La Versione di Banfi

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Belle piazze per le afghane

alessandrobanfi.substack.com

Belle piazze per le afghane

Le donne italiane scendono in piazza per le ragazze di Kabul, cui è impedita la vita sociale. Draghi alle prese con le trattative sul "patto". Avvenire furioso. I tedeschi votano il dopo Merkel

Alessandro Banfi
Sep 26, 2021
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Belle piazze per le afghane

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La bella piazza dell’Italia di ieri è quella delle donne per l’Afghanistan. Le afghane hanno dimostrato un coraggio incredibile, finora, sfidando i Talebani e tutti gli opportunismi della diplomazia occidentale. È sacrosanto che le donne italiane si mobilitino per le ragazze di Kabul, ricordino al mondo la loro sottomissione assurda e violenta. Bisognerebbe parlarne in tutte le scuole italiane, quelle stesse scuole negate alle studentesse e alle insegnanti afghane. Proprio venerdì ci sono state delle esecuzioni sommarie ad Herat, con l’esposizione dei colpevoli. Presto anche la pubblica lapidazione delle adultere potrebbe tornare nello stadio di Kabul. Lo ha ammesso il portavoce del governo e la cosa non ci dovrebbe lasciare tranquilli.

La piazza inquietante è stata invece quella dei No Vax. Pochi ma violenti in diverse città italiane. Delle manifestazioni non vengono preavvisate le autorità, come vorrebbe la legge. Il bersaglio sono spesso i giornalisti e le sedi delle redazioni, come è accaduto anche ieri a Trieste. A Milano i manifestanti hanno anche cercato di raggiungere Giorgia Meloni che aveva tenuto un comizio in piazza Duomo, sfondando il cordone di sicurezza. La leader di Fratelli d’Italia, accusata di essere una “traditrice”, ha eluso l’agguato violento.

 A proposito di comizi elettorali, l’appuntamento delle amministrative di domenica prossima non sembra proprio eccciti gli animi, Meloni a parte. Lega e 5 Stelle sono già impegnati ad esorcizzare risultati non brillanti. I giornali italiani oggi dedicano molto più spazio al voto tedesco, il primo dopo 16 anni senza Angela Merkel. In effetti per il nostro destino è quasi più importante dove andrà la Germania, di come finiranno i nostri Comuni. L’era Merkel ha coinciso, fino alla pandemia, con l’Europa dell’austerità. La nuova Europa del Recovery sarà una parentesi o continuerà ad affermarsi quella linea? Per la Ue e per l’Italia è decisiva questa scelta. L’economista francese Fitoussi sul Quotidiano Nazionale teme molto il ritorno dei “falchi”. Poche ore e vedremo dove porta il “voto più pazzo” (copyright della Bild) della storia politica tedesca.

Domenica di sussurri e ipotesi sui giornali nella corsa al Quirinale. Sul Corriere della Sera fa il punto della situazione Roberto Gressi, disegnando candidati e partiti ai blocchi di partenza. Minzolini per il Giornale, sulla base di una battuta che Draghi avrebbe detto ad una cena con Mattarella, critica la “staffetta irrituale” fra i due. Schermaglie preventive. Intanto il Governo apre domani una settimana di confronto coi sindacati: ce la farà l’idea del salario minimo ad entrare nel patto che propone Draghi? Avvenire contesta duramente la mancata applicazione dell’assegno ponte per le famiglie.   

Prima di andare sulle prime pagine dei quotidiani, due parole sulla Versione. Domani si torna alla consegna entro le 8 di mattina. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della rassegna. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete arretrati.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La Germania al voto, ancora il Covid e un po’ di economia. Il Corriere della Sera insiste sui vaccini: Terza dose a chi rischia di più. Il Mattino accosta il tema del ritorno in classe: La terza dose agli anziani. Scuola mini-quarantena. Il Messaggero la dà per fatta: Quarantena ridotta a scuola. La Verità avverte: Ospedali, allarme delle regioni. «Rischiamo di chiudere reparti». Sulle elezioni in Germania si concentrano il Domani: Angela Merkel ha fatto miracoli per la Germania, non per l’Europa. E il Manifesto con foto della Cancelliera: Angela custode. La Repubblica torna sul “patto” di Draghi: Niente salario minimo nell’agenda di governo. Mentre per il Quotidiano Nazionale la partita è ancora aperta: Salario minimo, pressing su Draghi. Avvenire raccoglie le proposte per i mancati aiuti alle famiglie: Beffa dell’assegno. Il Giornale riposta uno scritto del leader di Forza Italia: Parla Berlusconi «No a tasse sulla casa». Il Sole 24 Ore nota: Cresce l’export, non gli esportatori. Il Fatto propone la nuova priorità per i 5 Stelle in tema di giustizia: “Una legge per tenere dentro i boss mafiosi”. La Stampa intervista il sindaco uscente di Torino: Appendino: “Il Pd come la destra”. Libero difende il suo fondatore: Il processo per “patata bollente”. Feltri rischia la galera per colpa dei politici.

IN PIAZZA PER LE RAGAZZE DI KABUL

Ci sono piazze italiane che fanno sperare. E in cui tutti ci riconosciamo. Tante ieri in giro per la nostra penisola, riempite da giovani e meno giovani in solidarietà con le donne dell’Afghanistan. La più importante è stata piazza del Popolo a Roma. La cronaca di Gabriella Colarusso per Repubblica.

«Zara, Neda, Maryam: le donne di Kabul si proteggono con nomi finti, sfuggono alle foto e se accettano di farsi riprendere lo fanno coprendo almeno in parte il viso con le mascherine. Sono attiviste, combattenti per i diritti scappate dall'Afghanistan grazie a Pangea, l'associazione che da venti anni lavora nel Paese per sostenerne lo sviluppo sociale e civile e che nei giorni del caos all'aeroporto di Kabul le ha aiutate a uscire distinguendole nella folla con una P disegnata sulla mano. Ieri Zara, Neda, Maryam hanno portato le loro storie in piazza del Popolo, a Roma, dove in contemporanea ad altre città italiane, c'è stata la prima manifestazione di solidarietà con le afghane e gli afghani prigionieri dei nuovi padroni di Kabul, i talebani. «Il mondo ci ha tradite, ma le donne afghane non si arrenderanno», ci dice Zara, 44 anni, che è scappata una settimana prima che i miliziani islamisti entrassero a Kabul. «Sta prendendo forma una resistenza silenziosa, non armata, a livello locale, che ha due obiettivi: aiutare i più poveri e isolare i talebani all'interno delle comunità locali, tenendoli lontani dalle moschee, dalla vita sociale ». Neda, 33 anni, è arrivata in Italia con il ponte aereo da Kabul. «Lavoro con Pangea da 8 anni, quando i talebani sono entrati in città sapevo che l'unica cosa da fare era scappare. Ma continueremo a batterci. In questi 20 anni l'Afghanistan è cambiato, avevamo leggi contro la violenza sulle donne, case di accoglienza per le vittime di abusi. Tutti partecipavano alla vita sociale, c'era lavoro, si poteva andare al cinema, ascoltare la musica. Non permetteremo che tutto questo venga cancellato». In piazza ci sono associazioni e ong, c'è la casa internazionale delle donne e c'è la Cgil, c'è l'Anpi. Compare Susanna Camusso, ex segretaria della Cgil, c'è Laura Boldrini, presidente del comitato per i diritti umani, ci sono femministe e universitari. Nicola, 21 anni, studente di Giurisprudenza, se la prende con l'Europa: «Un errore seguire gli Stati Uniti sul ritiro e abbandonare gli afghani dopo tutto il lavoro fatto». Sul palco si alternano le testimonianze dall'Afghanistan agli interventi più politici. Simona Lanzoni, la vicepresidente di Pangea, torna a chiedere la costituzione di un comitato di osservazione permanete sulla situazione delle donne in Afghanistan sia a livello nazionale, tra ministero degli Esteri e ong, che sul piano internazionale, con le Nazioni unite. Insiste sull'urgenza di «attivare corridoi umanitari e di riprendere subito le evacuazioni». «Quella a cui abbiamo assistito è stata una resa senza condizioni sul rispetto dei diritti delle donne e dei diritti mani, i talebani non sono cambiati e noi dobbiamo essere la voce delle donne afghane», dice Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell'Istat e presidente del Women 20, il gruppo di lavoro del G20 sull'empowerment femminile. «Habiba Sarabi, la ministra della condizione femminile e la prima governatrice donna dell'Afghanistan, ha lanciato un appello agli italiani e all'Onu: servono corridoi umanitari permanente e che ci sia un controllo costante sul rispetto dei diritti delle donne e dei diritti umani in Afghanistan». 

SPERANZA OTTIMISTA: “IMMUNITÀ VICINA”

Sul fronte della pandemia, le notizie di oggi riguardano l’estensione della terza dose ai fragili. Ma anche le nuove misure che si stanno studiando per la scuola, a cominciare dalla quarantena ridotta. Fabio Savelli per il Corriere della Sera ci aggiorna  sull’ottimismo del ministro Speranza.

