Azzurri (o forse gialli?)
Grande festa a Roma e nei Palazzi per i neo campioni d'Europa. Sulla felicità pesa il rischio contagio da variante, con qualche Regione che vede il giallo. Cuba in rivolta. Oggi Ddl Zan al Senato
La vittoria degli azzurri agli Europei di calcio tiene ancora banco. Ieri la Coppa e i calciatori sono arrivati in Italia: sono stati ricevuti al Quirinale, poi a Palazzo Chigi e infine dal tetto di un autobus scoperto hanno salutato la folla di tifosi, attraversando Roma. Grande attenzione mediatica oggi per i neo campioni di Europa. La Versione ha selezionato per voi qualche articolo. Chi non è interessato può passare al capitolo successivo, come sempre. Due le chiavi di lettura: le storie umane dell’Italia campione e le ricadute sociali, economiche e politiche della vittoria sportiva. I due risvolti negativi della medaglia sono: l’ansia per il contagio da festeggiamenti (ma per lo scudetto dell’Inter andò liscia) e la mancanza assoluta di sportività degli inglesi, nell’occasione molto poco british.
A proposito di pandemia, i dati di ieri confermano la crescita della diffusione del virus. Con questi parametri, alcune Regioni rischiano di tornare rapidamente “gialle”. Nonostante i numeri di ricoveri, terapie intensive e decessi siano ancora molto bassi. La campagna vaccinale prosegue tonica: 597 mila 673 iniezioni nelle ultime 24 ore. A Napoli istituito un call center per chi è ancora indeciso.
La mancanza di vaccini è uno dei motivi della rivolta del popolo cubano. Rivolta senza precedenti contro il regime comunista. È solo una prima conseguenza della diseguaglianza globale sul virus, ostinatamente coltivata da un’Europa egoista e mossa solo dai profitti delle Big Pharma. Nei prossimi mesi assisteremo ad altri eventi inimmaginabili nel mondo prima della pandemia. Intanto c’è da registrare, ancora sul fronte italiano, che il nostro vaccino Reithera funzionerebbe al 99 per cento ma non ci sono i fondi per produrlo.
Tornando al nostro Parlamento, sono ancora in primo piano il lodo Cartabia e il Ddl Zan. Sulla giustizia, bella intervista del Manifesto col Pm che potrebbe essere il nuovo segretario di Magistratura Democratica. Si esprime a favore dell’impianto della riforma. Sulla nuova legge contro l’omotransfobia non ci sono grandi novità nelle posizioni già note: il Pd è per il muro contro muro. I renziani vogliono modifiche e un’approvazione veloce. La Lega è contro.
Il Papa resta al Gemelli, per una vigile convalescenza. Bel ricordo di Giaime Rodano, che ci ha lasciato. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
I giorni azzurri continuano. Il Corriere della Sera sceglie le parole di Mattarella che ha ricevuto i calciatori campioni di Europa al Quirinale: «Così avete unito l’Italia». Anche la Repubblica va sullo stesso concetto ma senza virgolette: Avete unito l’Italia. La Stampa preferisce la descrizione dell’umore nazionale: Italia felice. Il Giornale legge la vittoria calcistica in chiave draghian-berlusconiana: Unità nazionale. Il Messaggero riecheggia l’inno di Mameli: I fratelli d’Italia. Il Fatto teme il contagio da festeggiamenti: Notti magiche, inseguendo il Covid. E Libero prende in giro proprio il direttore del Fatto, sempre all’opposizione: Travaglio di bile, di inglesi e anti-italiani. Il Mattino contrappone gli azzurri agli inglesi, che hanno avuto atteggiamenti antisportivi: L’orgoglio. La vergogna. Sulla pandemia vanno ancora Avvenire, pessimista sull’impennata dei contagi: Si rischia il giallo. La Verità vorrebbe cambiare parametri per far finta di nulla: Cambiate regole, o l’Italia richiude. Mentre il Quotidiano Nazionale ricorda che il nuovo vaccino italiano Reithera funzionerebbe al 99 per cento ma non ci sono soldi per finanziarlo: Il paradosso del vaccino italiano. Sulla riforma della giustizia oggi Il Sole 24 Ore offre una graduatoria degli arretrati nelle Corti d’Appello: Processi penali, la classifica dei ritardi. Mentre secondo il Domani: Blocco dei licenziamenti e sussidi hanno evitato la catastrofe sociale. Il Manifesto titola sull’approdo in Aula del Ddl Zan: Giochi pericolosi.
LA FELICITÀ HA IL COLORE AZZURRO
Il meglio dello sport sta nelle vicende umane dei protagonisti. Come insegna il grande Giovanni Arpino (a tutti consiglio la lettura del suo strepitoso romanzo Azzurro tenebra sulla sconfitta dell’Italia nei mondiali del 1974), quello che conta sono le vite dei campioni, sono le storie degli uomini. Ecco perché dal fiume d’inchiostro, sollecitato dalla vittoria degli azzurri ai Campionati Europei, abbiamo selezionato innanzitutto due ritratti. Il primo è di Daniele Mencarelli, prima pagina del Foglio, che tratteggia il profilo di Giorgio Chiellini, Capitano e simbolo della Nazionale.
«Con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così, Giorgio Chiellini non sfigurerebbe in un confronto all'americana. Non bello. Antipatico anche quando vuole fare il simpatico. Diciamolo. Esteticamente rivedibile. Il naso ingombrante, la testa povera di capelli, gli occhi piccoli, troppo piccoli. Chiellini sta alla bellezza italiana come il caffè solubile all'espresso. Anche sul piano del glamour, stendiamo un velo di silenzio. Anzi no. I suoi colleghi calciatori ostentano tatuaggi ovunque, acconciature dadaiste, stili di vita da rockstar sull'onda. Spendono e spandono, tutto a favore di macchina fotografica. Lui nulla di tutto questo. Visto per strada, senza sapere che Chiellini è Chiellini, lo potremmo prendere per un magazziniere a fine turno, un macellaio oppure un muratore. Al massimo un impiegato d'azienda che sogna un'altra vita. Anche calcisticamente non ha l'eleganza del grande difensore, la tecnica è ampiamente rivedibile, sul campo da calcio non spicca di certo per eleganza. Diciamocelo, in franchezza, e che il Chiello non se n'abbia a male, parliamo di un marcatore di quelli di una volta. Un canaccio che s' attacca al suo avversario e gli ruba anche l'aria che respira. Un canaccio. Chiellini è tutto quello che separa la narrazione del calcio dal calcio in carne e ossa, spesso rotte. E' rude, battagliero, sa usare ogni strumento che madre natura gli ha concesso a suo favore. E' rabbia fatta tackle, è l'anticipo che supera la soglia dell'ossessione. Quando entra in campo vuole solo una cosa, una soltanto, che l'attaccante che gli è toccato in sorte esca dal campo a fine partita senza aver capito come e perché gli fa male ogni parte del corpo senza aver mai toccato un pallone. Chiellini è il Giacomo Leopardi dei marcatori. Ma il nulla infinito è quello che tocca alle punte avversarie. Mentre lui, con il suo sorriso banditesco, la faccia da pugile suonato e risuonato, sorride e ti abbraccia, con le mani ancora sporche di vasellina. Perché dove non ci arriva con il gioco, la tecnica, ci arriva con l'astuzia, perché il calcio è e sarà per sempre ben più di uno sport e per vincere la mente conta come i piedi. Chiellini è italiano come Garibaldi. Più di Garibaldi. E' la prova vivente che se ci mettiamo in testa una cosa ti puoi chiamare anche Lukaku o Kane ma da questo rettangolo verde uscirai con zero, zero, da raccontare ai tuoi nipoti. A parte gli incubi. Marcare come Giorgio Chiellini è un'arte in via d'estinzione. Oggi si marca a zona, il difensore più che difendere deve saper costruire, perché il gioco si costruisce dal basso. Tutto vero. Bellissimo. Poi c'è la realtà e senza Giorgio Chiellini non staremmo qui a scrivere pezzi su pezzi, a festeggiare da italiani che si fregiano di esserlo solo quando si vince qualcosa. Perché il tiro a giro di Insigne, le sassate precise di Chiesa, senza guardiani della porta servono a poco. Senza sentinelle pronte a sputare anche l'anima. E Chiellini è proprio questo, una sentinella pronta a morire per la porta che protegge. Niente bellezza da ostentare, niente taglio o colore di capelli diversi a ogni partita. Giorgio Chiellini fa quello che fanno meglio gli italiani quando amano veramente qualcosa. Proteggono. Con la bava alla bocca».
