Biden attacca Netanyahu
"Israele perde il sostegno del mondo", dice il presidente Usa. Zelensky a Washington per convincere i repubblicani. Meloni critica Draghi e il Pd. Fi in pressing sul superbonus. Ricette di Avsi
Il presidente americano Joe Biden ha rotto gli indugi e ha detto che Israele «sta perdendo il sostegno in tutto il mondo». È un passaggio importante per la pace in Medio Oriente. Biden ha aggiunto che il premier israeliano Benjamin Netanyahu guida «il governo più a destra nella Storia del Paese, un esecutivo che non vuole la soluzione dei due Stati». Proprio ieri con una maggioranza schiacciante, 153 voti a favore su 193, l'Assemblea generale dell'Onu ha approvato una risoluzione per un cessate il fuoco umanitario a Gaza. Sul terreno, come racconta nel suo diario per Repubblica Sami Al-Ajrami, la fame e la disperazione dei civili palestinesi nella Striscia è oltre ogni limite. Anche Rafah è stata bombardata. Su Avvenire c’è la testimonianza del parroco, padre Gabriel Romanelli.
Il voto all’Onu ha fatto emergere il crescente isolamento degli Usa e di Israele. Su questo tema ieri avevamo riportato l’articolo di Gideon Levy di Haaretz pubblicato dal Sole 24 Ore, che cercava di spiegare ai suoi concittadini il fenomeno. Fenomeno non compreso da chi si aspettava più solidarietà dopo il 7 ottobre e accusa il mondo di antisemitismo. Oggi c’è un articolo di Jeffrey Sachs pubblicato in Italia dal Fatto, centrato sulle decisioni americane. L’esercito israeliano ha continuato la sua offensiva nella Striscia di Gaza sia su Khan Younis, sia sulla città di Rafah al confine con l'Egitto, come già detto.
La Cop28 è al rush finale dei tempi supplementari per evitare un fallimento simile a quello che avvenne a Sharm El Sheik. Si profila un documento conclusivo che impegna comunque le nazioni a triplicare le energie rinnovabili entro il 2030, anche non ci saranno drastiche decisioni sul fossile. E questo potrebbe accadere soprattutto grazie alla mediazione congiunta di Stati Uniti e Cina nel conciliare la posizione degli Stati Ue con quelli produttori di petrolio. Su Avvenire il delegato cinese ringrazia Papa Francesco per l’ “ispirazione” offerta al mondo sull’ambiente.
Il terzo fatto internazionale di prima grandezza in queste ore è la visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Washington. L’Ucraina chiede assistenza e sostegno militare contro l’invasore russo, dopo il voto choc del Congresso americano. Biden ha ricevuto Zelensky alla Casa Bianca, ma l’incontro del presidente ucraino con i Repubblicani non ha per ora ottenuto l’obiettivo sperato. Anche nella Ue, da domani al Consiglio europeo, si parlerà molto di Ucraina. Ungheria ed Austria per ora si oppongono all’ingresso di Kiev nell’Unione.
Proprio in vista del Consiglio di domani e dopodomani Giorgia Meloni ha parlato alla Camera. La nostra premier ha polemizzato molto con Giuseppe Conte e con il Pd, accusando i 5 Stelle di avere accettato il trattato del Mes senza interessare il Parlamento. Ma criticando l’approccio ideologico al tema, ha fatto capire che la ratifica promessa a Bruxelles potrebbe arrivare dopo aver ottenuto in cambio l’ok alle nostre richieste sul Patto di stabilità. Commenta Luciano Capone sul Foglio: «Se 19 paesi su 20 dell’Eurozona hanno ratificato tranquillamente la riforma del Mes, qual è il Paese dove domina l’ideologia? Sono gli altri 19 Paesi che fanno del Mes un “totem” o è l’Italia che ne fa un tabù?». Meloni ha in mente anche il tema delle migrazioni che invece, secondo i retroscena di questi giorni, coglierebbe l’Italia in difficoltà. Vedremo.
Interessante, per capire l’Europa di oggi, quello che sta succedendo in Germania fra Angela Merkel e il suo vecchio partito, la CDU. È un divorzio radicale: soprattutto sull’immigrazione. La nuova linea dei democristiani tedeschi apre ai centri per selezionare i rifugiati in Paesi terzi, fuori dalla Ue, mentre «una coalizione di volenterosi» si farà poi carico di accogliere in Europa quelli che ne hanno i requisiti. Modello Albania o modello Ruanda. Sulla stampa conservatrice compaiono editoriali contro la Merkel. Sembra incredibile che il “Wir schaffen das" sia stato pronunciato solo 8 anni fa dalla Cancelliera della Germania, durante la crisi dei migranti europei del 2015. Oggi quello slogan, considerato chiave del concetto tedesco di “Willkommenskultur”, cultura dell’accoglienza, viene gettato alle ortiche. E rinnegato.
Per tornare all’Italia: c’è stato il primo caso a Trieste di suicidio assistito, completamente seguito dall’Asl, la struttura pubblica sanitaria. A morire una donna affetta da sclerosi multipla. Tutto è stato fatto sulla base di una sentenza dell Corte costituzionale, perché la legge non c’è. Sul caso bella intervista del Vescovo di Trieste, monsignor Enrico Trevisi al Corriere.
Un consiglio in vista del Natale: AVSI propone un curioso ricettario multipolare e internazionale che si chiama “Sapori di pace”. Trovate qui il link per scaricarlo e usarlo.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il dettaglio decorato di una antica domus di età tardo repubblicana ritrovata nel Parco archeologico del Colosseo, a Roma. È l’area in cui, in età augustea, vennero costruiti gli Horrea Agrippiana, i magazzini costruiti dal genero di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera non fa sconti al premier israeliano: Biden sconfessa Netanyahu. Ma è l’unico giornale a fare il titolo principale su Gaza. La Repubblica dà notizia del discorso alla Camera della premier in vista del Consiglio europeo in agenda domani e dopodomani: Meloni, attacco a Draghi. La Stampa mette insieme anche i dem: Pd e Draghi, l’attacco di Meloni. Il Domani interpreta così: Ue e conti, Meloni attacca Draghi: “Faceva foto ma non portava niente”. Libero offre una lettura trionfalistica attraverso un gioco di parole: Meloni antisfascista. Anche se resta il dubbio su chi voglia lo sfascio, tra tanti sospettati. A proposito di economia Il Sole 24 Ore va sul concreto: Ponte sullo Stretto, più fondi di coesione. Superbonus, stop a modifiche e rinvii. Il Messaggero spera nella proroga proposta da Forza Italia: Superbonus, l'ultima trattativa. E Il Fatto Quotidiano ironizza: Superbonus: prima tutti contro, ora lo rivogliono. Il Giornale esalta la misura del governo per cui l’Imu non è dovuta in certi casi: Case occupate, è svolta. Avvenire critica l’arrivo della riforma Cartabia: Minori senza giustizia. La Verità ora punta sulle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contro le Ong: Il Pd ha passato alla banda di Casarini notizie riservate della Guardia costiera. Mentre il Manifesto, su una foto del ministro Pichetto Fratin, ne stigmatizza la partenza dalla Cop di Dubai prima della fine dei lavori: Fuga di gas.
MEDIO ORIENTE, BIDEN CONTRO NETANYAHU
Svolta nella posizione degli Stati Uniti: il presidente Joe Biden critica apertamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu che non accetta l’idea dei due popoli e due Stati. Intanto all’Onu nuovo voto a favore del cessate il fuoco.
«Benjamin Netanyahu li chiama «Hamastan» o «Fatahstan». Per Joe Biden quei territori devono andare a costituire «la futura nazione palestinese». Il primo ministro israeliano parla di «divergenze d’opinioni con gli Stati Uniti», il presidente americano gli fa capire che ormai la frattura non è solo semantica: «Israele sta cominciando a perdere il sostegno di tutto il mondo con i bombardamenti indiscriminati. Bibi deve cambiare e rafforzare il governo, il più a destra nella Storia del Paese, un esecutivo che non vuole la soluzione dei due Stati». Racconta un vecchio e noto episodio, quando aveva detto a Bibi: «Non sono d’accordo con niente di quello che dici». Aggiunge: «E siamo ancora lì». Allora gli aveva sussurrato: «Ma ti voglio bene». In questi 67 giorni di guerra il premier ha continuato anche la campagna elettorale. In un messaggio video sui suoi canali social dichiara per la sua base: «Non permetterò che venga ripetuto l’errore di Oslo, non consentirò che dopo il sacrificio enorme dei nostri combattenti Gaza ritorni a chi educa al terrore, lo sostiene, lo finanzia», si riferisce all’Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. È da lunedì che Netanyahu martella contro l’intesa di pace del 1994, l’ennesimo tentativo di allontanare da sé le responsabilità politiche e strategiche per gli attacchi del 7 ottobre, 1.200 israeliani uccisi. La nuova formula propagandistica vuole imputare al patto con i palestinesi il disastro di nove settimane fa. Arriva a dire che «il numero delle vittime causato dagli accordi è lo stesso degli assalti». Una matematica della morte che perfino Danny Danon, tra i fedeli nel Likud, gli rintuzza: «Non è possibile fare paragoni, mai come nel sabato nero sono state uccise tante persone in poche ore». Benny Gantz, l’ex capo di Stato maggiore e ministro della Difesa, già travolge Netanyahu nei sondaggi, per entrare nel consiglio di guerra ristretto ha lasciato l’opposizione. Dov’è rimasto Yair Lapid, l’unico a essere riuscito a spodestare Bibi — anche solo per 563 giorni — dal potere che detiene negli ultimi 14 anni: «La sua è una politica malvagia, cerca di incolpare gli altri, questa nazione merita una leadership diversa». A Tel Aviv arriva Jake Sullivan, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, che intende discutere con Netanyahu i tempi del conflitto: i palestinesi uccisi sono oltre 18 mila, le Nazioni Unite dicono che la situazione umanitaria nella Striscia «è oltre il punto di rottura». L’Assemblea generale ha approvato una risoluzione, non vincolante, che chiede un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza, il rilascio di tutti gli ostaggi e l’accesso umanitario nell’enclave palestinese ma non condanna l’organizzazione islamista responsabile delle violenze. L’esercito israeliano — scrive il Wall Street Journal — avrebbe iniziato a pompare acqua di mare nelle gallerie e nei bunker sotterranei scavati in questi anni da Hamas, un’operazione che potrebbe andare avanti per settimane, il sistema di gallerie copre quasi 500 chilometri. Le truppe hanno recuperato i cadaveri di due ostaggi proprio nei cunicoli: Eden Zacharia, 27 anni, era stata rapita al festival rave nel deserto mentre il soldato Ziv Dado era stato ucciso il 7 ottobre».
LOTTARE PER LA VITA NELLA GIUNGLA DI RAFAH
Il Diario da Gaza di Sami Al-Ajrami. Racconta: le bombe israeliane uccidono 24 civili accanto a noi. Non siamo al sicuro neanche a Rafah. Come invece ci avevano assicurato.
