La Versione di Banfi

Share this post

Attenti al pieno

alessandrobanfi.substack.com

Attenti al pieno

Il governo obbliga i distributori di benzina a mettere il prezzo medio in evidenza. Meloni visita il Papa, simpatia e temi sociali, messaggi nei doni. I russi sfondano. Bannon: ok l'assalto brasiliano

Alessandro Banfi
Jan 11
1
Share this post

Attenti al pieno

alessandrobanfi.substack.com

Un’avvertenza iniziale: la Versione di Banfi è rimasta negli ultimi due giorni in una forma leggermente più agile, come nelle feste natalizie. Molti mi hanno scritto apprezzando la brevità della newsletter, soprattutto per la consultazione da smartphone. Oggi, nel giorno aperto a tutti gli abbonati free, tentiamo una strada intermedia: dopo la Foto del Giorno e i titoli dei quotidiani, e prima del link di tutti gli articoli scelti in pdf, troverete solo i 10 articoli più importanti, selezionati, evidenziati e titolati. Non tutti gli articoli riportati integralmente saranno scelti. Un’ultima notizia: il 16 febbraio, per festeggiare il primo anno di abbonamento, introdurremo un’altra novità… Per ora non vi diciamo altro. Buona lettura.

Il governo interviene sui prezzi della benzina ma non tocca le accise, cioè le tasse, sui carburanti. Come invece avevano chiesto i petrolieri e come nel governo avevano sostenuto i ministri di Forza Italia. Giancarlo Giorgetti ha spiegato ieri nel Consiglio dei Ministri che il taglio era insostenibile perché sarebbe costato un miliardo. Giorgia Meloni ha anche criticato, durante la riunione, ma senza fare nomi, i Ministri che sono andati in televisione a chiederlo. Le misure prese nel decreto ad hoc dall’esecutivo puntano a colpire la speculazione e i “furbetti”. Sulle autostrade i distributori avranno l’obbligo di riportare in evidenza il prezzo medio giornaliero, che sarà loro comunicato da Roma. Toccherà agli utenti saper leggere le indicazioni sui prezzi e nel caso scegliere i venditori più onesti. Sono previste anche multe e sanzioni. La battaglia sul prezzo della benzina, com’è evidente, riguarda tutti i rincari, visto che la stragrande maggioranza dei beni alimentari e di consumo viaggia in tutta la penisola. Il sociologo Giuseppe De Rita, in un’intervista a Repubblica di commento sulle misure adottate, identifica un tema cruciale del governo Meloni: la relazione fra la propaganda e gli atti concreti di governo. Finora pragmatismo e buon senso sono prevalsi, ma il rischio è che presto emerga una contraddizione fra la realtà e gli slogan.

A proposito di Giorgia Meloni, ieri la premier, con la figlia e il compagno, ha visitato (vedi Foto del Giorno) i Sacri Palazzi per incontrare papa Francesco. Le relazioni fra Italia e Santa Sede sono buone e hanno confermato la simpatia e il sostegno del Papa verso il governo italiano, di cui aveva parlato su un volo papale. Simpatia ricambiata da Meloni in un bel tweet dopo la visita. Il “dialogo” si è svolto attraverso i doni fatti: Bergoglio ha regalato all’atlantista Meloni il suo libro con i discorsi sulla pace e il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza universale. Quest’ultimo è la carta fondante della “Fratelli tutti”, donato alla leader di Fratelli d’Italia. La premier, fra gli altri omaggi, ha voluto regalare un angelo dalla sua collezione privata, un segno della propria spiritualità, se non della propria fede. Non è stato comunque toccato il tema dei migranti e delle Ong.

Quanto alle discussioni e divisioni nella gerarchia ecclesiastica dopo i funerali di Benedetto XVI, Avvenire torna sul tema con un’intervista al teologo Coda contro il “chiacchiericcio”. Ma il tono è fortemente conciliante. Ieri sera, a 81 anni, è morto il Cardinale australiano Gorge Pell, che aveva un alto incarico in Curia, dopo il processo e la galera subiti nel suo Paese per un caso di pedofilia poi rivelatosi infondato. Giancarlo De Cataldo su Repubblica analizza le due piste rimaste in pedi nelle indagini (per ora giornalistiche) sul caso di Emanuela Orlandi, mentre Maurizio Crippa sul Foglio dice che ci vorrebbe un Jorge Luis Borges.

Veniamo alla guerra in Ucraina. Nato e Unione Europea «rafforzano» la cooperazione. Lo hanno confermato ieri la presidente Ursula von der Leyen e il segretario della Nato, Jens Stoltenberg. Prossimo appuntamento il 20 gennaio, quando nella base militare di Ramstein in Germania, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, riunirà il «gruppo di contatto» degli oltre 40 Stati che sostengono la resistenza di Kiev. Intanto i russi sfondano nella cittadina di Soledar nell'Ucraina orientale, a una decina di chilometri da Bakhmut. Lo ha ammesso anche Volodymyr Zelensky. La Russia considera importante conquistare queste città, per raggiungere il suo obiettivo di occupare tutta la regione orientale del Donbass. Putin riabilita un generale dell’esercito che aveva silurato.

Ancora tanti e interessanti i commenti sul quasi golpe sventato in Brasile. Steve Bannon, sul Corriere, inneggia al populismo dal basso dei sostenitori di Jair Bolsonaro. Mentre Donatella di Cesare sul Fatto vuole distinguere i rivoltosi brasiliani da chi vuole la pace. Scrive: “Appare del tutto fuorviante inserire a forza il fenomeno - come si fa in questi giorni nei media italiani - all'interno dell'ormai famoso scontro di civiltà tra il fronte delle democrazie e quello degli autocrati, fra il campo del Bene e il campo del Male, lo schema volto a giustificare la guerra europea in atto”. Valter Veltroni dalle colonne del Corriere si dice preoccupato delle tendenze populiste mondiali e scrive, dopo aver accostato al saccheggio di Brasilia anche l’assalto romano alla Cgil: “Qui mi preme dire che la democrazia non vive senza la politica, senza la cristallina differenza delle opzioni tra schieramenti diversi e senza forze che, legittimandosi e rispettandosi, rappresentino questa meravigliosa diversità. La democrazia non vive se i partiti si trasformano in puri contenitori di ambizioni private, se personalismi e correntismi senza politica prevalgono sulle ragioni fondanti delle identità culturali, programmatiche, valoriali”. Un messaggio, quest’ultimo, rivolto anche al Pd? I dem proprio oggi si riuniscono in Direzione e devono decidere sulle primarie.

Le altre notizie dall’estero. Sull’Iran bel racconto di Cecilia Sala per il Foglio con testimonianze da Teheran: “Nel posto da cui chiama c'è una pista da skate in mezzo a un frutteto piena di ragazze. I video che mostrano parchi, bazar, stazioni e centri commerciali della capitale con persone che vanno al lavoro o fanno la spesa, dove le donne che indossano il velo sono una minoranza o non compaiono sono stupefacenti e impensabili per chiunque abbia in mente il colpo d'occhio a Teheran fino a quattro mesi fa”. La Cina torna sotto l’incubo del Covid mentre la variante “Kraken” è per ora al 2,5% in Europa. Non è detto che diventi dominante anche da noi, ma il rischio c'è. Il grande giornalista e scrittore americano J. R. Moehringer (suoi Il bar delle grandi speranze e Open) è il ghost writer del libro di memorie del duca di Sussex Harry, uscito ieri in tutto il mondo. Ci toccherà mica leggerlo?

Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Giorgia Meloni durante la visita ieri in Vaticano, a colloquio con papa Francesco. Scambio di doni “eloquente” e conferma di “buoni rapporti bilaterali”.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

È sui prezzi del carburante che vanno molti giornali. Avvenire mette l’Italia in riserva perché è: A corto di benzina. Il Corriere della Sera sottolinea le nuove decisioni dell’esecutivo: Benzina, misura anti rincari. Il Quotidiano Nazionale sceglie il termine tetto: Caro-benzina, tetto in autostrada. Il Mattino introduce l’idea della truffa: Benzina, mossa anti-furbetti. Così come il Messaggero: Benzina, la stretta anti-truffa. La Repubblica guarda il bicchiere mezzo vuoto e critica Palazzo Chigi: Accise, Meloni non le taglia. La Stampa è oggettiva: Caro benzina, mini-stretta contro i furbetti dei prezzi. Anche Libero privilegia l’immagine del tetto: Benzina, tetto ai prezzi. In ordine sparso gli altri temi scelti dai giornali. Il Domani propone: Aboliamo il reato di diffamazione per salvare il giornalismo libero. Il Fatto denuncia i cambiamenti sul fisco: Torna il condono agli evasori totali. Lo vuole anche Meloni. Il Giornale critica la svolta green della Ue: Eurotruffa sulla casa. Il Manifesto si occupa anch’esso di ambiente ma per dire che il nostro pianeta è: Sorvegliato speciale. Il Sole 24 Ore riporta gli umori dei mercati: Wall Street vede la frenata più vicina. Calo degli utili per i big del listino Usa. La Verità resta sulla trincea No Vax: Vaccini, si scopre una balla al giorno.

BENZINA, RESTANO LE ACCISE. STRETTA SUI PREZZI

Il Consiglio dei Ministri vara la stretta. Spunta un tetto ai distributori in autostrada, che dovranno esporre il prezzo medio del giorno fornito dal Governo. Giorgia Meloni dice ai ministri: non si va in tv a parlare di taglio delle accise. La cronaca di Monica Guerzoni sul Corriere.

«Il prezzo di gasolio e benzina balla attorno alla soglia psicologica dei 2 euro al litro. A Palazzo Chigi lo stato d'animo è quello dell'assedio e Giorgia Meloni, nel mezzo del Consiglio dei ministri, ammonisce la squadra: «L'opposizione ci attacca ed è normale, ma mi fa infuriare che anche nella maggioranza ci sia chi va in tv a dire che bisogna tagliare le accise. Questo non è accettabile». La premier è durissima e non solo con i 5 Stelle, che l'accusano di non aver mantenuto le promesse, ma con Forza Italia, che pure non nomina. I consumatori insorgono. I gestori non accettano di passare da speculatori e protestano. La luna di miele del governo con gli italiani rischia di incrinarsi sotto i colpi dei rialzi e la presidente del Consiglio prova a correre ai ripari con un decreto messo su in fretta e furia, che pare abbia fatto sbottare il ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin: «Questa roba ve la fate voi, non mi ci immischiate». Dove il voi era rivolto a Meloni e Giorgetti, che hanno lavorato di penna e bianchetto per mettere giù una bozza che non è nemmeno passata per il pre-consiglio. Ecco allora le nuove norme, che non prevedono alcun taglio delle accise: decisione che Meloni e Giorgetti difendono con forza. Per il trimestre gennaio-marzo 2023 vengono rinnovati i buoni benzina per un valore massimo di 200 euro a lavoratore. Ma il piatto forte è la misura che il ministro e vicepremier Antonio Tajani chiama «operazione trasparenza». Un decreto ad hoc per informare in tempo reale i consumatori sull'andamento del costo dei carburanti, con l'obiettivo di combattere le speculazioni: le stazioni di servizio avranno l'obbligo di esporre «con specifica evidenza» accanto al prezzo praticato il prezzo medio nazionale (giornaliero) pubblicato dal ministero delle Imprese. Per chi non si adegua si rafforzano le sanzioni, comminate dal prefetto. In caso di recidiva si rischia la sospensione dell'attività «per un periodo da 7 a 90 giorni». Con un apposito decreto ministeriale il governo introdurrà anche un tetto massimo al prezzo praticabile dalle stazioni di servizio che operano lungo la rete autostradale. Si rafforzano inoltre «i collegamenti tra Garante prezzi e Antitrust, per reprimere sul nascere condotte speculative». E si «irrobustisce» la collaborazione tra Garante e Guardia di Finanza. Se il nuovo decreto punta sul contrasto alla speculazione, è perché non ci sono i soldi per prorogare ancora il taglio delle accise deliberato dal governo Draghi. La riunione a Palazzo Chigi inizia alle sette della sera e all'ordine del giorno il caro-benzina non c'è, ma in Parlamento tutti si aspettano una mossa. Il ministro Adolfo Urso, Imprese e Made in Italy, illustra l'andamento dei prezzi, poi Giancarlo Giorgetti chiude sul taglio delle accise: «Costa un miliardo al mese e quindi non si può fare». Giorgia Meloni, che difende la scelta del governo, sta preparando un video per dire agli italiani quel che ieri ha spiegato ai ministri: «La filosofia della nostra legge di bilancio è stata aiutare i più deboli, dando soldi a chi non ce la fa e puntando su misure sociali come le pensioni e il taglio del cuneo fiscale». Su alcuni tratti autostradali, segnalano le associazioni dei consumatori, il diesel è arrivato a costare 2,5 euro al litro. Invocato dal Codacons, è arrivato l'intervento dell'Antitrust che analizzerà se ci siano state o meno pratiche commerciali scorrette o violazioni della concorrenza. Il presidente dell'Autorità Garante Roberto Rustichelli ha scritto al comandante generale della Guardia di Finanza Giuseppe Zafarana chiedendo la documentazione dei recenti controlli sui prezzi dei carburanti, «con particolare riferimento alle violazioni accertate». Meloni e Giorgetti hanno incontrato a Palazzo Chigi il comandante Zafarana per fare il punto e valutare ulteriori azioni di contrasto alle speculazioni. Il ministero dell'Ambiente, diffondendo i dati dei prezzi della prima settimana del 2023, ha rilevato come l'aumento rispetto all'ultima settimana di dicembre 2022 sia stato in linea con il rialzo dovuto alla mancata proroga: 16,8 centesimi al litro per la benzina e 16 centesimi per il gasolio. Dal primo gennaio il rialzo delle accise è stato di 18 centesimi. Il ministro Pichetto Fratin, dopo aver inizialmente parlato di speculazione, ieri ha frenato: «Non dobbiamo puntare il dito e dire che sono tutti speculatori, si tratta però di monitorare». Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani ha promesso che «se i conti lo consentiranno interverremo per ridurre i prezzi».