«L'obiettivo è l'autonomia vaccinale nella produzione di preparati a mRna. Che soddisfi la domanda italiana e in parte quella europea. C'è un tavolo al ministero dello Sviluppo economico - con Farmindustria, Aifa e il commissario all'emergenza Francesco Figliuolo - che sta proseguendo spedito con la consulenza dell'ex ministro del Tesoro, Giovanni Tria. «Stiamo lavorando per portare il nostro Paese ad avere maggiore livello di autonomia», ha detto ieri il ministro della Salute Roberto Speranza alla tre giorni di convegni promossa dalla Cgil a Bologna. Il riferimento è alle trattative che il governo ha messo in piedi da alcuni mesi con l'americana Moderna, notizia anticipata dal Corriere della Sera a luglio. La biotech del Massachusetts - che ha ideato i vaccini Covid di ultima generazione - ha attivato una collaborazione con la Catalent di Anagni per inserire nelle fiale la materia prima realizzata in Asia e da qui distribuire dosi in Europa anche per gestire meglio il possibile ricorso alla terza dose ove l'Ema dovesse decidere, tra qualche giorno, per l'estensione generalizzata del richiamo. L'impegno è anche quello di aiutare i Paesi più bisognosi donando dosi di vaccino nell'ambito del programma Covax al quale l'Italia ha già aderito con 45 milioni di dosi. «Sul vaccino la diseguaglianza è insostenibile e tutti dobbiamo lavorare per ridurla», ha detto Speranza. Fonti raccontano che l'Italia potrebbe contribuire anche nel controlli di qualità per il rilascio dei lotti di vaccino, anche per quelli relativi agli studi clinici di preparati non ancora approvati dalle authority del farmaco, oltre al suo confezionamento e al miscelamento. «Siamo ancora dentro la pandemia, ma i risultati della campagna di vaccinazione sono molto incoraggianti: stamattina (ieri, ndr ) siamo al 77,4% delle persone vaccinabili che hanno completato il ciclo, a 83.600.000 dosi somministrate, un numero molto significativo che sta crescendo e negli ultimi giorni, grazie alle scelte fatte, c'è un aumento significativo delle prime dosi e questo ci mette nelle condizioni di poter governare meglio l'epidemia», rivendica Speranza riferendosi alla decisione governativa di imporre l'obbligo di green pass per tutti i lavoratori pubblici e privati dal 15 ottobre. Ma c'è molto da fare soprattutto sul rinforzare la medicina territoriale uscita piegata dalla pandemia. «E mantenere l'impostazione universalistica della sanità», dice Speranza puntando sugli investimenti pubblici, in parte garantiti dai fondi del Pnrr. Nelle fila della Cgil il passaggio era sentito dopo le dichiarazioni del presidente di Confindustria Carlo Bonomi sulla necessità di investitori privati nella filiera della salute che avevano provocato qualche mal di pancia. Il conto si è aggiornato ieri di 3.525 nuovi casi Covid e 50 decessi. Il tasso di positività su 357 mila tamponi è all'1%. Sono 481 i posti occupati in terapia intensiva (otto in meno di venerdì)».

PATTO PER LA RIPRESA, DUBBI SUL SALARIO MINIMO

Domani Draghi incontrerà i sindacati, sul tavolo il “patto” proposto da Confindustria e fatto proprio dal presidente del Consiglio. La strada è in salita, soprattutto sul punto del salario minimo, che pure appariva fino a ieri condiviso dal Pd e dai 5 Stelle. Giovanna Vitale per Repubblica.

«È un mese davvero complicato quello che si apre domani con l'incontro a Palazzo Chigi tra Mario Draghi e i leader sindacali. Un percorso a ostacoli fatto di scadenze ineludibili, dal varo della Nadef (la nota aggiuntiva del Def ndr) alla legge di bilancio; di riforme che ritardano, fisco e concorrenza su tutte; di cabine di regia da riunire sull'attuazione del Pnrr. L'inizio di un autunno che si preannuncia caldissimo. Anche sul fronte sociale: «Se il governo non ci darà risposte su fisco e pensioni siamo pronti alla mobilitazione», ha minacciato ieri il capo della Cgil Maurizio Landini. Convocato formalmente per discutere di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, il vertice con i segretari confederali potrebbe dunque offrire al presidente del Consiglio l'occasione per incardinare il famoso Patto per la ripresa lanciato giovedì all'assemblea di Confindustria. La sede per verificare, dopo il sì unanime delle imprese, la disponibilità di Cgil, Cisl e Uil a costruire insieme una prospettiva condivisa di sviluppo «a beneficio anche dei più deboli e delle prossime generazioni», aveva specificato Draghi nel suo discorso, con l'obiettivo di rendere strutturale il 6% di crescita previsto per quest' anno. Non si parlerà tuttavia di salario minimo legale - strumento che fra l'altro piace poco sia agli industriali sia ai sindacati, e al momento non compare nell'agenda di governo - sebbene sia fra i temi più discussi dalle forze politiche. Con Pd, 5S e Leu pronte a prospettarlo al premier come uno dei pilastri del costituendo Patto per la ripresa. Potrebbe però essere solo una questione di tempo, legata all'esito del dibattito europeo sulla direttiva comunitaria che si propone di stabilire regole uniformi per tutti i Paesi Ue. Il ministro Andrea Orlando ha già schierato l'Italia sul sì, accanto a Francia e Spagna, contro il fronte del Nord deciso invece a stopparla. La traduzione nella legislazione nazionale avverrebbe poi con paletti stringenti, «integrando la contrattazione con lo strumento della rappresentanza », precisa il titolare del Lavoro. Possibilista sull'ipotesi che i sindacati avevano concordato col precedente governo: «Far coincidere il minimo salariale con il minimo contrattuale», ricorda il leader Uil Pier Paolo Bombardieri. Una misura necessaria anche per il presidente dell'Inps: «Giovani e donne sono le categorie più colpite dalla pandemia e il salario minimo può aiutare soprattutto loro», è l'opinione di Pasquale Tridico. Non solo «genera crescita e aumenti di produttività», ma «ovunque è stato introdotto ha permesso miglioramenti». Nell'attesa ci sono tuttavia scadenze (e problemi) più urgenti da affrontare. A cominciare dai ritardi accumulati su fisco e concorrenza, che bisognava licenziare entro settembre e invece con ogni probabilità slitteranno alla seconda metà di ottobre, subito dopo i ballottaggi. Restando ancora da sciogliere i «nodi spinosi» segnalati una settimana fa dal sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli. Sono i numeri a raccontare la fatica del governo a scalare la montagna degli impegni assunti con l'Europa per centrare gli obiettivi del Recovery: delle 27 riforme previste entro fine anno ne sono state finora approvate 8; solo 5 gli investimenti realizzati su 24. L'unica certezza è che dopodomani il governo varerà la Nadef, la nota di aggiornamento al Def che, nel delineare il quadro di finanza pubblica, dovrebbe indicare per il 2021 una crescita del Pil attorno al 6% (due punti in più del tendenziale del Def) e per il 2022 superiore al 4. Di conseguenza il rapporto deficit/ Pil dovrebbe fermarsi intorno al 10% e il debito/Pil mantenersi stabile nei pressi del 156%. Entro il 15 ottobre va poi inviato a Bruxelles il Documento programmatico di bilancio, quest' anno più semplice da compilare, trattandosi di una sorta di "Bignami" del Pnrr. Ben più decisivo è invece il termine del 20 ottobre entro il quale va licenziato il disegno di legge di Bilancio, ovvero l'articolato della manovra. Dove potrebbe finire un "assaggio" delle riforme che non si è ancora riusciti a varare. Il documento dovrebbe infatti contenere la revisione degli ammortizzatori, l'uscita graduale da Quota 100, il prolungamento del superbonus, una prima rivisitazione del reddito di cittadinanza ed eventualmente - visto l'allungarsi dei tempi della delega fiscale - un anticipo di taglio del cuneo da far scattare già nel 2022».

Matteo Renzi critica il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. E ricorda che durante l’ultima crisi si era pesantemente schierato con Conte e Gualtieri. L’intervista su Repubblica è di Tommaso Ciriaco, l’integrale come sempre lo trovate in pdf.

«Matteo Renzi, cosa ha pensato di fronte all'ovazione di Confindustria per Draghi? «Sono stato felice: c'è grande entusiasmo degli imprenditori. E ciò è positivo. Più fiducia significa più Pil e posti di lavoro. Poi ammiro le conversioni sulla via di Damasco: Confindustria a gennaio chiedeva continuità sulla linea economica Conte-Gualtieri e molti bollavano come irresponsabile aprire la crisi. Meno male che abbiamo ascoltato il nostro cuore e non i loro suggerimenti. Oggi c'è Draghi, l'Italia è più forte». Sempre Bonomi ha chiesto ai partiti di lasciare perdere con le beghe interne e le tensioni per le comunali e il Colle. Condivide? «Ho apprezzato la relazione, ma giudico stucchevole l'attacco alla politica. È naturale che i partiti si dividano per le amministrative o per il Quirinale: si chiama democrazia. Non conosco il dottor Bonomi e non dubito della sua passione civica, ma non prendo lezioni di politica da lui. Del resto ricordo il suo appello televisivo a sostenere il Conte ter, con tanto di esplicita indicazione del ministro dell'Economia mentre io lottavo per la "svolta Draghi". Al milanese Bonomi ricordo il detto milanese: Ofelè fa el to mest è . Ognuno faccia il suo mestiere, senza invadere il campo altrui. Bonomi rispetti la politica quanto noi rispettiamo l'impresa. Attaccare i partiti per un applauso è roba da populisti».