«Le nostre pareti hanno tremato, nella notte. Eppure Israele ci diceva di fuggire qui a Rafah perché saremmo stati al sicuro. Le bombe che hanno colpito ieri la città dimostrano che però era una bugia. Sono esplose vicinissime all’appartamento in cui sto con la mia famiglia, nella città della Striscia di Gaza al confine con l’Egitto dove Israele ci ha costretto a rifugiarci. Hanno mirato a due case della Philadelphi, l’area dove un tempo si trovavano i tunnel dei militanti e dei contrabbandieri, e hanno ucciso almeno 24 persone, tra cui donne e bambini. Ancora una volta dei civili hanno dunque perso la vita, e non può essere altrimenti: Israele ha obbligato tutti a lasciare il Nord e il Centro, Gaza City e Khan Yunis, per intrappolarci in un posto in cui le “operazioni militari chirurgiche” sono impossibili, in un’area sovrappopolata in cui oggi vivono 1,2 milioni di palestinesi. Non a caso, negli stessi rifugi dell’Unrwa, tra pidocchi e scarsa igiene, le malattie infettive sono in aumento: diarrea, infezioni respiratorie acute e della pelle. Come giornalista, la gente mi ha sempre chiesto: “Siamo al sicuro a Rafah?”. Io pensavo e speravo di sì, perché questa non è Khan Yunis, dove la presenza di Hamas era forte. Era anzi legata all’Anp e all’Egitto. E invece ormai sta diventando una giungla, Rafah. Le bombe aumentano la disperazione di chi, lontano da casa e senza più una prospettiva, incontra ogni giorno più difficoltà a trovare qualcosa da mangiare. La legge della giungla dice che a sopravvivere sono i più forti. E qui i più forti sono le famiglie che possono disporre di ragazzi che assaltano i camion di aiuti delle organizzazioni internazionali e riescono a portare qualcosa a casa. Difficile condannarli. È il compito che padri e madri che non hanno più niente affidano loro la mattina: non tornare a mani vuote. E se mettersi in coda al mercato o a un centro di distribuzione degli aiuti non ha portato a nulla, allora rimane solo l’assalto ai camion. Meglio che morire di fame. È la condizione di chi è povero, ma anche di chi lo è diventato in questi mesi, tutti quelli che non hanno più un lavoro, e sono quasi la totalità. Ho visto con i miei occhi dei ragazzi distruggere il finestrino di un camion, picchiare l’autista e prendere possesso di ciò che trasportava. La farina. Bene fondamentale a Gaza dove, senza il carburante, i forni non possono lavorare e sono costretti a chiudere. Nessun poliziotto è intervenuto, ma la cosa non deve stupire. Le forze dell’ordine si nascondono, hanno paura di essere colpite dall’esercito israeliano, che ha già bombardato le loro stazioni. Alcuni girano per strada, ma non è facile incontrarli. Se li chiami al telefono, è difficile che arrivino in tempo. La gente si fa sempre più aggressiva, anche perché non si vede la fine di questo inferno in terra. Quanto durerà ancora? Settimane? Mesi? Così scivoliamo giorno dopo giorno verso il caos e l’anarchia. Si è pronti a tutto pur di avere l’acqua o il gas per cucinare. Nessuno ha più pazienza. Le code davanti ai distributori e ai locali dell’Onu sono lunghe e frustranti, spesso scoppiano risse. Da giornalista dovrei saper trovare le parole, ma quello che vedo, quello che vivo, diventa ogni giorno più incredibile, indescrivibile. Oggi la mia famiglia non aveva pane in tavola. Ma per fortuna c’era del riso, senza condimento. E qualche pomodoro. Li abbiamo pagati due-tre volte il prezzo di qualche settimana fa, ma non importa, per oggi va bene così. Domani torneremo a lottare, nella giungla di Rafah».
IL PARROCO DI GAZA: “CHIEDIAMO DISPERATAMENTE LA PACE”
Intervista a Padre Gabriel Romanelli. Il parroco di Gaza è bloccato a Gerusalemme ma resta in costante contatto con la sua comunità: «La nostra parrocchia è un rifugio per tutti. Nessuno pensa a una rivolta. La fede non toglie sofferenza, ma aiuta a sopportarla». Luca Geronico per Avvenire.
«Anche oggi, da Gerusalemme, dove è rimasto bloccato dal 7 ottobre, padre Gabriel Romanelli ha avuto un contatto con la sua comunità a Gaza: « Molto breve, perché è caduta la linea». Negli ultimi tre giorni, per lo stesso motivo, anche papa Francesco non è riuscito a chiamare il suo vicario, padre Youssef, a Gaza City, ma in questi due mesi il “parroco in esilio” si è sentito spesso con papa Bergoglio con cui un canale di comunicazione è aperto in qualsiasi momento. «Siamo 135 cattolici, ma tutta la comunità cristiana, compresi gli ortodossi, è venuta a rifugiarsi in parrocchia, per loro l’unico luogo sicuro. All’inizio, erano 500 persone, oltre ai piccoli handicappati delle suore di madre Teresa, mentre padre Youssef è andato a cercare gli ammalati e gli anziani soli. Sono molto preoccupati, stanchissimi ma hanno una grande fiducia nella Provvidenza: non sopportano più il rumore dei bombardamenti, ancora più intensi dopo la tregua. Non siamo un obiettivo militare, però la struttura è danneggiata: la cosa più grave è la carenza di diesel con cui azioniamo il generatore e la pompa dell’acqua. La scorsa settimana se ne trovava ancora qualche litro, ora non ce n’è più. Si cucina solo tre volte alla settimana per dividere quello che si ha tra i bambini e le famiglie. E poi lo si dà ai vicini musulmani che vivono attorno alla parrocchia. Ma la cosa peggiore è l’ansia, non sapere fino a quando durerà tutto questo. La tregua passata ha provocato un alito di speranza che il peggio fosse passato, ma chi è uscito dopo un mese e mezzo ha trovato la casa distrutta o inagibile. Non è la prima guerra che si vive a Gaza, ma le altre volte c’era sempre la casa di un parente. E poi ci sono i traumi psicologici: anche il rumore può ferire, e di bombe ne cadono a migliaia. Durante le altre guerre facevamo subito attività di socializzazione per i bambini, le famiglie: una sorta di terapia comunitaria. Adesso casa si potrà fare?”.
Si segnalano assalti ai convogli umanitari, ai magazzini dell’Onu: c’è rabbia, rivolta anche fra i cristiani?
Fuori dalla parrocchia intanto manca tutto: le persone sono per strada affamate. La maggior parte è andata a Sud, alcuni sono già ritornati: a Gaza City rimangono 300-400 mila persone. Gaza non è un luogo semplice, da 16 anni è sotto assedio, prima però entravano materiali, c’erano permessi di lavoro anche se inferiori alle necessità. Ma rivolta, fra i parrocchiani, no: forse anche perché vivere in un luogo di guerra aumenta la capacità di sofferenza. Non sento, non mi scrivono espressioni di odio e vendetta: piuttosto chiedono disperatamente la pace, un cessate il fuoco, la fine delle morti e delle distruzioni.
I cristiani hanno scelto di restare a Gaza. Perché questo radicamento?
Mi chiedono, padre, andare dove? Al Sud, dove non ci sono le strutture della Chiesa? E poi c’è l’impossibilità materiale per 54 minori disabili, oltre agli anziani e una decina di feriti gravi.
Come riuscite ad assistere questi 54 disabili e gli anziani?
Come la comunità cristiana primitiva, si distribuisce quello che si ha, e si dà di più a chi ha più bisogno. Ci siamo organizzati in comitati per il cibo, l’acqua, la sicurezza. Quotidianamente ci sono due Messe e durante il giorno diversi gruppi recitano il rosario e poi si dedicano ai vari servizi. Ma mancando l’acqua la situazione è più grave e per chi è sfollato dove non c’è niente, la situazione è ancora peggiore.
A Gaza, secondo Haaretz, i civili uccisi sono il 61% delle vittime, nel 2021 erano il 40%: più che in Afghanistan, Iraq e Siria. Che nome dare a queste statistiche?
Non lo so. I cristiani morti erano tutti civili: la comunità cristiana, un migliaio di persone in tutto, ha avuto il 2% di vittime. Abbiamo perso 21 persone: 17 morti nel bombardamento di fronte alla chiesa greco-ortodossa, una donna è stata assassinata da un cecchino, tre i morti per problemi di salute curabili: un cardiopatico, una ferita recuperabile, una peritonite. Non so che nome dare a tutto questo.
C’è chi dice che Israele ha il diritto a difendersi. Cosa risponde a questa affermazione?
Tutti hanno diritto alla difesa, però, pure per difendersi ci sono delle norme. Noi siamo contro ogni sorta di violenza: il 7 ottobre è stato terribile, un orribile crimine, 30 o 31 bambini uccisi oltre a quelli sequestrati. Terribile, e vale per qualsiasi bambino ucciso: ebreo, musulmano, druso. Eppure nella Striscia di Gaza sono più di 7.700 i bambini uccisi e il numero sale. In questo momento è molto difficile discutere, se trovi due persone che litigano per strada, che tu sappia o no la motivazione, cerchi di fermarli: è il momento dello stop, del cessate il fuoco.
Lei passerà il Natale lontano dalla sua parrocchia.
Non so, magari potrò entrare, passarlo con loro.
Glielo auguriamo di cuore. Come si può vivere il mistero dell’Incarnazione in questa situazione?
La fede non ci toglie la sofferenza, forse dandole un senso la fa diminuire: ma sappiamo che la sofferenza è limitata, che il male ha pure un limite come lo ha il buio della storia umana. Da Dio viene la salvezza, viene la luce: l’Incarnazione è appunto l’ingresso di Dio nella storia dell’umanità. La gioia di Betlemme già basterebbe per vivere nella gioia, però il Figlio di Dio incarnato ha voluto soffrire la solitudine, essere rifugiato, ha voluto soffrire soprattutto la passione e la morte, per insegnarci che ogni sofferenza ha un limite.
La pace è ancora possibile? Quale sarà il segnale che questa tragedia sta finendo?
Il primo passo, penso sia il fermarsi delle ostilità. E poi la possibilità di aiuto umanitario vero in tutta la Striscia, pure al Nord. In due mesi di guerra sono arrivati 3.200 camion di aiuti, prima ne entravano 500 al giorno, e nemmeno allora bastava: in due mesi meno di quello che entrava in una settimana. E adesso le persone, fuoriuscite di casa, hanno più bisogno. E poi penso si debba proseguire negli scambi tra ostaggi e prigionieri perché possono riconciliare le famiglie, un quartiere: quello è un segno di speranza. Uno stop nei combattimenti, non sarà la soluzione, ma può essere come il ramoscello di ulivo nel becco della colomba. Noi cristiani di Gaza auguriamo pace a tutti: pace a Israele e pace alla Palestina».
SACHS: “LA PALESTINA DIVENTI IL 194ESIMO PAESE DELL’ONU”
L’analisi dell’economista americano Jeffrey Sachs pubblicata in Italia dal Fatto. La richiesta di cessate il fuoco al Consiglio di Sicurezza dell’Onu è stata bloccata solo da Usa e Gran Bretagna. Nonostante il 7 ottobre, Hamas non è una minaccia esistenziale per Tel Aviv. Però Netanyahu & C. insistono con i massacri nella Striscia.