PER GLI SLOGAN ARRIVA LA PROVA DELLA REALTÀ

Maria Novella de Luca intervista per Repubblica il sociologo Giuseppe De Rita che ragiona sulla continua oscillazione del governo Meloni fra propaganda e pragmatismo. Dice: “Ci sono troppi slogan, così la destra alla prova del governo delude i suoi elettori”.

«Questa Destra è impreparata a governare. E i suoi elettori, la piccola borghesia, le periferie, le corporazioni che non hanno votato sui programmi ma soltanto come onda di opinione, hanno scoperto di essere impreparati alle delusioni della Politica. La benzina che aumenta perché tornano le accise, il carrello della spesa che sfora tutte le previsioni, la povertà che avanza. L'Italia di chi ha votato Giorgia Meloni oggi è questa: politici che devono imparare la complessità del proprio mestiere e un pezzo del Paese che teme di essere stato ingannato». È l'immagine acuta, lucidissima e amara che Giuseppe De Rita, il più grande sociologo italiano, classe 1932, fondatore e a lungo presidente del Censis, disegna di questi primi mesi di legislatura. Definendo questa "doppia impreparazione" la «malattia del corpo sociale della Destra».

Siamo già alla delusione degli elettori di Giorgia Meloni, professor De Rita?
«In parte sì. Gli aumenti pesano seriamente sulla vita delle famiglie. Pensate ai dietrofront sulla benzina, sul Pos, sui rapporti con l'Europa, sulle pensioni. Governare non è fare campagna elettorale, è gestire la complessità. Parola che in questi tempi non piace a nessuno. Del resto anche Meloni non fa più proclami, ha abbassato i toni».

Crede che questa delusione si trasformerà in protesta?
«Non ancora. Perché la rabbia si condensi ci vuole un obiettivo, un'ideologia. E chi ha votato questo governo non è ideologico, è un popolo variegato che ha scelto sull'onda emotiva dei propri interessi. Come era avvenuto sei anni fa per i grillini. Gli italiani di Destra mugugnano davanti alla pompa di benzina, ma non scendono in piazza. Siamo in una stasi depressiva. L'onda emotiva però è una mia preoccupazione».

Si fonda sugli slogan mentre governare è altra cosa?
«Esattamente. Questi partiti di Destra non hanno un apparato, non hanno una scuola di politica. Arrivano al Governo basandosi sui sondaggi e poi devono trattare con il Fondo Monetario Internazionale, devono decidere sulla guerra in Ucraina. Su misure che poi toccano il nervo vivo della società. Ma non è un talk show».

Impareranno a governare?
«Spero di sì. Così come forse i loro elettori impareranno ad aspettare. Con una differenza sostanziale: i primi sono in Parlamento, con uno stipendio assicurato, gli altri fanno i conti con la nuova povertà».

Nostalgia della prima e della seconda repubblica?
«Di certo avevamo politici più preparati. Pensi sia ai comunisti che ai democristiani. Mi sono sorpreso io stesso a rimpiangere partiti che avevano strutture forti, non soltanto leader. L'ultimo in grado affrontare la complessità del governare è stato Draghi. Ma una parte dell'Italia, quella che ha votato questa Destra, voleva parole d'ordine semplici. Pagare meno tasse o la libertà di non vaccinarsi anche se il Covid continua a fare vittime. Per poi rendersi conto che si trattava, inevitabilmente, di promesse».

Intanto siamo sempre più poveri. Il latte ha sfondato la soglia dei due euro, così la pasta, il pane.
«E adesso benzina e diesel. Una povertà che intacca sempre di più anche la classe media. Al di là del carrello della spesa, che era già in salita prima che Meloni diventasse premier, è il prezzo dei carburanti, indicatore strategico per gli italiani, la prima vera delusione degli elettori di Destra».

Come fosse insomma un brutto risveglio di chi ha votato unicamente sull'onda emotiva?

«Con i proclami mica si fa la legge finanziaria, si convince l'Europa sui nostri conti, si nomina il presidente del Consiglio di Stato o si gestiscono migrazioni epocali. Nella comunicazione politica oggi tutto è declinato come nei talk show, uno contro l'altro che si urlano senza mai produrre un pensiero. Una modalità che sta contagiando addirittura la Chiesa. Non a caso Bergoglio l'ha definito un tragico chiacchiericcio. Però, non è sempre stato così. Anche io, da giovane, negli anni Cinquanta facevo parte di parte di quei giovani che ritenevano bastasse la propria opinione per governare».

Ci racconti quell'Italia De Rita.

«Facevo parte del gruppo di giovani che si ritrovavano nel pensiero di Ugo La Malfa, con l'idea di portare al governo la spinta delle élites culturali che credevano in una certa modernizzazione del Paese, dove la cultura politica aveva un ruolo dominante. In parte questo è avvenuto. Oggi l'opinione sono soltanto urli».

Addirittura nella Chiesa, professor De Rita?

«Da buon cattolico, domenica scorsa, come ogni domenica, sono andato a messa. E con stupore ho letto nel bollettino della parrocchia il resoconto di un incontro sulla guerra che si era tenuto proprio lì. Avevano invitato chi era a favore e chi era contro la guerra in Ucraina. Ma la Chiesa ha la sua voce, il suo magistero, non ha bisogno di talk show».

De Rita, se i prezzi non calano, se le tasse non scendono, quanto ci metteranno gli italiani ad arrabbiarsi con la Destra che hanno votato?

«Due anni. Tempo massimo. E sarebbe già un record per la politica italiana».

MELONI INCONTRA IL PAPA

Ieri mattina Giorgia Meloni, insieme alla figlia e al compagno, ha visitato in Vaticano papa Francesco. La cronaca di Mimmo Muolo.