WEEK END DI COMIZI VERSO LE URNE

L’ultimo fine settimana di campagna elettorale non sembra neanche tale in Italia. L’interesse per le amministrative è davvero scarso. Colpa dei partiti e dei candidati che hanno proposto? Oppure la pandemia ha ridimensionato anche la voglia di partecipazione? La prima preoccupazione dei leader, da Conte a Salvini con l’eccezione della Meloni, è cominciare ad esorcizzare la possibile sconfitta. Mettere le mani avanti prima del possibile flop. La cronaca del Corriere.

«Più in alto voli, tanto più piccoli sembreranno quelli che non possono farlo. Virginia, vai avanti con coraggio!». Beppe Grillo lancia così la volata a sostegno della riconferma di Virginia Raggi al Campidoglio. E intanto i 5 Stelle s' interrogano sull'asse con il Pd ai ballottaggi: ad aprire è il ministro Federico D'Incà, più cauto il leader M5S Giuseppe Conte. Il post social di Grillo, con tanto di fotomontaggio di Raggi in veste di gladiatrice, ha l'obiettivo di contrastare le guerre intestine tra pentastellati. Pur senza citarla, il garante sembra rivolgersi a Roberta Lombardi, assessora alla Transizione ecologica nella giunta del Lazio guidata dal dem Zingaretti. Lei, nei giorni scorsi, aveva tuonato: «La sindaca pensa più alla carriera che alla propria forza politica. Gli effetti di quanto fatto non si vedono ancora». Duelli politici a parte, della giornata di ieri va registrata una pesante gaffe del Campidoglio. Sul sito del Comune ha campeggiato una comunicazione in cui si indicavano il 2 e 3 ottobre come date per le Amministrative. Il post è stato poi rimosso, ma sul web sono partiti migliaia di post con lo screenshot dello scivolone, scatenando i commenti degli avversari della sindaca. «Il Comune ha sbagliato sul sito la data delle elezioni - ha ironizzato Zingaretti -. A scanso di equivoci: non è colpa della Regione, io non c'entro niente. Comunque si vota il 3 e 4 ottobre». Intanto, mentre Conte continua a ribadire che «l'esito delle elezioni non innescherà ripercussioni sulla maggioranza che sostiene Draghi», è il ministro per i Rapporti con il Parlamento D'Incà ad avviare le manovre per il secondo turno: «Sono scelte fatte caso per caso. In alcune città abbiamo deciso di percorrere strade comuni col Pd, in altre abbiamo ascoltato quello che veniva dai territori. Dove non siamo alleati, comunque, Pd e M5S potranno ritornare insieme ai ballottaggi». E poi, in maniera ancora più chiara: «Sono convinto che dove non si riuscirà a vincere al primo turno, potremmo ritrovarci con candidati sindaco comuni col Pd al secondo». Gli fa subito eco il segretario dem, Enrico Letta: «Il ministro D'Incà ha detto una cosa saggia, che fa parte dello spirito di convergenza sul quale noi stiamo lavorando per creare una coalizione larga e incisiva». Più freddo Conte - che ieri da Napoli ha anche lanciato un messaggio agli industriali: «Dobbiamo pensare a un patto, non si può lavorare solo con Confindustria o con singole associazioni, ma con tutti» -: «Col Pd ai ballottaggi? Solo dove è possibile: se in alcune città non siamo andati insieme perché l'asticella non era alta, il ballottaggio non risolve il problema».».

Entusiasmo sulle colonne di Libero (Vittorio Feltri corre come consigliere comunale a Milano nella sua lista) per il comizio di Giorgia Meloni in piazza Duomo a Milano. Che ha schivato per poco la violenza dei No Vax. Enrico Paoli.

«Non è venuta a «puntellare» il candidato a sindaco del centrodestra, Luca Bernardo, ma a prendersi la piazza, riempiendola. «Me l'avessero detto qualche anno fa, che avremmo riempito così piazza Duomo, avrei stentato a crederci», dice la Meloni. Il colpo d'occhio, in effetti, non tradisce le parole. «È come nel 1972 con Giorgio Almirante», ricorda Riccardo De Corato, memoria storica di FdI. Ma sul palco non c'è Giorgio, c'è Bernardo. Il quale, stavolta, si scrolla di dosso timori e paure, dettate dalle presunte gaffe a lui attribuite, e lancia l'assalto a Palazzo Marino. «Siamo un'unica famiglia», dice il candidato a sindaco del centrodestra per Milano, «loro sono spaccati e divisi. Li manderemo a casa il 3 e 4 ottobre». «Questa piazza è la prova che la sfida è aperta», chiosa la Meloni. E giù applausi. «Come fa a dire che ama Milano e l'Italia un sindaco come Sala che fa la campagna elettorale a braccetto con Carola Rackete, una figlia di papà tedesca?», dice la presidente di Fratelli d'Italia, rilanciando il caso sollevato da Libero. Ma nell'orizzonte di Giorgia non c'è solo la Milano di Sala, «dipinta così perché il sindaco ha buona stampa», c'è anche un Paese da sostenere e una coalizione da far crescere, senza lotte intestine legate alla leadership. Per la guida del centrodestra c'è tempo, arriverà il suo momento. Ora ci sono le amministrative. «Superare il Carroccio nel capoluogo lombardo non mi interessa», dice Giorgia dal palco, «FdI voleva superare i Cinquestelle e c'è riuscita. Voleva superare il Pd e c'è riuscita e sta bene così». Secondo la leader di Fratelli d'Italia «il risultato delle elezioni si decide il giorno in cui si va a votare. Puntiamo alla vittoria, sia chiaro. Non credo affatto che il risultato delle elezioni a Milano, così come nelle altre città, sia scritto. Combatteremo fino alla fine». E prima del finale è in agenda un appuntamento unitario della coalizione. Giovedì Matteo Salvini, Antonio Tajani, Maurizio Lupi, forse Silvio Berlusconi in collegamento telefonico, e la stessa Giorgia, daranno vita un'appuntamento per sostenere, tutti insieme, Luca Bernardo. «Le nostre agende sono piene, difficile un'altra manifestazione», spiega Giorgia. Guardando oltre il Duomo la Meloni si chiede dove sia la magistratura «su tutti gli scandali legati al Covid che abbiamo visto in questi mesi» con la sinistra «che ha trasformato la pandemia in una mangiatoia per far arricchire i soliti noti». Quanto al governo il giudizio è ancor più netto. «La revisione delle stime catastali sarebbe macelleria sociale. FdI farà tutto quello che c'è da fare per bloccare questa follia», sostiene dal palco la presidente di Fdi. Il tema delle tasse e delle leve fiscali, tanto a Milano quanto a Palermo, brucia sulla pelle della gente e, mai come ora, merita attenzione. Meno dura, invece, la posizione sul ritorno in presenza al lavoro. «È una cosa intelligente, soprattutto per il pubblico impiego». 

I commentatori di cose politiche sono quasi unanimi: anche la Lega si prepara alla sconfitta. E vuole metabolizzare i conflitti interni. Andrea Montanari per Repubblica.