«Il voto quasi unanime del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede un immediato cessate il fuoco a Gaza è un punto di onore per le Nazioni Unite e di vergogna per gli Stati Uniti. Votando per fermare la guerra di Israele a Gaza con 13 sì, 1 no (Usa) e 1 astensione (Regno Unito), la grande maggioranza si è schierata dalla parte del diritto internazionale. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha onorato l’Onu e la decenza umana invocando l’articolo 99 della Carta delle Nazioni Unite e chiedendo al Consiglio di sicurezza di fermare le uccisioni a Gaza come responsabilità fondamentale. Ogni giorno, i funzionari delle Nazioni Unite a Gaza lottano eroicamente sul campo per sfamare, ospitare e proteggere la popolazione dalle bombe israeliane. Più di 100 membri del personale Onu sono stati uccisi dall’assalto israeliano. La situazione a Gaza è tanto chiara quanto brutale. Lo Stato di Palestina, riconosciuto da 139 nazioni, soffre da tempo delle brutalità dell’occupazione. Gaza è stata definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo da Human Rights Watch. Dopo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre guidato da Hamas, in cui sono morti 1.200 israeliani, Israele ha iniziato la pulizia etnica di Gaza. Gli specialisti legali del Center for Constitutional Rights considerano le azioni di Israele come un genocidio. A oggi, più di 17.400 abitanti della Striscia di Gaza sono stati uccisi e 1,8 milioni sono stati sfollati. Decine di migliaia sono a rischio di morte imminente. Il mese scorso, Guterres ha avvertito che “Gaza sta diventando un cimitero per i bambini”. Israele ha spinto la popolazione dal nord di Gaza verso il sud e poi ha invaso il sud. Le autorità israeliane hanno detto agli abitanti di Gaza di fuggire per salvarsi la vita in zone del sud e poi hanno bombardato i luoghi verso i quali erano stati indirizzati. Gli Stati Uniti sono più che protettori di Israele. Sono complici. Forniscono, in tempo reale, le munizioni che Israele usa per gli omicidi di massa, anche se le autorità statunitensi a parole sostengono i civili di Gaza. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, giustifica il massacro dichiarando che a Gaza non ci sono civili innocenti: “È un’intera nazione a essere responsabile”. La più grande bugia del governo israeliano è che Israele non ha altre opzioni se non l’uccisione di massa degli abitanti della Striscia, presumibilmente per sconfiggere Hamas. Il fatto che Israele si sia lasciato cullare dalla sua arroganza e abbia abbassato la guardia il 7 ottobre non fa di Hamas una minaccia esistenziale. Hamas ha solo una minima parte della potenza militare di Israele. Il 7 ottobre, come l’11 settembre negli Stati Uniti, è stato un colossale errore di sicurezza che dovrebbe essere immediatamente corretto con un rafforzamento della sicurezza alle frontiere, non una minaccia esistenziale che giustifichi l’uccisione di migliaia o decine di migliaia di civili innocenti, con donne e bambini che costituiscono il 70% delle vittime. La frenesia omicida è guidata dagli stessi politici che sono stati responsabili del fallimento della sicurezza del 7 ottobre e che ora manipolano le ansie più profonde della popolazione israeliana. Hamas può essere smobilitato attraverso la diplomazia e solo attraverso la diplomazia. Israele e gli Stati Uniti devono finalmente rispettare il diritto internazionale, accettare uno Stato palestinese sovrano accanto a Israele e accogliere la Palestina come 194º Stato membro delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti devono smettere di armare l’operazione di pulizia etnica a Gaza e di proteggere le dilaganti violazioni dei diritti umani fondamentali in Cisgiordania. Cinquantasei anni dopo l’occupazione illegale delle terre palestinesi e dopo decenni di insediamenti illegali nei territori occupati, Israele deve finalmente ritirarsi dalle terre palestinesi occupate. Con questi passi, la pace tra Israele e i Paesi limitrofi potrebbe e sarebbe assicurata. Su questa base, le forze di pace dell’Onu, comprese le truppe arabe e occidentali, assicurerebbero a loro volta il confine israelo-palestinese per un necessario periodo di transizione. Allo stesso tempo, tutti i flussi internazionali di finanziamento ai militanti anti-israeliani verrebbero bloccati da azioni congiunte e coordinate di Stati Uniti, Europa e dei vicini arabi e islamici di Israele. La via diplomatica è aperta perché i Paesi arabi e islamici (compreso l’Iran) hanno ancora una volta ribadito il desiderio di pace con Israele nell’ambito di un accordo che stabilisca la Palestina lungo i confini del 1967 e la sua capitale a Gerusalemme Est. La vera ragione della guerra di Israele a Gaza è che il governo di Israele rifiuta la soluzione dei due Stati. I fanatici israeliani, tra cui alcuni membri del gabinetto, credono che Dio abbia promesso loro tutte le terre dall ’Eufrate al Mediterraneo. Questa convinzione è fatua. Come la storia ebraica dovrebbe chiarire agli ebrei religiosi, e come tutta la storia umana dovrebbe chiarire in generale, nessun gruppo, sia esso ebraico o di altro tipo, ha un “diritto” incondizionato a qualsiasi terra. Affinché i diritti siano garantiti e rispettati a livello internazionale, i governi devono attenersi al diritto internazionale. Nel caso di Israele e Palestina, il diritto internazionale, come espresso ripetutamente dal Consiglio di Sicurezza, sostiene che due Stati sovrani, Israele e Palestina, hanno sia il diritto che la responsabilità di vivere fianco a fianco in pace secondo i confini del 1967. Non solo Israele, ma forse ancor più gli Stati Uniti, hanno perso la bussola. La ragione profonda era chiara al senatore J. William Fulbright sessant’anni fa, quando era presidente del Comitato per le relazioni estere del Senato e scrisse il magnifico libro L’arroganza del potere. Fulbright indicò nell’arroganza la causa profonda della sconsiderata guerra americana in Vietnam. Nella sua continua arroganza, lo Stato di sicurezza militare statunitense ignora ripetutamente la volontà della comunità internazionale e il diritto internazionale, perché ritiene che le armi e il potere glielo consentano. La politica estera degli Stati Uniti si basa in larga misura su operazioni segrete e illegali di regime change e su una guerra perpetua che soddisfa il complesso militare-industriale. Non dobbiamo diventare cinici nei confronti dell’Onu. Attualmente è bloccata dagli Stati Uniti, il Paese che ha guidato la sua nascita sotto il più grande presidente americano, Franklin Delano Roosevelt. L’Onu sta facendo il suo lavoro, costruendo il diritto internazionale, lo sviluppo sostenibile e i diritti umani universali, con l’arco della storia dalla sua parte. Il diritto internazionale è una creazione umana relativamente nuova, ancora in fieri. È difficile da realizzare di fronte all’ostinazione del potere imperiale, ma dobbiamo perseguirlo. È importante notare che opporsi ai crimini di guerra di Israele non ha assolutamente nulla a che fare con l’antisemitismo. Questo punto è stato espresso in modo eloquente in una lettera aperta da decine di scrittori ebrei. Netanyahu non parla a nome dell’ebraismo. Il governo israeliano viola la più sacra delle ingiunzioni ebraiche, quella di proteggere la vita (Pikuach Nefesh) e di amare il prossimo come se stessi (Levitico 19.18). Il messaggio dell’etica ebraica si trova nelle parole del profeta Isaia (Isaia 2.4) iscritte su un muro di fronte alle Nazioni Unite: “Batteranno le loro spade in vomeri e le loro lance in uncini da potatura; la nazione non alzerà più la spada contro la nazione e non impareranno più la guerra”».
COP28, LA MEDIAZIONE FINALE: TRIPLICARE LE RINNOVABILI ENTRO IL 2030
Grazie alla mediazione di John Kerry che ha avuto come alleato la Cina, si cerca un’intesa tra il blocco Ue e gli Stati petroliferi. L’ospite di casa a Dubai il sultano Al Jaber dice: il fallimento non è un’opzione. Sara Gandolfi per il Corriere della Sera.
«Come ogni Cop che si rispetti, anche la numero 28 va ai tempi supplementari. Fino alle ore piccole. Fuori dall’ufficio del presidente Sultan Al Jaber, ieri a tarda sera, c’era ancora una lunga coda di ministri e negoziatori, in attesa d’essere ricevuti. L’ospite emiratino non è riuscito a mantenere la promessa di chiudere il vertice nel giorno dell’ottavo anniversario dell’Accordo di Parigi, ma fin dal mattino ha assicurato ai suoi ospiti che «il fallimento non è un’opzione». Impresa non facile, dopo l’ondata di critiche che ha travolto lunedì la sua proposta di accordo finale, rimasta orfana del paragrafo sul «phase out», l’eliminazione graduale, dei combustibili fossili. Ancora una volta è il Grande Vecchio della diplomazia climatica, l’inviato speciale degli Usa John Kerry, 80 anni compiuti proprio in quel di Dubai due giorni fa, ad accendere una luce in fondo al tunnel: «I progressi si stanno muovendo nella giusta direzione», dice alle 21.30, per nulla stanco nonostante la lunga maratona, uscendo da una serie di incontri con Al Jaber e altri ministri. Conferma che il testo di quella prima bozza, «inaccettabile» e «inadeguata» per l’Unione europea e molti altri Paesi, ora è «più forte sui combustibili fossili» e che «i progressi si stanno muovendo nella giusta direzione», anche perché sono stati fatti «molti sforzi» sugli impegni finanziari. Nell’ombra, si muove un altro veterano, il super-negoziatore cinese Xie Zhenhua, 74 anni e ormai prossimo alla pensione. Pechino è pronta ad accodarsi alla maggioranza se il testo, come pare probabile, prevederà una transizione energetica differita e decisa a livello nazionale per i Paesi in via di sviluppo, senza l’obbligo di raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025. D’altronde, proprio Kerry e Zhenhua avevano dato la linea con l’accordo di Sunnylands, il mese scorso: «Già prima della Cop avevamo assistito a una dichiarazione congiunta di Usa e Cina per triplicare le energie rinnovabili entro il 2030 in modo da sostituire carbone, petrolio e gas — conferma al Corriere Soenke Kreft, Chief Climate Risk Strategist dell’Università delle Nazioni Unite —. Il risultato della Cop non dovrebbe essere inferiore a quanto già offerto». Questa mattina ministri e negoziatori torneranno a riunirsi, dopo aver ricevuto la nuova bozza di accordo, per scongiurare la Waterloo del clima e cercare il consenso della plenaria. Oltre 130 Stati, sui 198 partecipanti alla Cop, chiedono che l’eliminazione dei combustibili fossili rientri nella dichiarazione finale, anche se nella notte circolava una bozza con una formula appena più morbida: «Transitioning away (allontanarsi, invece di “phase out”) dai combustibili fossili nei nostri sistemi energetici, a partire da questo decennio...». Anche il gruppo degli «ambiziosi», guidati dall’Unione europea, è pronto a fare concessioni sia ai Paesi in via di sviluppo, come l’India, che chiedono aiuti e tempi differenziati, sia a quelli le cui economie dipendono da gas e petrolio, per affrontare la transizione energetica. L’osso duro resta il fronte dei petro-Stati, guidati da Arabia Saudita e Russia. Riuniti a Doha, i ministri arabi del petrolio hanno usato parole pesanti. Il kuwaitiano Saad al-Barrak ha accusato i Paesi occidentali di cercare di dominare l’economia globale attraverso le energie rinnovabili: «È una lotta per la nostra libertà e i nostri valori», ha detto».
PICHETTO FRATIN LASCIA DUBAI
Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ha lasciato la Conferenza internazionale prima della fine dei lavori. Alla Cop28 di Dubai il ruolo dell’Italia è stato quello della comparsa. Lorenzo Tecleme per il Manifesto.
«Quando si è saputo che Graham Stuart, ministro del governo britannico con delega alla sicurezza energetica e al net-zero, aveva lasciato Dubai senza aspettare la fine di Cop28, la società civile inglese ha manifestato indignazione. «Il Regno Unito è accusato di “scandalosa mancanza di leadership” mentre il ministro lascia la Conferenza» titolava ieri in homepage il Guardian. Ma anche un altro ministro di un grande paese europeo è già rincasato. Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica del governo Meloni, è ripartito ieri dagli Emirati Arabi Uniti. La partenza del ministro arriva all’ultimo miglio di una Cop in cui l’Italia non ha brillato per presenza. Dopo il primo giorno - quando la presidente Meloni ha annunciato lo stanziamento di 100 milioni di euro per il fondo loss&damage come Francia, Germania ed Emirati Arabi Uniti - Roma non si è fatta notare. Il basso profilo dell’Italia durante i negoziati climatici, va detto, non è una novità. Alla Cop26 di Glasgow, che pure l’Italia co-presiedeva, molti notarono come Roma non avesse nemmeno organizzato un proprio padiglione. Scelta marginale nelle trattative, ma segno di disattenzione per il meeting. L’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi non ha migliorato la situazione. Il padiglione è arrivato, ma in compenso è sparito ancora di più il ministro. Non aiuta di certo il profilo scelto. Gilberto Pichetto Fratin, titolare del dicastero rinominato dell’ambiente e della sicurezza energetica, non si è mai occupato di clima né di diplomazia prima della nomina. Alla formazione del governo il suo nome fu erroneamente associato dalla stessa premier alla posizione di ministro della pubblica amministrazione. «Il ministro italiano sul clima è tra i meno esperti in Europa» è il titolo di un’analisi uscita ieri sul sito Pagella Politica. L’inesperienza sul tema è il primo handicap, il secondo è la conoscenza dell’inglese. Il ministro non lo parla e questo - in un contesto internazionale come la Cop, dove molto viene deciso in bilaterali e cene - è un grosso ostacolo. Tutt’altro background rispetto agli omologhi dei grandi paesi europei. La Germania ha Steffi Lemke, una vita nei verdi, e a Cop28 ha schierato anche la ministra degli esteri Annalena Baerbock, che partecipa alle Conferenze sul clima dal lontano 2013. La Spagna, presidente di turno dell’Unione europea, è presente con la viceministra Teresa Ribera, attiva in ambiente Unfccc e dirigente del dipartimento della sezione clima del ministero dell’ambiente spagnolo fin dal 2004. Non ha un curriculum da esperta ambientale la ministra della transizione energetica francese, Agnès Pannier-Runacher, che però compensa con una lunga esperienza nei settori industria ed energia. Pichetto Fratin, oltre all’attività parlamentare, può vantare solo l’attività di commercialista. Pichetto Fratin, in carica da poco più di un anno, avrà modo di acquisire sul campo l’esperienza nella diplomazia climatica che gli manca. E sicuramente anche a questa Cop ha potuto contare sulla rodatissima macchina ministeriale. Ma la sensazione, arrivati alla fase finale di Cop28, è che l’Italia non abbia quasi toccato palla. Il ruolo scelto dal governo, lungi dal protagonismo, è quello della comparsa».