«Un'opera in bronzo dal titolo "Amore sociale", raffigurante un bimbo che aiuta un altro a rialzarsi, con la scritta "Amare Aiutare". È estremamente significativo uno dei doni che il Papa ha fatto ieri alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al termine dei 35 minuti di colloquio a tu per tu nella Biblioteca privata del Pontefice, in un clima che come si è visto anche dalle immagini diffuse dal Vaticano non è improprio definire molto cordiale. Un dono a suo modo "parlante", che nel silenzio delle fonti ufficiali (le due parti non si sono espresse sui contenuti del colloquio, mentre la Sala Stampa della Santa Sede ha riferito quelli del successivo incontro con il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il "ministro degli esteri", l'arcivescovo Paul Richard Gallagher) fa comunque comprendere quali problemi stiano più a cuore a papa Bergoglio per quanto riguarda l'«amata Italia». «Problemi legati alla lotta alla povertà, alla famiglia, al fenomeno demografico e all'educazione dei giovani», dice il comunicato vaticano in merito all'incontro in segreteria di Stato. E quanto ai temi internazionali, «l'Europa, il conflitto in Ucraina e le migrazioni». Non è difficile ipotizzare, dunque, che se ne sia parlato anche nel faccia a faccia tra il Papa e Meloni, prima udienza in Vaticano per la prima donna premier italiana. Del resto un forte indizio arriva anche dal tweet della presidente del Consiglio, ieri pomeriggio. «Un onore e una forte emozione avere l'opportunità di dialogare con il Santo Padre sulle grandi questioni del nostro tempo». E a ulteriore riprova ci sono anche gli altri doni scambiati a margine dell'udienza. Da parte di Francesco il documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi, il Messaggio per la Giornata mondiale della Pace e il libro Un'Enciclica sulla pace in Ucraina che raccoglie gli interventi del Pontefice sul Paese martoriato. Una copia de "La Santa Messa spiegata ai bambini" di Maria Montessori, del1955, un volumetto contenente "Il Cantico delle creature" e "I Fioretti" di San Francesco d'Assisi, del 1920 e un angelo dalla sua collezione privata, da parte della premier. Giorgia Meloni era giunta in Vaticano poco prima delle dieci. Ricevuta nel Cortile di san Damaso dal reggente della Prefettura della Casa Pontificia, padre Leonardo Sapienza, che le chiede subito: «E la piccola dov' è?». «È qui in macchina», risponde Giorgia Meloni, aprendo la portiera alla figlia Ginevra, che era con lei, insieme con il compagno Andrea Giambruno (alla bimba il Papa donerà alcuni libri per bambini, tra cui uno sulla nascita di Gesù). Nel seguito anche l'ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Di Nitto, il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, presentato come «un grande giurista e un grande cattolico», Francesco Talò, consigliere diplomatico, e Carlo Deodato, segretario generale. «È lui che fa girare la macchina», ha detto Meloni. E Deodato ha chiesto al Papa: «Preghi per la macchina di Palazzo Chigi», ricevendo un convinto assenso da parte del Pontefice. Anche tornando dal Bahrein, Francesco aveva detto ai giornalisti: «Io sempre auguro il meglio ad un governo perché il governo è per tutti e gli auguro il meglio perché possa portare l'Italia avanti». Ieri, dunque, si è avuta la riprova delle «buone relazioni bilaterali». Un clima favorito anche dall'atteggiamento del Papa che prima del colloquio ha illustrato brevemente le bellezze artistiche custodite nel Palazzo Apostolico, raccontate in un volume. «Qui infatti c'è una infinità da raccontare », ha commentato la premier. Ma al di là della buona accoglienza è chiaro che da Oltretevere si continuerà a guardare attentamente all'azione dell'esecutivo italiano. I doni "parlanti" del Papa e i temi dei colloqui lo testimoniano. Saranno la lotta alla povertà, la demografia, i migranti e la pace i veri banchi di prova per misurarne l'efficacia».

Iacopo Scaramuzzi su Repubblica disegna un retroscena su quella che definisce l’ala destra della Curia, che farebbe da sponda al governo italiano. Mettendo insieme sensibilità diverse come Ruini, Sarah, Burke e il No Vax trumpiano Viganò.

 «L'esordio non era dei più promettenti. Nella sua autobiografia Giorgia Meloni tesse l'elogio di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, per poi chiosare: «Io ho seguito ogni pontefice, ma non con lo stesso trasporto. Sarà anche l'età, e la consapevolezza che si porta dietro, ma benché sia cattolica e non mi sia mai permessa di criticare un pontefice, ammetto che non sempre ho compreso papa Francesco. A volte mi sono sentita una pecorella smarrita, e spero un giorno di avere il privilegio di poter parlare con lui». L'occasione è avvenuta ieri, ed è stata cordiale. "Io sono Giorgia" è un libro di un anno mezzo fa: in politica, un'era geologica. Sulla carta, la distanza tra la leader di Fratelli d'Italia il Pontefice riformista poteva essere ampia. Dalla concezione "identitaria" della fede ai rapporti con l'islam, dalla Cina alle migrazioni, i temi di attrito non mancavano. In passato, tra le personalità che Meloni più ha elogiato, ricambiata, c'è il cardinale Camillo Ruini, uomo a dir poco freddo nei confronti del Papa argentino. Nel 2017 la leader di FdI sfilò ad una marcia per la vita, per le strade di Roma, insieme a Lorenzo Fontana, oggi presidente della Camera, al cardinale Raymond Leo Burke, trumpiano sfegatato, e a monsignor Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti giunto a chiedere le dimissioni di Francesco. All'avvicinarsi delle elezioni, tra le prime porte a cui la futura premier andò a bussare in Vaticano vi fu quella del cardinale Robert Sarah, uno degli esponenti della fronda conservatrice al Papa. Ma quello, appunto, era prima. Poi è stato necessario tessere rapporti di alto livello oltretevere. Ad aiutare la neopremier sono stati Alfredo Mantovano, fino a ottobre scorso presidente della sezione italiana della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, nei giorni scorsi a fianco di Meloni a rendere omaggio alla salma di Benedetto XVI, «grande magistrato e grande cattolico», lo ha presentato ieri la premier al Papa. E poi Raffaele Fitto, il più democristiano dei ministri meloniani, Eugenia Roccella, oggi responsabile della Famiglia ieri portavoce del Family day di Ruini, Isabella Rauti, un'ampia rete di relazioni. Tutte personalità con rapporti solidi con alcune componenti del mondo cattolico, non con l'inner circle bergogliano. Giorgia Meloni ha avuto la capacità di costruire i rapporti che mancavano. È andata a trovare il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, il "ministro degli Esteri" della Santa Sede, l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi. Un interlocutore di ieri e di domani è monsignor Rino Fisichella, responsabile del Giubileo del 2025. In Vaticano hanno chiuso facilmente un occhio sulle sgrammaticature istituzionali dei mesi precedenti. Ai piani alti del Palazzo apostolico, dove qualcuno la chiama "Giorgia", sono abituati a collaborare con chi siede a Palazzo Chigi, tanto più con una premier che sta affrontando con senso di responsabilità un passaggio sociale ed economico dai tratti drammatici. E permeabile alle istanze vaticane, dalla preoccupazione per i poveri a quella per le famiglie. Sui migranti in questi mesi dai maggiorenti della Chiesa non sono mancate bordate sui respingimenti e i porti chiusi, accompagnate però da appelli ad una maggiore responsabilità dell'Unione europea. Un'apertura di credito nei confronti di Meloni promossa in primis da Papa Francesco. Il quale non vuole lasciare all'ala reazionaria della Curia l'interlocuzione con la premier, ed ha sviluppato nei suoi confronti un'impressione sinceramente positiva per almeno tre motivi. Meloni rivendica la sua provenienza popolare, nelle corde di un Pontefice dalla gioventù peronista. È donna, e Bergoglio ha sempre avuto rapporti cordiali con le politiche donne, da Cristina Kirchner a Angela Merkel, da Christine Lagarde a Zuzana Caputova. Ed è giovane, e Francesco ha incoraggiato sin dall'inizio del pontificato i giovani che si impegnano in politica, a prescindere dallo schieramento: in passato il premier austriaco Sebastian Kurz (destra) o il greco Alexis Tsipras (sinistra), oggi Giorgia Meloni. Per la premier, un'occasione preziosa. La "pecorella smarrita" ha ritrovato il suo pastore».

IL CHIACCHIERICCIO NON È TUTTO, NEANCHE IN VATICANO

Avvenire affronta il tema delle divisioni nella Chiesa dopo i funerali di Benedetto XVI e lo fa con un’intervista al teologo Piero Coda.