«La Lega si prepara a una sconfitta alle elezioni amministrative, ma agli Stati generali organizzati ieri dai sindaci leghisti a Varese, si parla d'altro. Il partito prova a serrare i ranghi. Rivendica l'orgoglio della Lega Lombarda delle origini. Giancarlo Giorgetti mette le mani avanti. Al Salvini che all'inizio della campagna elettorale si era sbilanciato nel pronosticare il 5 a 0 a favore del centrodestra alle prossime Amministrative nelle grandi città, ora fa notare che «avremo vinto se avremo aumentato i sindaci e perso se li avremo diminuiti. In politica è così ». Il ministro dello Sviluppo Economico aggiunge inoltre che «è noto che l'astensionismo penalizza più il centrodestra». Non è facile quindi fare previsioni. Perché «dopo due anni così è cambiata la predisposizione » e «i sondaggi non riescono a fotografarla». Parole che la dicono lunga sugli umori leghisti. E pensare che la kermesse varesina è stata organizzata proprio a per tirare la volata a Matteo Bianchi, il parlamentare legista che sfiderà tra una settimana il sindaco uscente Davide Galimberti del Pd. Per provare a riportare al centrodestra l'ex roccaforte della Lega che nel 2016, dopo ventitré anni, è passata al centrosinistra. Al suo arrivo a villa Ponti, Giorgetti chiarisce subito che: «Non esiste la Lega di Giorgetti, ma la Lega, che basta vedere sui dizionari, è un gruppo di persone che amano la propria terra e si mette assieme per fare il bene della propria gente». Il ministro ha riunito ieri i suoi per fare il punto a una settimana dal voto con la componente "governativa" della Lega di cui fa parte anche il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. Tra i leghisti, pesano le defezioni di alcuni parlamentari al Sud che hanno cambiato casacca e le opinioni diverse tra Matteo Salvini, la delegazione leghista nel governo e i governatori del Nord sull'obbligatorietà del Green Pass. Giorgetti fa il pompiere e scandisce: «Tutti cercano di dividerci, ma siamo abituati». Sul futuro, non rinuncia a ripetere la battuta: «Potrei anche andare in pensione, ho fatto tante cose». Giacomo Ghilardi, sindaco di Cinisello Balsamo, che coordina i duecentoventotto primi cittadini leghisti taglia corto: «Siamo qui per parlare di contenuti, di proposte, non di Green Pass. Le polemiche restano fuori. Siamo una squadra ». Si capisce che la parola d'ordine è: «Facciamo quadrato». Matteo Salvini non c'è. Collegato da Castiglion Fiorentino dove si trova per un nuovo tour elettorale in Toscana ripete il ritornello di Giorgetti. Sostiene che «ogni tanto, quando legge i giornali, gli sembra di vivere su Marte. È trent' anni che provano a inzigare e a farci litigare, ma la mia risposta sono un sorriso e due comizi in più». Il Capitano quindi derubrica tutto solo al «replay di un film già visto». Giorgetti poi confida ai suoi: «Sapevamo che entrare nel governo Draghi comportava dei rischi anche elettorali, ma se non lo avessimo fatto avrebbero approvato cose che non volevamo e non è successo». Le differenze con Salvini, però, restano. Per Giorgetti, per esempio, «la Lega riparte dai territori. È un movimento politico vero, non finto. Creato da uomini e donne che danno il proprio contributo». Se il Capitano «apre» all'ingresso nel partito di altri sindaci ed esponenti della società civile a pochi giorno dallo strappo con Forza Italia proprio in Lombardia, Giorgetti, al contrario, avverte: «I passaggi tra un partito e l'altro ci sono sempre stati, ma chi arriva sappia che la Lega non è un partito come gli altri». In platea, infatti ci sono, tra gli altri i sindaci di Pavia, Lodi, Sesto San Giovanni, Vigevano, Cologno Monzese, ma anche della provincia di Sondrio e del Mantovano. Sul palco, il vice ministro Alessandro Morelli, il sottosegretario Nicola Molteni, il leghista della prima ora, Gian Marco Centinaio. Gli assessori della giunta lombarda. Il pubblico dedica una standing ovation ad Attilio Fontana per gli attacchi subiti durante la fase più acuta della pandemia. Il governatore lombardo, che non era contrario all'estensione Green Pass ringrazia commosso. «Ci hanno attaccato per colpire la Lega e Salvini».

Chiara Appendino, sindaco uscente di Torino per i 5 Stelle, non si è ricandidata. Ora in un’intervista a La Stampa giudica la corsa alla sua successione, criticando il Pd.

«Manca una settimana, «ma io sono ancora totalmente concentrata sulle molte cose da fare e sui dossier aperti. Il cambiamento radicale penso che lo avvertirò dopo, con la nascita di Andrea». Chiara Appendino sembra sospesa in un limbo: la fine del mandato, un futuro ancora tutto da scrivere, l'imminente nascita del secondo figlio. «Mi fossi ricandidata sarebbe stata la seconda campagna elettorale in gravidanza. Ma sarebbe stata durissima: rispetto a cinque anni fa mi stanco di più e Andrea la notte me la fa pagare». Sindaca, il risultato del M5s a Torino sarà un giudizio su di lei? «Valentina Sganga è la persona migliore per dare continuità a questo percorso avviato, credo e spero che faccia un buon risultato. Ma non temo il voto: è un momento democratico, comunque vada non ho nulla di cui pentirmi». Da mesi ripete che se il M5s arriverà terzo, al ballottaggio non appoggerà nessuno. Davvero per lei è indifferente che al posto suo governino Pd e alleati o Lega e Fratelli d'Italia? «A livello nazionale la mia prospettiva politica è quella di Giuseppe Conte: un fronte progressista avversario del centrodestra». Una strada senza ritorno o una prospettiva reversibile? Una parte del M5s, Di Maio ad esempio, continua a dialogare con pezzi di Lega. «Conte ha delineato una strada che io condivido e sono sicura che lavoreremo tutti nella stessa direzione. Di Maio ne ha già dato prova essendo stato protagonista di una mediazione fondamentale per il nuovo corso del M5s quando tutto sembrava infrangersi». Su che cosa può saldarsi un fronte progressista? «Ad esempio su proposte come il salario minimo, una battaglia di civiltà che rivendichiamo. Sono felice che si stia costruendo un campo più ampio per la sua introduzione». Torniamo a Torino e al Pd. «Mi chiedo perché qui non sia stato possibile costruire quel fronte progressista». E che cosa si risponde? «Che non mi sento garantita dal centrosinistra torinese rispetto ai temi che mi stanno a cuore. Si sono chiusi in se stessi rifiutando di costruire un progetto politico innovativo cui noi e anche parte del Pd nazionale eravamo pronti a dar vita. Per me l'amministrazione Fassino e anche quella precedente su tanti temi si confondono con il centrodestra. Detto questo, non è me che devono convincere ma gli elettori; e possono farlo solo dimostrando di aver fatto proprie le istanze di cambiamento e innovazione radicate in città, cosa che al momento non vedo. Sembra siano fermi al 2016». Che ricordo ha di cinque anni fa? «Avevo la sensazione che le persone volessero un cambiamento, qualcuno che mettesse fine a situazioni irrisolte. C'era un distacco tra la narrazione della città e la percezione delle persone». E oggi? Si riconosce nella narrazione di una Torino un po' malinconica che non sa ancora quale direzione prendere? «Il dovere di un amministratore è dire le cose come stanno senza il timore che sembri una ammissione di colpa o un segno di debolezza. Torino ha problemi a lungo tenuti sotto il tappeto: per troppo tempo l'industria non è stata al centro del dibattito. E quando noi abbiamo cominciato a parlare di area di crisi c'era chi storceva il naso perché la parola dava una cattiva immagine della città». Ma se Torino è un'area di crisi non è anche colpa sua? «Io non dico che puntare su turismo e cultura sia stato un errore, anzi, abbiamo continuato a farlo: ad agosto siamo già tornati alle presenze del 2019, Ryanair dopo anni di tentativi andati a vuoto ha deciso di insediare qui una base. Torino, oggi, è una delle città più attrattive in Europa, come sostiene Airbnb nel suo ultimo report. Ma esisteva un problema di politiche industriali. Io non ho mai avuto paura di dirlo e così abbiamo avuto accesso allo strumento dell'area di crisi, sono partiti i distretti, un progetto intorno a cui si sono riunite le forze economiche, gli atenei, i sindacati. Abbiamo trovato aree e fondi. Tra quattro-cinque anni arriveranno le prime imprese. Abbiamo tracciato una strada per il futuro condivisa da tutti». 

LA CORSA AL QUIRINALE

Il Corriere della Sera con Roberto Gressi fa il punto sulla corsa al Quirinale. Sembrano ancora tutti non pensarci, sostiene Gressi, ma in realtà la gara è già cominciata.