IL DELEGATO CINESE: SUL CLIMA IL PAPA ISPIRA IL MONDO
La Cina ha svolto un ruolo positivo nella Cop28. Lucia Capuzzi ha intervistato per Avvenire Ma Jinfeng, esperto e veterano di questi summit. Dice Ma: papa Francesco è stato di ispirazione per tutti.
«È il punto fermo di tutte le bozze del testo principale che si sono susseguite in due frenetiche settimane di lavoro a Dubai. Le energie rinnovabili devono essere triplicate entro il 2030. Almeno su questo, la comunità internazionale ha trovato un punto di accordo. Se ha potuto farlo, in buona parte è frutto del sostegno cinese alla proposta, già espresso nell’incontro di Sunnylands con l’inviato Usa per il Clima, John Kerry e confermato a Dubai. Nel piano, presentato all’apertura del vertice, il vice-premier di Pechino Ding Xuexiang, ha chiesto con forza di accelerare la trasformazione verde, attraverso l’aumento delle energie pulite. Affermazioni che si riflettono in un impegno della Cina in tale direzione, secondo Ma Jinfeng, docente della North West University di Xian, impegnato in vari progetti per favorire la neutralità carbonica. Da anni è parte delle delegazioni di Pechino alle Cop, inclusa quella attuale.
Professore, con il 31% di emissioni, la Cina è il grande emettitore mondiale insieme agli Usa. Che cosa sta facendo il Paese per allinearsi agli obiettivi degli accordi di Parigi?
Negli ultimi anni sono stati sviluppati modelli a zero emissioni che hanno consentito la rapida riduzione nell’utilizzo dei combustibili fossili. Entro il 2050, la Cina prevede di ridurre a non più del 15% la dipendenza dagli idrocarburi mentre l’85 per cento dell’energia sarà prodotta da fonti rinnovabili.
Oltre all’impegno per le energie pulite, quali sono le altre linee di azione di Pechino alla Cop28?
Il multilateralismo, al fine di raggiungere gli obiettivi contenuti nella Convenzione Onu contro il cambiamento climatico e gli accordi di Parigi, far crescere solidarietà e cooperazione e ottenere benefici mutui e risultati positivi per tutte le parti. La Cina, inoltre, si è mossa perché sia garantita l’attuazione degli impegni esistenti pienamente rispettati. I Paesi sviluppati, in particolare, dovrebbero aumentare in modo efficace il sostegno finanziario, tecnologico e lo scambio di conoscenze nei confronti delle nazioni in via di sviluppo in modo da trasformare le affermazioni di principio in realtà.
Papa Francesco ha mancato all’ultimo l’appuntamento di Dubai per ragioni di salute. Come valuta il suo contributo nella protezione della casa comune?
Sottoscrivo quanto detto da John Kerry: “Il Papa è una delle grandi voci della ragione e un’autorità morale credibile sulla crisi climatica”. La sua enciclica Laudato si’ sottolinea che il riscaldamento causato dagli esseri umani, provocherà un danno senza precedenti al pianeta. Per questo, rivolge un forte appello affinché ci assumiamo la responsabilità etica di arginare gli impatti negativi sui gruppi più poveri. In Laudate Deum, pubblicata lo scorso 4 ottobre, il Pontefice ha rivolto pesanti critiche a quanti negano l’emergenza climatica. E ha dedicato particolare attenzione alla responsabilità sproporzionata dei Paesi ricchi. Parole che non hanno un impatto solo sui cattolici ma sono fonte di ispirazione per tutti gli abitanti del pianeta.
Pensa che possano esserci margini di collaborazione con la Santa Sede nella lotta al riscaldamento globale?
Entrambe condividono l’obiettivo di risolvere la crisi climatica e favorire la transizione energetica. Spero che la nostra cooperazione si approfondisca».
IL VIAGGIO DI ZELENSKY A WASHINGTON
Nulla di fatto dalla visita al Senato Usa del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. I repubblicani insistono: “Più soldi al piano migrazioni”. Il Pentagono consiglia: “Stop all’offensiva”. Cosimo Caridi per Il Fatto.
«Prima il Senato, poi la Casa Bianca, dove Biden ha firmato il prelievo dagli arsenali usa di altri aiuti per 200 milioni di dollari. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ieri a Washington, ha tentato di sbloccare l’invio di nuovi fondi statunitensi. “Se otterrà l’aiuto di cui ha bisogno vincerà”, ha detto Chuck Schumer, senatore capogruppo dei Democratici. A fare muro sono i Repubblicani contrari alla richiesta di 106 miliardi di dollari, poco più di 60 destinati a Kiev. Lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha ribadito che ogni nuovo aiuto all ’Ucraina sarà condizionato a un cambio di politica riguardo alla sicurezza al confine col Messico, definita una “catastrofe assoluta”. Nel pacchetto proposto da Biden i soldi per il muro al sud sono alcune centinaia di milioni, mala candidatura di Donald Trump alle Presidenziali rende la questione centrale per il partito conservatore. “Le decine di miliardi di dollari pompati in Ucraina non hanno aiutato a raggiungere alcun successo sul campo di battaglia – ha risposto da Mosca il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov–altre decine di miliardi di dollari che Kievvuole sono destinati a essere un fiasco”. Da mesi il Pentagono sta analizzando il conflitto e dopo la modesta campagna militare primaverile sta istruendo i generali ucraini a perseguire una nuova strategia hold e build (“tieni e costruisci”). Per quasi due anni la Nato ha speso miliardi per inviare armi e formare le truppe di Kiev. Ma nonostante questa importante spinta la Russia mantiene il controllo di circa il 20% del territorio ucraino, quasi tutto quello conquistato nell’inverno del 2022. La scelta occidentale è stata quella di impegnare Mosca, per oltre 600 giorni, su fronte lungo mille chilometri, utilizzando artiglieria e mezzi corazzati. Il tentativo era di dissanguarla. La Federazione tra l’impegno bellico e le sanzioni non avrebbe dovuto resistere a lungo. “Questo è stato il mio errore. La Russia ha perso almeno cento cinquantamila uomini, un numero che in qualsiasi altro Paese avrebbe fermato la guerra” ha spiegato, in una recente intervista all’Economist, Valerij Zaluzhny comandante in capo delle Forze armate ucraine. Il Pentagono vuole che Kiev fortifichi le posizioni attuali, per rendere difficile un’avanzata russa, ma allo stesso tempo per disincentivare un’offensiva ucraina. Per farla servirebbero armi e fondi che non ci sono. Intanto gli ucraini devono lavorare sulla propria capacità di costruire armi, così da ridurre la loro dipendenza dai paesi occidentali. Se per tutto il 2024 la situazione sul terreno non dovesse cambiare ci sarebbero le basi per una negoziazione con Mosca. È un compromesso difficile da accettare per Zelensky, ma non sembra ci siano altre strade. La Germania, secondo Paese per volume di aiuti a Kiev, ha preventivato otto miliardi di euro per sostenere l’Ucraina, un decimo dei fondi necessari per una nuova controffensiva. Anche a Bruxelles i segni della fatica della guerra sono evidenti. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán blocca l’invio di nuovi fondi, 50 miliardi in 4 anni. E persino i soldi già stanziati non portano i risultati sperati. L’Ue ha comprato un milione di munizioni da 155 mm da inviare a Kiev. Le aziende della Difesa, in testa le tedesche Rheinmetall e Diehl, non hanno ancora terminato le nuove catene di montaggio per fare le consegne. Solo il 30% dell ’ordine è arrivato a Kiev. Per non ridurre troppo la potenza di fuoco durante l’inverno, Seul ha mandato 330 mila colpi. Ma la Sud Corea non può inviare armi a zone in guerra, quindi le munizioni sono state fatte triangolare negli Usa. Nella lista delle promesse che forse verranno mantenute ci sono gli F-16. Dopo mesi di tira e molla, a metà novembre è stato aperto in Romania il centro di formazione per i piloti ucraini. Non ci sono ancora le date per consegne dei caccia. I primi a mandare gli aerei a Kiev dovrebbero essere i danesi nella prossima primavera, poi a inizio 2025 il Belgio. A Bruxelles si vota il prossimo anno, il nuovo governo dovrà confermare la decisione prima che i mezzi vengano trasferiti. Per ora di certo ci sono solo cinque F-16 d’addestramento messi a disposizione dai Paesi Bassi, ne hanno promessi un’altra decina».
UE: ASSET RUSSI PER FINANZIARE L’UCRAINA
I proventi degli asset russi congelati saranno usati per aiutare Kiev proprio contro Mosca. A Bruxelles formulata una proposta che, se approvata, prevede il trasferimento dei profitti in conti specifici. Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«Dopo mesi di incertezze la Commissione europea ha presentato ieri un provvedimento preliminare finalizzato a utilizzare gli attivi finanziari russi per aiutare l’Ucraina nella sua guerra contro Mosca. La proposta, che andrà negoziata dai Paesi membri, giunge a ridosso di un delicatissimo vertice europeo dedicato proprio al futuro rapporto con Kiev. L’Ungheria continua ad opporsi a un allargamento veloce dell’Unione così come a nuovi aiuti finanziari. «Il collegio dei commissari ha approvato una proposta relativa ai proventi derivanti dalle riserve congelate della banca centrale russa (…). Comunicheremo ufficialmente sulla questione solo dopo il benestare del Consiglio», si è limitata a dire ieri a Strasburgo la vicepresidente della Commissione Věra Jourová. Nei fatti, il provvedimento prevede che i proventi degli attivi russi congelati vengano da ora in poi trasferiti in conti specifici. La decisione è preliminare a un loro eventuale utilizzo. La proposta andrà ora discussa e approvata all’unanimità dai Ventisette. È noto che la Banca centrale europea non vede di buon occhio né il congelamento delle riserve, né tanto meno l’uso dei proventi. Teme che queste scelte d’autorità possano suscitare nervosismo sui mercati finanziari, penalizzando l’euro. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, i Ventisette decisero di sanzionare il Cremlino, tra le altre cose congelando le riserve della Banca centrale russa (si calcola circa 200 miliardi di euro). Concretamente, il provvedimento presentato dalla Commissione europea va a colpire il denaro fermo nelle istituzioni finanziarie europee incaricate di concludere le transazioni tra investitori (le camere di compensazione lussemburghese Clearstream e belga Euroclear). «Solitamente – spiega un funzionario europeo - queste istituzioni non mantengono denaro sui loro conti più di qualche ora. Ma l’eccezionale situazione fa sì che nel tempo, dopo il congelamento degli attivi finanziari, le riserve abbiano prodotto reddito, rimasto sui loro conti (...) Proponiamo che da ora in poi i proventi vengano separati dal capitale». L’iniziativa giunge a ridosso di un vertice domani e venerdì quasi tutto dedicato all’Ucraina. I Ventisette saranno chiamati a fissare l’ammontare degli aiuti da versare a Kiev nel 2024-2027 e a decidere se aprire o meno le trattative di adesione con l’Ucraina e altri Paesi dell’Est. L’Ungheria minaccia di bloccare entrambe le decisioni. Al premier Viktor Orbán non piace né il sostegno a Kiev, né l’idea di una rapida adesione dell’Ucraina alla Ue. Su questo secondo fronte, i dubbi non sono solo ungheresi. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dallo European Council on Foreign Relations, il sostegno all’ingresso dell’Ucraina nella Ue prevale in Danimarca (50%) e in Polonia (47%), mentre le opinioni si dividono in Romania, Germania e Francia. Pur di ammorbidire le posizioni ungheresi Bruxelles dovrebbe a breve scongelare circa 10 miliardi di fondi europei finora bloccati per via della deriva dello Stato di diritto a Budapest. La vicepresidente della Commissione europea Jourová ha spiegato che la questione è «oggetto di valutazione». Ha respinto qualsiasi legame tra lo scongelamento dei fondi e la necessità di avere il benestare di Budapest su due fronti ucraini, gli aiuti economici e l’adesione all’Unione».