«Rattristato, certo. Ma non particolarmente sorpreso. Monsignor Piero Coda, uno dei più noti teologi italiani, legge con disincanto i contrasti emersi dopo la morte di Benedetto XVI. Conosce infatti la natura umana e quanto sia facile lasciarsi vincere dall'amarezza e dal pettegolezzo. L'importante però è non dimenticare mai la "casa" in cui si abita, la Chiesa, il cui paradigma vitale dovrebbe essere la ricerca di unità e comunione. Uno stile e insieme un obiettivo richiamati in queste ore da sempre più numerose voci all'interno della comunità ecclesiale. I fatti sono risaputi. Pressoché in contemporanea con la scomparsa di Benedetto XVI nell'anticipazione del libro Nient' altro che la verità scritto insieme al vaticanista Saverio Gaeta, e durante alcune interviste, monsignor Georg Gänswein segretario particolare di Joseph Ratzinger, ha attribuito al Papa emerito un profondo dispiacere per l'intervento, letto come una stretta, di Francesco sulla Messa in latino. A propria volta l'arcivescovo ha sottolineato l'amarezza provata quando, da prefetto della Casa pontificia, gli venne chiesto di occuparsi solo del Pontefice emerito. Sono voci di contrasti, immagini "grigie" che mal si abbinano al clima di affetto e stima che hanno sempre contraddistinto i rapporti tra Ratzinger e Francesco. «Sì - osserva Coda, segretario generale della Commissione teologica internazionale -, possiamo riconoscere dopo questi dieci anni che quella che ci hanno dato è stata una testimonianza di comunione, nutrita dalla fede in Gesù che guida la Chiesa ed espressa nel rispetto reciproco, nell'attenzione fraterna, nel reciproco sostegno. Benedetto XVI ha detto più volte di voler sostenere nella preghiera il ministero di papa Francesco, sentendosi a sua volta sostenuto dal suo amore. Nessun dubbio che - per entrambi - il Papa è uno solo: quello che tempo dopo tempo lo Spirito Santo chiama ad esercitare il ministero di unità per tutta la Chiesa».

Appena morto Benedetto XVI si sono levate voci amare. Ne è stato sorpreso?
Sì e no. Sì, perché colpisce e rattrista sempre il fatto che ci si lasci andare a critiche, risentimenti, e qualche volta anche malevolenze. No, perché sappiamo di che pasta tutti siamo fatti, e dobbiamo aver pazienza con noi stessi prima che con gli altri. Sempre di nuovo ricordandoci l'esortazione di Gesù - non a caso l'unica che, nel Padre nostro, riguarda le relazioni interpersonali - a essere misericordiosi gli uni verso gli altri come lo è, nei confronti di tutti, il Padre che è nei cieli.

C'è chi sostiene che contrasti e tensioni nella Chiesa ci sono sempre stati, che semplicemente adesso emergono più chiaramente.
Quelli che lei definisce contrasti, a ben vedere, sono almeno di tre tipi. Quelli che nascono - lo dico con san Paolo - dall'"uomo vecchio" che continua a contrastare, in noi, la vita dell'"uomo nuovo": gelosie, invidie, desiderio di apparire e farsi valere... E poi quelli che germogliano semplicemente dalla diversità di carattere, di formazione, di obiettivi, di idee, o anche solo da incomprensioni e fraintendimenti. E poi i contrasti che - in buona coscienza - nascono dalla volontà di portare avanti un punto di vista o una scelta...

Si parla di lotta tra progressisti e conservatori, tra sinistra e destra. Ma sono categorie applicabili alla Chiesa?
La Chiesa è "una sola realtà complessa" - insegna il Vaticano II - con una dimensione divina e mistica e una dimensione umana e storica. In quanto soggetto storico direi che, dal punto di vista sociologico, è fisiologico che nella Chiesa convivano un'istanza più conservatrice e un'istanza più progressista. Ma avendo a che fare, nella Chiesa, con la missione di trafficare quella "eredità di Dio" che è il Vangelo di Gesù non si può trattare di partiti in competizione tra loro, ma dell'esperienza di una polarità vitale: quella tra l'impegno a conservare con fedeltà il "deposito della fede" e quello a fare di esso con creatività il lievito di una storia sempre nuova.

Il Papa parla spesso del chiacchiericcio, non c'è il rischio che questi sfoghi, che le accuse verso di lui, lascino delle ferite poi difficili da rimarginare?
Già l'apostolo Giacomo metteva in guardia dalla lingua come quel « piccolo fuoco che può incendiare una grande foresta». Quante volte la pazienza e la misericordia potrebbero evitare dispute persino cruente! E ciò senza venir meno al bisogno di parresia. L'essenziale è l'intenzione indirizzata al bene vero e più grande per cui si parla ed agisce, un'intenzione che, in ottica cristiana, deve tener conto, per quanto possibile, anche del modo con cui viene recepita dall'altro la parola che gli rivolgi o che lo riguarda.
Non bisogna mai parlare male di un altro in sua assenza. Si può parlare di lui, ma per il suo bene. Il chiacchiericcio distrugge l'atmosfera di fraternità e rende più difficile edificare ciò che è bene. Le ferite che ne possono venire sono profonde. Non toccano soltanto chi le riceve, ma infieriscono contro il Corpo di Cristo che siamo noi: membra gli uni degli altri perché membra dell'unico Corpo».

RUSSIA, PUTIN CAMBIA DI NUOVO

Nuove nomine di Vladimir Putin ai vertici militari. Il Cremlino «ripesca» Alexander Lapin come generale designato a capo delle forze terrestri. L'ufficiale era stato rimosso a ottobre dopo la disfatta di Kharkiv. Gli esperti militari del Corriere Andrea Marinelli e Guido Olimpio.

«Vladimir Putin cambia i generali come fossero soldatini. Lancia carriere e le distrugge usando come metro l'andamento dell'invasione in Ucraina. L'ultima nomina - non confermata e né smentita dal portavoce Peskov - riguarda il generale Alexander Lapin, designato quale nuovo capo di Stato Maggiore delle forze terrestri. E la notizia è doppia: perché l'ufficiale era stato sollevato dall'incarico di comandante del settore centrale a ottobre dopo il disastro di Kharkiv, dove gli ucraini avevo travolto le linee nemiche. Un rovescio che era diventato parte della faida tra i protagonisti dell'operazione speciale.
Il capo della Wagner, Evgeny Prigozhin, e il dittatore ceceno Ramzan Khadyrov avevano addossato ogni colpa su Lapin, definito un «mediocre e incompetente» per la cattiva gestione delle unità. Attacco accompagnato da racconti sul trattamento riservato ai soldati, su sbagli tattici, sullo spostamento del quartier generale a 150 chilometri dalla prima linea. Critiche con motivazioni diverse. Intanto per la batosta, resa ancora più umiliante dall'abbandono di tanti mezzi in una fuga disordinata. Poi per la sfida aperta lanciata dal duo Prigozhin-Khadyrov, entrambi mossi dall'ambizione di essere gli unici - o quasi - a risolvere i problemi sul terreno. Una posizione contrapposta a quella dell'establishment rappresentato dal ministro della Difesa Shoigu e dal capo di Stato Maggiore Gerasimov. Sarà dunque interessante comprendere se quella di Lapin è una rivalutazione nonostante l'ostilità dei falchi o, invece, è una semplice ricollocazione sia pure su un gradino alto. Qualche osservatore occidentale ha rilevato come Putin «giochi» sulle rivalità dei comprimari, li usi uno contro l'altro. Come ogni monarca.
Dall'inizio della crisi l'Armata ha assistito ad altri cambiamenti nelle gerarchie. Il generale Dvornikov è rimasto al suo posto per poche settimane dopo aver disatteso le aspettative. Cacciato il responsabile dei reparti aerotrasportati Serdyukov al quale hanno addossato la responsabilità delle alte perdite.
L'ammiraglio Igor Osipov sostituito alla guida della Flotta del Mar Nero: ha perso l'incrociatore Moskva affondato dai missili nemici nonostante la supremazia dei mezzi a disposizione. Il neo zar si è affidato a elementi che avevano dimostrato qualche capacità in Siria contro i ribelli anti Assad, un test non probante, visto che i guerriglieri non avevano certo gli strumenti degli ucraini. O comunque la loro esperienza si è rivelata insufficiente in un teatro nuovo e complesso, reso arduo dalle carenze della logistica e dalla sottovalutazione dell'intelligence. L'operazione speciale è iniziata come un grande pattuglione con i veicoli tutti in colonna, esposti alle tattiche agili della resistenza e al tiro delle armi moderne fornite dalla Nato. Rigidità, guai storici, dottrina, incompetenza di alcuni, equipaggiamenti superati hanno trasformato la missione in un impegno infinito. Putin ha rimediato dando le chiavi al generale Surovikin, anche lui con un passaggio nel conflitto siriano. E l'alto ufficiale ha risposto puntando ad una stabilizzazione dei fronti schierando la massa dei riservisti, adottando posizioni più protette, arando con droni e missili le città dell'Ucraina. C'è chi sostiene che Surovikin abbia una buona intesa con Prigozhin, particolare che lo metterebbe al riparo dalle pugnalate alle spalle».