Maurizio Crosetti disegna per Repubblica il profilo di Gianluca Vialli, dando spessore alla foto più bella di Wembley: quella dell’abbraccio fra i due amici ex attaccanti della Sampdoria dei miracoli.
«Dopo questa tragedia non diventeremo migliori, diventeremo quello che siamo». Erano i giorni più cupi del Covid. Intervistammo Luca Vialli in uno di quei pomeriggi di infinito silenzio, la sua voce al telefono era calma, increspata appena da un sospiro, e non rinunciava alle solite battute perché Luca è un uomo spiritosissimo. «Mi raccomando, fammi sembrare più intelligente di quello che sono». Sentiva questa vittoria: «Sapevo che i ragazzi sono forti e che il gruppo è formidabile. Merito di Roberto». E davvero Luca Vialli è diventato quello che era, quello che sarà. Convalescente come troppi tra noi, dunque a tanti di noi così simile. Il suo male, e il male di tutti. «Vorrei che le persone mi dicessero: grazie a te non ho mollato». Il commovente abbraccio a Mancini, anche quello in qualche modo è stato l'abbraccio di tutti. Lacrime, quando la testa si reclina sulla spalla del fratello e la mano accarezza la schiena come si fa con la donna più amata, con l'uomo della tua vita. Vialli e Mancini, da quarant' anni insieme. «Lui era un discreto numero 10, io un centravanti straordinario». Giocare al gioco di esistere, e riderne. Scolpito da una magrezza quasi lignea, ma con le forme che di nuovo e lentamente si arrotondano sul suo corpo formidabile, Vialli adesso è tutto occhi. Ridevano, all'inizio dell'Europeo, nei selfie sul pullman della squadra. Cantavano, liquidi, nella sera dei primi poderosi abbraccio a Mancio dopo i gol di Italia- Austria. Brillavano di pioggia domenica, le dita a indicare il cielo, le labbra a baciare un'anfora d'argento che forse conteneva tutti i venti e che la Nazionale aveva appena scoperchiato, e adesso quei venti chi li tiene più. «Grazie, ma preferisco dare una mano senza fare troppo rumore» ci disse quando gli chiedemmo di raccontarsi come capo delegazione dell'Italia. Non certo un ruolo decorativo. Vialli "non fa Vialli", adagiato su un cognome che è storia, ma si addentra nei meccanismi emotivi e tecnici dei ragazzi, li consiglia senza sovrapporsi a nessuno, con la discrezione di chi conosce allo stesso modo la quiete e la tempesta e non giudica. E poi c'è il rito di Luca dimenticato dal pullman, vero la prima volta, scaramantico le altre. «Lui ci dimostra ogni giorno come si deve vivere, e io voglio dedicargli questa vittoria» ha detto Florenzi, catturando uno stato d'animo colto anche dal presidente Mattarella: «Gianluca Vialli ha espresso i sentimenti e l'emotività che tutti noi avvertivamo ». A Wembley, stadio per loro anticamente fatale, Luca ha stretto forte Roberto trent' anni esatti dopo quello scudetto con la Samp. Tra i molti simboli che la vittoria azzurra ci consegna, la storia di Vialli va davvero oltre quel campo. Del suo cancro non parla con la retorica del combattente: «Non posso battermi perché vincerebbe lui, che è molto più forte. Il male è un compagno indesiderato che a un certo punto è salito sul treno insieme a me, spero si stanchi prima, ci sono ancora molte cose che voglio fare». Quel giorno, con Luca parlammo anche di libri. Ne scegliemmo tre: di Fenoglio, John Irving e Saramago. Adesso si va avanti così, tre alla volta e belli lunghi, perché abbiamo deciso che il tempo dev'essere smisurato».
Gli inglesi non sono sembrati molto british: molti articoli si occupano della loro mancata sportività. Per tutti vale ciò che scrive Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere.
«Che l'inglese medio assomigliasse poco a Sherlock Holmes e moltissimo al cugino attaccabrighe di Harry Potter è una certezza che i fischi all'inno di Mameli hanno simpaticamente confermato. (Per tacere delle frasacce razziste indirizzate sui social agli imberbi rigoristi accalappiati dalle manone di Donnarumma). Ma quando abbiamo visto quasi tutti i calciatori sfilarsi platealmente dal collo la medaglia d'argento appena ricevuta, è stato come se secoli di letteratura sulla sportività britannica fossero andati in frantumi. Uno pensa alla frase di Kipling che troneggia negli spogliatoi di Wimbledon: «Se saprai trattare la Vittoria e la Sconfitta, questi due impostori, allo stesso modo sarai un Uomo». Evidentemente di Uomini in quella squadra ce n'erano pochini. Ovvio che perdere ai rigori, e per giunta in casa, faccia girare le scatole. Ma il capriccio infantile di togliersi la medaglia è una mancanza di rispetto nei confronti di chi te l'ha data, degli avversari e, in fondo, di te stesso. Meriterebbe una lunga squalifica, non foss' altro che per l'esempio offerto ai bambini di mezzo mondo. Lo si può in parte giustificare quando si tratta della reazione impulsiva a un'ingiustizia: un arbitraggio scandaloso, una sconfitta immeritata. Al termine di una sfida dal verdetto cristallino è solo l'atto di arroganza compiuto da gente che si vanta continuamente (e ormai pateticamente) di avere inventato il football, ma ha dimenticato che anche fair play è una espressione inglese».
Calcio e politica, ma anche calcio ed economia. La vittoria di Londra si fa sentire anche nel Pil. L’economista Francesco Forte sul Giornale:
«La vittoria dell'Italia sull'Inghilterra nello storico e grandioso stadio di Wembley, alla presenza della famiglia reale inglese attonita e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il cui viso di solito triste, era felice, vale almeno 0,7 punti di Pil (prodotto interno lordo) nel 2021. Con ripercussione sul 2022 e consolidamento negli anni successivi, se non ne sprechiamo gli effetti positivi. Secondo la Abn, banca olandese specializzata nella soccernomics (ossia «soccer economics», economia calcistica) il +0,7% del Pil è un risultato frequente delle vittorie calcistiche nei campionati mondiali ed europei del passato lontano, di quello meno lontano e di quello recente. Come la vittoria nel Mondiale dell'Argentina nel 1978 e quelle negli Europei di Grecia e Spagna negli anni attorno al 2010. Per il nostro Paese c'è un dato empirico di grande importanza storico-politica, quello dell'Italia campione del mondo nel 1982, che aprì la strada al risorgimento dell'economia e della finanza italiana, martoriate negli anni '70 ( gli anni di piombo del terrorismo), dalla crisi finanziaria e dall'iperinflazione gestite dal «compromesso storico» catto-comunista. Dal 1982 l'Italia «si destò» con il ritorno a una finanza pubblica sostenibile e col taglio della scala mobile del governo Craxi del 1994 che ridusse al 5% l'inflazione a due cifre e generò l'aumento dell'occupazione e del reddito pro capite dei lavoratori E ancor più di quello degli autonomi e delle imprese. Il made in Italy trionfava. L'Italia così entrò nel gruppo dei grandi Paesi industrializzati occidentali assieme agli Usa, al Regno Unito, alla Germania e alla Francia. (…) In Borsa si riaccende la fiducia nell'Italia e nelle sue forze di mercato, nonostante l'enorme debito. Il turismo estero tende ad aumentare. Soprattutto aumenta il prestigio dei beni e dei servizi made in Italy. L'effetto favorevole così si prolunga al 2022 e si può consolidare. La Coldiretti calcola un +0,7% nel Pil, 12 miliardi di euro l'effetto positivo di Mancini e dei suoi, specie per il made in Italy. Si può dire che Mancini e la sua squadra, siano degli influencer. Ma la vittoria è stata ottenuta con rigore di condotta. Ciò ha portato a vincere ai rigori. Non è gioco di parole».