MES E NON SOLO, MELONI SI PREPARA ALL’EUROPA
Giorgia Meloni in Aula ieri ha spiegato la posizione dell’Italia in vista di un Consiglio europeo molto importante. Ha attaccato Mario Draghi, “inutili le foto con Macron e Scholz”, per poi precisare che le sue critiche erano rivolte soprattutto al Pd. Durissimo l’affondo sul Mes contro i 5 Stelle, quando dice: Conte l’approvò nelle tenebre. Marco Galluzzo per il Corriere.
«La parte migliore arriva alla fine. In sede di replica. E arriva sul Mes e sulla politica estera. Giorgia Meloni è stata attaccata, interrogata, criticata. Alla fine, quando risponde, pronuncia parole di fuoco contro Giuseppe Conte, l’ex premier che «approvò le modifiche al Mes, senza mandato parlamentare, un giorno dopo essersi dimesso, con il favore delle tenebre...». La premier infiamma il clima di Montecitorio poco prima delle otto di sera, ma non è solo con l’invettiva su Conte. L’hanno accusata anche di non saper fare politica estera, di parlare con Orbán, che blocca i fondi all’Ucraina. E a questo punto Meloni ripete un concetto che ha espresso più volte, ma che in questo caso coinvolge Draghi e le parole appaiono inequivocabili, un affondo: «Mi ha colpito il riferimento al grande gesto da statista di Draghi e la foto in treno verso Kiev con Macron e Scholz. Per alcuni la politica estera è stata farsi foto con Francia e Germania, quando non si portava a casa niente. Ma l’Europa non è a tre, ma a 27, bisogna parlare con tutti, anche con l’Ungheria, questo è fare il mio mestiere». Forse si è espressa male. Forse, suggeriscono le opposizioni, la premier «è nervosa perché circola la candidatura di Draghi a presidente del prossimo Consiglio europeo». Per buoni venti minuti l’interrogativo fa il giro dei Palazzi, a Montecitorio non si parla d’altro. Ma è lei stessa che sente il bisogno di precisare, prima di lasciare la Camera: «Non è stato un attacco a Draghi ma al Pd che come al solito pensa che tutto il lavoro che Draghi ha fatto si riassuma nella fotografia con Francia e Germania. Non è la foto con Macron e Scholz che determina il lavoro di Draghi. Lui non c’entra niente, anzi ho rispettato la sua fermezza di fronte alle difficoltà che aveva nella sua maggioranza. Il suo lavoro non si può risolvere in una fotografia». Insomma è questa per la premier l’interpretazione autentica delle sue parole, il fraintendimento è stato solo un inciampo lessicale, che invece non esiste nel caso di un altro ex premier. Lei stessa dice che è andata a verificare chi e quando ha approvato quelle modifiche al Mes che oggi mettono in imbarazzo l’Italia, unico Paese della Ue ad averle sottoscritte e non ratificate. Meloni ribadisce la sua posizione, la ratifica arriverà solo dopo aver chiuso il nuovo Patto di stabilità («l’unica cosa che non sono disposta a fare è dare il mio assenso a una riforma che nessun governo italiano potrebbe in futuro rispettare»), ma intanto ci sono da mettere in fila alcuni fatti. Ed eccolo l’affondo contro Conte: «Chi ha dato l’assenso italiano a una ratifica che oggi purtroppo impegna anche noi?». La domanda è retorica e la risposta è un affondo contro il M5S: «Lo ha fatto Conte un giorno dopo essersi dimesso, quando era in carica solo per gli affari correnti, dando mandato a un ambasciatore, mandato firmato dall’allora ministro Di Maio, senza che ne avesse il potere, senza dirlo agli italiani, e con il favore delle tenebre. Bisogna spiegarlo agli italiani». Sono questi, su Draghi e su Conte, i due passaggi salienti delle comunicazioni al Parlamento prima del vertice di Bruxelles. Meloni ne ha soprattutto per i Cinque Stelle. L’hanno accusata di austerity, lei ribatte: «È vero, nel senso che abbiamo smesso di buttare i soldi degli italiani dalla finestra». E anche sull’Ucraina non ha eufemismi: «Quella del M5S su Kiev è codardia applicata alla politica». Poco dopo prende la parola lo stesso Giuseppe Conte, ma non replica alle accuse sul Mes, piuttosto accusa Meloni di non fare abbastanza su Gaza. Infine Elly Schlein, ancora sul Mes, «state facendo perdere credibilità all’Italia, non è possibile bloccare tutto il resto d’Europa».
IL TIRA E MOLLA SUL MES È MOLTO ITALIANO
Commento arguto di Luciano Capone per il Foglio: sul Mes, Conte si trasforma in Meloni e Meloni si trasforma in Conte. Cortocircuiti da sballo.
«La situazione sul Mes non è ancora grave, ma di sicuro non è seria. Deve essere surreale, soprattutto nel resto d’Europa, vedere l’ex premier che ha firmato la riforma del Mes non voler votare a favore della sua ratifica ora che è all’opposizione e, dall’altro lato, la premier che quando era all’opposizione si batteva contro la riforma del Mes ormai prossima a chiedere il voto a favore della sua ratifica. Da ormai un anno gli altri 19 paesi dell’Eurozona, che hanno prima firmato e poi ratificato il trattato, assistono a questa poco edificante commedia all’italiana in cui Giuseppe Conte e Giorgia Meloni, così diversi, sono perfettamente uguali e interscambiabili. Uno dei passaggi più surreali di questa vicenda è stato il voto, lo scorso 22 giugno, con cui la commissione Esteri della Camera ha approvato il testo base del disegno di legge di ratifica del nuovo Mes. L’approvazione è passata con i soli voti favorevoli di Pd, Azione e Iv, con la maggioranza che si è data alla latitanza e il M5s all’astensione. Con queste parole coraggiose, tratte dal miglior repertorio di Nino Frassica, Giuseppe Conte annunciava il voto del suo partito: “Ci assumeremo sempre la responsabilità delle nostre posizioni: noi ci asteniamo e aspettiamo il dibattito in aula per chiarire la nostra posizione, che non è una posizione di favore nei confronti del Mes”. Per Conte, quindi, assumersi la responsabilità vuol dire astenersi perché contrario a un accordo che lui stesso ha negoziato e firmato. E prima di apporre la firma a nome dell’Italia, Conte aveva anche chiesto il voto del Parlamento, il 9 dicembre 2020, elogiando l’accordo raggiunto: “La riforma del Mes incorporava l’introduzione del backstop comune al Fondo di risoluzione unico, a partire però dal 2024. Il governo italiano ha agito per ottenere l’introduzione anticipata di tale meccanismo, nel presupposto di rispettare alcuni obiettivi di riduzione del rischio bancario”, disse alla Camera parlando di un “obiettivo cardine per il nostro paese”. A parti invertite è la stessa situazione in cui si trova Giorgia Meloni, che ancora l’1 marzo 2022, cioè pochi mesi prima di insediarsi a Palazzo Chigi, alla Camera descriveva il Mes come un meccanismo “per stringerci ancora il cappio intorno al collo”: “Sulla riforma del Mes annuncio che la nostra opposizione sarà totale!”. Ora, da presidente del Consiglio, Meloni è molto meno categorica e dice che “sul Mes vedo un dibattito molto italiano e molto ideologico”. Che il dibattito sia “molto italiano” è vero, ma nel senso inteso da Stanis La Rochelle in “Boris”: approssimativo e raffazzonato. Più precisamente, è un dibattito che riguarda l’Italia ma se ne parla anche fuori, come può testimoniare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti visto che la ratifica è una delle prima cose che gli viene chiesta a ogni Eurogruppo. Ed è anche vero che il dibattito è “molto ideologico”, ma qui l’ideologia è quella antieuropeista dei partiti italiani e, nello specifico, della destra meloniana e salviniana: se 19 paesi su 20 dell’Eurozona hanno ratificato tranquillamente la riforma del Mes, qual è il paese dove domina l’ideologia? Sono gli altri 19 paesi che fanno del Mes un “totem” o è l’Italia che ne fa un tabù? “Forse bisogna interrogarsi sul perché, in un momento in cui tutti facciamo i salti mortali per reperire le risorse, nessuno voglia attivarlo: questo sarebbe il dibattito da aprire”, dice Meloni. Che, evidentemente, non ha capito a cosa serve il Mes: un’istituzione che fornisce assistenza finanziaria ai paesi dell’Eurozona che si trovano in una situazione di crisi finanziaria che minaccia la stabilità dell’unione monetaria. E’ una fortuna, quindi, che a nessuno serva l’aiuto del Mes. E’ lo stesso principio per cui l’Italia, pur essendo il settimo detentore di quote del Fmi con oltre 15 miliardi di Dps, non chiede una linea di credito. Tra l’altro era questa, il ricorso ai Diritti speciali di prelievo del Fmi al posto del Pnrr, una delle idee di Giorgia Meloni quando era all’opposizione che ha prontamente archiviato una volta arrivata al governo. A Palazzo Chigi Meloni ha copiato da Conte anche lo stratagemma della “logica di pacchetto”, escogitata dall’ex premier a partire dal 2019 per far ingoiare il rospo al M5s. All’epoca Conte legava la firma del Mes a un patto che includeva le garanzie della Bei, il supporto Sure e l’Unione bancaria. Dopo quattro anni, Meloni mette la ratifica del Mes in un “pacchetto” con la riforma del Patto di stabilità in un senso meno rigido, l’Unione bancaria, la presidenza della Bei. Ovviamente non ne ha ricavato quasi nulla, come hanno dimostrato ieri le comunicazioni della premier alla Camera in vista del Consiglio europeo di domani. Non esiste alcuna “logica di pacchetto” a Bruxelles. E’ un espediente molto italiano. Conte e Meloni sono perfettamente uguali: guidano partiti che si sono presentati alle elezioni chiedendo lo smantellamento del Mes e una volta al governo si sono trovati a dover fare il contrario. E così si lanciano in acrobazie politiche per tentare di salvare la propria faccia, rinunciando a salvare la faccia dell’Italia. Anche questo è molto italiano».
SUPERBONUS, FI CHIEDE LA RIAPERTURA
Intanto sulla manovra finanziaria c’è tensione nella maggioranza perché Forza Italia chiede la riapertura del superbonus per chi è già oltre il 70 per cento dei lavori. Scontrandosi col no di Giorgetti e Meloni. Nicola Borzi per Il Fatto.