GLI ARMENI MASSACRATI NEL SILENZIO

Analisi della scrittrice Antonia Arslan (suo La masseria delle allodole) per La Stampa: gli armeni vengono cancellati dalla guerra azera che nessuno vuole vedere. “Nel Nagorno-Karabakh un popolo invaso viene torturato nel silenzio”.

«Le bugie hanno le gambe corte. Ma a volte, come nel caso della lettera del prof. Daniel Pommier Vincelli a La Stampa del 22 dicembre, pubblicata col titolo L'Azerbaigian rivendica i propri confini legittimi. Sono le interferenze russe a peggiorare la situazione, non le hanno affatto. Vorrei segnalare le affermazioni e omissioni più eclatanti di questa lettera. In risposta all'affermazione che «l'espulsione della popolazione civile» azera dal Nagorno-Karabakh negli Anni 90 è «stata tecnicamente la più grande pulizia etnica del XX secolo», vorremmo sommessamente ricordare al prof. Vincelli che nel XX secolo ci sono stati numerosi - e ben noti - genocidi e pulizie etniche, riguardanti - in primis - armeni ed ebrei e poi l'Holodomor ucraino (su cui, nel 2019, è uscito il bel film Mr. Jones), il Ruanda, la Cambogia, i Balcani... Quanto alla "pulizia etnica" dell'Azerbaijan, ricordiamo che di profughi armeni ce ne furono circa 400.000. Secondo l'European Commission against Racism and Intolerance, gli armeni erano «il gruppo più vulnerabile in Azerbaijan nel campo del razzismo e della discriminazione razziale» (2006). All'affermazione che «l'Armenia ... all'Azerbaigian non solo la regione del Karabakh» e alla descrizione della prima guerra del Nagorno-Karabakh come «l'invasione armena dei territori azerbaigiani», faremmo notare che solitamente non si definiscono come "invasori" le popolazioni autoctone o indigene. Gli "invasori" vengono dal di fuori. Gli armeni, invece, vengono dal di dentro: sono autoctoni di quelle terre. Tanto è vero che la lingua ufficiale della regione autonoma (oblast) del Nagorno-Karabakh, dotata anche di un Soviet autonomo, era l'armeno. Infine: bene il richiamo all'Onu del Vincelli: «Diritto all'autodifesa come da articolo 51 della carta delle Nazioni Unite». Male invece non aver citato l'altro fondamentale diritto riconosciuto dall'Onu: il diritto all'autodeterminazione dei popoli (Risoluzione 1514 (XV), 14 dicembre 1960). E arriviamo alle omissioni. Ciò che è più incredibile della lettera di Vincelli è il voler «spazzare sotto il tappeto», come si dice in inglese, il pericolo corso dal popolo autoctono armeno del Nagorno Karabakh (tenuto a bada dall'Unione Sovietica, finché è durata). Come ricorda Sohrab Ahmari nel suo magistrale articolo sui fatti dell'Artsakh (del 22 dicembre scorso), finché c'era il Soviet gli armeni del Karabakh riuscirono a coesistere coi non armeni. Ma con il suo indebolimento, essi rividero lo spettro dei pogrom del XX secolo. Per loro combattere divenne una questione di sopravvivenza. Vergognoso poi è il silenzio sulle decapitazioni da parte azera di abitanti dell'Artsakh, sulle torture su civili armeni e sui prigionieri di guerra, sui video (da loro diffusi sui social) di donne armene mutilate, sul vergognoso Parco della Vittoria creato da Aliyev a Baku alla fine della guerra; per non parlare dell'assassinio dell'ufficiale armeno Gurgen Markaryan durante il sonno, colpito 16 volte con un'ascia dall''ufficiale azero Ramil Safarov a Budapest, durante le esercitazioni Nato del gennaio 2004. Condannato all'ergastolo, Safarov venne rimpatriato dopo una trattativa segreta col governo ungherese, e festeggiato in patria come un eroe nazionale. Tutte questo cose sono state ampiamente documentate e riportate dai giornali. E che dire del "caso Akram Aylisli"? Questo scrittore ottantacinquenne, uno dei più noti e celebrati autori azeri, ha scritto un breve romanzo, Sogni di pietra (2013), pubblicato anche in Italia da Guerini, con la prefazione di Gian Antonio Stella. Una piccola storia incantevole di fratellanza e di pace ambientata a Baku, in cui un vecchio attore azero finisce in ospedale per aver difeso un armeno da un linciaggio, e nel delirio ricorda la pacifica convivenza nel villaggio natio. Aylisli è diventato un reietto: è stato dichiarato apostata, espulso dall'Unione degli scrittori azeri, privato della pensione, gli è stato impedito di uscire dal Paese. E infine, perché parlare di «una premessa storica, che assume un valore etico-politico»? Vogliamo proprio parlare di etica, prof. Vincelli? Perché non cominciamo con il parlare di verità? Come ricorda Kant, le bugie sono in sé cosa non etica: mendacium est falsiloquium in praeiudicium alterius. Proprio in questi giorni ecco l'ultimo episodio di questa spietata guerra sotterranea, chiaramente intesa a far sloggiare i restanti 120.000 abitanti armeni del Karabakh: il blocco del corridoio di Lachin, l'ultima strada - rimasta operativa sotto il controllo di militari russi - che collega al mondo questa enclave abitata da millenni dal popolo armeno. È una mossa che fa seguito ai bombardamenti del luglio scorso, in cui furono attaccati diversi villaggi di confine e anche la celebre stazione termale di Jermuk, nel territorio stesso dell'Armenia, con parecchi morti e feriti. Una perversa partita del gatto col topo, il cui scopo è di accrescere l'ansia e l'angoscia di questi poveri e ostinati montanari, attaccati come ostriche allo scoglio alla loro terra natia, dove sono ritornati dopo la guerra dell'autunno 2020, vinta dall'Azerbaigian col supporto dei droni turchi e delle milizie dei jihadisti siriani. Farli diventare miserandi profughi, insomma, come gli sventurati sopravvissuti al genocidio del 1915-1922, che non a caso in Turchia vennero chiamati "i resti della spada". L'attuale blocco totale del corridoio di Lachin, attuato da sedicenti "ambientalisti" azeri da 18 giorni, sta strangolando gli armeni del Karabakh. Ogni attività si sta fermando. Nel severo inverno caucasico, manca il petrolio. Mancano o scarseggiano frutta, verdura, zucchero e molte altre cose di quotidiana utilità, che di solito arrivano dall'Armenia. I 612 studenti del complesso educativo italo-armeno (Hamalir Antonia Arslan), istituito dalla Cinf, fondazione italo-americana attiva da qualche anno, che vanno dai 4 ai 27 anni, sono costretti a casa, al freddo. Così hanno passato il Natale e il Capodanno. E il mondo occidentale tace, non guarda fischiettando dall'altra parte». Ha collaborato Siobhan Nash-Marshall.