«Tra i parlamentari del Pd le tavole della legge si riducono a due comandamenti. Primo: vietato anche solo ipotizzare elezioni anticipate. Secondo: scomunica per chi anche solo immagina che dopo il voto si possa finire fuori dal governo». È attraverso questa autoironia feroce che in quel partito si invita a leggere in controluce e con beneficio di inventario la prudenza con la quale il segretario Enrico Letta ripete il suo mantra: «Del Quirinale prossimo venturo non si parla fino a gennaio e comunque Mario Draghi deve guidare il governo fino al 2023, termine naturale della legislatura». Insomma, quale che sia il vero pensiero del segretario, non è il momento di tirarlo fuori, perché anche solo prospettare soluzioni per il Colle più alto che preludano al voto farebbe salire la pressione del partito oltre i limiti di guardia e potrebbe bruciare candidati eccellenti. In Parlamento ci si interroga sulle parole del leader dem, vista la sua vicinanza non solo politica ma anche culturale con il presidente del Consiglio, e si arriva a una conclusione che un deputato di Italia viva porta allo scoperto: «Perché dica queste cose ancora non si sa, ma certo se le dice lo fa in accordo con Mario Draghi». Mario Draghi, dunque. Il premier continua il suo lavoro con le ali della sua composita maggioranza che si intestano battaglie identitarie stando bene attente però a non appesantire la marcia del governo. Per sapere che cosa pensi lui dell'identikit del nuovo capo dello Stato bisogna accontentarsi di una breve risposta concessa in conferenza stampa: «Trovo un po' offensivo pensare al Quirinale come a una possibilità, anche nei confronti del presidente della Repubblica». Se si seguono le vie ufficiali le risposte dei partiti e dei parlamentari sono tutte uguali: «È troppo presto», «fari spenti», «tutto tace almeno fino alle amministrative di ottobre», ma in realtà non si parla d'altro che del Quirinale, con un misto di speranze e timori. Perché non ci sono maggioranze certe, perché storicamente l'Aula di quel voto è luogo di agguati, perché questa volta più della metà dei grandi elettori sa che non tornerà alla Camera o al Senato e non solo per il taglio dei parlamentari. L'esercito dei Cinque Stelle, per quanto un po' ridotto dalle defezioni, ha a disposizione il pacchetto di voti più consistente anche se l'unità interna non è più granitica da tanto. Il Movimento, sondaggi alla mano, vede le elezioni anticipate come uno spettro ma riflette così: «Per il Piano nazionale di ripresa e resilienza c'è bisogno di continuità, ma possono bastare nove mesi». Proviamo a contare: nove mesi da adesso, nuovo presidente a febbraio, un governo che in poco tempo stringe sulle riforme e completa le vaccinazioni, forse, se ci fosse accordo, una nuova legge elettorale proporzionale e poi il voto. Un esponente Pd fa più o meno lo stesso ragionamento e lo rende più esplicito: «Dovrebbe arrivare un segnale che dica che il prossimo presidente della Repubblica non scioglierà le Camere in un battibaleno. Si potrebbe anticipare la Finanziaria e chiuderla a settembre per poi votare a ottobre. A quel punto la legislatura avrebbe compiuto quattro anni e sei mesi, quelli che servono a garantire i vitalizi e a rassicurare un po' la nutrita pattuglia dei peones». Mai come in questo Parlamento, si ragiona un po' in tutti i partiti, è difficile eleggere un presidente che sia espressione solo di una parte, oltre al fatto che sarebbe un passo indietro rispetto allo sforzo che ha portato ad affrontare pandemia e crisi economica con un governo di unità nazionale. I leader del centrodestra, dopo le aperture di Matteo Salvini a Draghi, si trincerano dietro la candidatura di Silvio Berlusconi, facendone però un nome di bandiera, irritando così anche un po' il federatore che è stato capace tante volte di portarli al governo. L'uovo di Colombo, la riconferma di Sergio Mattarella, che consentirebbe all'attuale governo di proseguire il suo percorso, si scontra con la sua volontà, più volte dichiarata, di non essere disponibile, sia per ragioni personali che per convincimento politico: auspica anzi una riforma che non consenta un'immediata rielezione al Quirinale, così come proposto già da un suo predecessore, Antonio Segni. Né pare immaginabile un patto tacito per un reincarico a tempo, che indebolirebbe la figura stessa del presidente della Repubblica. Almeno al momento tutti i partiti sembrano rispettosi della sua volontà anche se un appello alla sua sensibilità istituzionale, in caso di bisogno, non potrebbe arrivare che all'ultimo minuto. E comunque, si osserva, per reggere alla nuova maggioranza che può emergere dalle elezioni, servirà un presidente che sia espressione della parte più larga possibile del Parlamento. Peraltro la scelta di Mattarella di spendere il nome di Mario Draghi per il governo, se da una parte lo rende non facilmente sostituibile in quel ruolo, dall'altra rafforza ulteriormente il suo curriculum per il Colle. Partita ovviamente ancora aperta, quindi, e aperto il gioco di attribuire a questo o a quel leader la volontà di spingere questo o quel candidato. E così qualcuno profetizza che Enrico Letta voglia puntare su Paolo Gentiloni e altri dicono che Matteo Renzi abbia un piano B che prevede Pier Ferdinando Casini come capo dello Stato. In Italia viva si premette che Mario Draghi sarebbe la via maestra e che andrebbe clonato ma, pur senza fare nomi, si immagina che un presidente non divisivo potrebbe dare il tempo di costruire in Parlamento e nel Paese «l'alleanza dei draghetti», un movimento senza Draghi ma che avrebbe l'obiettivo di rompere gli schieramenti e ridisegnare la sfida politica, per riportare alla presidenza del Consiglio Mario Draghi dopo le elezioni del 2023. In realtà sono molti quelli che potrebbero voler votare prima. Non ne fanno mistero Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che tenterebbe così anche di mettere in riga la fronda interna. Ne avrebbe voglia Giuseppe Conte, che ha assoluto bisogno di rendere concreta la sua leadership. Non è detto che dispiacciano a Enrico Letta, soprattutto se il voto nelle grandi città e le suppletive di Siena andassero a suo favore come i sondaggi prevedono. Per il resto si attende, tra riflessioni, avvertimenti e timori. Si ragiona sull'Europa, che orfana di Angela Merkel è alla ricerca di figure autorevoli. Si avvertono i franchi tiratori di professione che un patto impallinato nell'urna porterebbe a elezioni senza passare dal via. E crescono le preoccupazioni, esplicitate da un esponente Pd: «Se ci facciamo sfuggire l'opportunità di portare Mario Draghi al Quirinale finisce che prima o poi ci saluta, e allora sono guai».

Nella corsa al Quirinale oggi è Augusto Minzolini, direttore del Giornale,  a sparare un colpo. Racconta di una cena al Quirinale, in cui Draghi avrebbe formulato uno scenario possibile: la “staffetta irrituale” fra lui e Mattarella. Ecco l’ articolo di fondo a metà fra lo scoop e il commento.

«Mario Draghi, per usare le parole dei vescovi italiani, è l'uomo della Provvidenza. Per il presidente della Confindustria dovrebbe restare a Palazzo Chigi non solo oggi, ma anche in futuro, dopo le elezioni del 2023. Sergio Mattarella, da parte sua, ha un alto indice di gradimento e i sette anni trascorsi al Quirinale ne hanno aumentato il prestigio. Per cui è naturale che l'altra sera Draghi, che del pragmatismo ha fatto una religione, si sia lasciato andare ad una battuta con l'inquilino del Colle: «Se resti tu, resto anch' io». Un'ipotesi magari pronunciata solo per cortesia in ossequio al galateo, ma che era nell'aria perché per Draghi rappresenterebbe una sorta di quadratura del cerchio: Mattarella verrebbe confermato, lui continuerebbe a fare il Premier e poi, quando il Capo dello Stato si sarà stancato, sarebbe quasi naturale che gli succedesse al Quirinale. La tipica staffetta. Solo che questa idea, che pure mantiene ai vertici delle istituzioni due personalità stimabilissime e potrebbe piacere tanto a Enrico Letta che, sprovvisto di candidati per il Colle, è costretto a giocare in difesa e a prediligere lo «status quo», pone una serie di problemi non indifferenti. Di fatto determinerebbe una sorta di commissariamento del Parlamento, un po' come fu la rielezione di Giorgio Napolitano. Il che, di per sé, non è una bella cosa. Inoltre, come in quell'occasione, si assegna un secondo mandato al Capo dello Stato in carica trasformando sulla carta la Presidenza in un Papato (nella storia della Chiesa solo 46 Pontefici hanno occupato il soglio di San Pietro per più di 14 anni). Non sarebbe il massimo per una democrazia, tant' è che l'unico che nei lavori della Costituente si schierò in favore di un secondo mandato consecutivo fu quel comunista di Palmiro Togliatti, abituato ai tempi del Cremlino. Eppoi, a proposito dell'altro ruolo, anche se per alcuni potrebbe essere auspicabile, come si può immaginare fin d'ora che Draghi possa guidare il governo anche dopo il 2023? Se tutto fosse così scontato, ineluttabile, non si capisce per quale motivo gli italiani dovrebbero essere chiamati a votare, o, peggio, bisognerebbe chiedersi a cosa servano le elezioni. L'ultimo appunto riguarda i partiti. Saranno davvero ridotti male, saranno pure commissariati, ma almeno un merito lo hanno avuto: si sono presi l'impegno e hanno avuto il coraggio di mandare a Palazzo Chigi, in un momento d'emergenza, uno come Draghi. C'è chi, appoggiando questa operazione, ha sacrificato consensi (vedi Salvini) e chi ha messo a repentaglio alleanze (vedi Letta, costretto ad accompagnare alla porta Giuseppe Conte). Quindi, questa classe politica, sia pure «sgarrupata», si è fatta carico di una responsabilità. Per cui presentargli oggi, d'emblée, un organigramma che prestabilisce fin d'ora chi addirittura nei prossimi cinque anni sarà al vertice delle istituzioni nel ruolo di garante (Presidente della Repubblica) e chi di capo dell'esecutivo (il Premier), senza dargli nessuna voce in capitolo, non solo è irrituale, ma è anche, diciamo la verità, una mancanza di rispetto».

L’ ASSEGNO PER ORA È UNA BEFFA

Duro attacco di Avvenire al Governo: l’assegno ponte promesso alle famiglie di fatto non è arrivato a nessuno. La cronaca è di Gianni Santamaria.