Calcio e politica. Il retroscenista Francesco Verderami sul Corriere della Sera sottolinea la vittoria europea dell’Italia, guida anche politica nel continente:
«La vittoria all'Europeo è una dose supplementare di vaccino contro la pandemia, perché ha un effetto di massa che genera ottimismo, ha un valore economico e sociale. Perciò poche ore prima della finale, in una telefonata di lavoro con Salvini, Draghi faceva gli scongiuri: «Speriamo che... Meglio non dirlo. Ma farebbe gran bene all'Italia». «Serve un presidente del Consiglio fortunato oltre che bravo», commentava ieri il leader della Lega. Per certi versi di questa fortuna Draghi non avrebbe politicamente bisogno, dato che non deve candidarsi alle elezioni. Non è come Berlusconi, che ai Mondiali del '94 vide gli azzurri perdere ai rigori dai brasiliani a un passo dalla Coppa. Non è come Prodi, che ai Mondiali del 2006 festeggiò il successo ai rigori della Nazionale contro i francesi. Il calcio è un fenomeno da stadio capace di impattare sul Pil e sulle urne, se è vero che nell'82 persino Spadolini arrivò ad affacciarsi da un balcone di Palazzo Chigi per inneggiare ai ragazzi di Bearzot. L'attuale premier invece non ha motivi di preoccupazione nella gestione del governo e ha un forte rapporto con il Paese, che da tempo gli accredita stabilmente il 60% di gradimento. Ma la partita di Wembley ha un valore politico più importante, che Draghi ha voluto sottolineare incontrando la squadra di Mancini: «Ci avete messo al centro dell'Europa». È soprattutto oltre confine che può essere sfruttata questa vittoria. Nella sfida agli inglesi, infatti, gli azzurri rappresentavano l'intera Unione: così era stata presentata mediaticamente dai vertici dell'Ue. E allora non è un caso se Mattarella - ricevendo la Nazionale al Quirinale - ha detto alla squadra che «avete fatto felici milioni di persone. E non solo in Italia». Lo sport è un vettore formidabile per l'immagine di un Paese. Ecco perché, oltre a festeggiare i calciatori, il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio hanno voluto valorizzare anche il primo posto nel medagliere degli azzurri under 23 agli Europei di atletica, e la finale a Wimbledon di Berrettini, punta di lancia di un movimento che vanta dieci tennisti nei primi cento posti del ranking mondiale. Ecco perché nei giorni scorsi, in un colloquio riservato, il presidente del Coni Malagò aveva ribadito al premier quanto fosse «preziosa e da salvaguardare l'autonomia del Comitato olimpico». Ed ecco perché Draghi ieri ha tenuto a ricordare come il governo stia investendo molte risorse sullo sport, «che è un grande ascensore sociale, un argine al razzismo e uno strumento di coesione». A livello nazionale l'impatto politico dell'Europeo non avrà riflessi sui partiti, che peraltro stanno (quasi) tutti in maggioranza. Semmai l'esecutivo spera che la vittoria nel calcio contribuisca alla vittoria della campagna vaccinale».
Nello Ajello sul Messaggero intervista proprio Romano Prodi:
«Quando lei era premier, vincemmo i Mondiali nel 2006. Vede analogie? «So soltanto che allora non solo abbiamo vinto ma mi sono divertito come un pazzo assistendo allo stadio alla semifinale contro la Germania che valse come una finale. Eravamo vicini alla fine dei tempi supplementari, mi voltai verso la Merkel e le dissi: Angela, io odio i rigori! E in quell'istante, abbiamo segnato il gol. Beckenbauer si è alzato ed è sparito. Mi sono girato e non l'ho più visto». E' stato calcolato che in seguito alla vittoria mondiale nel 2006 la ricchezza nazionale è aumentata del 2 per cento. E la disoccupazione è scesa del 10 per cento. Lei vede correlazioni tra l'aspetto calcistico e la crescita generale del Sistema Italia? «E' impossibile da provare la correlazione tra la vittoria nel football e lo sviluppo del Paese. Però una delle grandi molle che spingono i Paesi è la fiducia che i giovani hanno in se stessi. I giovani ben motivati danno sempre una spinta alle nazioni a cui appartengono. Una vittoria nel calcio ti dà un minimo di sicurezza in più e questo serve a qualcosa. Il grado di sicurezza che i miei studenti cinesi e americani avevano nelle proprie capacità e nel proprio futuro era un formidabile ingrediente di forza. Una vittoria nel calcio non fa forse cambiare un Paese, ma in un mondo così internazionalizzato un po' serve. Se non altro, per sfottere i propri coetanei degli altri Paesi invece che essere sfottuti». Che Europeo è stato questo Europeo? «Un torneo strano. E' la prima volta che si è giocato in tantissimi Paesi e non solo della Ue. Questo significa che ha coinvolto più persone. Non dimentichiamo che si è giocato anche in Russia, in Azerbaigian, ovunque. Come spettatore, mi ha fatto impressione che il business del calcio avesse visibilmente sponsor provenienti da ogni parte del mondo. Molti cinesi: da Tik Tok a Hisense, che è una grande azienda di elettrodomestici, da Vivo che è un colosso nel campo della tecnologia e della comunicazione ad altri. E non solo i cinesi, ma anche Qatar Airways, i russi di Gazprom e così via. C'è stato un interesse spasmodico e larghissimo sia dal punto di vista degli spettatori sia da quello degli investitori. E a proposito della Cina, pensi che anni fa fui invitato a un seminario in cui i cinesi mi chiesero: ma come mai noi nel football non vinciamo mai e il Brasile che come noi è un Paese in via di sviluppo gioca così bene? E io risposi: l'unica mia ipotesi è che i vostri ragazzi il pomeriggio studiano la matematica e gli altri giocano a pallone. Ma poi in Cina sono nate migliaia di scuole di calcio». Insomma la impressiona l'aspetto sempre più universale del football? «Sì, e mi impressiona tanto. Il calcio ha sempre rappresentato un legame importante tra i popoli, una forma di scambio e di condivisione. Ricordo quando andavo in giro per il mondo da presidente dell'Iri. In ogni Paese, dall'Africa all'Asia, mi chiedevano di Paolo Rossi. Una volta dei ragazzi vedendomi al Cairo mi gridarono sapendo che ero italiano: Rossi! Ecco questo aspetto di condivisione globale della passione calcistica, che c'è sempre stato, adesso è ancora più esteso anche per via degli strumenti di comunicazione ormai capillari. E' un fatto sportivo e di business, un fenomeno rilevantissimo. Ma anche il ciclismo è universale. Così come il tennis che lo è da sempre. E Berrettini a Wimbledon è stato bravissimo».
VACCINI, RISCHIO GIALLO SU ALCUNE REGIONI
I dati italiani sulla pandemia confermano la tendenza già chiara da qualche giorno: aumenta l’RT, cioè il tasso dei contagi. Stabili e al ribasso ricoveri, terapie intensive e decessi. Ma il tasso di contagio determina il colore delle Regioni, e in alcuni casi si intravede il rischio del ritorno al giallo. Adriana Logroscino sul Corriere.