BRASILE, PARLA BANNON

L’«ideologo» americano Steve Bannon esalta la sommossa brasiliana dei sostenitori di Bolsonaro e dice: «Questo è il populismo, va oltre i suoi leader». L’intervista sul Corriere è di Viviana Mazza.

««È un altro come Salvini, un altro giovane leader emergente sulla scena mondiale», disse Steve Bannon al Corriere nel dicembre 2018. Parlava di Eduardo Bolsonaro, terzogenito dell'allora presidente brasiliano. Dopo la sconfitta del 30 ottobre, Eduardo ha incontrato Trump in Florida e ha parlato al telefono con Steve Bannon. Ma alla fine padre e figlio non hanno contestato l'esito del voto in Brasile, né lo ha fatto il Partito liberale di Bolsonaro che ha stravinto nelle elezioni legislative contemporanee al primo turno delle presidenziali. Dagli Stati Uniti, l'ex guru di Trump, condannato a quattro mesi di carcere per aver rifiutato di testimoniare alla Camera sul 6 gennaio ma libero in attesa dell'appello, continua invece a parlare di elezione rubata e di dubbi sulle macchine elettroniche elettorali.

Qual è il suo rapporto con Eduardo? In passato gli ha dato consigli informali. È vero che ha incoraggiato lui e il padre a non accettare l'esito del voto?
«Io penso che i Bolsonaro abbiano fatto poco o nulla. Penso che siano stati molto passivi. Sono molto vicino a Eduardo, ma penso che i Bolsonaro in questa situazione abbiano i loro consiglieri».

Nei giorni scorsi lei ha detto al «Washington Post» che in Brasile il «movimento» è andato oltre i Bolsonaro.
«Sì, come in America è andato oltre Trump e in Italia oltre Salvini e Meloni - ci dice Bannon al telefono -. Meloni, Salvini, Farage, Trump, Bolsonaro, Le Pen sono importanti ma i movimenti diventano più grandi delle persone e non restano sottomessi a loro, questo è il populismo. Questa Primavera brasiliana è stata auto-organizzata dai cittadini ed è dieci volte più grande della Primavera araba».

L'assalto ai palazzi del potere a Brasilia ha ricordato la violenza del 6 gennaio al Campidoglio di Washington. Bolsonaro ha denunciato la violenza, i bolsonaristi accusano infiltrati, ma lei non lo ha fatto.
«No, non penso che ci sia un parallelismo. Non so abbastanza su quanto accaduto in Brasile. Ma sul 6 gennaio ci sarà una grossa indagine della Camera e si scoprirà che è stata una FEDsurrection, una insurrezione istigata, pianificata ed eseguita da membri dell'Fbi, del dipartimento di Giustizia e del dipartimento di Homeland Security».

Alla Camera non succedeva da 160 anni che fosse così difficile di eleggere lo speaker, Kevin McCarthy. Gli elettori repubblicani vogliono questo?
«Il movimento Maga (Make America Great Again) ha travolto la palude dei lobbisti di cui McCarthy era l'emblema. Penso che avrebbero potuto fare di più, erano vicini a rimuoverlo, se avessero aggiornato la seduta anche venerdì notte penso che per lui sarebbe finita. Comunque hanno ottenuto nuove regole alla Camera e inchieste: quella guidata da Jim Jordan sarà come la Commissione Church sugli abusi della Cia ed è una cosa su cui premevo da quando ho lasciato la Casa Bianca».

Nel 2024, Trump potrebbe trovarsi di fronte DeSantis oltre a Pompeo e altri.

«DeSantis mi piace molto, ma non so se si candiderà. Secondo me Trump avrà la nomination e sarà il prossimo presidente. Pompeo è irrilevante, le primarie saranno irrilevanti. E nell'anno che verrà guarderemo soprattutto le indagini della Camera».

Jim Jordan, Matt Gaetz e Lauren Boebert?

«E Marjorie Taylor Greene. E la lotta sul tetto del debito: una battaglia contro tutte le banche centrali, dalla Fed a Bruxelles».

Ha parlato con Giorgia Meloni? Il tentativo di costruire un'internazionale populista in Europa è fallito? «Non voglio commentare sulle persone con cui parlo. Io penso che il movimento sia forte e che la crisi economica ed energetica lo rafforzerà. Ha quasi battuto Macron in Francia e portato Meloni al potere».».

OGGI DIREZIONE DEL PD, RISCHIO SCISSIONE

Oggi la direzione del Pd. Per le primarie è muro contro muro, al punto che si teme una nuova scissione. Elly Schlein insiste sul voto online, ma l’altro candidato Stefano Bonaccini risponde che cambiare le regole in corsa è scorretto. Maria Teresa Meli per il Corriere.

