio di dover trangugiare pure Scanzi e la Gruber. Ci sono ad esempio meravigliose presenze, donne che lo spettacolo lo sanno creare, e soprattutto farci transitare un'idea, lucidandola di bellezza. Come Jo Squillo, che si è infilata nella casa del "Grande Fratello Vip", il lavoro è lavoro, ma l'altra sera s' è presentata in diretta coperta da un niqab, lasciando scoperti solo gli occhi: in segno di solidarietà con le donne afghane. Per qualcuno una boutade, ma invece il messaggio è passato, ed è passato forte: nessun'altra in tivù ci aveva pensato. (E premio calembour d'oro a Signorini, quando le ha detto: "Ora però rivestiti"). Un altro bravo che ha saputo ben trafficare con un costume nero è Terence Hill. Ieri ha girato l'ultima scena della sua vita di "Don Matteo", dopo 250 episodi in vent' anni di successi. E il miracolo non è aver tenuto in piedi due decenni di prime serate Rai. E' che per vent' anni è stato l'unico vero interprete di quello che qualcuno chiamava "l'eccezionalismo italiano", il fatto (assai strano) che l'Italia sia ancora un Paese moderatamente cattolico. L'unico prete a insegnare il Vangelo da uno schermo agli italiani che in chiesa non vanno più. Jo e il don, due miracoli di libertà, in abito nero».
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