«C'è la salita costante dei contagi, al netto della flessione fisiologica della domenica: se i nuovi casi sono 888 e i decessi 13, il tasso di positività ieri ha sfondato il tetto dell'1 per cento: 1,2, precisamente. E c'è il timore dell'«effetto devastante» che potranno produrre i festeggiamenti per le partite degli Europei (il virgolettato è di Maria Van Kerkhove, responsabile tecnico dell'Oms, che domenica sera davanti alla finale si è chiesta con un tweet: «Dovrei divertirmi a guardare il contagio avvenire davanti ai miei occhi?»). Un effetto che il centro europeo di prevenzione (Ecdc) già misura in 2.535 casi verificati, solo fino alla fase delle semifinali, e che, per quel che è successo l'altro ieri in Italia, si calcolerà tra qualche giorno. Intanto c'è da decidere cosa fare. Almeno quattro le macroquestioni che impegnano il governo. Lo stato d'emergenza, in scadenza a fine mese, che a questo punto probabilmente dovrà essere prorogato fino a ottobre. L'ipotesi di una proroga trimestrale è più che altro una deduzione: senza stato di emergenza, verrebbe meno il presupposto dell'azione del commissario per l'emergenza che, invece, dovrebbe portare avanti la campagna di vaccinazione che ieri ha raggiunto quota 57 milioni di somministrazioni. Altro tema, le eventuali nuove restrizioni che potrebbero scattare per singole aree in cui il contagio dovesse impennarsi. Secondo gli ultimi dati, l'incidenza aumenta in 19 Regioni, cioè quasi tutte (salve solo Valle d'Aosta e Provincia di Trento). E in alcune galoppa. C'è poi un'altra decisione da prendere: da tempo le Regioni chiedono di rivedere i parametri che fanno scattare l'assegnazione di un colore (zona bianca, gialla, arancione o rossa) e le relative restrizioni. Vorrebbero che la scelta non dipendesse più dal numero di positivi ogni centomila abitanti, destinato a moltiplicarsi se, come prevede l'Ecdc, la contagiosissima variante Delta in agosto prevarrà nel 90 per cento dei contagi, ma dal numero di quanti tra i positivi - si auspica molti meno - finiranno in ospedale. Infine si tratta di stabilire una linea rispetto ad altre due misure legate agli spostamenti. La prima riguarda le regole del green pass , fino a ieri scaricato da 26 milioni di italiani: se concederlo, cioè, solo ad avvenuto richiamo e non più anche dopo la prima dose. «Per quello che mi riguarda - ha detto ieri sera in tv il commissario Figliuolo -, specie per convincere gli ultimi irriducibili, lo utilizzerei per l'accesso ai servizi (come in Francia per ristoranti o trasporti, ndr )». L'altra questione sul tavolo è se imporre la quarantena per chi rientri da Paesi che hanno subito un'impennata di contagi come Spagna e Portogallo. Mentre le discussioni vengono ancora affrontate riservatamente, il commissario Figliuolo e il ministro Speranza spingono sui due argomenti: «Vaccinatevi, solo così possiamo uscire dalla pandemia», ha detto ancora Figliuolo. «Indossate la mascherina anche all'aperto dove non si possa mantenere la distanza», ha aggiunto il ministro. Negli occhi di entrambi sicuramente le immagini dei caroselli dopo la finale di Wembley. In questo quadro, inevitabilmente, resta sullo sfondo il capitolo delle discoteche. Gli imprenditori della vita notturna non sanno ancora se e quando riapriranno. Per loro starebbe facendo un lavoro di moral suasion , direttamente su Draghi, il segretario della Lega, Matteo Salvini».
C’è un allarmante calo nelle prime dosi secondo Il Fatto, sempre attento a criticare la campagna vaccinale di Figliuolo. In proporzione scendono rispetto al totale delle somministrazioni.
«Analizzando i dati ufficiali è evidente il calo delle prime vaccinazioni da giugno a oggi: si è passati da oltre 400 mila in 24 ore, a una media quotidiana sotto le centomila negli ultimi tre giorni. La corsa è quindi a convincere gli scettici e gli indecisi. A Napoli è partito infatti un servizio con operatori alla ricerca delle motivazioni del no al vaccino con l'obiettivo di convincere i "renitenti" a cambiare idea. Dal call center viene contattato chi aveva fatto l'adesione, poi è stato convocato anche tre, quattro volte, ma non si è mai presentato. "Se una donna mi dice che non è venuta perché non ha visto l'sms, non si sentiva bene, non era convinta, ma vuole farlo, diamo subito la convocazione. Ma se alla fine dicono che non vogliono farlo io smetto di convocarli fino a quando non ce lo chiederanno loro", spiega Ciro Verdoliva, il direttore generale dell'Asl Napoli 1. Il sindacato Anief invece annuncia che è di queste ore la notizia che "davanti alle scuole siciliane ci sarà una unità mobile, un presidio per vaccinare quel 30%" del personale scolastico non ancora coperto. Eppure, rispondendo a un sondaggio, sei docenti su dieci sono contrari all'obbligo vaccinale per il personale della scuola e la percentuale sale tra i Presidi e il personale Ata. "Abbiamo dato mandato alle Asl di verificare i motivi per la mancata vaccinazione" degli over 60 in Puglia, come "già fatto per gli over 80", fa sapere l'assessore alla Sanità della Regione Puglia, Pierluigi Lopalco. Il ministro della Salute Roberto Speranza lo ribadisce: "Quello che è certo è che la vera arma per chiudere questa stagione è la campagna di vaccinazione, dobbiamo insistere sulla vaccinazione". A oggi sono 24 milioni gli italiani completamente vaccinati, pari al 40,5% della popolazione totale e al 45% della platea vaccinabile dai 12 anni in su. Intanto Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell'Università di Padova, mette in guardia: "La variante Delta, purtroppo, è a un passo dal diventare resistente ai vaccini e quindi meno si trasmette e meglio è. Per questo penso che bisognerebbe combinare la campagna vaccinale, vaccinando più persone possibili e allo stesso tempo rafforzare la nostra capacità di tracciamento, perché diminuire la trasmissione potenzia l'effetto dei vaccini"».
Il vaccino tutto italiano, Reithera, funziona. Ma a questo punto mancano i soldi per finanziarne la produzione. Elena G. Polidori sul Quotidiano Nazionale:
«Ieri la casa di produzione ha reso noti i risultati preliminari della sperimentazione in fase due. Che mostrano come il vaccino, se venisse davvero sovvenzionato dallo Stato, potrebbe rilevarsi molto utile per garantire l'immunizzazione di tutta la popolazione. Infatti risulta essere molto efficace nel produrre anticorpi contro il Covid. Insomma, funziona. Già tre settimane dopo la prima dose si osserva una risposta anticorpale contro la proteina Spike in oltre il 93% dei volontari, e si raggiunge il 99% dopo la seconda somministrazione. A cinque settimane dalla prima vaccinazione il livello degli anticorpi che legano la proteina Spike e che neutralizzano il virus, è comparabile a quello misurato in un gruppo di riferimento di pazienti convalescenti dall'infezione. Inoltre è ben tollerato, sia nella prima che nella seconda somministrazione. Gli eventi avversi, per la maggior parte di grado lieve o moderato e di breve durata, sono principalmente riferibili a dolore e tensione al sito di iniezione, senso di affaticamento, dolori muscolari e mal di testa. Non si sono registrati eventi avversi seri correlabili al vaccino. Lo studio, iniziato lo scorso 18 marzo in 24 centri clinici distribuiti su tutto il territorio nazionale, è stato condotto su 917 volontari di cui il 25 per cento di età superiore ai 65 anni «e/o con condizioni associate ad un aumentato rischio di malattia severa in caso di infezione da SARS-CoV-2». Al momento, però, Reithera resta fermo perchè per avviare la terza fase di sperimentazione ci vogliono soldi e il governo non ha dato risposte in questo senso. Le alternative, adesso, sono due: o accedere a fondi privati o riconvertire gli impianti di Reithera per produrre tutti gli altri vaccini disponibili. Rinunciando, però, al vaccino italiano».
IL POPOLO DI CUBA CHIEDE PANE E VACCINI
La diseguaglianza vaccinale, provocata anche dalla folle decisione europea di non sospendere i brevetti sui vaccini, sta causando conseguenze inimmaginabili nel mondo. A Cuba è in atto una rivolta senza precedenti contro il regime comunista. La cronaca di Sara Gandolfi sul Corriere della Sera.