«Maggioranza e governo vanno in tilt sulla richiesta di Forza Italia di consentire la riapertura sino a fine anno dei termini per la presentazione degli stati avanzamento lavori del Superbonus, ma solo per i condomini con opere completate almeno oltre il 70%. Un problema che, secondo i dati Enea rielaborati dall ’Associazione nazionale costruttori (Ance), a livello nazionale vale oltre 13,4 miliardi. Ovvero il 24,6% dei lavori per oltre 54 miliardi investiti grazie al Superbonus nei condomini, che non è ancora completato e ora rischia il blocco. Lo stallo riguarda oltre 30 mila edifici condominiali che hanno avviato i lavori quest’anno ma che difficilmente riusciranno a completarli entro il 31 dicembre. Da gennaio, a meno di sempre più improbabili proroghe, con le regole attuali l’incen tivo fiscale calerà dall’iniziale 110% o dall’attuale 90% al 70%. Accantonata qualsiasi ipotesi di ripresa a tempo dei cantieri, Forza Italia ha cercato di consentire almeno il passaggio “tecnico” dello sblocco dei Sal, i documenti che attestano ufficialmente il raggiungimento di una determinata quota dei lavori e sanciscono quindi la possibilità di pagare la parte di lavori effettuata. Ma il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha stroncato qualsiasi ipotesi. L’eventuale proroga del Superbonus per i condomini, a parte il costo – non insostenibile – di qualche centinaio di milioni, pone infatti un rischio con l’Unione europea: quello che siano considerati “pagabili” anche eventuali crediti fiscali generati nel 2024 (se i lavori fossero stati consentiti fino afine anno, molti sarebbero arrivati a detrazione nell’anno nuovo) e dunque che la loro imputazione nel bilancio dello Stato facesse sballare le cifre sul deficit già trasmesse a Bruxelles. Un problema, ora che la Ue sta discutendole nuove regole fiscali e l’Italia traccheggia sulla riforma del Patto di Stabilità e sull’approvazione del Mes. Forza Italia ha tentato sino all’ultimo di convincere Giorgetti e Meloni. Sulla proroga del bonus per chi è già “al 70% dei lavori”, il vicepremier e segretario di FI Antonio Tajani ha detto “è una cosa che va fatta, continueremo a parlarne, c’è anche il Milleproroghe”. Ma la premier ha attaccato il superbonus, definendolo “un macigno” sui conti pubblici: “Più del 30% delle decine di miliardi spesi sono finiti a banche e intermediari, che hanno realizzato profitti record. Per non parlare delle frodi clamorose: solo nelle ultime settimane ne sono state scoperte per quasi 1 miliardo. Risorse tolte a sanità, trasporti, famiglie. Qualcuno prima o poi, più che dare consigli agli altri, dovrebbe farei conti con la propria coscienza. Chissà se si vorrà fare luce su questa questione”, ha concluso Meloni. Più che le truffe, però, il problema sono le opere incompiute. Oltre il 30% degli investimenti nei cantieri condominiali del superbonus è da completare in Campania (regione maglia nera: il 34,1% dei 4,5 miliardi investiti va ancora ultimato), Liguria e Lazio. Sull’altro fronte le migliori sono Trentino-Alto Adige (“solo” il 17% dei lavori da terminare su investimenti totali per 1,6 miliardi), Basilicata ed Emilia-Romagna, dove la quota da finire è sotto il 20%. In Lombardia sul superbonus si sono investiti oltre 11 miliardi: qui va completato il 21,2% delle opere per 2,5 miliardi. Ma dallo stop potrebbe sorgere un gigantesco contenzioso tra privati (che rischiano di non avere i soldi per coprire la quota di lavori che da gennaio resterà scoperta dal calo del bonus fiscale, rallentando o bloccando i cantieri), imprese (che hanno anticipato gli investimenti e rischiano di fallire per crisi di liquidità) e governo. Ecco perché Forza Italia pensava a una norma “anti-contenzioso” che avrebbe dato la possibilità di beneficiare nel 2024 del bonus al 70% anche se il condominio non versasse il suo 30%. La presidente dell’Ance, Federica Brancaccio, aveva dichiarato “il Sal straordinario aiuta. Se poi si aggiungesse una brevissima proroga di 2-3 mesi per chiudere la stagione del Superbonus e riaprirne un’altra con regole certe e facendo tesoro anche degli errori del passato, sarebbe ancora meglio”. Confartigianato e Cna erano a favore: “È sicuramente positivo che nel dibattito parlamentare si torni a parlare, pur nella consapevolezza dei noti problemi di bilancio, di proroga del Superbonus condominiale”. Ma resta tutto in alto mare: anche il relatore della manovra al Senato, Dario Damiani (Fi), ha spiegato che qualsiasi ipotesi sul superbonus non dovrà essere onerosa perle casse dello Stato. Il muro fiscale di Giorgetti, per ora, tiene».
AUGUSTO BARBERA NUOVO PRESIDENTE DELLA CORTE
Il nuovo presidente della Corte Costituzionale è Augusto Barbera. È un professore, ma con un passato di impegno politico. La destra avverte: “Staremo in guardia”. Liana Milella per Repubblica
«I primi auguri al “veleno” gli arrivano da Maurizio Gasparri. Un’avvisaglia di guerra quella dell’ex vice presidente forzista del Senato contro Augusto Barbera, il giurista che da ieri guida la Consulta e ha incontrato e scambiato idee con Sergio Mattarella. Un “professorone” che sa tutto di riforme costituzionali, perché sono state il sale della sua vita di studioso a Bologna, ma che ha calcato a lungo anche i banchi della politica da deputato prima del Pci e poi del Pds per ben cinque legislature. Un “migliorista” doc. E questo lo rende pericoloso perché dei giochetti parlamentari sa tutto. Tant’è che lo dimostra nella sua prima conferenza stampa. Un secco richiamo al Parlamento perché nomini subito il giudice costituzionale mancante, tant’è che in 13 hanno eletto Barbera, e mancava solo il suo voto. Ma anche bacchettate sul sistematico abuso di decreti e maxi emendamenti usati a profusione dal governo Meloni. Se tutta la politica, di destra e di sinistra, gli fa gli auguri, Gasparri annuncia che la maggioranza «userà la stessa libertà di espressione di fronte ad alcune sentenze della Corte, più simili a un volantino di propaganda che a un trattato di diritto». La magistratura, dopo gli altolà di Guido Crosetto, era già sotto tiro. Ora tocca alla Consulta. Ma Barbera, per gli 85 anni che ha vissuto tra politica e giustizia, nominato da Giorgio Napolitano tra i saggi che dovevano rivedere la Costituzione, ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Ciampi pronto a dimettersi dopo il no delle Camere all’autorizzazione a procedere per Craxi, appare ben attrezzato per difendere se stesso, la Corte e la Carta. Il la glielo dà Franco Modugno, il giudice di qualche mese più anziano che invia ai colleghi una lettera d’investitura in cui dimostra che Barbera, per studi e progetti sulla Costituzione, è “il migliore di tutti noi”. Che farà Barbera nel suo anno di presidenza mentre incombe la riforma del premierato? Ecco il richiamo a eleggere «quanto prima » il giudice mancante. Una Corte che «nessuno può occupare perché con le regole vigenti ciò non può succedere». Ed eccoci alla bacchettata sull’abuso dei decreti e dei maxi emendamenti. «La richiesta del voto di fiducia è espressione di una debolezza della maggioranza. I maxi emendamenti sono obbrobriosi perché raccolgono istanze, interessi e progettini che i parlamentari non riescono nemmeno a conoscere e su cui si chiede la fiducia. Tutto questo crea problemi e la Corte non può che essere preoccupata da quest’alterazione. Stiamo attenti a non trasformare espressioni di debolezza dei governi in espressioni di prevaricazione ». Parole durissime che poi Barbera, preso quasi dallo scrupolo di aver esagerato, cerca di attenuare, «ho detto solo che ci si può ricorrere, ma dando più spazio ai parlamentari». Ma arriva la nuova rampogna, «il mio è un invito a considerare voti di fiducia e maxi emendamenti come anomalie costituzionali». Il suo giudizio critico non cambia. E lo si ritrova in un suo libro appena ristampato in cui scrive che “alcune di queste prassi - Dpcm, decreti, fiducia, maxi-emendamenti – sono in netto contrasto con la Costituzione del 1948”, ma soprattutto sono “un’espressione di debolezza, e non di forza, del Primo ministro”. Pur espertissimo regionalista sull’autonomia differenziata si trincera dietro un «io non ho un parere », salvo aggiungere che «sia un buon sistema o un sistema da rifiutare è scelta della politica. E anche del corpo elettorale se non dovesse raggiungere la maggioranza dei due terzi». Eccoli i due terzi che tornano. Sono un messaggio alla politica. Perché le buone riforme non faticano con i numeri come quelle cattive che incappano nei referendum. Quelli di cui Barbera è un grande esperto».
ELON MUSK È IL MISTER X DI ATREJU
La kermesse di Fratelli d’Italia comincia da domani a Roma a Castel Sant’Angelo. Elon Musk è il superospite straniero (come si direbbe a Sanremo) di questa edizione di Atreju. Il tycoon del populismo globale scala anche il Pantheon di Meloni.
«Mister X quindi era Elon Musk. Sabato ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, ci sarà anche l’uomo più ricco del mondo. Nello stesso giorno di Luciano Spalletti ct. Mondo mediatico in subbuglio. Castel Sant’Angelo caput mundi da giovedì a domenica nel nome di «Giorgia». Un tempo queste attenzioni erano riservate alla sinistra, che invece, venerdì mattina, si ritroverà all’ex Mattatoio di Testaccio per l’ennesima operazione nostalgia: la mostra su Enrico Berlinguer voluta da Ugo Sposetti, che radunerà Massimo, Walter, Pierluigi, Elly. Ora impera l’egemonia culturale della destra. Ma non divaghiamo, per carità. Nel presentare il programma, l’altro pomeriggio in via della Scrofa, Giovanni Donzelli aveva lasciato una casella da riempire. Il fantaospite (Sunak? Zelensky? von der Leyen?) è durato ventiquattro ore. Arriva Musk. Il patron di X, già Twitter, l’ha confermato sul suo social di persona personalmente a un utente che gliene chiedeva conferma. «Uno che fuma le canne, vende auto elettriche, ha fatto una figlia con la gestione per altri», ha fatto notare Dagospia. Non esattamente il profilo dell’ideale meloniano. Già quando Musk (il magnate giunse con la Tesla bianca coi vetri oscurati) e Meloni s’incontrarono a palazzo Chigi, novanta minuti di colloquio lo scorso 15 giugno, Alessandro Zan e Riccardo Magi glielo fecero notare: «Lo sa che Fratelli d’Italia ha proposto una legge che renderebbe la maternità surrogata un reato universale?». Meloni tacque. È il nuovo potere selettivo. Feroci con gli avversari, indulgenti con i nuovi amici, specie se Paperon de’ Paperoni. Lui va bene, Soros no. Ora Musk è Musk, il miliardario della Tesla. Un estremista bizzarro che sfugge alle etichette, figlio di questo pazzo mondo digitale. Basti pensare che voleva sfidare a duello Zuckerberg al Colosseo. «Se vojono menà », disse con mirabile sintesi a Repubblica il vignettista Makkox. Sic itur ad astra, così si sale alle stelle, si sono autoelogiati nella pagina Instagram di Atreju per il suo ingaggio. E infatti Musk e Meloni hanno più cose in comune di quante li dividano. Rappresentano la destra del tempo presente. «Penso che in Europa ci sia un accumularsi eccessivo di regole e leggi, penso che eliminarne qualcuna sia una questione logica », è una frase pronunciata dal nostro durante l’ultima visita in Italia. Musica per palazzo Chigi dove vogliono togliere i lacciuoli che imbrigliano la premier, derubricando il Quirinale a passacarte. Anche l’esortazione a fare figli, «altrimenti l’Italia scomparirà», sembra uscita dal manuale del perfetto meloniano. Musk ha anche detto: «Non penso che l’immigrazione possa risolvere i problemi del mondo solo perché qualcuno fa figli ». Sono frasi che qui da noi pronuncia Francesco Lollobrigida. E pure sul cambiamento climatico invita ad andarci cauto. Insomma, parla la stessa lingua di tanti nostri ultraconservatori. Ha pure restituito l’account a Trump ed altri bei fascistoni. E quando, ovviamente su X, Meloni ha annunciato la separazione dal compagno Andrea Giambruno tra i mi piace c’era anche quello del suo proprietario. Da Londra è dato peraltro in arrivo anche il premier britannico Rishi Sunak. E domenica ci sarà anche Santiago Abascal, il leader di Vox, amico di Meloni, che ha invocato una piazzale Loreto per il premier spagnolo Sanchez. Il servizio che il Tg1 ha dedicato ad Atreju ha ignorato le polemiche che ne sono sorte. Il responsabile informazione del partito, Sandro Ruotolo, ha accusato la Rai di fare «uno spottone» a Meloni e di «confondere la propaganda con l’informazione» raggiungendo ormai «un punto di non ritorno». La verità è che Atreju, a dispetto della «voglia di confrontarsi con chi non la pensa come noi» propagandata da Donzelli, è la grande fiera del sovranismo mondiale. E pazienza se il Tg1 fischietta».
SUICIDIO ASSISTITO. DALLA ASL
Suicidio assistito dalla Asl: accade la prima volta a Trieste. Dove viene applicata una sentenza della Consulta ad una donna affetta da sclerosi multipla. I requisiti fissati sono la malattia irreversibile, la decisione consapevole e la dipendenza da terzi. Francesco Moscatelli per La Stampa.
«Per schiacciare il pulsante che ha dato il via alla somministrazione del farmaco che le ha tolto la vita Anna ha usato le poche forze che le erano rimaste nella mano destra, l'unico arto che ancora riusciva a muovere dopo tredici anni di convivenza con la sclerosi multipla secondariamente progressiva. Anna, il nome è di fantasia per rispettare le ultime volontà di questa donna di 55 anni, ha fatto ricorso al suicidio assistito il 28 novembre nella sua casa di Trieste, circondata dai suoi famigliari. Questo nome di fantasia, però, entrerà nella storia della battaglia sul fine vita del Friuli Venezia Giulia e di tutta l'Italia perché, per la prima volta, l'aiuto alla morte volontaria si è svolto con l'assistenza completa del Servizio sanitario nazionale. Un'assistenza per la quale Anna ha lottato per mesi. Nel novembre del 2022 la donna ha fatto richiesta all'Asugi, l'azienda sanitaria locale, per essere sottoposta a tutte le verifiche del caso, così come previsto dalla sentenza "Cappato/Antoniani" della Corte costituzionale che, in assenza di una legge nazionale, nel 2019 ha legalizzato la procedura di suicidio assistito se le persone che la richiedono soddisfano alcuni requisiti fondamentali (capacità di autodeterminarsi, presenza di una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute insopportabili e la dipendenza da trattamenti di assistenza vitale). Poi, in assenza di risposte, Anna ha chiesto un procedimento d'urgenza al tribunale civile di Trieste e ha presentato un esposto ai carabinieri affinché verificassero eventuali omissioni da parte del sistema sanitario. In entrambi i casi ha voluto esserci di persona. Perché qualcosa si muovesse, però, ha dovuto attendere ancora. «Il 4 luglio di quest'anno il giudice ha condannato l'azienda sanitaria ad applicare la sentenza della Consulta stabilendo che ogni giorno di ritardo oltre i 30 giorni avrebbe dovuto corrispondere ad Anna un risarcimento di 500 euro» spiega Filomena Gallo, avvocato della donna insieme a un team legale e presidente dell'associazione Luca Coscioni. «Dopo la condanna ha avviato la procedura per verificare le condizioni della paziente e ha riconosciuto che rispondeva a tutti i requisiti perché, oltre a essere completamente dipendente da terzi, di notte aveva bisogno di una maschera C-pap per respirare». A quel punto c'è stato un altro passaggio fondamentale, ovvero il parere favorevole del comitato etico territoriale. Il tribunale, inoltre, ha stabilito che per applicare fino in fondo la decisione maturata dalla Suprema Corte dopo la vicenda di "Dj Fabo" Antoniani sarebbe stato necessario seguire Anna anche nelle fasi successive. E così, quando la donna ha fatto richiesta, le sono stati forniti il farmaco, il macchinario per la somministrazione e un medico che, su base volontaria, ha monitorato l'intera procedura. Non era mai successo. Federico Carboni nelle Marche e la signora Gloria in Veneto, le altre due persone che hanno avuto il via libera per la morte volontaria assistita con il supporto dell'associazione Coscioni, infatti, sono stati assistiti non da personale pubblico ma da un medico di fiducia, il dottor Mario Riccio, che è stato anche anestesista di Piergiorgio Welby. Mentre il veneto Stefano Gheller e il signor Antonio, anche lui marchigiano, dopo aver ricevuto l'ok dai rispettivi comitati etici, possono ora scegliere se e quando confermare le loro volontà».
Sul caso Gian Guido Vecchi per il Corriere della Sera ha intervistato il vescovo di Trieste Enrico Trevisi.
Che cosa si può dire, eccellenza?
«Guardi, appena ho saputo della morte della signora Anna, mi è venuto subito da fermarmi a pregare. Noi non conosciamo quello che aveva nel cuore, la sua sofferenza, la speranza. Solo Dio lo sa. E noi la affidiamo nella preghiera al Signore, come affidiamo tutti i defunti e i malati…».
Monsignor Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, parla con un filo di voce, e non è solo il raffreddamento di stagione.Poco meno di due mesi fa ha firmato con gli altri vescovi del Triveneto un documento contrario al suicidio assistito, nel quale si diceva che «primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte». Questa è e resta la posizione della Chiesa, eppure sembra passato un secolo dalle polemiche che accompagnarono i casi, pure diversi, di Eluana Englaro o Piergiorgio Welby. Teologo morale con dottorato alla Gregoriana, autore di libri come «Coscienza e libertà», il vescovo Trevisi parla a fatica. «Di fronte al mistero della morte, è il momento del raccoglimento e non delle discussioni».
Ha avuto modo di conoscere Anna?
«Purtroppo no. E comunque noi non esprimiamo giudizi sulla persona, mai. Questo appartiene a Dio. Come sacerdote e vescovo, incoraggio tutti a dare una carezza a chi soffre, a chi sta male ed è vulnerabile, disperato».
Come vescovi del Triveneto, avete firmato un testo contro il suicidio assistito, qual è la vostra preoccupazione?
«La domanda di fondo è se stiamo facendo abbastanza per le persone malate o con gravi disabilità, magari sole. Non voglio incolpare nessuno, non è questo il punto. Ma mi domando se, come Chiesa e comunità civile, ci stiamo davvero impegnando ad accompagnare i malati gravi, stare loro accanto e assisterli anche con le cure palliative, a fare in modo che non avvertano sé stessi come un peso o un costo economico, né arrivino a sentirsi uno scarto o a considerare la vita un peso insopportabile».
La Chiesa è contraria sia all’eutanasia e al suicidio assistito sia all’accanimento terapeutico, ma il progresso tecnologico tende a sfumare i confini. Anni fa, il filosofo cattolico Giovanni Reale disse al «Corriere»: Dio non ci chiede di restare ostaggio di una macchina.
«Gli sviluppi della medicina e della scienze portano davvero questioni nuove, per le quali servono ulteriori riflessioni. Non si tratta di prolungare la vita a tutti i costi o imporre cure. Ma questo non ha nulla a che vedere con soluzioni semplicistiche che presentano il suicidio assistito come un “progresso”. Questi problemi non si risolvono con gli slogan».
E allora come si fa?
«Nel testo che abbiamo scritto, si parla anche di creare degli spazi di dialogo e di riflessione, fuori dalle polemiche e dalle rivendicazioni della vita come proprietà privata».
Non lo è, in fondo?
«Ci sono tante cose che non abbiamo deciso della nostra vita, ad esempio dove e in che epoca nascere, i cromosomi… Siamo davvero sicuri che una vita che non ho scelto e mi è stata data sia semplicemente un oggetto come tutti gli altri, e non custodisca invece un mistero da decifrare che ne racchiude il senso?».
Resta il fatto che molti malati dicono: non ce la faccio più, il dolore è insopportabile.
«Dobbiamo assumerci la fatica di indagare questi anfratti oscuri della vita, ma anche chiederci: siamo da soli o possiamo aiutarci?».
“PATTO SOCIALE CONTRO LA POVERTÀ”
Alleanza contro la povertà rilancia il confronto dopo la cancellazione del Reddito di cittadinanza e l’introduzione dell’Assegno di inclusione. «Va recuperato il carattere universale delle tutele e allargata la platea dei beneficiari. Ecco 8 proposte concrete di modifica». Francesco Riccardi per Avvenire.
«La proposta di un nuovo Patto sociale per il contrasto alla povertà e di otto modifiche concrete per migliorare l’Assegno di inclusione, il nuovo strumento introdotto dal governo Meloni dopo aver cancellato il Reddito di cittadinanza. L’Alleanza contro la povertà – Acp, il cartello di 35 associazioni sociali, nato a partire da Caritas e Acli – compie 10 anni e rilancia così il suo impegno a favore delle persone in condizione di bisogno. In questo decennio, infatti, l’Acp ha svolto un ruolo di rappresentanza delle istanze degli ultimi, declinato non solo in chiave culturale ma anche di elaborazione normativa e di stimolo alla politica, che intende confermare e proiettare nel nuovo scenario sociale e politico. Il difetto originario e fondamentale del nuovo Assegno di inclusione varato con il decreto del Primo maggio scorso è l’abbandono del principio di “universalità selettiva” che aveva caratterizzato il Rei prima e il Reddito di cittadinanza poi. Tornando, dopo decenni, a interventi anti-povertà solo di carattere “categoriale” e con un’arbitraria suddivisione dei bisognosi in “occupabili” e “non occupabili”, basata sui carichi familiari. Con la conseguenza pratica di escludere la quasi totalità dei singoli e di ridurre in maniera significativa la platea generale dei beneficiari, rispetto a quanto previsto dal Rdc. Addirittura dimezzandola secondo le stime dell’Acp. Proprio in una fase in cui la povertà va crescendo – colpisce il 9,7% della popolazione, 5,6 milioni di persone - e si diffonde in diverse fasce sociali, comprese le persone che lavorano. Per tamponare queste falle e allargare il più possibile l’ombrello della protezione sociale, quindi, le otto proposte di Alleanza contro la povertà prevedono: 1) la reintroduzione della soglia reddituale di accesso differenziata per coloro che hanno una casa in affitto a 9.360 euro; 2) di allentare ulteriormente il vincolo di residenza in Italia per gli stranieri da 5 a 2 anni (era 10 anni nel Rdc); 3) rivedere la scala di equivalenza, reintroducendo un “peso” dello 0,25 per i maggiorenni senza carichi di famiglia oggi esclusi dal calcolo della misura; 4) l’indicizzazione della soglia reddituale e del sostegno all’affitto per evitare che l’inflazione annulli i sostegni; 5) ridefinire l’”offerta congrua” di lavoro perché sia vincolata all’effettivo grado di occupabilità del soggetto e, come si prevede per la Naspi, non riguardi, senza vincoli o eccezioni, l’intera Italia; 6) migliorare ulteriormente la cumulabilità tra Adi e redditi da lavoro (i cosiddetti in-work benefit per evitare la trappola della povertà); 7) dotare i Comuni di maggiori risorse umane e finanziarie per i servizi di “presa in carico” e, infine, 8) garantire la volontarietà della partecipazione ai Puc, i progetti utili alla collettività che devono essere intesi come percorsi di inclusione, crescita e valorizzazione delle competenze, non come interventi compensatori o peggio punitivi per chi riceve un sussidio pubblico. Nell’analisi dell’Alleanza contro la povertà sull’Adi manca la valorizzazione degli effetti dell’Assegno unico per le famiglie con figli, ma – al di là dei possibili aggiustamenti tecnici – rimane il nodo fondamentale della natura non più universalistica degli strumenti di contrasto alla povertà, che hanno riportato l’Italia ad essere l’unico Paese in Europa a non avere nel proprio ordinamento una legge in grado di offrire tutele e sussidi a tutte le persone in condizione di bisogno. Un tema centrale, questo, nel convegno per il decennale organizzato ieri a Roma. Sottolineato anzitutto dal presidente delle Acli Emiliano Manfredonia e da quello della Caritas, l’arcivescovo di Gorizia Carlo Roberto Maria Redaelli, che hanno richiamato l’attenzione sul diffondersi «dell’idea di povertà come colpa degli stessi poveri». Concetto ripreso da Cristiano Gori - docente all’Università di Trento e primo “federatore” delle associazioni - che ha parlato della necessità di una «nuova narrazione della povertà», oltre che di un aggiornamento in chiave 2.0 della proposta del Reis da riproporre nel confronto con le forze politiche». Oggi, infatti, a fronte di una politica poco propensa al confronto con i corpi sociali, che si ritiene autosufficiente, occorre a maggior ragione rafforzare il ruolo di rappresentanza, elaborazione e proposta di un soggetto sussidiario come l’Alleanza contro la povertà. Per «cercare di costruire un nuovo Patto sociale sulle povertà, al di là delle ideologie, che sia capace di travalicare le legislature, evitando interventi e riforme che si succedono ogni due anni», come ha sostenuto con forza il portavoce dell’Alleanza contro la povertà, Antonio Russo. Per il governo era presente al convegno la sottosegretaria al Mef Sandra Savino (Fi) che si è detta consapevole dell’emergenza povertà e ha invitato l’Acp a un incontro al ministero. Un segnale di attenzione che Russo ha raccolto ribadendo gli obiettivi per il futuro: dal recupero dell’universalità dei sostegni all’inclusione nelle tutele degli stranieri residenti oggi esclusi; dall’istituzione di un osservatorio sulla povertà alla de-ideologizzazione della questione povertà; dal recepimento in legge di bilancio degli emendamenti proposti a un maggiore legame con le politiche europee. Una strada certamente lunga e difficile, ma sulla quale non si può non incamminarsi se davvero si vuole tutelare i poveri».