«L'assegno temporaneo, la misura di transizione verso l'assegno unico per figlio, «sarà arrivato a tre persone. Il mio è in istruttoria dal 7 luglio e da consulente del lavoro posso assicurare che non c'è nessun parametro che non vada bene. Avessi dovuto dare da mangiare a mio figlio co st' assegno, patirebbe già da un po'». Questo è solo uno delle migliaia di messaggi, tra l'allarmato e lo sconfortato, che il Forum delle associazioni familiari sta ricevendo in questo periodo. Tutti segnalano «troppe criticità». Per questo il Forum chiede con urgenza alla ministra per la Famiglia Elena Bonetti di prorogare dal 30 settembre al 30 ottobre la scadenza per ricevere le mensilità retroattive da luglio a settembre. Molti si rivolgono all'associazione delle famiglie chiedendo informazioni su come fare a ricevere l'assegno temporaneo per figlio minore, in attesa della partenza della nuova misura che partirà a gennaio. Segno che la campagna informativa non è decollata. Altri lamentano lungaggini burocratiche e assenza di motivazioni in caso di diniego. La misura 'ponte', decisa lo scorso 8 giugno e per la prima volta destinata anche ad autonomi, professionisti e partite Iva, non ha certo avuto tempo per un test e per una serie di verifiche operative che sarebbero state utili. La partenza a luglio, poi, ha trovato (nonostante la pandemia) le famiglie in vacanza o comunque con la testa non focalizzata su nuove pratiche fiscali. E i servizi erano chiusi. Proprio gli intermediari - patronati, Caf e sindacati -, lamentano molti messaggi, non hanno saputo dare una risposta agli utenti, rimandandoli a gennaio. Insomma, va messa a punto l'organizzazione per farla funzionare meglio. Anche in vista dell'entrata in vigore della misura strutturale. «Questo non è il tempo di fare polemiche - afferma il presidente del Forum Gianluigi De Palo - ma crediamo sia importante nel prossimo mese rinforzare la campagna di comunicazione già in atto e fare in modo che l'Inps sblocchi il prima possibile tutte le pratiche in istruttoria». Che sono una bella fetta della platea. Questo è uno dei capitoli più gettonati nei cahiers de doléances. «La nostra pratica è in istruttoria dal 1 luglio. Ormai non ci speriamo nemmeno più», lamenta un nucleo. Un altro è, invece alle prese con lo strano fenomeno per cui è stata pagata la sola rata di luglio. Poi niente. Un atteggiamento insostenibile per chi deve programmare un futuro anche molto prossimo: si pensi al peso sul borsello familiare dovuto alla riapertura delle scuole. «Moltissimi hanno fatto domanda dal 1 luglio, siamo al 18 settembre ed è stata pagata solo la rata di luglio per pochi nuclei. Moltissimi con domande ancora in istruttoria. Sarebbe interessante sapere le intenzioni dell'Inps sui tempi di erogazione», scrive un genitore. Che per l'appunto ricorda come questi soldi sarebbero potuti servire per il ritorno in aula dei figli. «Ma ancora una volta il carrozzone burocratico italiano non ha deluso le nostre aspettative», conclude masticando amaro. Un intervento riporta uno stato d'animo diffuso e non certo fiducioso: «Molti pensano sia inutile fare la domanda perché tanto i soldi non arrivano. Una cosa normale possiamo vederla in questo Paese?», la domanda retorica. Alcune famiglie, poi, lamentano poca informazione e anche sbagliata. «Sempre le cose made in Italy. Ho fatto richiesta degli assegni con partenza a luglio, per la nascita del secondo figlio, e dal sindacato mi hanno detto che probabilmente l'assegno partirà a gennaio». C'è chi punta ancora il riflettore sulla lentezza della burocrazia. «Oggi ho ricevuto la tanto attesa risposta dell'Inps alla domanda », inizia un messaggio. Che subito vira dalla speranza alla delusione: «E me l'hanno respinta senza allegarmi alcuna motivazione». Non manca chi si arma di ironia: «Ho scritto all'Inps e mi ha risposto che non conosce le tempistiche di pagamento... dell'Inps. Mi rivolgerò al macellaio». La parola ora spetta proprio all'Istituto di previdenza. A partire dal numero delle domande ricevute, ancora non noto. Sino ad arrivare al dato delle effettive erogazioni, che va fatto emergere dalle nubi della burocrazia. L'assegno unico è stata considerata una «misura epocale » dal premier Mario Draghi, è il momento che intorno ad essa ci sia un'organizzazione, se non epocale, almeno sufficiente».

GERMANIA, IL VOTO PIÙ PAZZO DELLA STORIA

Tutta l’attenzione della stampa europea è rivolta a Berlino. Il 26 settembre sarà ricordato come il primo giorno del dopo Merkel. Il punto di Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«Per il voto più pazzo della storia la Bild ha deciso di affidarsi alle stelle. Secondo l'oroscopo di Jasmin Rachlitz, l'acquario Armin Laschet subisce in questi giorni il passaggio di Giove che gli stroncherebbe la simpatia. Olaf Scholz, leader dei socialdemocratici, nato sotto il segno dei gemelli, è invece il favorito delle stelle. Ma andrà davvero così? Gli ultimi sondaggi suggeriscono un risultato sul filo: secondo l'istituto Allensbach Laschet è al 25%, Scholz al 26%. E chi preferisce i numeri all'astrologia, come il Nobel dell'economia Joseph Stiglitz, ha messo già in guardia da una Germania che in ogni caso potrebbe spingere per un ritorno alle austere e castranti regole del Patto di stabilità. Tutto dipenderà dai probabili "king maker" di queste elezioni: I Verdi, i Liberali o la Linke. Che hanno zero possibilità di esprimere il cancelliere, ma che saranno determinanti nella formazione del governo. La Germania affronta un voto epocale, che potrebbe cambiare profondamente la natura della sua politica e della sua proiezione in Europa. Se il prossimo cancelliere dovrà venire a patti, come sembra, non con uno ma con altri due partiti, la Germania del futuro sarà più instabile, segnata più dalla coalizione che da un cancelliere. Non sarebbe la prima volta di un governo a tre, ma la prima di un esecutivo senza un partito dominante. In questo senso, sarà un voto che non chiude solo l'era Merkel, ma oltre settant' anni di politica tedesca. E il "merkeleggiare", i proverbiali tempi lenti della cancelliera uscente potrebbero diventare strutturali, a prescindere dal capo di governo. Certo, il contratto di coalizione che si negozierà nei prossimi mesi potrebbe continuare a essere la bussola del prossimo esecutivo. Ma fino a Gerhard Schroeder è sempre stato poco più di un pezzo di carta. Nell'ultimo contratto di coalizione rosso- verde non figurava neanche la riforma più ambiziosa dell'era Schroeder: l'Agenda 2010. Il 66% dei tedeschi, intanto, ha manifestato il desiderio che il governo cambi: una percentuale altissima. All'inizio dell'era Merkel, nel 2005, era il 45%. Nel 1998, quando Schroeder vinse le elezioni contro Helmut Kohl, il 50%. Se il risultato dovesse essere sul filo, sia Scholz sia Laschet potrebbero cominciare a sondare contemporaneamente gli altri partiti per formare un governo. Per il socialdemocratico, un accordo con i Verdi è dichiaratamente la soluzione ideale. Ma i problemi cominceranno quando dovrà sedersi al tavolo anche con i liberali per una coalizione cosiddetta "semaforo" (Spd, Liberali, Verdi). È noto che il leader della Fdp, il "falco" rigorista Christian Lindner, potrebbe reclamare il ministero delle Finanze. Così Scholz, l'uomo che da responsabile dei conti pubblici si è guadagnato la nomea di grande mediatore in Europa - anche con i frugali - , che è stato determinante nella definizione del Recovery Fund e lo ha definito "momento hamiltoniano" e che ha riempito il ministero di sottosegretari e funzionari keynesiani, potrebbe essere un cancelliere frenato, quando si tratterà di negoziare sul Patto di stabilità o sul futuro degli eurobond. Il discorso sarebbe diverso se Scholz facesse un'alleanza con i Verdi e con la Linke. La sinistra della Spd preme in quella direzione e se ha taciuto finora per non danneggiare lo spitzenkandidat, è piuttosto sicuro che ricomincerà ad alzare la testa da domattina. Dal punto di vista del futuro delle regole di bilancio, sarebbe il governo più dialogante. Ma dal punto di vista delle politiche della difesa, la sinistra radicale è un freno micidiale: ha ammesso a stento che potrebbe accettare che la Germania continui a far parte della Nato, pur di entrare in un governo Scholz. Ma le missioni militari della Germania, sottoposte per legge al voto del Bundestag, o i progetti sulla difesa europea potrebbero diventare ogni volta una via crucis. Se il suo rivale Laschet dovesse riuscire a formare una coalizione con il partner storicamente prediletto, la Fdp, più i Verdi per un governo "Giamaica", il nuovo esecutivo potrebbe essere più rigorista di Merkel per il semplice fatto che lo è l'attuale Cdu, dove i maggiorenti non mancano di sottolineare che non vogliono "un'Unione dei debiti" e che pretendono un rapido ritorno al Patto di stabilità, e lo è sicuramente la Fdp, il partito che votò in parte contro i pacchetti di salvataggio greci. Laschet, candidato merkeliano, morbido sui profughi e entusiasta del Recovery Fund, sarebbe assediato dai falchi come il possibile ministro delle Finanze, Friedrich Merz. Improbabile, invece, una riedizione della Grosse Koalition. Gli elettori sono stanchi di dodici su sedici anni di alleanza Cdu/Csu-Spd: lo ripete soprattutto Scholz. In queste settimane si ragiona anche su un opzione "Germania": un'alleanza tra Cdu/Csu-Spd e Liberali o "Kenya", Cdu/Csu-Spd e Verdi. Ma sarebbe sempre una "Grande coalizione più", e non un governo di cambiamento».

Quotidiano Nazionale intervista l’economista francese Jean Paul Fitoussi.

«Se dovessi dare un voto ad Angela Merkel dopo 16 anni direi che merita un 10 come cancelliere della Germania, ma un 4 come leader dell'Europa». Jean-Paul Fitoussi, docente emerito dell'Istituto di studi politici di Parigi e all'Università Luiss di Roma, non si unisce al coro di chi declama solo i pregi di Angela Merkel. Professore, come giudica la parabola di Frau Merkel dal punto di vista dell'Europa? «È stata sicuramente un leader europeo, ma non il leader dell'Europa. Ha agito sempre per accrescere i benefici per la Germania, facendo la politica europea che conveniva a Berlino». L'austerità imposta alla Ue è servita più a Berlino che alle altre nazioni? «La Germania ne ha guadagnato, essendo una potenza economica ha imposto agli altri Paesi le politiche di austerità. La Germania ha beneficiato del suo surplus commerciale. La domanda per i suoi prodotti da parte dei mercati degli altri Paesi è stata più alta di quello che i tedeschi hanno acquistato all'estero». E questo che cosa ha provocato? «In economia questa è definita una politica non cooperante. Pensi a vendere i tuoi prodotti per rafforzarti e a comprare di meno i beni di altre nazioni e quindi non aiuti le altre economie». È sempre stata la politica della Germania negli ultimi anni? «Nei 16 anni di Merkel sì. Fino all'ultima crisi, quella legata alla pandemia. Davanti al Covid è stato come trovarsi di fronte a un muro». Che ha costretto anche la Germania a cambiare passo? «Non era più possibile né fattibile neanche per Berlino continuare la stessa politica di austerità perché avrebbe portato al crollo dell'Europa, Germania compresa. Però anche in questo passaggio la Germania ha giocato il suo ruolo: di fronte al virus era più attrezzata degli altri Paesi, essendo ricca aveva potuto investire sulla sanità a differenza degli altri Stati costretti in passato a tagliare le spese sanitarie per sottostare alle regole contabili europee». Possiamo dire che la politica della Merkel ha reso fortissima la Germania ma ha destrutturato l'Europa? «Sì, è vero. Ma l'obiettivo della Cancelliera era rafforzare la Germania. È stata eletta ripetutamente e ha governato per 16 anni con un supporto chiaro della nazione tedesca, e anche con un'opposizione chiara da parte di altri Paesi europei rispetto alle regole di contabilità dell'Unione». Imposte dalla Germania? «In natura quando si crea un vuoto viene riempito. Poteva essere riempito da uno stato federale europeo forte oppure da uno stato nazionale come la Germania, che di fatto ha impedito all'Unione europea di evolversi, con conseguenze importanti sul continente». Anche nei rapporti con la Russia la Germania ha spiazzato l'Europa? «Ma sulla Russia la Merkel ha semplicemente seguito le orme di Schroder, non ha iniziato lei». Oggi la debolezza europea pesa più di prima, come abbiamo visto nei rapporti con l'America. «Stiamo pagando a livello geopolitico questa debolezza. L'Europa conta poco perché ha accumulato un ritardo rispetto al resto del mondo. L'Europa non è credibile, non si sa chi è il leader della Ue. Chi parla ai summit internazionali? L'Europa o la leader tedesca?». Torniamo alle colpe della Merkel... «Il suo obiettivo non era l'Europa, ma rafforzare la Germania. E d'altronde in 16 anni un Paese che detta legge su una regione di 500 milioni di abitanti potrà perdere qualcosa sul lato europeista, ma sa di guadagnare parecchio come Stato. Ha agito per calcoli politici interni e così ha distrutto un sacco di potenzialità dell'Europa. Come con la Grecia: indebolirla non è servito a nessuno». Dopo la Merkel la Germania sarà più debole? «Merkel è stata una donna di Stato non comune, molto forte. Aveva capito perfettamente lo spirito del suo popolo. Non conosciamo ancora chi verrà dopo di lei, potrebbe essere inferiore, ma aspettiamo a dirlo. Anche 16 anni fa non conoscevamo la Merkel. A ogni modo è comunque cambiato il contesto. L'Europa deve affrontare problemi più grandi e c'è bisogno di una Ue più forte davanti a Usa, Cina, Russia e Turchia». Potrebbe essere Draghi la guida dell'Europa? «Potrebbe essere il vero leader dell'Europa a una condizione: che capisca che oggi la cosa più importante per la Ue è soddisfare la domanda sociale e non tanto quella delle imprese o dell'economia». 

HERAT, LA GIUSTIZIA SOMMARIA DEI TALEBANI

Abbiamo già parlato in apertura dell’Afghanistan, ma ci torniamo per aggiornare la situazione vista dal posto. È stato un Venerdì di esecuzioni sommarie. La giustizia talebana si amministra infatti attraverso punizioni pubbliche ed esemplari. Spesso senza neanche processi. Le orribili testimonianze, anche fotografiche, sono arrivate oggi sui giornali occidentali da Herat. Proprio la cittadina che ha ospitato la base italiana per 17 anni. La notizia è del Corriere della Sera.

«Dalle parole ai fatti. Sono trascorse solo poche ore dalle dichiarazioni talebane circa la legittimità delle punizioni corporali contro banditi e avversari di ogni tipo e già le loro squadracce armate sono passate all'azione. I cadaveri di quattro uomini accusati di fare parte di una banda di sequestratori a caccia di riscatti sono stati appesi a delle gru nella piazza principale di Herat. «Una punizione esemplare che serve da monito per tutti», annunciano nei video diffusi sulle tv locali e subito diventati virali sui social. Secondo Sher Ahmad Ammar, vicegovernatore di Herat, i quattro avevano rapito un uomo d'affari locale assieme al figlio e cercavano di portarli fuori città quando sono stati intercettati da una pattuglia. Ne è seguito un intenso scontro a fuoco in cui i quattro banditi hanno perso la vita. Pare che i due ostaggi siano invece incolumi. La macabra esposizione è stata preceduta dagli annunci con altoparlanti che incitavano la popolazione a venire a vedere la scena. L'ennesima prova che, nonostante le rassicurazioni in senso contrario, il nuovo governo talebano continua ad ispirarsi alle pratiche brutali del loro primo «Emirato» tra il 1996 e il 2001. L'altro ieri il Mullah Nooruddin Turabi, loro ex ministro della Giustizia e attuale responsabile del sistema carcerario, aveva dichiarato alla stampa internazionale l'intenzione di restaurare punizioni tipo il taglio delle mani per i ladri. In quel contesto aveva lasciato intendere che magari le esecuzioni delle pene non sarebbero avvenute in pubblico. Ma i fatti di Herat ripropongono pratiche e mentalità assolutamente simili a quelle di due decadi fa».

LA (NUOVA) GUERRA FREDDA DEL PACIFICO

L’ambasciatore Sergio Romano nella sua rubrica domenicale sul Corriere della Sera analizza le ripercussioni della nuova alleanza anti-cinese, lanciata da Aukus. Per l’Europa non è un buon affare.

«Sessanta anni fa il libretto rosso di Mao Zedong e la rivoluzione culturale della Repubblica popolare cinese contagiarono il maggio europeo e fecero della Cina, agli occhi di molti giovani in Europa e in America, un modello per le nuove generazioni della sinistra, ormai deluse dal comunismo bolscevico. Negli anni 80 quella stessa Cina, governata allora da Deng Xiaoping, seppelliva il marxismo e diveniva teatro di una strepitosa crescita che avrebbe fatto della Repubblica popolare l'economia più dinamica del globo. Le industrie europee non esitarono a cogliere l'occasione e calarono sul continente cinese come un enorme sciame di api. Favorirono la crescita tecnologica della Cina, ma ne trassero grandi vantaggi. Mentre i cinesi si arricchivano e creavano uno straordinario mercato, il loro Paese cresceva, a passi di gigante e la sua economia, nel quadro di quella mondiale, diventava un fattore sempre più imprescindibile. Ma il gigante asiatico non era soltanto produttore e consumatore. Era anche una grande potenza, orgogliosa e ambiziosa, desiderosa di riscattare i lunghi anni del declino imperiale. Ammirata e rispettata, tuttavia, era anche sospettata e temuta. Gli Stati Uniti e altri Paesi oscillano da allora fra posizioni opposte. Hanno bisogno della sua economia e vorrebbero esserne i fornitori, ma temono che questa economia divenga anche potenza politica e militare, allarghi la sua area di influenza all'intero Mare cinese meridionale, trasformi i loro amici asiatici in altrettanti satelliti del gigante cinese. In un tale contesto è inevitabile che Usa e Cina prendano continuamente in considerazione le prospettive di un conflitto e si comportino come potenziali nemici. Per fare buoni affari occorre un clima di reciproca fiducia. Ma per prepararsi alla guerra e compiacere il complesso militare industriale, occorre vivere continuamente in un clima di allarme e sfiducia. Donald Trump e Joe Biden sono alquanto diversi, ma hanno continuamente alternato, dopo essere arrivati alla Casa Bianca, le due politiche. L'ultima mossa sulla loro scacchiera, forse la più pericolosa, è Aukus, una Nato asiatica composta da Stati Uniti, Regno Unito e Australia che ha esordito nella politica internazionale commissionando per uno dei suoi membri (l'Australia) una flotta di sottomarini nucleari. Dovevano essere forniti dalla Francia, un Paese che avrebbe potuto lanciare efficaci segnali di pace rallentando i tempi della consegna; ma ora verranno fabbricati da un Paese, l'Australia, che è un alleato degli Stati Uniti e ne condivide la politica cinese. Spetta quindi all'Unione Europea formulare un politica che non sia quella degli Stati Uniti, spesso motivati soprattutto dall'abituale desiderio di considerare i cinesi potenziali nemici. Una nuova guerra fredda, nel Pacifico, dopo quella dell'Atlantico, non può essere una guerra dell'Europa».

BONAFEDE: MANTENIAMO L’ERGASTOLO PER I BOSS

Il nuovo obiettivo dei 5Stelle è riformare l’ergastolo ostativo, dice l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede al Fatto. L’intervento del Parlamento è reso necessario da una sentenza della Corte costituzionale che lo ha bocciato e la proposta del Movimento è di discutere quanto prima una nuova legge, priorità programmatica dei 5 Stelle.

«L'ergastolo ostativo per la politica è una bella rogna, ma va affrontata in fretta, con una legge entro maggio. Il 5Stelle Alfonso Bonafede, ex ministro della Giustizia, lo spiega così: "Dobbiamo correre, lo abbiamo detto fin dalla prima sentenza della Consulta del 2019 sui permessi premio. E abbiamo lanciato l'allarme, confermato dall'ultima relazione della Dia sul rischio che le mafie aggrediscano i fondi del Pnrr". E per far capire quanto ci tenga, Bonafede cita Piero Calamandrei: "Non ci accorgiamo che sono i morti che ci convocano a rendere conto di ciò che abbiamo fatto". Perché la Consulta ha chiesto di cambiare la norma? «Volendo semplificare, prima degli interventi della Corte del 2019 e del 2021, per un mafioso era possibile accedere alla liberazione condizionale e ai benefici penitenziari solo quando collaborasse con la giustizia oppure quando tale collaborazione fosse impossibile. E il ragionamento sottostante era il seguente: finché non c'è collaborazione, non può essere rescisso il legame con la mafia. La Corte costituzionale ha stabilito invece che questo principio non può valere in via assoluta, e che deve essere consentito accedere ai benefici penitenziari se si accerta che non c'è più nessun legame con l'associazione criminale, anche in assenza di collaborazione. Noi rispettiamo le pronunce della Corte ma non ne condiviamo il contenuto. Non c'è alcuna possibilità di spezzare quel filo se non collabori: lo prova la storia della lotta alla mafia». Anche la Corte europea dei diritti dell'Uomo nel 2019 aveva bocciato l'ergastolo ostativo, sostenendo che negasse il diritto a un percorso rieducativo. Forse c'è un nodo giuridico di fondo, no? «All'epoca ero ministro della Giustizia, e dopo quella sentenza andai a Strasburgo per parlare con la Segretaria generale del Consiglio d'Europa. Le dissi che la mafie non sono fenomeno astratto, e che certe leggi in Italia sono state scritte con il sangue dei servitori dello Stato. Cosa le rispose? «Mi disse che sapevano della peculiarità delle storia italiana. E io controreplicai che il fenomeno delle mafie da tempo non era più confinabile all'Italia. Lei chiarì che il nostro Paese era libero di valutare caso per caso». Però ora serve una nuova legge, e le distanze tra i partiti sul tema restano ampie. «Il M5S ha reagito alle pronunce della Consulta con una proposta di legge che tende a conservare l'impianto sull'ergastolo ostativo, quello voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fondamentale nella lotta alla mafia in questi anni. Altre forze politiche hanno presentato i loro testi, ma su un tema come questo non può esserci colore politico. Il Parlamento deve essere compatto e determinato». Proponete che il detenuto debba dimostrare di non avere più rapporti con la criminalità organizzata. Ma dimostrarlo in termini pratici pare difficile. «Sarà un problema del mafioso. La nostra proposta è chiara e rispetta le coordinate tracciate dalla Corte: non ci deve essere alcun pericolo di ripristino di tali collegamenti e non sarà sufficiente, a differenza di quanto certamente auspicavano molti mafiosi, la mera dissociazione dalle organizzazioni criminali di provenienza. Inoltre, il detenuto deve aver risarcito tutti i danni. Dopodiché, a nostro avviso, l'unico modo certo per rescindere quel rapporto resta la collaborazione con la giustizia». Volete rendere impossibile accedere a quei benefici, di fatto. «Ribadisco che ci siamo mossi nel solco della Consulta. Nel testo prevediamo, oltre ad altri paletti, l'acquisizione del parere sulla concessione dei benefici da parte gli addetti ai lavori - dalla procura distrettuale antimafia a quella nazionale - e la possibilità di discostarsi da quei pareri, obbligatori ma non vincolanti, solo con una specifica e articolata motivazione».

L’EXPORT CORRE, MA GLI ESPORTATORI SONO DI MENO

Il Made in Italy funziona sempre, anzi è tornato sui livelli pre Covid. Ma la crisi ha creato un fenomeno di selezione e concentrazione. Gli esportatori sono di meno. Carmine Fotina sul Sole 24 ore.

«L'export italiano corre. Prima l'Ice, l'agenzia per il commercio estero, poi la Sace, la società pubblica che supporta il credito alle esportazioni, hanno messo il bollino su un ritorno nel 2021 ai livelli pre-Covid, attorno ai 480 miliardi di beni frutto di un incremento annuo superiore all'11%. Ma questo recupero che sembra andare anche oltre le attese, e fornirà un contributo decisivo alla crescita del Pil stimata al 6%, va attribuito soprattutto a un'eccellenza ancora ristretta: 18mila operatori, lo 0,4% delle imprese italiane, esprimono da soli due terzi delle vendite italiane all'estero. In pratica, mentre in termini complessivi di fatturo l'export si rimetteva in pista, è diminuito il numero di chi esporta: dai 137 mila esportatori del 2019 a poco più di 126 mila, in pratica un calo dell'8% dopo quasi un decennio di stabilità in cui la diminuzione più marcata (tra il 2013 e il 2014) era stata dell'1,9%. Non è una contraddizione ma l'effetto del rafforzamento di chi è già un esportatore solido o comunque stabile e, parallelamente, la scomparsa dai mercati internazionali, acuita dalla crisi, di chi praticava l'export sul filo della saltuarietà. Senza che nel frattempo emergesse un numero significativo di nuovi esportatori capaci di aggiustare il saldo finale. La ricognizione del Sole 24 Ore, sulla base dei numeri raccolti dall'Ice e di quelli contenuti nell'ultimo annuario Istat, inquadra questo fenomeno di concentrazione e di selezione. Molti dei più fragili e piccoli tra gli operatori del commercio estero (definizione Istat che include i soggetti con partita Iva che risultano aver effettuato almeno una transazione commerciale con l'estero nel periodo considerato) hanno abbandonato durante la pandemia. Solo considerando il 2020, sono infatti oltre 40mila quelli che, attivi nel 2019, non hanno effettuato vendite all'estero. Nello stesso periodo debuttavano come nuovi operatori meno di 30mila soggetti, determinando un saldo negativo di quasi 10.800 unità. Un terzo del nostro export è realizzato da gruppi multinazionali a controllo estero (il 32% per la precisione), poco meno della quota generata da multinazionali a guida italiana (39,4%), molte più staccate le imprese non appartenenti a gruppi (16,3%) ed i gruppi domestici a controllo italiano (12,3%). L'analisi dei numeri dovrebbe condurre a una riflessione delle politiche pubbliche, comprese quelle abbondantemente finanziate dal governo con il cosiddetto Patto per l'export. La stessa agenzia Ice, nel suo quaderno su "Effetti del Covid-19 e strategie di reazione delle imprese esportatrici", sottolinea la «necessità di interventi di supporto per allargare il numero di imprese esportatrici e aumentare l'esposizione e la solidità all'export di quelle già presenti sui mercati internazionali». Il pacchetto di fondi pubblici varato con la crisi, in larga parte concentrato sui finanziamenti agevolati assorbiti da chi aveva già una struttura collaudata per l'export e una rete clienti disponibile, ha consentito di salvaguardare e spesso rafforzare gli esportatori abituali. Ma è evidentemente mancato il propellente per salvare i più deboli, che hanno gettato la spugna, o per accompagnare al debutto dell'internazionalizzazione un numero adeguato di nuovi candidati. Il rischio è che si amplino così divari di competitività interni che possono rappresentare un fattore di debolezza di fronte alla stabilizzazione della ripresa, come dimostrano numerosi studi che documentano come chi esporta abbia fondamentali di bilancio più solidi, maggiore capacità di innovare e fare ricerca, migliore accesso al credito. Per limitarci a un esempio, l'Istat stima un differenziale di valore aggiunto per addetto del 112% tra il totale delle imprese esportatrici e quelle domestiche. Dentro queste differenze, risaltano ancora di più quelle per classe dimensionale e per territorio. Il 77% degli esportatori fattura all'estero meno di 750mila euro, pesando per appena il 2% sul valore totale. Fino a 5 milioni di fatturato estero troviamo 18.900 operatori (15% della platea e 9,8% del valore), fino a 50 milioni 8.920 soggetti (rispettivamente 7,1% e 32%) e oltre 50 milioni 1.271 esportatori (1% e 56%). Le 18mila imprese leader, che esprimono oltre il 65% del made in Italy esportato, fanno storia a sé con una propensione all'export (rapporto tra esportazione e fatturato) stabilmente oltre il 50%. Un'avanguardia radicata per buona parte nelle quattro regioni - Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana - che da sole ospitano circa il 60% degli operatori. Il Mezzogiorno esprime appena l'11% degli esportatori e ancora, meno il 9,9%, in termini di quota sul valore esportato».

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