«L'insistenza con cui Elly Schlein continua a chiedere il voto online, nonostante gli altri candidati alla segreteria siano contrari, ha fatto scattare un campanello d'allarme al Partito democratico. I suoi sostenitori ventilano da una settimana la possibilità di presentare un ordine del giorno nella direzione di oggi per far votare la loro proposta, pur sapendo che spaccherà i dem e che comunque non passerà. Un partito già lacerato, dato in calo nei sondaggi (Swg ieri gli attribuiva addirittura il 14%) non ha bisogno di ulteriori divisioni, si sono detti Enrico Letta e i suoi collaboratori. Ma a preoccupare gran parte dei dirigenti del Pd è la deriva che sembra prefigurare questa insistenza, perché, questo è il loro timore, potrebbe essere propedeutica a una non accettazione del voto dei gazebo in caso di vittoria di Stefano Bonaccini, e a una nuova, dolorosa, scissione. Fondate o no che siano queste paure di tanti, Letta intende comunque evitare nella direzione divisioni e drammatizzazioni che nuocerebbero al Pd. Per questa ragione, dopo che in mattinata una riunione degli sherpa dei quattro candidati alla segreteria con i rappresentanti della commissione congressuale si era incagliata proprio sul punto del voto online, ha deciso di intervenire. E ha telefonato a Bonaccini (che è stato il primo a ricevere la chiamata del leader uscente), Schlein, De Micheli e Cuperlo. «Non si possono cambiare le regole a un mese dalle primarie», ha sottolineato Letta in quelle telefonate. E ancora: «Io non posso sostenere dei mutamenti che non sono condivisi da tutti i candidati. Niente forzature o lacerazioni. Serve senso di responsabilità». Un discorso, quello di Letta, che ha trovato più che d'accordo Bonaccini: «Cambiare le regole in corsa non è corretto. Non dobbiamo spaccare il Pd ma rilanciarlo», ha risposto il governatore al segretario uscente. E Alessandro Alfieri, portavoce di Base riformista, la corrente di Lorenzo Guerini, che sostiene la candidatura del presidente dell'Emilia-Romagna, spiega: «Noi siamo per le primarie vere. Seggi e gazebo diffusi in tutti i territori. Se dobbiamo ricostruire il Pd serve far uscire le persone di casa, guardarle negli occhi, parlarci, prendersi anche qualche insulto Solo così si può provare a ripartire». Dello stesso avviso Paola De Micheli: «Si deve votare nei gazebo per incontrarci e discutere», dice l'ex ministra. Che a Letta ha ribadito il suo no al voto online, spiegandogli: «Non possiamo sempre essere subalterni a chiunque». Ma Alessandro Zan, sostenitore di Schlein, è di parere opposto: «Non ci può essere alcun timore verso uno strumento che favorisce la partecipazione». E infatti l'ex vicepresidente dell'Emilia-Romagna, nel suo colloquio telefonico con Letta non è arretrata di un millimetro: «Per me il voto online è una pregiudiziale, perché dobbiamo allargare la partecipazione, non rinchiuderci». L'intransigenza di Schlein su questo punto ha provocato lo stallo nella seconda riunione degli sherpa, che è stata sospesa verso le otto di sera e riprenderà stamattina. Poco dopo il comitato di Bonaccini rilasciava una dura nota: «Le regole del nostro congresso sono state già cambiate per consentire a chi non era del Pd di partecipare. La sola ipotesi che si possa spaccare il partito per cambiarle ancora a congresso già in corso, anziché confrontarsi su come rilanciarlo, sarebbe sciagurata». A Marco Meloni, coordinatore della segreteria, oggi, l'arduo compito di trovare una «soluzione unitaria» prima della direzione. Ai candidati l'onere di parlarsi in nottata per facilitare il lavoro di Meloni».

COVID IN CINA, TORNA L’INCUBO

Il Covid in Cina. Dai satelliti si vedono le code ai crematori mentre le autorità sostengono che i morti di questa ondata sono solo 40. Guido Santevecchi per il Corriere della Sera.

«Non sembra il 2023, ma l'inizio tragico del 2020. Come per Wuhan tre anni fa, le autorità cinesi hanno avvolto in una cortina di opacità i dati sull'ondata di Covid-19 che ora sta dilagando in tutto il Paese. La stampa di Pechino dà risalto alla grande ripresa dei viaggi, decisa dal Partito-Stato che il 7 dicembre si è improvvisamente ritirato dalla trincea di politica sanitaria Covid Zero, dei lockdown e delle quarantene di massa, e l'8 gennaio ha riaperto le frontiere (soprattutto in uscita dalla Cina): «L'afflusso di visitatori cinesi guiderà il boom del turismo mondiale», scrive il Global Times di Pechino nella sua edizione in inglese. In altri articoli vengono citati epidemiologi nazionali che rassicurano: «Il picco dei contagi è stato superato il primo gennaio». Una precisione che si scontra con la mancanza di informazioni ufficiali sulle infezioni, sui ricoveri, sui morti. L'Organizzazione mondiale della sanità ha sottolineato che per cercare di valutare la situazione in Cina il Dipartimento Emergenze «si deve basare sull'aneddotica», osservando con sgomento e frustrazione le immagini e i commenti che circolano da settimane sui social cinesi: terapie intensive degli ospedali piene e code alle agenzie funebri delle grandi città. «Le autorità di Pechino sottostimano i numeri», ha detto già il 22 dicembre il dottor Mike Ryan, capo delle Emergenze all'Oms di Ginevra. Per cercare di comprendere la situazione reale, il Washington Post ha realizzato un'inchiesta utilizzando le immagini satellitari fornite dalla società americana Maxar Technoligies. Gli occhi dei satelliti hanno zoomato su crematori e agenzie funebri di sei città sparse nel Paese: Pechino, Nanchino, Kunming, Chengdu, Tangshan, Huzhou. Secondo gli analisti l'attività intorno ai centri mortuari è aumentata in modo abnorme a dicembre. Sono state individuate code di auto e carri funebri in attesa di poter accedere alle aree dove vengono inviate le salme per la cremazione. E poi ci sono le testimonianze che si accumulano da giorni: su Weibo (il Twitter cinese) un funzionario di Chongqing ha scritto che nel suo inceneritore «si bruciano 22 corpi al giorno, rispetto ai 4-5 di novembre». Racconti simili, di bare nei corridoi delle sale mortuarie degli ospedali, di personale in tute anticontagio impiegato per il trasporto, di crematori affollati, arrivano da tutte le zone urbane della Cina. Studiando le foto dall'alto del crematorio nel distretto di Tongzhou alla periferia di Pechino, il Washington Post ha notato che tra il 22 e il 24 dicembre è stato creato un nuovo parcheggio per contenere un centinaio di auto in più. Il personale dell'impianto funebre in quei giorni avrebbe lavorato ventiquattro ore su ventiquattro per cremare 150 corpi al giorno, secondo un post pubblicato (e presto rimosso) sul sito del Quotidiano della Gioventù di Pechino. Altri testimoni riferiscono di cinque giorni di attesa per un funerale, di bagarini che a Shanghai hanno chiesto denaro ai parenti delle vittime del Covid per accorciare l'attesa in coda, di cancellazione delle cerimonie funebri per fare prima. Eppure, secondo i dati comunicati dalla Commissione sanitaria nazionale, in questa ondata di Covid-19 partita a dicembre i decessi sarebbero stati solo 40, per un totale dal gennaio 2020 di circa 5.200. I modelli epidemiologi elaborati dagli istituti occidentali di analisi sanitaria raccontano tutta un'atra evoluzione dell'epidemia in Cina: l'inglese Airfinity afferma che i morti sono 15.000 al giorno. Pechino ha ristretto la definizione di decesso per Covid: si applica solo ai pazienti morti di polmonite e insufficienza respiratoria. Ma dietro questo espediente clinico è evidente che per non ammettere il fallimento della politica Covid Zero le autorità hanno deciso di non rivelare i numeri della mortalità. L'epidemiologo governativo Zhang Wenhong avverte che un secondo picco di contagi è previsto ad aprile-maggio e potrebbe colpire tra il 25 e il 50 per cento della popolazione. La speranza è che i sintomi causati dall'infezione risultino più lievi, ora che una grande massa di cinesi è stata esposta al contagio».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 11 gennaio:

Articoli di mercoledì 11 gennaio

Share this post

Attenti al pieno

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing