Banche giù dopo la tassa
Crollo dei titoli bancari a piazza Affari: bruciati almeno 9 miliardi. Dialogo anche sul salario minimo. Meloni "grillina"? Ucraina, bombe russe alla siriana. L'IA nel messaggio papale sulla pace
Il segnale che forse il governo ha fatto un pasticcio è arrivato ieri in serata con la precisazione del Ministero dell’Economia e Finanze: c’è un tetto massimo alla tassa pari allo 0,1% dell’attivo. Eppure l’annuncio trionfale di Matteo Salvini (Giancarlo Giorgetti non si era presentato alla conferenza stampa) lunedì sera al termine del Consiglio dei Ministri ha provocato un terremoto. Ieri i titoli delle banche alla Borsa di Milano sono crollati in modo drammatico. Secondo il Corriere della Sera sono stati bruciati 9 miliardi, per Il Sole 24 Ore 10. I bancari non sono intervenuti, neanche attraverso il presidente dell’Abi Antonio Patuelli, scegliendo il silenzio. Si preparano ad un confronto su una misura che è ancora in corso d’opera. Certo è che sia la Lega che Fratelli d’Italia che i 5 Stelle (dall’opposizione), paiono entusiasti della norma varata dal governo Meloni. Mentre Forza Italia ha espresso tutte le sue perplessità e spera che si possa modificare il testo della legge in parlamento. Anche Carlo Calenda è stato molto critico sulla decisione presa. Al di là del nome propagandistico che è stato lanciato con i giornalisti da Salvini, non è chiarissimo il concetto di “extra-profitti”. Chi stabilisce quali profitti sono più del normale, sono extra? Nessun esperto sui giornali di oggi sa dire esattamente a quanto ammonterebbe poi il costo fiscale per le banche e il vero introito per le casse dello Stato.
In un’ottica che sembra simile (Il Fatto celebra in prima pagina la Meloni “grillina”), che grossolanamente potremmo definire populista invece che liberale, va letta l’iniziativa di un confronto fra il governo e le opposizioni sul tema del salario minimo, incontro che potrebbe concretizzarsi già venerdì prossimo. Su entrambi questi fronti andranno fatte valutazioni serie per capire davvero se si tratta di misure utili per riequilibrare l’allargarsi delle diseguaglianze. Dopo l’archiviazione del Reddito di Cittadinanza.
Le notizie sulla guerra in Ucraina riportano che gli Usa spediranno nuove armi a Kiev. Mentre i russi sono accusati di bombardare a distanza di mezzora lo stesso luogo del Donbass per colpire i soccorritori del primo attacco: un metodo “siriano” denunciato anche dall’Onu. Sul piano diplomatico, interessante commento per Avvenire dello storico Agostino Giovagnoli sulla linea tenuta dalla Cina nell’ultimo vertice di Gedda sulla pace.
A proposito, oggi è il 78esimo anniversario dell’attacco nucleare su Nagasaki e la Santa Sede ha anticipato il Messaggio per la prossima Giornata Mondiale della pace scritto da papa Francesco. A sorpresa, Bergoglio propone una riflessione sull’uso dell’Intelligenza artificiale e sulla sua relazione con la guerra e con la pace. Anche l’IA, come il nucleare, può essere un’arma letale oppure una grande potenzialità di sviluppo umano. Si tratta di una sfida da affrontare. Tutta da leggere l’intervista a Paolo Benanti, che sarà anche protagonista al prossimo Meeting di Rimini.
Le altre notizie dall’estero riguardano ancora la crisi in Niger. È arrivata nel Paese africano la numero due della diplomazia statunitense Victoria Nuland. L’obiettivo americano è di evitare un’altra guerra e insieme di fronteggiare la presenza espansionistica della Wagner. Polemiche per una raccolta di firme fra accademici per revocare la laurea honoris causa, conferita a suo tempo dall’Università la Sapienza, al Presidente tunisino Kais Saied.
A proposito, vi invito a sentire tutti gli episodi della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, che si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Gli episodi sono dedicati a personaggi molto interessanti: Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie, Enrico Mattei Germaine Tillion e Shlomo Dov Goitein. E ascoltandoli troverete anche un contributo del professor Wael Farouq.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae due fan fra coloro che si sono radunati numerosi ieri a sud di Dublino per l'ultimo, triste saluto dell'Irlanda a Sinead O'Connor, tormentata leggenda nazionale della musica.
Foto Ansa/Epa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
9 o forse 10 miliardi bruciati in un giorno. Il Corriere della Sera non la vede benissimo: Borsa e banche, il giorno nero. Per Repubblica c’è già uno scontro interno: Banche, governo diviso. La Stampa attribuisce le perplessità interne agli azzurri: Tassa sulle banche, stop di Forza Italia. Il Sole 24 Ore è diretto: Borsa, la tassa affonda le banche. Il Messaggero fa finita di niente: Aiuti per fisco e caro-mutui con la tassa sugli extraprofitti. Il Fatto celebra la svolta populista della premier: Meloni “grillina” anti-Giorgetti. Conte: ora tassi farmaci e armi. Domani non vede divisioni, anzi: I partiti uniti sulla tassa alle banche. Ma la norma è un pasticcio: borsa ko. Il Giornale fa un titolo davvero grillino: Anche le banche piangono. Per Libero le banche sono rosse: Sinistra sbancata. Il Manifesto allude all’incontro di venerdì fra governo e opposizioni: Minimo sindacale. La Verità punta su un tema di sicurezza: L'africano assassino doveva essere in carcere da un anno. Mentre Avvenire dedica il primo titolo al messaggio del Papa sull’Ia: Intelligenze di pace.
CROLLO DELLE BANCHE A PIAZZA AFFARI: BRUCIATI 9 MILIARDI
Banche in caduta a Piazza Affari: bruciati oltre 9 miliardi di valore. Dalla tassa sugli extraprofitti attesi oltre 3 miliardi. Frenata del Mef che precisa: previsto un tetto al prelievo. E Forza Italia si smarca: serviranno modifiche. Mario Sensini per il Corriere della Sera.
«Un bagno di sangue. Il giorno dopo il decreto del governo che tassa i profitti maturati grazie all’aumento dei tassi, le azioni delle banche crollano in Borsa. Le quotate perdono 9 miliardi di capitalizzazione, in una giornata nera per Piazza Affari che, trascinata dalle vendite sui titoli bancari, segna un calo del 2,12%. Mentre il capogruppo di Forza Italia Paolo Barelli si smarca e chiede modifiche in Parlamento, nessuno è ancora riuscito a capire la reale portata del provvedimento sui conti economici delle banche. Le stime degli analisti vanno da 2-3 miliardi a 5, ma qualcuno si azzarda ad andare molto oltre. Un tetto alla tassa Il ministero dell’Economia, in serata, ha precisato un po’ meglio i contorni della nuova norma, che a Palazzo Chigi starebbero ancora rimaneggiando profondamente. Secondo il Mef, intanto, c’è un tetto massimo alla tassa pari allo 0,1% dell’attivo (secondo Bankitalia è pari nel complesso a 3.300 miliardi, quindi con un massimo teorico di 3,3 miliardi), e al 25% del patrimonio. Secondo il ministero, in ogni caso, le banche che quest’anno hanno raccolto l’invito ad adeguare i tassi sui depositi «non avranno impatti significativi». «Servono modifiche» Le molte incertezze sulla norma spiegano anche la cautela di Forza Italia dentro la maggioranza, mentre la Lega e Fratelli d’Italia applaudono convinti al provvedimento, e la stessa opposizione appare divisa. «Non vorrei che il crollo in Borsa sia dipeso da un provvedimento che probabilmente il governo avrebbe dovuto valutare meglio», dichiara Barelli che aggiunge: «In Parlamento metteremo la testa su questo provvedimento e se sarà necessario proporremo degli emendamenti. Ci sono opinioni controverse». Il ministro degli Esteri Antonio Tajani che è anche vice premier e segretario di Forza Italia lo aveva già detto al Corriere: «La tassa vale solo per un anno e potrà essere approfondita durante l’esame delle Camere». La misura entrata in Consiglio lunedì sera, in ogni caso, era molto più dura. La tassa si applicava ai margini degli interessi 2022 superiori del 3% a quelli del 2021, e a quelli del 2023 superiori del 6% a quelli dell’anno precedente. Percentuali che, dopo un confronto con i tecnici della Ragioneria, sono state ritoccate nel corso della riunione al 5% e al 10%, rendendo il boccone meno amaro per gli istituti di credito. Il partito del premier e la Lega sostengono con forza la tassa sugli extra profitti. «Questo è l’unico governo che ha la forza di tassare le banche, perché è l’unico che non ha rapporti privilegiati con il sistema bancario» dice Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dimenticandosi, però, che le banche da anni, e tuttora, pagano un’addizionale Ires del 3,5%, come lamenta sempre il presidente dell’Associazione Bancaria, Antonio Patuelli, oggi trincerato nel silenzio. Anche a sinistra, la scelta del governo crea delle divisioni. Il segretario M5S, Giuseppe Conte, esulta, il Pd, con Andrea Orlando, approva la decisione, ma aspetta di vedere il testo del provvedimento. Carlo Calenda, di Azione, è invece molto cauto. «La tassazione degli extraprofitti è legittima solo in caso di eventi straordinari. Qui si stabilisce un precedente molto pericoloso» dice Calenda, che ha dubbi sulla compatibilità del provvedimento con le norme europee. Anche la Cisl giudica positivamente la decisione del governo, che secondo il sindacato dovrebbe essere esteso alle altre multinazionali della logistica, del digitale e dell’energia, dove però si è già tentato di tassare gli extraprofitti, con miseri risultati. A fronte di un gettito atteso di 11 miliardi ne sono arrivati 2,8, ed il governo ha appena prorogato il versamento della seconda rata 2023. Il gettito della tassa , secondo il governo, dovrebbe servire sia per finanziare il taglio delle tasse e rimpinguare il Fondo mutui prima casa, che paga gli interessi sulle rate sospese per difficoltà, e concede garanzie fino all’80% sui mutui dei giovani fino a 36 anni. Solo che il Fondo è già pieno di soldi: dal 2007 quando venne creato è stato finanziato per 480 milioni di euro, ma alla fine del 2022, nel Fondo, c’erano ancora 330 milioni di euro».
CONTE ESULTA: “CI DANNO RAGIONE”
Giuseppe Conte, capo dei 5 Stelle rivendica la bontà e la primogenitura della norma che ha fatto crollare la Borsa: Dice: “Così ci vengono dietro, tassino gli extra-utili pure su armi e farmaci”. Il resoconto di Salvatore Cannavò per Il Fatto, giornale oggi euforico per la Meloni “grillina”.
«“Lo schema è sempre lo stesso: il M5S fa una proposta, veniamo attaccati e poi sono costretti a darci ragione”. Giuseppe Conte, presidente del M5S, rivendica la primogenitura della tassazione degli extra-profitti: l’idea era stata già sperimentata con il governo Draghi, anche se poi la norma fu scritta in malo modo. “A marzo – ricorda Conte in questo colloquio con Il Fatto - con il capogruppo Francesco Silvestri abbiamo sottoposto direttamente a Giorgia Meloni, nel question time alla Camera, la nostra proposta di tassare gli extraprofitti bancari per aiutare le famiglie in difficoltà per caro mutui e rincari”. E come fini? “Meloni ci ignorò e cambiò discorso. Poi hanno detto per ben 8 volte no a questa proposta, anche quando è stata trasformata in emendamento a vari decreti legge, a partire dal Decreto Bollette di fine marzo 2023”. Lo scorso giugno, in effetti, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti aveva dichiarato che “una tassa sugli extraprofitti delle banche non è all’ordine del giorno”. “Ora annunciano questa misura in maniera scomposta”, prosegue Conte, “cercando di giocare sull’effetto sorpresa, giusto per consentire il colpo di teatro al ministro Salvini”. Ma la norma comunque esiste e quindi il M5S dovrà prendere una posizione diretta: “Per una valutazione complessiva dovremo leggere il testo. Ma sono in grave ritardo. Questi mesi di colpevole e incomprensibile immobilismo sono stati duramente pagati dai cittadini. E quando si corre ai ripari alla meno peggio, solo come tardiva reazione a eventi che sfuggono di mano e senza la visione che invece aveva ispirato la nostra proposta di 5 mesi fa, le ferite non si rimarginano”. Conte ricorda che “nei mesi scorsi anche Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, aveva aperto a un intervento sugli extraprofitti bancari, ma il governo e il ministro Giorgetti, dopo una prima apertura, avevano bollato come ‘demagogia’ questa possibilità. Adesso un dietrofront confuso e pasticciato”. Se dunque la misura è individuata come una copiatura delle proposte del M5S, il suo leader prova a rilanciare: “Se il governo ha scoperto in ritardo un po’ di coraggio, faccia un copia-incolla anche delle nostre proposte di introdurre un contributo sugli extraprofitti dei settori economici che hanno conseguito utili record grazie a circostanze eccezionali come pandemia, crisi energetica e guerra: dal settore farmaceutico a quello assicurativo passando per l’industria bellica. Quelle risorse vanno indirizzate a famiglie e imprese, che a quelle circostanze eccezionali hanno pagato dazio”. Programma ambizioso su cui Conte viene affiancato solo dalla Cgil che prende una posizione analoga: “Il governo estenda la decisione assunta sulle banche a tutte le imprese e i settori che stanno macinando risultati record”, si legge in una nota del sindacato. Ma il presidente dei 5 Stelle ci tiene a rimarcare la capacità di dettare l’agenda politica: “È successo sugli extraprofitti. Li abbiamo costretti a discutere di salario minimo. Sul Superbonus hanno dovuto rimangiarsi tutto: lo definivano una truffa e, smentiti da fatti e numeri, ora lo copiano e prorogano”. Depurato da una naturale dose di orgoglio di partito, il punto evidenzia che il governo Meloni, dopo aver accusato dei colpi di immagine sulle questioni sociali sta cercando di recuperare. E il tentativo gli verrà rimproverato dalle varie componenti liberali oltre che dai nostalgici di Mario Draghi. Ma stavolta tassare gli extra-profitti bancari vede unita l’opposizione, a eccezione della componente centrista di Azione e Italia viva. Ci fosse stato ancora Enrico Letta segretario, il Pd avrebbe probabilmente preso le difese dei banchieri, ma ieri ha espresso un “meglio tardi che mai”: “Avevamo proposto di finanziare interventi contro il caro mutui e i superbonus incagliati – dice il responsabile economico dei dem, Antonio Misiani – anche chiedendo alle banche un contributo di solidarietà. Il governo si è dato una mossa accogliendo (in parte) le nostre proposte”. Sulla stessa linea anche Sinistra italiana con Nicola Fratoianni: il confronto tra le forze di opposizione e la presidente del Consiglio, previsto l’11 agosto, potrebbe evidenziare questa novità nell’agenda politica. Almeno fino a settembre».
I BANCHIERI IN SILENZIO, SI PREPARANO A TRATTARE
Silenzio da parte del presidente Antonio Patuelli. L’Abi convoca il Comitato di Presidenza per domani: l’obiettivo è il dialogo con l’esecutivo. Luca Davi per il Sole 24 Ore.
«Dalle banche italiane, ufficialmente, non filtra alcun commento. Ma è chiaro che la decisione del Governo di tassare i cosiddetti “extra-profitti” – ovvero i ricavi incrementali derivanti dalla decisione della Bce di alzare i tassi - ha lasciato ieri i banchieri a dir poco spiazzati. Anche perché la mossa è arrivata come un colpo a sorpresa sferrato su un settore che, dopo anni di ombre alimentate dal rischio-Italia, stava riconquistando la fiducia degli investitori a suon di risultati in crescita. Era stato del resto lo stesso ministro del Tesoro Giorgetti, a inizio giugno, a rassicurare sulla volontà di non voler toccare gli utili degli istituti. «Non abbiamo in questo momento in cantiere una tassa sugli extraprofitti» delle banche e la misura «non è all’ordine del giorno», aveva detto il ministro leghista. Messaggio chiaro, peraltro ribadito agli stessi banchieri nel corso di un Comitato esecutivo dell'Abi lo scorso 21 giugno. L’assenza di Giorgetti al tavolo dei ministri l’altra sera lascia intendere, forse, come qualcosa anche internamente al Governo, che pure risulta compatto sulla decisione, sia andato diversamente dalle attese. Qualcuno, tra i banchieri italiani, aveva messo in conto la possibilità che di tassa sui profitti si potesse parlare più avanti, magari a settembre, nel quadro della definizione della nota di aggiornamento al Def (Nadef), che tradizionalmente viene presentata alle Camere entro il 27 settembre. L’accelerazione governativa, con un effetto annuncio che sembra essere più figlio di calcoli elettorali, ha di certo avuto una conseguenza: quella di squassare il mercato, che infatti ieri ha reagito in maniera violenta, con vendite a mani basse su tutti i titoli delle banche italiane, abbattendo così l’intera Piazza Affari. Si vedrà ora quali saranno le vere cifre in campo. Realistico che alla fine molti dei timori vengano fortemente ridimensionati, come del resto segnala l’annuncio di ieri sera, che fissa la soglia del contributo massimo allo 0,1% del totale dell'attivo. Per domani mattina l’Associazione delle banche italiane ha convocato un Comitato di Presidenza cui spetterà valutare il da farsi e prendere posizione sul tema. I banchieri attendono di avere in mano la relazione tecnica e i dettagli della misura per ragionare a bocce ferme. Da lì, realistico che, anzichè cercare lo scontro, si voglia invece esplorare la strada del dialogo per compiere una riflessione più approfondita su una norma che appare passibile di correzioni in Parlamento. Alcuni rumors ipotizzavano ieri una ridefinizione della platea di intervento, con una tassazione che toccherebbe solo sulle banche quotate, escludendo quelle non quotate. Ipotesi a parte, è chiaro che la tassa sui profitti generati dal margine di interesse pesa proporzionalmente di più sugli istituti più propensi a fare lending piuttosto che su quelli che fanno leva sui servizi. E tra questi ci sono in particolare gli istituti medio piccoli, che verrebbero così toccati da un balzello il cui effetto non sarebbe coerente con i messaggi fino ad oggi arrivati dall’Esecutivo, che si è sempre detto a favore delle banche del territorio. Qualcun altro ieri invece invocava una tassa che sia collegata al rapporto tra prestiti e depositi della clientela, anziché al margine di interesse, così da premiare chi presta di più. Di sicuro la posizione delle banche italiane sul tema è da sempre chiara. «Gli extraprofitti delle banche non esistono, altrimenti si dovrebbe parlare anche delle extraperdite accumulate dalle banche negli anni dei tassi zero», ribadiva con forza nei mesi scorsi il presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Il messaggio è semplice: le banche vengono da anni difficili e «hanno fatto e fanno fronte con grandi aumenti di capitale, accantonamenti e ristrutturazioni». E da anni sopportano una pressione fiscale più elevata del 3,5% rispetto alle altre imprese, con un’Ires del 27,5% rispetto all’aliquota ordinaria del 24%. Ma soprattutto devono affrontare nuove sfide: dall’aumento del costo della raccolta, complice lo stop al Tltro, alla stretta sui requisiti patrimoniali introdotta con il recepimento di Basilea 3+. Tutti temi, questi, che dovranno essere messi nel “conto” delle riflessioni con il Governo in sede di conversione del decreto».
DIALOGO GOVERNO-OPPOSIZIONI SUL SALARIO MINIMO
Anche sul fronte delle retribuzioni il governo lancia un’offensiva e si prepara ad incontrare le opposizioni Venerdì pomeriggio in un faccia a faccia. Il punto è di Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Volenti o nolenti ci saranno tutti: i leader delle opposizioni che hanno sottoscritto la proposta del salario minimo, concertandola con Maurizio Landini, non diserteranno l’appuntamento con Giorgia Meloni venerdì pomeriggio. Certo, sia Elly Schlein che Giuseppe Conte avrebbero preferito non offrire «questa passerella mediatica» alla premier. Tanto che il leader 5 Stelle all’inizio aveva pensato di mandare in sua vece a palazzo Chigi l’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Ma alla fine tutti i leader hanno deciso di andarci, persino la coppia rosso-verde Bonelli-Fratoianni. Ci sarà, ovviamente, Carlo Calenda, che era disposto a partecipare a questo incontro anche da solo. E sarà presente pure il segretario di più Europa Riccardo Magi. Unico assente Matteo Renzi, perché Italia viva quella proposta di legge non l’ha sottoscritta, anzi ha già studiato degli emendamenti al testo delle altre opposizioni. Da Palazzo Chigi fanno sapere che la presidente del Consiglio ascolterà le opposizioni perché «il confronto è sempre utile e costruttivo» ma non avanzerà una sua proposta: quella arriverà in un secondo tempo. Ciò non significa però che Meloni resterà in silenzio. La premier, dopo aver visto che una parte importante dell’elettorato di Fratelli d’Italia è sensibile a quel tema (circa tre milioni degli italiani che l’hanno votata) ha deciso di giocarsi la partita. Ovviamente la presidente del Consiglio è pronta ad aprire il dialogo ma non ad accettare la proposta delle opposizioni. «Noi — dicono da Fratelli d’Italia — pensiamo di agire maggiormente sulla contrattazione collettiva, rafforzandola, sul taglio del cuneo fiscale, sui lavoratori non contrattualizzati, sulla detassazione delle tredicesime e dei premi di produzione». Ma ciò che veramente Meloni intende capire è se c’è un modo di dividere il fronte delle opposizioni o di evitare che i partiti che hanno sottoscritto quella proposta si saldino con il leader della Cgil Maurizio Landini, fino a poco tempo fa contrario all’ipotesi di salario minimo. Tant’è vero che l’attuale proposta, scritta insieme alla Cgil, è assai lontana dall’iniziale ipotesi sponsorizzata dai 5 Stelle. Con il loro carico di dubbi e di sospetti nei confronti della presidente del Consiglio, i leader delle opposizioni ieri hanno tenuto un rapido vertice online. Cinque minuti e qualche manciata di secondi per dirsi che il fronte deve restare unito. Comunque, nell’invito alla riunione, firmato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, e che molti leader delle opposizioni hanno ricevuto dopo che la notizia della riunione era già sul sito del Corriere della Sera , è spiegato che una delegazione del governo, presieduta da Meloni, «ascolterà le proposte delle opposizioni». Quindi ufficialmente non è prevista nessuna iniziativa in questo senso da parte dell’inquilina di palazzo Chigi, che prima vuole capire bene qual è la dinamica tra i leader che andranno all’incontro. L’imbarazzo delle opposizioni, che avrebbero volentieri evitato di offrire un palco mediatico a Meloni trapela dalle dichiarazioni che accompagnano il loro sì all’appuntamento. «L’incontro non deve essere una sceneggiata agostana», premette Schlein, che poi annuncia: «Dal governo ci aspettiamo anche risposte sui ristori per famiglie e imprese dell’Emilia-Romagna e sulle mancate dimissioni di De Angelis». Conte, dopo essersi lamentato per aver appreso dai giornali dell’incontro, fa sapere che è disposto a partecipare alla riunione specificando, però, che «quello del governo è un maldestro tentativo di mettere una toppa». Magi ironizza sul «cambio di rotta di Meloni»: «Siamo curiosi di sapere il perché». Bonelli e Fratoianni fanno capire che accettano l’invito senza nessun entusiasmo. Carlo Calenda è l’unico a dire un sì convinto a quell’invito partito da Palazzo Chigi: «La politica — sottolinea il leader di Azione — non è solo scontro».
PICHETTO INCONTA GLI ATTIVISTI DEL CLIMA
Il ministro per l’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin riceve gli attivisti di Ultima Generazione e dice loro: «Non dovete imbrattare». Ma loro annunciano: «La protesta non cambia». Edoardo Iacolucci per il Corriere.
«L’incontro l’ha accettato, ma la linea del ministro per l’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin è rimasta netta: «Volevo ascoltare le loro posizioni ma i monumenti non si imbrattano. Sono un patrimonio di tutti, vanno conservati», ha detto al Tg1 dopo aver trascorso un’ora con una rappresentanza degli attivi di Ultima Generazione. E poi — dopo aver regalato ai ragazzi una bottiglia d’acqua «simbolo di un bene che non va sprecato per ripulire i monumenti» — ha lanciato la proposta di un nuovo incontro «a condizione che non continuino a imbrattare il patrimonio artistico nazionale». Inevitabile la delusione del portavoce del movimento Alessandro Berti. «Abbiamo anticipato al ministro che a settembre l’opposizione presenterà una proposta di legge di iniziativa parlamentare su cui vorremmo una discussione consapevole. Un progetto per abolire i Sad (Sussidi ambientalmente dannosi) che sono soldi dei cittadini. Si risparmierebbero 5 miliardi di euro, togliendoli dai combustibili fossili per destinarli a sociale, mobilità e comunità energetiche. Ma la palla non è stata presa al balzo». All’incontro con Pichetto Fratin dovevano essere in quattro ma Beatrice Pepe, 22 anni, non ha potuto partecipare «per l’infrazione del foglio di via, una sorta di diffida dalle città in cui ho fatto azioni di protesta». La seduta a porte chiuse nelle sale del dicastero di via Cristoforo Colombo è durata un’ora. Come abbandonare i Sad entro il 2025; come raggiungere gli impegni dell’agenda europea «Pronti per il 55%» per ridurre le emissioni entro il 2030; cosa rispondere alla bocciatura del Piano per l’energia e il clima 2030 da parte del think thank italiano «Ecco climate» e all’appello del presidente della Repubblica Mattarella, per cui si è già in ritardo nella lotta al cambiamento climatico, sono stati i temi discussi con il ministro dell’Ambiente, oltre alla proposta di legge. Un disegno che secondo gli ambientalisti resta modificabile e migliorabile. Ad ottobre è previsto un nuovo incontro tra il ministro Pichetto Fratin e Ultima generazione. Ma sulle modalità di protesta, nessun passo indietro: «Continueremo — precisa Anna Abbate, attivista e medico 29enne —. È per via dei i fenomeni climatici estremi che le opere d’arte verranno davvero distrutte. Noi non siamo catastrofisti, siamo solo realisti».
NUOVE ARMI USA PER L’UCRAINA, STRATEGIA SIRIANA PER LA RUSSIA
Le notizie dalla guerra. Un raid e poi un altro sui soccorritori: la tattica russa nel Donbass come in Siria. Nell’attacco 9 morti e almeno 88 feriti. Colpiti anche il ristorante e l’hotel dei giornalisti. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Sparare per uccidere, non i soldati, ma il massimo numero di civili e con loro infermieri, pompieri e gente comune venuta ad aiutare. È una tattica omicida, terrificante nella sua logica sterminatrice: alle 19,15 di lunedì il primo missile Iskander colpisce il centro di Pokrovsk, causando vittime e danni. Poco più di mezz’ora dopo, 37 minuti per la precisione, un secondo Iskander esplode nello stesso luogo, tra le macerie provocate dal primo, seminando terrore e sangue tra i soccorritori. A ieri sera il bilancio ancora parziale riportava almeno 9 morti e 88 feriti, alcuni molto gravi. I comandi russi hanno applicato nel Donbass occidentale le stesse strategie che adottavano i soldati del loro contingente in Siria otto o nove anni fa in sostegno del regime di Bashar Assad. Le stesse metodologie dei terribili attentati perpetrati da Isis e le altre formazioni dell’estremismo islamico in Medio Oriente. Nella Bagdad insanguinata dalle stragi quotidiane, poco meno di due decadi fa, era buona regola non correre subito sul luogo delle auto-bomba per prestare soccorso. Quasi sempre ne esplodeva un’altra molto vicina falcidiando chiunque. A poco servono le consuete spiegazioni del Cremlino, che, come di prammatica, ripete per l’ennesima volta di avere «colpito un obiettivo militare», in questo caso una base dell’esercito. Ma la realtà è di fronte agli occhi di tutti. Conosciamo bene Pokrovsk, con i suoi circa 65.000 abitanti (oggi ridotti a forse meno della metà) rappresenta il primo centro urbano rilevante per chiunque arrivi da Dnipro sulla superstrada che porta al Donbass e ai teatri delle battaglie principali tra russi e ucraini nell’Est. I missili lunedì sera hanno colpito nel centro l’area dell’hotel Druzhba, usato spesso da giornalisti e membri delle organizzazioni umanitarie internazionali. Danneggiato anche il Corleone, un ristorante italiano abbastanza noto poco distante. E attorno ci sono la filiale regionale della banca Oshad, oltre a due ospedali (di cui uno specializzato per le cure dentali), una stazione della polizia e alcuni tra i palazzi residenziali più alti dell’area urbana. Ma l’elemento più grave resta la predeterminazione a uccidere i soccorritori: viola tutte le convenzioni internazionali, equivale a un crimine di guerra. «I russi hanno appositamente lasciato trascorrere tra i 30 e 40 minuti prima di colpire ancora. Lo stanno facendo sempre più spesso», denuncia Serhii Dobriak, capo dell’amministrazione provinciale. Tra le rovine di Aleppo nel 2015 gli allora famosi «caschi bianchi», che portavano aiuto alle vittime delle bombe siriane e russe, erano spesso costretti a ritardare il loro intervento per evitare di rimanere vittime dei secondi attacchi che erano la regola. A Pokrovsk la seconda esplosione ha ferito 31 poliziotti, 7 vigili del fuoco e quattro militari: tutti intervenuti per aiutare. «Si è trattato di un attacco odioso e cinico, che rivela la natura criminale dell’invasione russa», ha commentato anche il portavoce della diplomazia europea, Peter Stano. Toni simili arrivano con la condanna delle Nazioni Unite, che parla chiaramente di «violazione delle convenzioni internazionali». Nelle ultime ore i proiettili russi hanno ucciso anche tre civili e feriti nove a Kruhliakivka, a nordest di Kharkiv. Altri due civili sono morti invece poco più a sud, nei pressi della cittadina di Kupiansk, dove sembra che le colonne corazzate russe siano riuscite negli ultimi tempi ad avanzare per circa tre chilometri causando difficoltà alla controffensiva ucraina in atto da giugno».
SPERANZE DALLA DIPLOMAZIA CINESE
La guerra in Ucraina mette alla prova le complesse strategie internazionali di Xi Jinping e le sue relazioni con Usa e Russia. Pechino non vuole voltare le spalle a Mosca ma non auspica una vittoria russa. Il suo interesse non coincide né con le mire di Vladimir Putin né con quelle del fronte occidentale. E può aprire a nuove iniziative. Un approfondimento dello storico Agostino Giovagnoli per Avvenire.
«La partecipazione della Cina al vertice di Gedda, in Arabia Saudita, per la pace in Ucraina ha sorpreso molti. Ma è in linea con l’approccio cinese basato fin dall’inizio sul rispetto della sovranità nazionale. Se appare così difficile capire le intenzioni di Pechino è anche perché la posizione cinese è stata al centro di un’intensa battaglia politico- diplomatica iniziata ancor prima dell’aggressione russa. Nel febbraio 2022, Putin ha partecipato all’apertura delle Olimpiadi invernali a Pechino – boicottate dagli occidentali – stipulando un patto di «amicizia senza limiti » con Xi Jinping. Ma probabilmente non ha informato l’“amico” Xi delle sue intenzioni. Obiettivo: mettere Pechino di fronte al fatto compiuto, obbligandola a schierarsi dalla parte di Mosca. D’altra parte, per mesi, gli Stati Uniti hanno mostrato a diplomatici cinesi prove dei preparativi russi – con l’obiettivo opposto di spingere la Cina contro Putin – che presumibilmente non hanno convinto Pechino. Così, dopo il 24 febbraio 2022, la Cina si è trovata in una posizione scomoda, tirata in due direzioni opposte. In questa guerra l’interesse nazionale cinese non coincide con quello di nessuna delle due parti. Quella scatenata contro l’Ucraina, infatti, è la “guerra di Putin”: appoggiarla significherebbe mettersi a rimorchio di Mosca. Ma non è possibile ignorare il patto di «amicizia senza limiti» e, soprattutto, pesa una lunga storia di rapporti difficili con la Russia, un nemico storico con cui la Cina condivide migliaia di chilometri di frontiera. È comprensibile che oggi Pechino cerchi di mantenere buoni rapporti con un vicino così pericoloso. Altri aspetti avvicinano i due grandi Paesi, come forme di potere politico centralizzato e autoritario e, soprattutto, la percezione di un nemico comune, l’Occidente, che favorisce anche una convergenza nei rapporti con il cosiddetto Sud globale. Se la Cina non può augurarsi né una sconfitta della Russia né un tracollo di Putin, per Pechino non è auspicabile neanche una troppo netta vittoria russa. Sull’altro fronte, i rapporti con l’Ucraina erano buoni prima e lo sono rimasti anche dopo l’inizio della guerra. Ma per Pechino conta soprattutto che l’Occidente stia con l’Ucraina. Anche in questo caso la storia conta molto. In Cina la propaganda nazionalista mantiene vivo il ricordo del “secolo dell’umiliazione” attribuita al semi-colonialismo europeo. L’eredità della Guerra fredda è invece bivalente: dopo il 1970, la comune avversione antisovietica ha aperto la strada alla collaborazione con gli Usa, decisiva per il decollo economico cinese. Ma, intorno al 2007-08, è iniziato un distacco crescente fino a far parlare di “nuova guerra fredda”, anche se tra Cina, Usa ed Europa i legami economici, finanziari e tecnologici ormai consolidati li obbligano a continuare il dialogo. Tutto ciò ha spinto Pechino verso la neutralità. Ufficialmente, il governo cinese ha sposato la narrazione russa, non ha mai usato la parola guerra e ha parlato di responsabilità della Nato. Ma la Cina «non voleva che la situazione arrivasse a questo punto» (Xi Jinping) e «sostiene fermamente il rispetto e la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi» e, specificamente, dell’Ucraina (Wang Yi). Pechino inoltre non ha riconosciuto le repubbliche di Donetsk e Luhansk, come non ha riconosciuto l’annessione della Crimea nel 2014. La guerra contraddice «un concetto di sicurezza comune, completa, cooperativa e sostenibile» sostenuto dalla Cina e ostacola la cooperazione multilaterale e le dinamiche di globalizzazione difese da Pechino contro il cosiddetto decoupling. Non sappiamo molto dei contatti riservati tra dirigenti cinesi e i loro omologhi russi, ma dopo l’incontro con Xi nel settembre 2022 a Samarcanda, Putin ha dichiarato di comprendere «le preoccupazioni della Cina sulla questione ucraina». Sul piano concreto il sostegno cinese a Mosca è stato limitato: non risultano aiuti militari consistenti e nel settembre 2022 la stampa internazionale ha sottolineato la delusione russa per mancati aiuti economici cinesi. Pechino infine ha protestato duramente contro le sanzioni imposte dall’Occidente alla Russia, ma sembra che in gran parte non le abbia disattese. Con gli occidentali particolare importanza hanno avuto i contatti diretti tra Biden e Xi, preparati da quelli di Sullivan con Yang Jiechi, prima, e con Wang Yi, dopo. Nella telefonata del 18 marzo 2022, Biden ha detto che «la Cina deve stare dalla parte giusta della storia» e non aiutare i russi nella loro «brutale aggressione, se non vuole incorrere in implicazioni e conseguenze non solo da parte americana ma mondiali». «Spetta a chi ha messo il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo» gli ha risposto Xi, ributtandogli la palla. In Occidente si è affermato il sillogismo: se la Cina volesse davvero la fine della guerra in Ucraina, fermerebbe Putin, ma poiché non lo fa non è affatto neutrale e sta con la Russia. Pechino invece pensa che intervenire su Putin significherebbe non essere più neutrali. Ma quella telefonata ha fatto pensare al presidente americano che Pechino non stia totalmente dalla parte della Russia e condivida in parte le preoccupazioni occidentali. I rapporti sino-americani sono poi precipitati nell’agosto 2022 con la visita – che forse Biden non voleva – di Nancy Pelosi a Taiwan, il tema di maggior contrasto tra Usa e Cina. Ma, dopo il XX Congresso del Pcc, con il terzo mandato a Xi, nel novembre 2022 c’è stato un importante incontro in presenza tra i due presidenti, al G20 in Indonesia: durato tre ore, ha dato la sensazione di una svolta. Dopo il gelo causato dalla vicenda del pallone-sonda cinese sui cieli degli Stati Uniti, i media occidentali hanno negato qualunque credibilità ai passi di Pechino per avvicinare Russia e Ucraina. Una qualche svolta, tuttavia, c’è effettivamente stata, con le visite in Cina di Blinken, Yellen e Kerry tra giugno e luglio 2023, cui è seguito un recente invito negli Usa per Wang Yi. I rapporti sino-americani mostrano che i contatti diretti sono sempre positivi, così come lo è la capacità di distinguere i diversi problemi (politici, economici, ambientali) senza confonderli nel calderone di una “nuova guerra fredda». Pechino ha spesso insistito che l’appiattimento europeo sulle posizioni Usa non è nell’interesse di un’Europa gravemente danneggiata dalla guerra e ha guardato ai Paesi dell’Europa occidentale come a possibili partner per un’iniziativa di pace. Si è mostrata sensibile ai gesti di attenzione dei leader europei: la visita di Scholz a Pechino ha prodotto un importante monito congiunto contro l’uso di armi nucleari più volte minacciato dai russi. Ancora più importante è stato il viaggio di Macron in Cina, cui è seguita una sua dichiarazione di autonomia dagli Usa: il presidente francese è il leader europeo più aperto verso Pechino, mentre l’Ue spinge per ulteriori chiusure in un’ottica di de-risking. Più facile è stato per la Cina spendere la propria neutralità con i Paesi del Sud globale che ha guidato – insieme all’India – verso una sorta di “terza posizione”: si è parlato di Non Allineati del XXI secolo. Tale gruppo – che rappresenta la maggioranza della popolazione mondiale - è emerso soprattutto in sede di votazioni Onu. Alla tormentata neutralità cinese è sembrata inizialmente corrispondere un’immobilità politico-diplomatica, ma poi qualcosa è cambiato. L’azione internazionale si è fatta più intensa, la Cina ha proposto un piano in 12 punti, Xi ha parlato al telefono con Zelensky e l’ambasciatore Li Hui è andato in missione in Ucraina e in Russia, anche se finora le speranze di mediazione sono state frustrate dai diretti interessati. Da Pechino sono inoltre venuti segnali di disponibilità a partecipare a un tavolo di pace con Usa, Europa e Cina, ma tale coinvolgimento richiederebbe il consenso di americani ed europei. Oggi, infine, emerge un’iniziativa dei Non Allineati del XXI secolo cui partecipa anche Pechino».
RICCARDI: LA DIPLOMAZIA POPOLARE DI PAPA FRANCESCO
Intervista di Giampiero Calapà per Il Fatto ad Andrea Riccardi, fondatore della comunità di sant’Egidio.
«“Siamo molto lontani dalla pace in Ucraina, ma il lavoro del cardinale Zuppi come inviato di papa Francesco ha rimesso in movimento il dialogo”. Parliamo col fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi sfogliando Avvenire, sulle cui colonne l’ex ministro ha definito quella di Bergoglio una “diplomazia popolare”.
In mancanza di diplomazie ufficiali emerge quella “popolare” di papa Francesco? In cosa consiste?
Quando si pensa alla diplomazia vaticana nell’immaginario è sedimentata una diplomazia all’antica, formale e classica. Elementi che, certo, permangono. Ma con papa Francesco tutto questo è ribaltato, perché l’offensiva di pace del pontefice, coinvolgendo i giovani riuniti a Lisbona, diventa un’azione popolare per la pace.
Altrimenti ci si abituerebbe alla guerra...
Nell’opinione pubblica europea sta maturando una certa indifferenza e il fastidio per le difficoltà economiche. Il papa con parole, iniziative e invito alla preghiera mantiene una tensione al superamento della guerra, rimettendola al centro dell’agenda, perché la Chiesa è convinta che attraverso il dialogo la pace è possibile.
La pace, però, sembra impossibile. L’Ucraina non prende in considerazione mediazioni senza vittoria. Anche dai russi arrivano considerazioni severe.
Nonostante ciò papa Francesco insiste col dialogo e manda il suo inviato. E qualcosa si muove: la prova di questo è l’incontro in Arabia Saudita con quaranta paesi, tra cui la Cina. Siamo molto lontani dalla pace in Ucraina, ma anche grazie al lavoro del cardinale Zuppi si è rimesso in moto un processo di dialogo internazionale.
Zuppi, appunto. In realtà a parte l’attività diplomatica del cardinale – tra Kiev, Mosca, Washington e probabilmente presto Pechino – non si vede un altro grande attore sulla scena mondiale prodigarsi per la pace. Pare quasi che la pace in Ucraina “convenga” solo al Vaticano...
È vero, non c’è nessun altro che abbia intrapreso un viaggio così ampio. Tuttavia, la Santa Sede non mira a protagonismo politico, ma rimette al centro la pace e il dialogo, ribadisco, come strumento per raggiungerla. La pace è nel cuore di molti, non solo in Vaticano, ma anche in chi combatte: negli stessi ucraini, anche se non possono pagare un prezzo troppo alto per ottenerla.
Ma perché non si muove nessun altro?
Ci sarebbe bisogno di tutti i grandi attori. Forse alcuni tentativi di mediazione hanno mirato a risultati che non potevano venire troppo presto...
A dir il vero un capo di Stato molto attivo è il turco Erdogan, sul cui regime non si possono non avere riserve...
La Turchia, che già ottenne l’accordo del grano un anno fa, così come la Cina, è un soggetto molto importante. E, in modo diverso, cominciano ad esserlo anche diversi paesi del Sud globale.
Anche in Niger, dopo il golpe, spirano venti di una guerra che per certi versi appare la stessa...
Non sono convinto che sia la stessa cosa. Sono convinto, invece, che il golpe nasca da motivi interni e che la giunta militare stia cercando degli appoggi. Le bandiere russe sono più una provocazione che altro, certo ogni vuoto rischia di richiamare altre presenze. Personalmente ho il sentore che non ci sarà un intervento militare degli Stati dell’Ecowas, la Comunità economica dell’Africa occidentale.
La domanda su cui interrogarsi è: perché in quella parte dell’Africa la democrazia non funziona?
Alla stragrande maggioranza della popolazione non arrivano i benefici della democrazia e questo genera una rabbia di cui i militari, come in altri contesti gli jihadisti, possono interpretare. ».
LA PACE E LE INTELLIGENZE ARTIFICIALI
È l’inedito e attuale il tema scelto da papa Francesco per il Messaggio della Giornata mondiale della pace che sarà celebrata il 1° gennaio 2024. «Vigilare sul rischio che la creazione e l’uso dei sistemi di intelligenza artificiale creino nuove ingiustizie e diseguaglianze, cause di conflitti». Mimmo Muolo per Avvenire.
«Un tema inedito e molto attuale per la prossima Giornata mondiale della Pace, la 57ª. “Intelligenze artificiali e Pace”. Lo ha scelto il Papa per la tradizionale ricorrenza del 1° gennaio. Anche quest’anno, dunque, l’argomento del Messaggio è stato annunciato con largo anticipo, mentre il testo papale sarà pubblicato all’inizio di dicembre. La notizia è stata comunicata dalla Sala Stampa vaticana, che ha diffuso un comunicato del Dicastero per lo sviluppo umano integrale. Immediato l’interesse dei media e dell’opinione pubblica. La prospettiva indicata, si inserisce infatti nel dibattito che ha trovato largo spazio sui media negli ultimi tempi: sia per gli aspetti legati più direttamente all’impiego dell’intelligenza artificiale negli scenari di guerra (e lo constatiamo ad esempio nel conflitto russo-ucraino), sia per le ricadute di carattere antropologico, che potrebbero avere un grande impatto sulla vita delle nostre società. Si pensi solo alla questione del digital divide tra ricchi e poveri. Infatti una delle preoccupazioni al centro del Messaggio, sarà proprio quella di un utilizzo distorto di questa risorsa, che porti ad aumentare le disuguaglianze e quindi a generare conflitti. «I notevoli progressi compiuti nel campo delle intelligenze artificiali - si legge nella nota del Dicastero vaticano - hanno un impatto sempre più profondo sull’attività umana, sulla vita personale e sociale, sulla politica e l’economia. Papa Francesco sollecita un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti. Egli richiama la necessità di vigilare e di operare affinché non attecchisca una logica di violenza e di discriminazione nel produrre e nell’usare tali dispositivi, a spese dei più fragili e degli esclusi». Ingiustizia e disuguaglianze alimentano infatti conflitti e antagonismi, fa notare il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale. «L’urgenza di orientare la concezione e l’utilizzo delle intelligenze artificiali in modo responsabile - prosegue il comunicato -, perché siano al servizio dell’umanità e della protezione della nostra casa comune, esige di estendere la riflessione etica all’ambito dell’educazione e del diritto». Infine, «la tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana - conclude la nota - sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo». Il breve intervento fornisce di fatto una prima spina dorsale del Messaggio di Francesco. Il quale, ricevendo il 10 gennaio di quest’anno i partecipanti all’Incontro “Rome call” promosso dalla Fondazione Renaissance, sottolineò: «La vita non può deciderla un algoritmo, servono etica e rispetto». In effetti quella dell’algoretica - cioè la riflessione etica sull’uso degli algoritmi nell’orizzonte dell’intelligenza artificiale - è una materia già ben presente nel panorama della riflessione della Santa Sede. Se ne è occupata ad esempio la Pontificia Accademia per la vita e il suo presidente, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, in un recente intervento ha rimarcato che «queste nuove tecnologie possono portare a uno sviluppo enorme, ma anche a una tragedia altrettanto enorme, perché rischiano di sopprimere l’umano in una sorta di dittatura della tecnica». Proprio il Papa, nel suo messaggio alla plenaria del dicastero, già nel 2020 notava: «Dalle tracce digitali disseminate in internet, gli algoritmi estraggono dati che consentono di controllare abitudini mentali e relazionali, per fini commerciali o politici, spesso a nostra insaputa. Questa asimmetria, per cui alcuni pochi sanno tutto di noi, mentre noi non sappiamo nulla di loro, intorpidisce il pensiero critico e l’esercizio consapevole della libertà. Le disuguaglianze si amplificano a dismisura, la conoscenza e la ricchezza si accumulano in poche mani, con gravi rischi per le società democratiche». Un concetto che il Messaggio per la pace dovrebbe ora sviluppare».
BENANTI: “EVITARE CHE L’IA SIA LA PROSSIMA BOMBA ATOMICA”
A commentare la scelta di Papa Francesco è il teologo francescano Paolo Benanti, studioso di etica degli algoritmi. L’intervista per Avvenire è di Francesco Ognibene.
«La guerra non si fa solo con le armi. L’Intelligenza Artificiale (IA) può entrare a far parte degli arsenali con cui si combattono i conflitti ma che soprattutto gli aprono la via. La questione sollevata dal Papa con la scelta di un tema imprevedibile per la prossima Giornata per la Pace è tutt’altro che stravagante. Anzi: è di assoluta attualità, e incalza la riflessione sul ruolo delle tecnologie della conoscenza in un mondo travagliato da conflitti aperti o latenti. Chi la sa lunga sugli usi dell’IA è padre Paolo Benanti, francescano del Terzo Ordine Regolare, docente di Teologia morale ed Etica delle Tecnologie alla Gregoriana, considerato tra i massimi esperti di “algoretica”, l’etica degli algoritmi, alla base dell’AI.
Cosa c’entra l’IA con la pace e la guerra?
È un tipo di tecnologia che non serve a fare una cosa ma cambia il modo in cui facciamo tutte le cose, com’è accaduto con l’elettricità. E sappiamo che per l’energia si sono combattute molte guerre. L’IA è una risorsa preziosa ma anche fonte di conflitto, tanto sull’approvvigionamento di tecnologie quanto sulla superiorità che il suo possesso può dare rispetto al nemico, non solo sui campi di battaglia. Per questo l’IA è una risorsa fondamentale oggi negli scenari geopolitici.
Quali insidie vengono direttamente dall’IA alla pace?
La principale è quella relativa a un mezzo in grado di perseguire un fine costi quel che costi. I conflitti accadono quando si perseguono obiettivi senza tener conto delle conseguenze. C’è poi la questione dell’impatto enorme sullo scenario economico, di per sé fonte di squilibri e di tensioni. Ma in gioco c’è un altro aspetto oggi decisivo come la manipolazione del linguaggio, dell’informazione e delle conoscenze. L’influenza che l’IA può avere sull’opinione pubblica, ad esempio creando un nemico, è grandissima.
Siamo nel campo delle condizioni che rendono possibile una guerra...
Senza dubbio l’IA altera gli equilibri globali.
Un tema di simile portata è già entrato nell’agenda di chi realizza e gestisce i sistemi tecnologici avanzati?
Sta facendo il suo ingresso. Nell’ultimo G7 a Hiroshima si è parlato di avviare un processo per evitare che l’IA sia la prossima bomba atomica. Il Papa legge i segni dei tempi e propone alla Chiesa un salto in avanti di consapevolezza sulle minacce e le risorse per la pace oggi, chiedendoci di entrare nel vivo delle angosce e delle speranze di tutti.
Quale parola può portare la Chiesa su questo tema?
Più di una: l’idea che siamo “fratelli tutti”, la visione integrale di problemi complessi, cioè il cuore di Laudato si’, e la condizione umana come ricerca di gioia e speranza, al centro della Evangelii gaudium.
Su cosa si va orientando il dibattito tra esperti di IA nel mondo?
Sulla necessità di una regolamentazione. Non si crede più che tecnologia sia di per sé sinonimo di progresso. Può esserlo solo se è mediata dai diversi portatori di interessi della società civile, condizione per diventare strumento di sviluppo umano e quindi di pace.
Imporre regole condivise e rispettate con tanti interessi in campo è realistico?
È una grande sfida, ma governi e istituzioni sovranazionali lavorano a soluzioni di questo tipo, come fu per mettere sotto controllo il proliferare di armi atomiche. Come Chiesa dobbiamo intervenire perché si diffonda questa che è una cultura di pace.
Quali princìpi si stanno affermando per regolamentare l’IA?
C’è chi parla di progetto generale per un’IA “amica dell’uomo”, di una “partente” per queste tecnologie, di “buone pratiche” cui ispirarsi, o di regolamenti basati sui diritti umani. Approcci diversi, si stanno percorrendo varie strade. Credo che si approderà a un mix di queste ipotesi. Sono fiducioso, l’interesse ad arrivarci è anche delle altre grandi religioni, che si sono riconosciute nella Rome Call for AI Ethics partita dalla Pontificia Accademia per la Vita.
Quali sono i criteri di riferimento per l’etica dell’IA?
Occorre “mettere a terra” sistemi che non siano competitivi rispetto all’essere umano ma complementari e che contribuiscano alla piena realizzazione dell’uomo senza configurare una sorta di nuova specie di sapiens. E poi c’è l’idea di realizzare sistemi che non escludano o marginalizzino i più poveri creando nuove disuguaglianze, all’origine delle guerre».
MIGRANTI. MELONI PREPARA LA STRETTA SULLE ESPULSIONI
Torniamo alle vicende del governo. Perché oggi i giornali riferiscono di una stretta sulle espulsioni che starebbe preparando Giorgia Meloni. Ieri la premier ha avuto un vertice con il ministro degli Interni Matteo Piantedosi: a settembre ci sarà un decreto legge per semplificare l’allontanamento degli irregolari violenti. Adalberto Signore per il Giornale.
«Lunedì sera, passate da qualche minuto le otto e mezzo e dopo un Consiglio dei ministri di quasi tre ore, Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, si sono spostati nell’ufficio della premier per un faccia a faccia di circa un’ora tutto dedicato al tema sicurezza. Questione di ampio respiro e che prevede, tra gli interventi, misure per il rafforzamento di dotazioni e organici delle forze di polizia, una migliore qualificazione della polizia locale e azioni di contrasto alla violenza giovanile. In verità, però, il cuore del dossier è il capitolo immigrazione. Per due ordini di ragioni: la prima più contingente, legata ai diversi casi di reati violenti commessi da immigrati irregolari (in ultimo la tragedia di Rovereto); la seconda più strutturale, perché i dati del Viminale confermano che quest’anno gli sbarchi sulle nostre coste sono più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2022. Numeri che non possono che preoccupare un governo che in campagna elettorale ha molto battuto sul tema, promettendo una politica di maggior rigore. Certo, i flussi migratori dipendono soprattutto da causa esogene, che sono sociali, politiche, economiche e ambientali. Però il dato numerico registra un incremento di quasi il 110% rispetto allo scorso anno. A lunedì- cifre del ministero dell’Interno - gli sbarchi del 2023 erano 93.685, contro i 44.637 dello stesso periodo del 2022. E i migranti che arrivano in Italia partono quasi tutti da Tunisia (58.488) e Libia (30.495). Mentre i restanti salpano da Turchia (4.315) e Algeria (387). Insomma, è evidente che la crisi sociale e finanziaria in cui versa da mesi Tunisi sta incidendo non poco, nonostante il memorandum firmato tra Ue e Tunisi e l’impegno di Meloni che ha già fatto visita al presidente Kaïs Saïed ben tre volte (di cui due in compagnia della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen). Un impegno, spiegano dal ministero dell’Interno, che ha però portato dei risultati, visto che in questo 2023 la Tunisia ha bloccato alla partenza ben 35mila persone. Non un dettaglio, fanno notare dal governo, anche in considerazione del fatto che solo una minima parte sono cittadini tunisini. L’altro dato a cui si guarda con fiducia, poi, è il decremento della curva degli arrivi: se nel primo trimestre dell’anno si è sfiorato il +200% rispetto al 2022, lunedì scorso si era intorno al +100%. Il trend, insomma, fa ben sperare il Viminale. Anche per queste ragioni, dunque, il governo ha deciso di annunciare per settembre un corposo pacchetto sicurezza. Le tecnicalità dovranno ora essere buttate giù dall’ufficio legislativo del ministero dell’Interno, ma la via è quella di prevedere facilitazioni per l’espulsione dei richiedenti asilo che compiano reati violenti nelle more della domanda (con conseguente congelamento della richiesta) o che abbiano alle spalle comportamenti violenti o pericolosi. Nel pacchetto, poi, rientrerà anche un inasprimento delle pene per gli autori di azioni violente contro le forze dell’ordine, oltre agli interventi su organici e dotazioni della polizia. Anche con l’obiettivo di aumentare la presenza sul territorio dei Cpr (Centri per il rimpatrio). Il tutto dovrebbe essere normato in un decreto legge ad hoc da approvare in uno dei primi Consigli dei ministri di settembre (lunedì a Palazzo Chigi c’era chi ipotizzava un Cdm già il 23 agosto, ma per quella data difficilmente il Viminale sarà pronto). L’obiettivo, spiega il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, è «avere procedure semplificate che consentano a soggetti con un profilo criminale importante o con patologie psichiatriche di non essere un pericolo per il territorio».
NIGER, GLI USA TENTANO LA MEDIAZIONE
Veniamo alle altre notizie dall’estero. Missione a sorpresa di Victoria Nuland, braccio destro di Blinken. La vicesegretaria di Stato Usa è a Niamey. Allarme sulle mosse della Wagner: interveniamo o dilagherà in tutta l'Africa. Alberto Simoni per La Stampa.
«Abbiamo ancora speranza, ma siamo realisti». Nella risposta che Matthew Miller portavoce del Dipartimento di Stato offre ai reporter nel quotidiano briefing c'è la sensazione di un'America spiazzata dalla piega degli eventi in Niger. La missione a sorpresa che Victoria Nuland, diplomatica di lungo corso, fitta esperienza e attualmente numero due di Antony Blinken, ha compiuto a Niamey potrebbe persino rientrare sotto la definizione "fiasco" per i risultati ottenuti, se non fosse per i messaggi «franchi e diretti» che ha indirizzato ai golpisti nelle due ore di colloquio con il neo capo dello staff militare, il colonnello assurto a grado di generale, Barmou. Washington ha messo in pausa un milione di aiuti al Paese e potrebbe rafforzare - il messaggio della diplomatica - ulteriormente le misure se non ci sarà apertura da parte dei ribelli. Nuland ha detto che il dialogo è stato «franco e talvolta difficile» e ha ammesso - «sarò sincera» - di non aver ricavato l'impressione che i golpisti che hanno rinchiuso il presidente legittimo, Mohamed Bazoum, in casa sua senza acqua né elettricità con moglie e il figlio poco più di ventenne, siano disposti al dialogo e nemmeno a ripristinare l'ordine costituzionale. La numero due del Dipartimento di Stato Usa era stata a Gedda e Blinken - che aveva visitato Niamey in marzo - le ha chiesto di "virare" verso il Niger sulla rotta per Washington per aver un racconto di prima mano: gli incontri con giornalisti, società civile e personale dell'ambasciata hanno tratteggiato una situazione tetra, e il muro che Nuland ha trovato in Barmou ha confermato i timori. Il generale, formatosi a Fort Benning in Georgia e ritenuto uno dei militari più esperti e promettenti dai capi delle forze speciali Usa con cui da anni collabora nelle missioni di controterrorismo, ha impedito a Nuland di vedere Bazoum - con il quale c'è stato un contatto telefonico - e le ha sbarrato la strada per un incontro con il presidente auto-proclamatosi Abdourahamen Tchiani. Domani l'Ecowas - l'unione economica di 15 Stati africani attualmente presieduta dalla Nigeria - si troverà per un summit straordinario. L'ultimatum per un intervento militare è scaduto domenica e non c'è unanimità di vedute sull'uso della forza per ripristinare le regole. Il presidente nigeriano Tinubu ha ordinato nuove sanzioni e ribadito che serve la diplomazia; la Ue sposa la tesi del dialogo, «c'è tempo - dicono da Bruxelles - almeno fino a domani». Sin dallo scoppio della crisi la Casa Bianca ha optato per un approccio soft, ricordando i legami che esistono fra Usa e Niger, e di come la cooperazione sul fronte del contrasto al terrorismo islamico benefici tutti. Gli Usa hanno 1100 soldati dislocati in due basi nel Paese, e stanno addestrando i nigerini all'uso di droni e armamenti sofisticati. Ora è tutto bloccato. Blinken in un'intervista a Radio France International ha ribadito che «la diplomazia è certamente la strada preferita per risolvere la questione. In ogni caso sosteniamo gli sforzi dell'Ecowas per ristabilire l'ordine», e fra questi sforzi c'è sul tavolo l'uso della forza. I confini con il Niger sono sigillati, i Paesi vicini hanno bloccato i conti e gli scambi nel tentativo di indurre i ribelli a trattare. Ma la situazione è precaria. Fra le preoccupazioni Usa non c'è solo il crollo di un governo amico restato sino a poche settimane fa uno dei pochi baluardi occidentali nel Sud Sahara. A preoccupare è la ripresa delle attività terroristiche e le infiltrazioni della milizia russa Wagner. Anche di questo Nuland ha parlato con Barmou, gli ha ricordato di essere prudenti ad affidarsi ai mercenari poiché perderebbero subito, i nigerini, il controllo della loro sovranità, come capitato in Mali. Un messaggio che - ha sintetizzato la diplomatica - «ho la sensazione che abbiano capito». Blinken ieri ha ribadito l'idea che dietro le azioni in Niger non ci siano i russi o i Wagner, ma che della situazione caotica creatasi questi ultimi possano approfittarne. «Ovunque si sono insediati la sicurezza è diminuita», ha spiegato Nuland ai suoi interlocutori. La sua missione è stata notata anche a Mosca. E la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova non ha mancato di sottolineare i guai di Nuland: «Pensava che in Niger fosse possibile lo stesso che in Ucraina: mettergli pezzi di pani in un sacchetto di plastica e ingannarli. Ma lì non c'è una repubblica delle banane come a Kiev». Nuland nel 2013 era stata fra gli americani più attivi a sostegno della rivolta di Maidan. E Zakharova sul suo canale Telegram non ha mancato di ricordarglielo».
LOS ANGELES BLOCCATA DAGLI SCIOPERI
La lunga estate calda di Los Angeles: ora sciopera il settore pubblico. Dopo Hollywood, ieri stop degli addetti al traffico, ai rifiuti e agli sportelli comunali. Luca Celada per il Manifesto.
«È stata battezzata long hot summer, e la calda estate californiana non è solo questione di clima. Qualcosa, anzi molto, è arroventato anche sul fronte del lavoro, come dimostra il numero di vertenze e lotte sindacali attualmente in corso. Ieri a Los Angeles si sono fermati per 24 ore gli addetti agli sportelli comunali, ai rifiuti, traffico e servizi aeroportuali, paralizzando una città non abituata a scioperi di questo tipo. Lo stop degli 11mila dipendenti municipali della seconda città americana rappresenta il maggiore sciopero del settore pubblico in quarant’anni. L’azione si inserisce in un panorama di agitazione generale, attualmente caratterizzato da scioperi anche nel settore alberghiero e dell’intrattenimento. La forza lavoro – oltre 30mila lavoratori, in gran parte ispanici – che mandano avanti gli alberghi, cruciali per il florido settore turistico della California meridionale, è da settimane impegnata in una serie di scioperi a singhiozzo per ottenere migliori condizioni salariali e di lavoro. Contemporaneamente continua la paralisi della macchina produttiva di Hollywood a opera di quasi 12mila sceneggiatori e 170mila attori che hanno incrociato le braccia rispettivamente a maggio e luglio. Alla base della loro azione, rivendicazioni su sicurezza, compensi, diritti d’autore e una serie di tematiche legate alla rivoluzione prossima ventura legata all’uso dell’intelligenza artificiale nella produzione di serie e film (dallo sviluppo delle sceneggiature alla riproduzione di “attori” sintetici). Da qualche settimana in città è impossibile non imbattersi nei picchetti quotidiani davanti ai cancelli di uno dei numerosi studios o nei rumorosi presidi di protesta organizzati all’entrata di molti alberghi di lusso. Sabato lavoratori in lotta sono stati aggrediti da addetti alla sicurezza provocando alcune colluttazioni. Le agitazioni rappresentano un riallineamento dei rapporti di lavoro dopo gli scompensi della pandemia che hanno prodotto anomalie come le dimissioni di massa della great resignation, il boom del lavoro a distanza e l’emergere dei lavoratori «essenziali». Le interruzioni sistemiche hanno contribuito a evidenziare gli scompensi fra salari e utili aziendali maggiorati dal precariato «intenzionale» su cui si fonda la gig economy. Ora molti sussidi di era pandemica stanno scadendo, rendendo più acuta la disuguaglianza. Gli scioperi dimostrano una rinnovata volontà rivendicativa, in evidenza anche nelle vertenze che hanno interessato aziende come Amazon e Starbucks. Dopo decenni di declino, le unions stanno riacquistando peso politico anche all’interno del partito democratico guidato da Joe Biden, che le ha da sempre ritenute parte integrante della sua coalizione, sullo sfondo delle prossime elezioni che promettono di rinnovare lo scontro con una destra populista ma anche sempre e più nettamente schierata con gli interessi industriali. Nella polemica si è inserito perfino un eurodeputato italiano, Matteo Gazzini, rappresentante della Lega a Strasburgo e grande ammiratore di Donald Trump. Ha commentato lo sciopero dal Fairmont Miramar Hotel dove i manifestanti hanno disturbato con fischi e tamburi la sua luna di miele: «Agitatori fulminati ricattano Santa Monica finché non ottengono ciò che vogliono. Non si sciopera così», ha scritto, apparentemente non del tutto informato sulla dinamica delle vertenze sindacali. «Se non vi piace il vostro lavoro – ha continuato in inglese in un tweet di domenica scorsa – trovatevene un altro senza (...) svegliare tutto il vicinato alle 7 di mattina».
LE YAZIDE RAPITE TORNANO DOPO 9 ANNI
Erano poco più che bambine quando le sei donne furono rapite in Iraq dai terroristi, nove anni fa. L’annuncio dato dalla Nobel Nadia Murad: «C’è ancora speranza di salvarne altre». Pressing politico di Usa e Ue: ora nel Sinjar si deve nominare un sindaco. Sara Lucaroni per Avvenire.
«L’anno del nono anniversario del genocidio, sarà forse ricordato per questo: sei ragazze salvate in un colpo solo. I video del loro arrivo all’aeroporto di Erbil hanno fatto il giro dei telefoni e dei social degli yazidi sparsi nel mondo: i baci sulla fronte ai genitori, i fiori e le lacrime provavano ad annientare da soli gli anni di prigionia. Erano poco più che bambine quando i miliziani del Daesh le hanno rapite nell’agosto del 2014 insieme ad altre 6.700 per essere vendute come schiave: la minoranza etnico-religiosa degli yazidi è stata la vittima privilegiata della violenza fanatica del Daesh in Iraq e la subisce ancora, in un limbo senza fine. Nadia Murad, premio Nobel e vittima di quella stessa schiavitù, è stata la prima a dare la notizia di questa liberazione miracolosa in Turchia: ha ringraziato il presidente del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani e il lavoro di intelligente dello speciale dipartimento creato per riportare a casa i 2.707 rapiti di cui non si sa ancora nulla. Mogli, figlie e sorelle sono nascoste nel campo di al-Hol in Siria, mescolate alle vedove dei jihadisti. Sono nelle enclave desertiche della Siria in cui ancora il Daesh esiste e resiste. Sono in Turchia e nelle case di certi “foreign fighter” tornati in patria. E poi ci sono i 5.000 morti e le decine di fosse comuni non ancora scavate, i 20mila bambini rapiti e naturalizzati in famiglie arabe o maltrattati o negli orfanotrofi perché nati dalle violenze e rifiutati dalla comunità. Pochi giorni fa anche la Gran Bretagna ha riconosciuto «formalmente il genocidio», unendosi a Germania, Francia, Paesi Bassi, Stati Uniti. L’Unitad, il team investigativo dell’Onu sui crimini del Daesh, dopo il lavoro avviato sulle fosse comuni annunciava nelle stesse ore la creazione di un archivio centrale digitalizzando otto milioni di documenti, utili ai Paesi che vogliono aprire processi. Solo la Germania ha emesso la prima condanna al mondo per crimini contro l’umanità ai danni degli yazidi: una coppia è stata giudicata colpevole di aver comprato madre e figlia e di aver fatto morire quest’ultima, una bambina di 5 anni. Nei campi profughi vivono ancora in centomila, e non tutte le sopravvissute yazide, cristiane, turkmene e Shabak sanno di poter usufruire del sostegno occupazionale, economico e medico- psicologico previsto dalla “Yazidi Survivors Law”. Anche se le procedure sono lentissime: 1.670 richieste, 838 approvazioni, seicento dollari mensili che arrivano dopo mesi, raccontano alcune Ong. Se da Ninive e dal Sinjar fuggirono in 400mila, 300mila sono ancora rifugiati nel Kurdistan iracheno perché in un’area senza sicurezza è difficile tornare. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller e il Consiglio Europeo hanno chiesto a Baghdad ed Erbil di rompere lo stallo politico e di nominare un sindaco a Sinjar, puntando il dito contro la mancata applicazione dell’accordo che prevedeva in primis il ritiro dall’area di tutte le milizie, specie quelle affiliate al Pkk. Se infatti la Turchia bombarda le milizie yazide Ybs, Unità di Protezione di Shingal, anche l’esercito iracheno si scontra periodicamente con questi gruppi oltre a gestire la forte l’influenza delle Pmf, Forze di mobilitazione popolare, legate all’Iran. A luglio intanto le sei ragazze sono state celebrate come eroine in una festa pubblica. «C’è ancora speranza di salvarne altre », ha scritto Nadia Murad. Speranza di uscire da un limbo lungo nove anni».
SALVIAMO L’AMAZZONIA
Vertice di Belem: per evitare il disastro il saccheggio della foresta amazzonica va fermato entro il 2029. Il presidente Lula finisce sotto accusa per le nuove trivellazioni ed è un tutti contro tutti. Emiliano Guanella da San Paolo per La Stampa.
«Tutti insieme per salvare l'Amazzonia, ma poi quando si tratta di interessi nazionali la coesione regionale inizia a traballare. È il caso delle perforazioni di petrolio, un tema su cui i presidenti chiamati a rapporto dal brasiliano Lula da Silva non hanno proprio la stessa idea. Al vertice in corso a Belem sono presenti i Paesi che hanno nel loro territorio una porzione della foresta tropicale più grande del Pianeta; Colombia, Bolivia, Perù, Ecuador, Venezuela e le tre Guaiane, compreso il territorio d'oltremare francese che dipendente da Parigi. La scelta della sede non è casuale. Belem è la capitale del Parà, grande quattro volte l'Italia, tra tutti gli stati brasiliani quello dove si sente di più la pressione dei grandi produttori rurali che sventrano la foresta per guadagnare terre da coltivare o per i loro pascoli. La città è stata scelta per ospitare nel 2025 la Cop30, conferenza globale del clima delle Nazioni Unite, a dimostrare quanto le sorti dell'Amazzonia siano intimamente legate agli sforzi globali contro il riscaldamento globale. La parola d'ordine, oggi, è «salvare il salvabile»; gli scienziati del Ipcc panel, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, hanno fissato nel 2029 il cosiddetto punto di "non ritorno" per la foresta, la dead-line oltre la quale, se non si sarà fatto abbastanza, sarà inutile continuare a tentarlo. Gli stessi ricercatori sostengono che se ci si muove con rapidità ed efficacia si potrebbe salvare dalla distruzione non meno del 80% dell'Amazzonia. «Mai come ora – ha detto Lula aprendo i lavori – è chiaro a tutti che siamo in un momento cruciale, dobbiamo unire i nostri sforzi per un'azione congiunta». Tutti uniti, almeno a parole, ma poi sui fatti le posizioni divergono assai e lo stesso Lula ha la sua bella responsabilità. La pietra dello scandalo è il mega progetto di esplorazione petrolifera che la Petrobras vuole implementare alla foce del Rio delle Amazzoni, non lontano dalla stessa Belem. Le proiezioni parlano di enormi riserve di greggio da perforare nei fondali oceanici attraverso piattaforme offshore, ma l'organo di controllo ambientale Ibama, che dipende dal ministero dell'ambiente, ha bocciato il progetto dichiarando che esistono grandi pericoli per l'intero ecosistema amazzonico. Il Rio delle Amazzoni getta ogni secondo 200 milioni di litri di acque dolci nell'Atlantico, il che rappresenta il 17% del totale dell'acqua continentali presenti negli oceani del Pianeta. Per l'Ibama l'attività offshore rappresenta rischi incalcolabili per la costa amazzonica, mette in pericolo la barriera corallina e la biodiversità marina di oltre 90 specie di pesci. Un eventuale fuoriuscita di greggio, poi, potrebbe, a cause delle correnti, risalire il fiume contaminando proprio parte della foresta amazzonica. La ministra dell'ambiente Marina Silva, icona internazionale della difesa dell'Amazzonia, è contraria al progetto, mentre sono a favore i responsabili dei dicasteri economici e del ministero dell'energia, da cui dipende la Petrobras, la più importante impresa pubblica brasiliana. Interpellato dai giornalisti alla vigilia del summit, Lula ha risposto in maniera stizzita. «Voi davvero pensate che io sia venuto qui per parlare di questa polemica? Posso solo dirvi che io appoggio il sogno del Brasile di essere una potenza petrolifera mondiale e che sono sicuro che tutto sarà fatto rispettando la natura e l'ambiente». Ottanta Ong e organizzazioni internazionali hanno firmato un appello per bloccare il progetto, ma questo non sembra interferire su Brasilia, che sta premendo per un parere autorevole dell'avvocatoria generale di Stato (Agu) per poter avviare le prime attività esplorative. L'Amazzonia, del resto, non soffre solo a causa delle invasioni dei fazendeiros e dei cercatori illegali di oro e altri metalli preziosi. La ricerca di gas e petrolio creano problemi un po' ovunque. Gli indios ecuadoriani lottano da tempo contro i giacimenti nel parco nazionale Yasuní, le cui riserve sono stimate in 1,7 miliardi di barili di petrolio. L'oro nero divide i presidenti progressisti sudamericani. Il colombiano Gustavo Petro ha detto che proibirà i pozzi nella regione amazzonica del suo Paese. «Sarebbe un messaggio importante verso i paesi del Nord del mondo se ci mettessimo d'accordo per porre fine ai giacimenti in Amazzonia. Questi progetti sono dannosi per il loro impatto ambientale specifico, sventrano la foresta per strade e oleodotti e creano conflitti con le popolazioni locali». Quando dalle parole si passa ai fatti, anche tra compañeros iniziano, così, ad affiorare divisioni insormontabili. Con buona pace delle sorti dell'Amazzonia».
HAITI, MARCIA CONTRO LE GANG
Il caos nell'isola di Haiti: in migliaia marciano contro le gang. Scontri con la polizia a Port-au-Prince. La gente è esasperata: «Non possiamo continuare a vivere così». Il punto di Avvenire.
«Ad Haiti, ormai, non c’è più limite al peggio. Le tensioni sono aumentate nella capitale Port-au-Prince lunedì pomeriggio, quando migliaia di manifestanti sono scesi in piazza per denunciare la devastante violenza delle bande nel Paese, che ha portato la scorsa settimana alla morte di un agente di polizia. I veicoli governativi sono stati dati alle fiamme, mentre i manifestanti – molti mascherati – si sono scontrati con la polizia, chiedendo protezione e aiuto nelle aree depresse che circondano il centro della capitale. Spari anche davanti all’ambasciata Usa, che ieri è rimasta chiusa. Le autorità in seguito hanno usato gas lacrimogeni per disperderli, hanno detto testimoni oculari. Un giovane manifestante, James, ha raccontato quello che tutti vedono: la violenza delle bande che ha devastato l'assistenza sanitaria e nullificato sicurezza, con un numero crescente di rapimenti e omicidi. « Non possiamo più vivere così. Interi quartieri sono “gangsterizzati”», ha detto: « La gente sta abbandonando le proprie case». Le cifre restano sconfortanti: l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati afferma che circa 73.500 persone sono fuggite da Haiti lo scorso anno a causa della crescente violenza delle bande e della povertà. Inoltre 5,2 milioni – quasi la metà della popolazione di Haiti secondo l’Onu – «ha bisogno di assistenza umanitaria» e sollecita la necessità di assistenza internazionale ad Haiti per ripristinare la stabilità. «Ci sono ladri. Non possiamo dormire. Non possiamo mangiare. Non possiamo nemmeno vivere. Non abbiamo creato le bande», hanno ripetuto molti partecipanti alla marcia. Serve un «intervento immediato» nell’area di Port-au-Prince di Carrefour-Feuilles, denunciano: «Chiediamo carri armati».
“TOGLIETE LA LAUREA A SAIED”
Iniziativa di 270 accademici che chiedono di revocare la laura honoris causa a Kais Saied, presidente della Tunisia, conferita a suo tempo dall’Università di Roma La Sapienza. La cronaca è del Corriere.
«L’università Sapienza di Roma, che quest’anno si è classificata al 134° posto nel ranking internazionale, il miglior risultato della sua storia, è finita al centro delle polemiche per la petizione nella quale 270 accademici chiedono di revocare la laurea honoris causa conferita nel 2021 al presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied. A sottoscrivere l’appello un nutrito gruppo di docenti europei, statunitensi e tunisini che accusano il governo di Saied di essere «autoritario e razzista». E, nella lettera indirizzata alla rettrice dell’ateneo romano Antonella Polimeni, imputano al capo di Stato «di aver commesso gravi abusi nei confronti dei migranti dell’Africa subsahariana che risiedono o transitano nel Paese». Tra i fatti per i quali sollecitano il ritiro del titolo onorifico, gli scontri tra tunisini e migranti che sono «costati la vita a un cittadino beninese a maggio e a un tunisino il 3 luglio» a Sfax, città portuale situata sulla costa orientale del Paese, diventata quest’anno il principale punto di partenza per l’emigrazione clandestina verso l’Europa. Tra i firmatari Mouna Balghouthi, coordinatrice dell’organizzazione non governativa tunisina «Mobilizing for rights associates» e ricercatrice in Filosofia all’università El Manar di Tunisi, che attribuisce al presidente l’intenzione di «raffigurare un nuovo pericolo per distogliere l’attenzione da questioni economiche e problemi sociali». Aderiscono alla protesta anche Sana Ben Achour, attivista femminista e docente di Diritto pubblico, e il matematico francese Cédric Villani. Oltre a sollevare il tema dell’immigrazione, gli accademici contestano le riforme costituzionali varate da Saied, a loro avviso «intese a concentrare il potere nelle sue mani, a minare i fondamenti istituzionali essenziali per i diritti umani, l’indipendenza della magistratura e il diritto alla libertà di espressione». Ieri il Corriere ha provato invano a sentire la rettrice Antonella Polimeni per capire come intenda rispondere alla petizione che le è stata inviata».
UNA VITA NASCOSTA, 80 ANNI FA IL MARTIRIO DI JÄGERSTÄTTER
Il cardinale Marcello Semeraro prefetto delle Cause dei santi scrive una riflessione per Avvenire su Franz Jägerstätter il cristiano austriaco, che scelse in coscienza di aderire al Vangelo rifiutando la chiamata alle armi del nazismo e che per questo fu giustiziato esattamente 80 anni fa. L’uomo, a cui Terrence Malick ha dedicato uno splendido film La vita nascosta - Hidden Life, nel 2019, “è più che mai simbolo di libertà umana e comprensione della gioia del Cristo risorto”.
«La figura su cui desidero portare l’attenzione è quella di un fedele laico, ma pure quella di un martire della Chiesa in un tempo, come il nostro, per il quale spesso papa Francesco ripete: i martiri, «come ho già detto tante volte, sono più numerosi nel nostro tempo che nei primi secoli. Oggi ci sono tanti martiri nella Chiesa, tanti, perché per confessare la fede cristiana sono cacciati via dalla società o vanno in carcere … Sono tanti… I martiri, a imitazione di Gesù e con la sua grazia, fanno diventare la violenza di chi rifiuta l’annuncio una occasione suprema di amore, che arriva fino al perdono dei propri aguzzini». Si tratta del beato Franz Jägerstätter fedele laico, sposato e padre di famiglia, martire. Le ultime parole da lui vergate nella lettera scritta alla moglie il 9 agosto 1943, poche ore prima dell’esecuzione della sua condanna a morte, avvenuta alle quattro del pomeriggio dello stesso giorno, furono: «Vi saluta prima del suo ultimo viaggio Vostro marito, figlio, padre, genero e cognato. Cuore di Gesù, Cuore di Maria e il cuore mio siano uniti in un cuore per tutta l’eternità». Si potrebbe sistematizzare la vicenda terrena del beato Franz Jägerstätter in tre fasi: quella della sua infanzia e giovinezza, la fase del suo matrimonio con Franziska Schwaninger e, da ultimo, quella della sua chiamata alle armi con la sua morte a Brandeburgo. Sono tre tempi collegati da una maturazione progressiva, per gli inizi si potrebbe pure parlare di «conversione », e da una crescente consapevolezza cristiana che, dapprima serena e poi sempre più drammatica, sfocia nell’irrevocabile scelta finale. Il nostro beato nacque il 20 maggio 2007 a St. Radegund, in Austria. Essendo figlio illegittimo, visse i suoi primi anni presso la nonna, poverissima (andava con una carriola a mendicare), ma molto religiosa. Quando però giunse all’età di dieci anni, la madre sposò Heinrich Jägerstätter, proveniente da famiglia molto agiata, che adottò il piccolo. La sua adolescenza ebbe, così, un contesto favorevole, anche per la sua istruzione religiosa. Tra il 1927 e il 1931 visse, per ragioni di lavoro, lontano da casa e sarà lo stesso Franz a ricordare negativamente questa fase della vita: «Oltre al bere e al fumo avevo dentro di me quasi tutte le passioni cattive». Non, dunque, un uomo di speranza, ma un uomo «disperato». Il suo, scriverà, era un «barcollare senza meta». In quel periodo il giovane Franz ebbe anche una relazione clandestina, da cui nacque pure una figlia. Non è chiaro perché egli non abbia sposato questa ragazza; riconobbe, tuttavia, la sua paternità naturale e pagò pure gli alimenti per la sua crescita. L’avrebbe anche adottata, ma la madre preferì averla con sé. Questa situazione fu però l’evento che dispose il giovane a un cambiamento di vita; un ripensamento che ebbe la sua fase decisiva nel matrimonio, celebrato il 9 aprile 1936, con Francisca Schwanninger. Da questo matrimonio non soltanto nacquero tre figlie, ma anche una nuova vita. Exempla trahunt, recita, quasi parafrasando Cant 1,4, un detto latino, ma pure spiegando che laddove non bastano le parole e le esortazioni ha maggiore efficacia la testimonianza della vita. Ed effettivamente, l’esempio della moglie fu decisivo anche per Franz: da quel momento cominciò non soltanto a prediligere la lettura delle vite dei santi, ma pure maturò la volontà di diventare santo. Un segno di tale desiderio fu la comunione eucaristica quotidiana. Presto, però, cominciò l’addensarsi delle nuvole oscure. Hitler e il nazismo, che dal 1933 avevano preso il potere in Germania, dal 10 aprile 1938 diedero pure atto all’annessione dell’Austria alla Germania. In tale contesto Franz ebbe un «sogno» - così egli lo chiamava - che lo turbò profondamente: la visione di un treno sul quale molti, soprattutto giovani, volevano salire mentre una voce gli gridò: «Questo treno conduce all’inferno»; quindi un rumore sordo, una luce abbagliante e poi nulla! Si svegliò di soprassalto e lo raccontò alla moglie. Pian piano maturò in lui la consapevolezza che quell’immagine alludesse al nazionalsocialismo, che s’insinuava violentemente nelle articolazioni della vita sociale e personale. Al contempo, anche sotto la spinta di alcune personali esperienze riguardo alle inenarrabili nefandezze compiute dai nazisti, maturava in lui la persuasione che non si potesse essere al contempo cattolico e nazionalsocialista. Questo lo condusse pure alla decisione di rifiutare il servizio militare con le armi a favore di quel regime, che riteneva nemico di Dio e responsabile di una guerra ingiusta. In tale consapevolezza e conseguente decisione Franz rimase fermo, nonostante le raccomandazioni e i consigli alla cautela, che gli giungevano da più parti (anche dal vescovo e dal parroco) e pur sapendo che la renitenza alla leva era punita dal regime con la pena di morte. E questa gli fu effettivamente inflitta, nonostante - così si legge esplicitamente nella sene tenza - si ritenesse «il suo comportamento necessario secondo la sua coscienza e le sue convinzioni religiose». Nei suoi ultimi scritti dichiara: «Scriverò solo qualche parola, così come essa mi esce dal cuore. Scrivo con le mani legate, ma è meglio così che se fosse incatenata la volontà … Né il carcere né le catene e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la sua libera volontà. La potenza di Dio è invincibile … C’è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli ... Si può allora anche mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo stesso non ha forse detto: “Chi ama la moglie, la madre i figli più di me non è degno di me”? Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro’ Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volontà se non ci è neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta? A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male? … Se un nostro buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la vecchiaia? Non credo proprio. E cos’è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive del paradiso?». Ritorna la spinta della speranza teologale. La sua scelta, però, fu semplicemente una obiezione di coscienza? Una volta papa Francesco ha avvertito che ascoltare la propria coscienza «non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo!». Ma cos’è, poi, la coscienza? Lo spiegato ancora il Papa: « La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele».
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