«Era dal «maleconazo» del 1994, quando migliaia di persone manifestarono lungo il Malecón dell'Avana, uno dei più celebri lungomari al mondo, che a Cuba non si vedeva una protesta simile. Stavolta, però, erano molti di più. La protesta partita domenica da San Antonio de los Baños, paese 35 chilometri a sud-ovest dell'Avana e cuore «culturale» dell'isola, sede della Escuela Internacional de Cine y Tv voluta da Gabriel Garcia Márquez, si è estesa a Cardenas, all'Avana, a Matanzas, e in una ventina di altre località, fino alla «capitale ribelle» del Sud, Santiago di Cuba. Donne, uomini e bambini, che reclamavano «pane, medicine, vaccini» ma urlavano anche «Abbasso la dittatura», «Libertà» e «Patria y vida», titolo di una canzone della dissidenza che fa il verso al «Patria o muerte» di fideliana memoria. Migliaia di persone, convocate in piazza pure via twitter con l'hashtag #SosCuba. Decine, forse centinaia finite agli arresti, secondo alcune fonti. Come trent' anni fa, molto peggio di allora in realtà. Ci sono i black out elettrici continui e una crisi economica da fame vera, come ai tempi del «Periodo especial», dopo il crollo dell'URSS, ma ci sono pure la pandemia (7.000 contagi e 50 morti al giorno) e i social network dove i giovani rovesciano rabbia e frustrazione. Non ci sono più i Castro, invece, Padri della Revolución che hanno lasciato il trono ad un presidente-ingegnere belloccio ma molto poco carismatico, che non era neppure nato quando i fratelli «barbudos» imbracciarono le armi contro la dittatura filo-americana di Fulgencio Batista. L'erede Manuel-Diaz Canel è apparso due volte in tv tra domenica e ieri. La prima è stata una «chiamata alle armi» ai veri «rivoluzionari», quasi un appello alla guerra civile, che forse copriva il ricorso alla repressione delle proteste, insolitamente brutale. La seconda più moderata: ha ammesso «incomprensioni» e «malcontento» tra la popolazione, poi con toni da Guerra fredda ha puntato il dito contro l'embargo Usa che da oltre 60 anni stringe d'assedio l'isola - rafforzato dalle misure volute da Trump e non revocate da Biden - le «provocazioni di mercenari assoldati dall'estero», la «propaganda via internet che manipola i cubani». Detto fatto. Ieri Cuba era isolata dal mondo. Internet non funzionava in buona parte dell'isola, tagliata dal presidente che ha ringraziato pubblicamente il «fratello-presidente» Nicolas Maduro. Della serie: ricordatevi che non sono solo. E in effetti alla durissima repressione del dissenso in Venezuela va il ricordo vedendo le immagini filtrate da Cuba domenica sera. I «berretti neri» del corpo d'élite delle Forze Armate Rivoluzionarie che scendono dalle camionette, la polizia che apre il fuoco in strada ma pure le auto rovesciate da alcuni manifestanti e negozi saccheggiati. Ieri il presidente americano Joe Biden ha detto che «gli Usa stanno saldamente con il popolo cubano mentre fa valere i suoi diritti universali» e ha chiesto al governo cubano «di astenersi dalla violenza». Nessun accenno alle sanzioni che il suo predecessore democratico Barack Obama progettava di togliere gradualmente. Altri tempi, altri toni pure a Cuba. Da un lato, il Movimiento San Isidro, una delle organizzazioni dissidenti più attive, che fino all'ultimo ha twittato #NoTenemosMiedo (Non abbiamo paura). Dall'altra un presidente che imita Fidel: «Devono scavalcare i nostri cadaveri se vogliono affrontare la rivoluzione». In mezzo, un popolo esausto».
La Stampa intervista una leader della protesta: parla dall’Avana Berta Soler delle Damas de Blanco.
«Berta Soler chiede alla comunità internazionale di farsi sentire: «I cubani stanno manifestando spontaneamente per la libertà, perché sono disperati. Bisogna impedire al regime di reprimerli con la forza». Quindi la leader delle Damas de Blanco, al telefono da L'Avana, si rivolge a Papa Francesco che aveva incontrato: «So bene che non può essere il liberatore di Cuba, ma ogni parola in difesa della gente ci può aiutare». Perché le proteste sono scoppiate ora? «Il Covid e la crisi sanitaria si sono aggiunte a una mancanza cronica di alimenti e medicine. Il popolo di Cuba soffre da oltre sessant' anni, è stanco, non sa più come andare avanti. Il governo usa sempre l'embargo americano per giustificare questa situazione insostenibile, ma le persone sanno che non c'entra. Il problema è che gli amministratori sono incapaci. Si preoccupano solo di incassare i soldi che servono a loro, per tenere in funzione la macchina repressiva e restare al potere». Le manifestazioni sono spontanee? «Certo, è esattamente così, non c'è alcun complotto. Non sapevamo nulla delle proteste. E' impossibile che il 70% dei cubani, cioè la maggioranza che è andata nelle strade, sia composta tutta di banditi. No, i manifestanti sono persone normali, che chiedono a Diaz Canel di dare loro da mangiare e curarli. Le strade appartengono ai cittadini cubani, non ai tiranni o ai rivoluzionari, come dice lui. Non sono proprietà della dittatura». Il presidente ha chiesto ai rivoluzionari di difendere il regime. Teme violenze? «La violenza è già qui, da molto tempo. La usano i rivoluzionari, come li chiama Diaz Canel, e le forze paramilitari mandate in strada a reprimere. Ci sono luoghi dove la polizia ha sparato contro la gente. La popolazione è pacifica e manifesta per i propri diritti: chi usa la violenza è il regime». Cosa succederà ora? «Dobbiamo continuare a manifestare, pacificamente, ogni giorno. Bisogna sostenere l'insoddisfazione che la gente sta mostrando. Il regime deve vedere che siamo disposti a lottare per la libertà di Cuba, perché la libertà costa cara. Nessuno la regala, bisogna conquistarla». Cosa chiedete? «Serve un cambio di governo, che porti alle riforme. Non crediamo a Diaz Canel, e non pensiamo che i comunisti possano più risolvere i problemi del Paese». Cosa può fare la comunità internazionale per aiutarvi? «Deve appoggiare le manifestazioni, come ha fatto il presidente americano Biden. E deve pretendere la fine delle violenze. Il popolo cubano non è armato. Chi ha le armi, e le usa, sono il regime, le sue forze rivoluzionarie, e i poliziotti in borghese mandati nelle strade a reprimere la protesta. La comunità internazionale deve pretendere che tutto ciò finisca, e chiarire che l'uso delle armi contro i manifestanti pacifici è inaccettabile». Il Vaticano potrebbe mediare? «Io vado d'accordo col Vaticano, condivido quanto fa, e non intendo avanzare richieste. Spero però nelle voci autorevoli che possono aiutare il nostro popolo».
LODO CARTABIA, MD: “IMPIANTO GARANTISTA”
Torniamo all’Italia e al nodo giustizia. Il Manifesto pubblica oggi un’interessante intervista con Stefano Musolino, pm antimafia a Reggio Calabria e possibile futuro segretario di Magistratura Democratica.
«Non mi chiami, per favore, segretario in pectore: l'elezione sarà a settembre». Fra i giuristi la forma è sostanza, e quindi dietro la richiesta di Stefano Musolino, pm antimafia a Reggio Calabria, c'è «una questione importante: il rispetto della democrazia interna a Magistratura democratica. Per ora sono solo uno dei 12 membri del consiglio nazionale», il direttivo eletto a conclusione del congresso di Firenze. Dottor Musolino, per voi la riforma Cartabia del processo penale va bene. Ma ci sono i dubbi di Giuseppe Santalucia, presidente Anm, sulla prescrizione. «Giudico positivo l'impianto culturale garantista della riforma. L'idea di giustizia penale che ne sta alla base coglie nel segno, perché afferma che processo e carcere devono essere l'extrema ratio. Capisco le preoccupazioni sulla prescrizione, ma bisogna guardare al quadro complessivo: con le novità a regime, le cause che andranno davanti al giudice dibattimentale (e, poi, in appello) saranno molte di meno delle attuali. L'ispirazione di fondo è corretta: l'inefficienza del sistema non può essere scaricata su imputati e parti offese. Ed è proprio perché il cambiamento possa dare i suoi frutti che auspichiamo l'amnistia per una serie di reati che, per la loro rilevanza e il tempo trascorso dal fatto, sono solo una zavorra che congestiona le Corti: serve un coraggio politico coerente con l'obiettivo culturale della riforma». Potrebbe servire anche la depenalizzazione delle norme sulle droghe? «Io credo sia utile, se inserita in un generale ripensamento delle modalità con cui fronteggiare il fenomeno sociale, senza ricorrere allo strumento penale quale unico o principale metodo di intervento. L'attuale normativa sicuramente non funziona, il «diritto penale della marginalità» porta solo al sovraffollamento carcerario. Con la riforma sarà il giudice al termine del processo a comminare le pene sostitutive al carcere, mentre ora lo fa il magistrato di sorveglianza». Non sarà un problema? «Si tratta di fare investimenti per riformare il sistema dell'esecuzione penale: bisogna redistribuire le risorse, insieme ad un rinnovamento culturale e professionale del giudice dibattimentale e, con lui, del pm». Di giustizia civile si parla generalmente di meno, ma anche lì si annunciano riforme. «Saremo molto vigili. Faremo attenzione alla tutela dei soggetti più deboli, come quelli coinvolti nelle amministrazioni di sostegno verso le persone con fragilità sanitarie e psicologiche, e nelle procedure di protezione internazionale verso i richiedenti asilo. Per capire la portata dei problemi, mi permetto di consigliare l'ascolto sul nostro sito dello straordinario intervento al congresso di Matilde Betti, giudice (del tribunale di Bologna, ndr) di grande esperienza e umanità». (…) E la fiducia dei cittadini verso la magistratura tutta? «Quella si riconquista ponendosi in una posizione di ascolto del punto di vista esterno, marchio di fabbrica di Md, essenziale per non cadere nel corporativismo autoreferenziale: indipendenza e autonomia della magistratura non sono privilegi di casta, ma sono funzionali alla tutela dei diritti fondamentali delle persone, in funzione «anti-maggioritaria» come ci ha ricordato Luigi Ferrajoli al congresso. Interpretare questo ruolo nell'esercizio quotidiano della giurisdizione significa intendere la giustizia come servizio al cittadino, recuperandone la fiducia».
Il Sole 24 Ore ha fatto una classifica sui processi arretrati nelle varie Corti d’appello dei Tribunali italiani. Giovanni Negri.
«Sono quasi 190mila i procedimenti penali pendenti nei distretti di Corte d'appello che non rispettano i due anni di tempo che la riforma della giustizia penale assegna come limite tollerato per la definizione, pena l'improcedibilità. E pesano per quasi il 75% di tutte le pendenze. Si tratta di 10 distretti in tutto, anche se in realtà Firenze, Bari e Bologna, oltrepassano il limite di poco. In 19 distretti su 29 la durata è comunque inferiore ai 2 anni: a Milano, è inferiore ad un anno, 335 giorni la media dell'appello; Genova, 680 giorni; Palermo, 445; Perugia, 430; Potenza, 699; Salerno, 340; Torino, 545. Di certo, a più elevati tempi di definzione corrisponde anche più forte arretrato, con forte pericolo di improcedibilità. Dove certo le ragioni della collocazione nella black list dei tempi di decisione possono essere le più varie, ma è evidente la necessità di un intervento. Intervento che peraltro sarà agevolato proprio dalla significativa disponibilità di risorse del Pnrr. In primo luogo con la destinazione dei 16.500 addetti all'ufficio del processo che, si preannuncia al ministero della Giustizia, saranno destinati in via privilegiata proprio a quegli uffici con un carico di processi pendenti particolarmente elevato. Ma interventi di rafforzamento del personale, andando a coprire storici vuoti in organico, sono in corso di definizione anche sul versante dei cancellieri, in continuità con le precedenti amministrazioni Orlando-Bonafede. A Roma, per esempio, sono previsti 242 nuovi ingressi, nel civile e nel penale, a Napoli 308, tanto per fare riferimento ai due uffici che da soli mettono insieme oltre 100mila procedimenti arretrati. Da poco più di un anno sono poi state formalizzate le nuove piante organiche dei tribunali con, per esempio, 50 magistrati in più a Roma e 31 a Napoli, una quota di questi da destinare in Corte d'appello».
5 STELLE, LA YALTA DI GRILLO E CONTE
Dopo l’accordo fra Conte e Grillo, nei 5 Stelle è il momento della spartizione delle zone d’influenza. E delle possibili poltrone dei nuovi vertici. La cronaca di Giuseppe Alberto Falci sul Corriere.
«Il day after registra una serie di dichiarazioni positive di alcuni pezzi da novanta del Movimento. Il clima dunque è apparentemente disteso. Paola Taverna, ad esempio, scrive un post su Facebook corredato da una foto di Giuseppe Conte: «Gettiamoci alle spalle la fase difficile che abbiamo attraversato e ripartiamo più forti. Sarà un progetto solido e duraturo: costruiamo insieme questa grande fase di rilancio per il M5S e per il Paese. Avanti con Giuseppe Conte». Sulla stessa scia Stefano Buffagni, altro big dei 5 Stelle, che si lascia andare in questi termini: «Il M5S ha superato un momento terribile, ma alla fine hanno prevalso il buon senso e la linea del dialogo. Un sogno così grande non poteva concludersi in questo modo. E ora tutti insieme siamo pronti a ripartire e a evolverci più forti al fianco di Conte». Si mostra soddisfatta anche Chiara Appendino, che potrebbe far parte di uno degli organi politici: «È una bella notizia. Voglio ringraziare i sette colleghi del Movimento che hanno lavorato su questa mediazione, Giuseppe Conte e Grillo. Adesso speriamo che velocemente si possa procedere con il nuovo percorso del Movimento». Così, in una giornata apparentemente di quiete, si fa notare la dichiarazione di Luigi Iovino, uno dei parlamentari più vicini a Di Maio. «Ancora una volta - afferma - abbiamo dimostrato che con il confronto, il dialogo e la trasparenza ne usciamo più forti di prima. Con Giuseppe Conte e Beppe Grillo ricomincia il nuovo corso del Movimento 5 Stelle». Insomma, tutto rientrato? Di certo restano i mal di pancia sull'annosa questione della giustizia che potrebbero non solo innescare una battaglia parlamentare con gli alleati di governo - Lega, Forza Italia e Pd - ma anche indurre una serie di parlamentari a lasciare il Movimento. Tuttavia si preferisce guardare al nuovo corso. I più ottimisti a Montecitorio confidano che Conte sarà il nuovo presidente del Movimento entro luglio, o al più ai primi di agosto. Anche se tutto dipenderà da quando il garante e l'ex premier si incontreranno per definire gli ultimi dettaglio. Dovrebbe toccare a Vito Crimi indire le votazioni sullo statuto e sul presidente che si svolgeranno sulla piattaforma SkyVote. A quel punto passeranno quindici giorni prima di aprire i seggi online. Nell'attesa comincia il posizionamento per la definizione degli organi statutari. Ci saranno quelli politici, come la segreteria e i presidenti, riservati a Conte. E quelli di garanzia, come il collegio dei probiviri, che saranno decisi da Grillo».
Commento di Marco Travaglio sul Fatto in merito all’accordo fra i leader 5 Stelle. Conte è stato voluto dal popolo: Grillo e le forze malvagie della politica e dell’informazione non hanno potuto realizzare il ri-conticidio, che avevano organizzato. Questo il suo teorema.
«Il fatto è questo: una comunità di centinaia di migliaia di italiani ha costretto a furor di popolo Grillo a fare ciò che aveva annunciato e poi disdetto: candidare Conte a leader in base a un nuovo Statuto che gli conferisse i poteri necessari per assumerne l'esclusiva guida politica e poi farlo votare dagli iscritti. Perché a febbraio Grillo avesse pensato a Conte si sa: la popolarità che gli viene dal buon giudizio che un'ampia fascia di cittadini, molti più degli elettori grillini, dà della sua persona e dei suoi governi, sopravvissuta contro ogni previsione al Conticidio. Perché, a giugno, Grillo avesse bruscamente cambiato idea col ri-Conticidio, è più difficile spiegarlo. I processi alle intenzioni diventano spesso processi alle invenzioni. Chi evoca il timore di perdere il controllo della sua creatura, chile telefonate di qualche capetto geloso dell 'ex premier o timoroso della sua linea meno appiattita sul governo, chi il patto d'acciaio siglato da Grillo con Draghi (che lo fa apparire "garante" più del governo che del M5S), chile sorti giudiziarie del figlio (che però sarà giudicato dai magistrati di Tempio Pausania: Draghi non ha il potere di dettare o emettere sentenze, non ancora almeno). Poi, investito da un'onda anomala di insulti e commenti negativi, Grillo deve aver capito di averla fatta grossa; che non è Conte ad avere bisogno di lui, ma il M5S di Conte; e che la sua creatura l'avrebbe persa col no a Conte, mentre col sì può recuperarla. E s' è inventato una sceneggiata da teatrante consumato: il Comitato dei Sette, per mascherare la ritirata sotto le mentite spoglie di una mediazione dei big, a cui l'Elevato si è magnanimamente inchinato. Sia come sia, dopo due mesi persi inutilmente (e con danni incalcolabili) prima per Casaleggio e poi per Grillo, il nuovo Movimento sembra pronto a partire. Salvo nuovi stop che, dopo tanti Conticidi, nessuno può escludere. E proprio da quel fatto sorprendente -per un movimento datutti dipinto come verticistico e antidemocratico - dovranno partire Conte&C. per non fallire: a issarlo alla leadership non sono stati né Grillo, né i Sette, ma le centinaia di migliaia di persone che l'hanno voluto contro tutto e contro (quasi) tutti. Accontentare qualche big è facile. Non scontentare una bella fetta di popolo sarà molto più complicato».
OGGI IL DDL ZAN ARRIVA IN AULA
Esito incerto per il Disegno di legge sulla omotransfobia che oggi approda all’Aula in Senato. La cronaca di Avvenire.
«Ci sono vari inviti al dialogo. Sta a noi, dobbiamo solo decidere come proseguire il lavoro...». Alla vigilia dell'approdo nell'aula del Senato del disegno di legge Zan contro l'omotransfobia, con l'avvio della discussione previsto oggi alle 16 e 30, il presidente leghista della commissione Giustizia Andrea Ostellari prova per l'ennesima volta a lanciare un appello alle forze politiche intenzionate a non modificare il testo e ad andare comunque alla conta, anche a rischio di impallinature da parte di franchi tiratori nei voti segreti (che possono essere chiesti da almeno 20 senatori). Lo scenario resta dunque quello di una maggioranza divisa: Lega, Fi e Italia Viva continuano a chiedere modifiche (a partire dagli articoli 1, 4 e 7); ma Pd, M5s e Leu rimangono inamovibili. Oggi, dopo la discussione in commissione (prevista alle 15), il ddl arriverà in aula. Toccherà ai gruppi - con la mediazione dalla presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati - definire tempi e scadenza per la presentazione di emendamenti e già questa intesa non è facile. La discussione generale potrebbe aprirsi col preannunciato intervento del leader di Iv, Matteo Renzi. Resta però l'incognita sulla tempistica dell'esame: c'è chi ipotizza che si entrerà nel vivo solo dopo la pausa dei lavori estiva, segnalando che il Senato sarà presto impegnato con la conversione di decreti in scadenza come il 'dl Sostegni- bis' (che scade il 24 luglio). La Lega chiede tempo. «È chiaro che la commissione non è in grado di terminare i lavori entro domani (oggi, ndr) », argomenta Ostellari, assicurando che dalle ore 15 lui proseguirà coi lavori d'esame del testo, almeno fino al via dell'aula. Il provvedimento potrebbe arrivare nell'emiciclo senza il rituale via libera della commissione: «La presidente Casellati mi chiederà se ho una relazione e io riferirò in base a quanto svolto». Poi avverte: «L'idea di lasciar terminare il nostro lavoro, stabilendo tempi brevi e certi, non è fuori regolamento, né straordinaria. Se c'è la disponibilità a migliorare la proposta di legge Zan, ben venga. Certo, avremmo bisogno di più tempo per arrivare a votare delle proposte emendative... Lo dirò in aula alla presidenza». Nel governo, è il sottosegretario leghista all'Istruzione, Rossano Sasso, a dargli manforte: «Il rifiuto del Pd di qualsiasi apertura alle modifiche mette a rischio il provvedimento. Come Lega, ci siamo trovati davanti un muro insormontabile della sinistra a recedere dalle forzature di un progetto di legge che mette seriamente in pericolo la libertà di pensiero degli italiani». Il Carroccio, dunque, non desiste dal pressing, col segretario Matteo Salvini che oggi sarà pure lui in aula «perché c'è questo ddl Zan da bloccare o quanto meno da cambiare». L'altro Matteo, il leader di Italia Viva Renzi, continua a invitare il Pd al pragmatismo, per scongiurare l'ostruzionismo: «Se sul ddl Zan si va a scrutinio segreto», è la sua valutazione, il leghista «Calderoli viene e presenta mille emendamenti». La via d'uscita, ammonisce Renzi, è quella del dialogo: «Ci sono due punti cruciali, il gender e le scuole. Con un accordo, la legge al Senato passa in 2 giorni, alla Camera ci vorrà un po' di tempo. Vogliamo portarla a casa o fare una battaglia di principio? ». Anche il capogruppo di Iv al Senato, Davide Faraone, lancia l'ennesimo segnale di fumo: «I nostri dubbi sono gli stessi espressi da costituzionalisti come Flick, Mirabelli e Fiandaca, senatori del Pd come Marcucci, Fedeli, Valente, Alfieri, Collina, Taricco e Margiotta, di Leu come Fassina, la presidente di Arcilesbica Gramolini, esponenti storici del mondo Lgbt come Concia e Mancuso... Tutte persone omofobe ed oscurantiste?». Iv continua a ritenere il pacchetto di modifiche proposte dal leghista Ostellari, seppur respinto da Pd, M5s e Leu, «un deciso passo avanti», un testo «molto vicino a quello presentato dai partiti del centrosinistra». Basterebbe, argomenta Faraone, «sedersi e trovare la soluzione definitiva. Finora non è stato possibile, ma ci lavoreremo fino all'ultimo istante». Un compromesso adeguato, secondo Iv, sarebbe quello di ripartire dalla proposta di legge del 2018 firmata da Ivan Scalfarotto e dallo stesso Alessandro Zan, «che non crea confusione» su concetti come omofobia e transfobia e «allarga il consenso in aula». L'alternativa? La ipotizza proprio il sottosegretario all'Interno di Iv, Scalfarotto: «Sarà il Vietnam, la Lega farà ostruzionismo, ci saranno molti voti segreti. M5s sta vivendo la fase che sappiamo, ci sono dubbi nel Pd... Chi può garantire che ci sarà la compattezza che serve? Noi stiamo cercando di trovare un accordo che permetta di approvare il provvedimento, il rischio è che il testo Zan non diventi mai legge». Il 'niet' del Pd. Tutti appelli che, almeno fino a ieri, non paiono esser stati accolti. Almeno a giudicare da quanto ribatte il vicecapogruppo dem in Senato Franco Mirabelli: «Mi domando come faccia Ostellari a chiedere più tempo dopo aver tenuto il ddl Zan in commissione per 8 mesi senza neppure aver aperto la discussione. Si può discutere in aula, assumendosi ognuno le proprie responsabilità. Basta con l'ostruzionismo!».
IL PAPA, ANCORA AL GEMELLI, DIFENDE LA SANITÀ PUBBLICA
Il Papa resta ancora per qualche giorno al Gemelli e Avvenire sottolinea la sua difesa della sanità pubblica, gratuita e per tutti.
«Il Policlinico Gemelli continuerà ad essere il «Vaticano tre» ancora per qualche giorno. Ma questo non significa che le notizie sulla salute del Papa non siano positive. Anzi. Francesco, come hanno potuto vedere tutti domenica scorsa all'Angelus recitato in piedi e con voce ferma da uno dei balconi al decimo piano del nosocomio romano - sta migliorando giorno dopo giorno. E come ha confermato ieri Matteo Bruni, «ha trascorso una giornata tranquilla ed ha completato il decorso post operatorio chirurgico». Tuttavia il suo ricovero si protrarrà ancora per qualche giorno «al fine di ottimizzare al meglio la terapia medica e riabilitativa». Del resto, perché affrettare il ritorno a Santa Marta in assenza di udienze e altri impegni pubblici? Questo periodo è sempre stato per papa Bergoglio quello delle "vacanze" estive, che il Pontefice da sempre ama trascorrere in casa, riducendo al minimo le consuete attività. E proprio per questo è stato scelto per effettuare l'intervento. Restare ancora qualche giorno al Gemelli gli garantirà dunque un'assistenza medica senz' altro migliore e una convalescenza più tranquilla e monitorata. Per il resto, dopo il confortante ritorno in "pubblico" di domenica, dal comunicato si apprendono altri particolari circa la domenica di Francesco, che ha anche potuto gioire per le vittorie di Argentina e Italia nei rispettivi campionati continentali. «Prima della recita dell'Angelus - si legge infatti nel comunicato diffuso ieri - il Papa ha desiderato incontrare alcuni piccoli pa- zienti del vicino reparto di oncologia con i rispettivi familiari che, successivamente, lo hanno accompagnato sul terrazzino del decimo piano in occasione della preghiera mariana». Al termine, informa ancora la nota, «ha salutato i degenti ricoverati al piano, intrattenendosi brevemente con il personale medico ed infermieristico. Nel pomeriggio ha celebrato la Santa Messa nella cappellina privata con il personale che quotidianamente lo assiste». Numerosi gli spunti offerti dal Pontefice al momento dell'Angelus. Primo fra tutti quello di una sanità che non deve inseguire profitti economici, ma essere messa a disposizione di tutti, soprattutto dei più poveri. Parlando alle diverse centinaia di fedeli dislocati sul grande piazzale di ingresso del Gemelli (tra i quali il rettore dell'Università Cattolica, Franco Anelli, il direttore generale del Gemelli, Marco Elefanti e l'assistente generale della Cattolica, monsignor Claudio Giuliodori) e ai milioni di telespettatori che lo seguivano in tivù, Francesco ha detto: «In questi giorni di ricovero in ospedale, ho sperimentato ancora una volta quanto sia importante un buon servizio sanitario, accessibile a tutti, come c'è in Italia e in altri Paesi. Un servizio sanitario gratuito, che assicuri un buon servizio accessibile a tutti». Perciò ha raccomandato: «Non bisogna perdere questo bene prezioso. Bisogna mantenerlo ». Con il contributo di tutti. E la regola vale per gli ambienti ecclesiali ed ecclesiastici. «Anche nella Chiesa - ha proseguito il Papa - succede a volte che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente, e il primo pensiero che ci viene è venderla. Ma la vocazione, nella Chiesa, non è avere dei quattrini, è fare il servizio, e il servizio sempre è gratuito. Non dimenticatevi di questo: salvare le istituzioni gratuite». Altri appelli del Pontefice hanno riguardato la giornata del mare, che si celebrava domenica («curare la salute dei mari: niente plastica in mare»), l'Europa nel giorno della festa del suo patrono, san Benedetto («che sia unita nei suoi valori fondanti»), senza dimenticare i medici e i bambini che soffrono. Alcuni dei quali erano accanto al Papa. Anche per loro la sua carezza, perché «nessuno sia lasciato solo».
IN RICORDO DI GIAIME RODANO
Una settimana fa ci ha lasciati Giaime Rodano, studioso e parlamentare italiano. La Versione perde uno dei suoi abbonati più illustri. È stato un onore averlo tra i nostri attenti lettori mattutini. Massimo Borghesi lo ha ricordato su Avvenire.
«Lunedì scorso ci ha lasciati Giaime Rodano, figlio di Franco, il protagonista insieme a Felice Balbo della stagione dei cattolici comunisti durante la Resistenza. Giaime, che portava lo stesso nome di Pintor amico del padre, era stato preside in un liceo romano e, da alcuni anni, era in pensione. Schivo e appartato non mancava, nella sua pagina Facebook, di offrire il suo punto di vista con una grande passione ideale e civile per la quale le note di tristezza, derivate dallo scenario presente, non indulgevano mai al risentimento. Personalmente ci siamo conosciuti su Facebook per poi proseguire il nostro dialogo per telefono e via mail. Il Covid ha impedito una conoscenza diretta e questo rende ora il vuoto della sua assenza più sensibile. Tre cose ci hanno uniti: l’interesse per il confronto tra Augusto Del Noce e Franco Rodano, la stima per papa Francesco, l’amore per il poeta Charles Péguy. Giaime aveva curato La nostra giovinezza di Péguy nella versione degli Editori Riuniti del 1993. Nel 2016 sua era la cura de Il denaro, per l’editrice Castelvecchi, con una sua prefazione dal titolo Péguy l’antimoderno, profeta del 'postmoderno'. La passione per Péguy, il più grande poeta cristiano della Francia del ’900, l’autore de Il mistero della carità di Giovanna d’Arco e il redattore dei 'Cahiers de la Quinzaine', morto a Verdun nel 1914, gli era stata comunicata da suo padre. Lo aveva ricordato lui stesso nel webinar 'Charles Péguy un genio cristiano', diffuso il 23 febbraio. «Ero un ragazzino e, quasi di nascosto, sentii una delle conversazioni frequenti a casa mia tra Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, e don Giuseppe de Luca, il famoso amico di Giovanni XXIII. Notai che l’incontro iniziò con una lunga conversazione su Péguy. Ne parlai con mio padre il quale mi chiarì molte cose su Péguy. Lui lo amava e me lo fece amare». L’incontro del 23, organizzato dal Centro Culturale di Milano, era stato per lui un momento importante. L’occasione era la presentazione del volume Il fazzoletto di Veronique, una vasta antologia di scritti di Péguy, di cui taluni mai tradotti in italiano, edita da Cantagalli e curata da Pigi Colognesi. (…) Subito dopo l’incontro mi aveva inviato una serie di appunti in cui tra l’altro scriveva: «Come oggi – ci dice Péguy –, anche ai tempi di Gesù c’era la cattiveria dei tempi. Ma Egli non incriminò il mondo, non lo coprì di accuse, ma lo salvò. Lo salvò dal peccato, dal peccato di origine, l’unico in fondo a essere il peccato: uccidere il padre, sostituirsi a esso, farsi Dio invece di essere suo figlio. Sono affermazioni cruciali che ci aiutano a comprendere il peculiare cristianesimo di Péguy. Mi limito a cenni essenzialissimi: a) la chiamata della grazia – una provocazione di Dio –, per molti, ma non per tutti; b) il santo e il peccatore quali figure centrali di tale chiamata; c) la lunga durata della incristianizzazione (il mondo antico e della sua mistica pagana), della cristianizzazione (fondata dall’evento della croce, di un Dio che ha bisogno della creazione come essa ha bisogno di Dio, perché eterno e temporale sono fusi tra loro) e della scristianizzazione (il mondo moderno dell’intellettualismo disincarnato e del cristianesimo senza Cristo, dei chierici che predicano ma non amano); d) la risposta affidata alla piccola figlia Speranza che sollecita nuova fraternità tra gli uomini». Si trattava di appunti di grande finezza nei quali traluceva l’intelligenza e la sensibilità cristiana di Giaime: il primato della grazia, la vicinanza al peccatore, l’insofferenza di fronte all’intellettualismo e al clericalismo, il ripudio dello spiritualismo e l’adesione al cristianesimo 'carnale', il legame tra la 'piccola' speranza e la fraternità. Da qui anche la sua sintonia con il pontificato di Francesco. Sempre negli appunti scriveva: «Un cristianesimo adulto che può parlare al mondo di domani. Non a caso papa Francesco, nella sua ultima enciclica, ha posto al centro il tema cruciale della fraternità, non a caso nel recente sinodo postamazzonico, ha citato questi versi dell’Eva di Péguy: Non mi piacciono quelli che credono di essere della grazia perché non hanno la forza di essere della natura. Quelli che credono di essere dell’eterno perché non hanno il coraggio di essere nel tempo. Quelli che credono di essere con Dio perché non stanno con le persone. Quelli che credono di amare Dio perché non amano nessuno». Colpito dalle sue note gli avevo proposto di trarne un saggio per la rivista 'Studium' cara a mons. Montini. Aveva accettato con gioia. Poi la telefonata sulle sue condizioni di salute, sulle analisi da fare, il rammarico per un impegno che al momento non poteva essere adempiuto. Ora che non è più tra noi lo ricordiamo per la sua umiltà, privo di ostentazione nonostante provenisse da una famiglia che ha contato nell’Italia del dopoguerra, per la sua passione cristiana immersa nella storia. Non ci siamo conosciuti direttamente, né abbiamo potuto stringerci la mano. Resta l’amore per Péguy, la prossimità che ha creato tra noi, il rispetto e il rimpianto per una persona che ha reso degno il tempo dell’esistenza».
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