FEDEZ E DAVIGO DIALOGO SENZA PIETÀ
Editoriale di Mario Sechi per Libero che stigmatizza un dialogo fra Fedez e l’ex Gip di Mani Pulite Piercamillo Davigo. In esso l’ex magistrato dice che i suicidi spiacciono perché si sono persi potenziali collaboratori.
«Nella Repubblica del cazzeggio succede di tutto, anche di ascoltare (e vedere) Fedez che intervista Piercamillo Davigo. Un cantante rap che si addentra nella giungla del diritto con il magistrato (in pensione) che più di ogni altro quando parla fa ancora tintinnar le manette. Il duetto è stato da brividi, il picco è arrivato quando Fedez ha chiesto a Davigo come aveva vissuto «umamente» i suicidi in carcere, roba grossa, così parte un ragionamento sui numeri, le percentuali, un calcolo ragionieristico sui suicidi, asettico, privo di pathos, un robot con le cuffie. Ma a volte ritornano e con uno scatto dall’oltretomba entra in scena la vecchia toga inquisitrice: «Lo so che è una cosa spiacevole quella che sto per dire, ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono». La gola di Fedez s’asciuga a presa rapida, scartavetra un «questo mi è chiarissimo», dalle labbra del rapper parte una raffica di «però magari», «cioè», «non lo so», «cioè», fino ad approdare alla «figura di Gardini», «cioè», «che ha fatto cose pazzesche», ma un «po’ di dispiacere... non sto dicendo...». Il balbettìo del marito della Ferragni è da Scala Mercalli, Davigo irrompe con un «ma certo che dispiace!». L’ascoltatore pensa che abbia ormai recuperato l’assetto in curva, ma Davigo accelera in uscita e finisce in testacoda quando afferma con nonchalance che il cruccio è grande perché «lo perdi come fonte possibile di informazione». Cosa? Fonte? Un essere umano che si toglie la vita in carcere? Lo studio viene congelato da un vento siberiano. Davigo è un galeone in mezzo al mare che mostra il fianco ai cannoni della nave corsara, è un bersaglio facile, un giornalista può ricordargli i 41 suicidi di Mani Pulite, le centinaia di innocenti incarcerati, incalzarlo e metterne a nudo il cuore di ferro, ma Fedez cronista non è, abbozza solo un’esclamazione che è un assist: «Ma non l’avete, cazzo, un po’ di dispiacere!». Davigo recupera il controllo del suo bastimento pieno di galeotti: «La pietà umana c’è lo stesso, ma bisogna tenere la barra del timone ferma eh». Perbacco, Fedez, stiamo navigando nell’oceano dei presunti colpevoli, come fai a dimenticare il timone, la chiave della cella».
LA CHIESA CHIARISCE LE REGOLE PER LE CENERI DEI DEFUNTI
Il Dicastero della dottrina della fede ha risposto a due quesiti sollevati circa le norme per la conservazione delle ceneri dei defunti. Il cardinale Victor Manuel Fernandez sottolinea che «vanno tenute preferibilmente in un luogo sacro». Apertura sulla possibilità di «conservazione cumulativa commista» dei resti dei defunti cremati. Enrico Lenzi per Avvenire.
«Nessuna dispersione delle ceneri, ma conservazione, preferibilmente, presso un luogo sacro. È una delle risposte che il Dicastero della dottrina della fede ha dato in una nota dopo la presentazione nell’ottobre scorso di una lettera di chiarimento da parte dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi. Due quesiti che nascono dalla constatazione dell’aumento del ricorso alla cremazione dei defunti soprattutto nelle grandi città. Un aumento dettato spesso anche da motivazioni economiche (i costi complessivi potrebbero essere più bassi rispetto all’inumazione del defunto), ma anche dal crescente desiderio dei parenti di disperdere le ceneri del proprio caro in luoghi per lui significativi, a volte su espressa richiesta del defunto stesso. La nota ribadisce con chiarezza quanto previsto al numero 5 dell’Istruzione “ Ad resurgendum cum Christo”, che le ceneri vanno conservate in apposite urne e conservate in un luogo sacro (il cimitero, per intenderci), o in un’area «appositamente dedicata allo scopo, a condizione che sia stata adibita a ciò dall’autorità ecclesiastica». In realtà la legge civile italiana consente la conservazione delle ceneri anche presso la propria abitazione o in un luogo debitamente segnalato. La Chiesa spiega, invece, che la «conservazione delle ceneri in un luogo sacro può contribuire a ridurre il rischio di sottrarre i defunti alla preghiera e al ricordo dei parenti e della comunità cristiana. In tal modo, inoltre, si evita la possibilità di dimenticanze e mancanze d rispetto che possono avvenire soprattutto una volta passata la prima generazione dei parenti». Il quesito del cardinale Zuppi aggiungeva la richiesta di chiarificazioni sulla possibilità eventuale di «conservazione cumulativa commista delle ceneri», conservandone comunque i dati anagrafici dei defunti stessi. Uno scenario che potrebbe verificarsi allo scadere delle concessioni cimiteriali per la conservazione delle ceneri e l’eventuale assenza di parenti che ne chiedano la conservazione. In questo caso la nota firmata dal prefetto del Dicastero della dottrina della fede, il cardinale Victor Manuel Fernandez, precisa che «è possibile predisporre un luogo sacro, definito e permanente per l’accumulo commisto e la conservazione delle ceneri dei battezzati defunti, indicando per ciascuno i dati anagrafici per non disperderne la memoria nominale». Al di là dell’indicazione canonica restano comunque le leggi dello Stato, che in Italia, ad esempio, vieta la possibilità di unire le ceneri di diversi defunti ipotizzando il reato di vilipendio di cadavere (che è esteso anche alle ceneri stesse). Insomma il Dicastero ha voluto offrire «punto di vista teologico» alla questione. Il secondo quesito posto dall’arcivescovo di Bologna riguardava la possibilità per la famiglia di trattenere in un luogo significativo una parte delle ceneri del proprio defunto. Su questo punto la nota (approvata da papa Francesco lo scorso 9 dicembre), ribadendo la conservazione delle ceneri in un luogo sacro, sottolinea che «l’autorità ecclesiastica, nel rispetto delle vigenti norme civili, può prendere in considerazione e valutare la richiesta da parte di una famiglia di conservare debitamente una minima parte delle ceneri di un loro congiunto in un luogo significativo per la storia del defunto». Anche in questo caso occorre verificare le leggi dello Stato consentono questo atto».
SUNAK LA SPUNTA: PASSA IL PIANO RUANDA
Alla fine il premier inglese Rishi Sunak riesce faticosamente a portare avanti in parlamento il piano di trasferimento dei migranti in Ruanda. Leonardo Clausi per il Manifesto.
«Un richiedente asilo è morto sulla Bibby Stockholm, la galera senza remi ormeggiata in Dorset di cui il governo Sunak è «armatore». Si sarebbe tolto la vita ieri, probabilmente per le condizioni dis-umanitarie che devono sopportare a bordo gli oltre duecentocinquanta migranti ivi confinati dall’ottobre scorso, secondo la politica di deterrenza agli sbarchi sbandierata dallo slogan stop the boats, zattera elettorale di un governo in alto mare. È soltanto il terzo suicidio - stavolta riuscito - da parte di rifugiati destinati alla chiatta totalitaria: altri due ci avevano provato, fortunatamente senza successo, mesi addietro, una volta appreso che la loro odissea si sarebbe conclusa lì. La tattica del confino galleggiante dei migranti in attesa di ricevere un responso alla propria richiesta di asilo in Gran Bretagna è fallimentare, oltre che disumana. Vi erano stati tradotti già lo scorso agosto e poi immediatamente fatti evacuare: c’era un batterio nell’acqua potabile. Vi sono stati fatti risalire a ottobre. Il ministero dell’Interno, occupato al momento da James Cleverly - che ha sostituito la defenestrata Suella Braverman solo giorni fa nella gig politics di un partito conservatore affetto da autofagia - ha annunciato l’apertura di un’inchiesta. La notizia arrivava proprio nel giorno più lungo per Rishi Sunak e il suo altrettanto sgangherato e crudele piano per l’esternalizzazione dei migranti «clandestini» in Ruanda, un piano che sono in pochi a volere nel suo stesso partito e dalla cui sorte dipendeva - nonostante non fosse un voto di fiducia - la sua leadership. E ieri sera, ai Comuni, dopo un dibattito di oltre cinque ore lo si è votato in seconda lettura, frettolosamente rimaneggiato per convincere i riottosi della destra Tory - che lo consideravano troppo debole e succube della Corte europea dei diritti umani - e dei centristi, per i quali costituirebbe invece l’ultimo strappo fatale con l’Europa da loro aborrito. Alla fine Sunak se l’è cavata per 44 voti, 313 sì contro 269 no. Ora la legge attraverserà altri dibattiti ed emendamenti prima del voto dopo la terza lettura l’anno prossimo. Meglio, certo, di un’umiliante sconfitta, ma non esattamente quello che il governo voleva: la legge era considerata «emergenziale» e sarebbe dovuta passare ben più rapidamente se non fosse stato per la scarsa tenuta del potere di Sunak sul suo partito. Per tacere dal successivo passaggio ai Lord, dove c’è da aspettarsi altri ostacoli».
GERMANIA, MERKEL ESCE DALLA FONDAZIONE ADENAUER
Angela Merkel e l’eredità tradita. Il suo partito, la CDU, si è spostato a destra sui migranti, rinnegando le politiche di anni. Sposando il modello Ruanda o Albania. L’ex cancelliera abbandona la fondazione Adenauer e prepara le sue memorie. Mara Gergolet per il Corriere.
«È gelo tra Angela Merkel e il suo partito, la Cdu. Di più, un importante politico conservatore, che resta anonimo, dice allo Spiegel che si tratta di un’«era glaciale», perfino di una «rottura». L’ex cancelliera è uscita dalla fondazione del partito, la Konrad Adenauer Stiftung (KAS). Il think-tank è uno dei più prestigiosi d’Europa, il braccio «intellettuale» della Cdu: una conclave di politici e personalità vicine ai conservatori che finanzia ricerche e ha relazioni in tutta Europa. Solo 55 membri siedono nel board, spesso a vita: e perché uno nuovo entri, nelle elezioni ogni 3 anni, un posto deve restare vacante. Quello di Merkel sarà occupato dal suo successore — e avversario interno nella Cdu —, il presidente Friedrich Merz. È stata l’ex cancelliera a volersene andare. Norbert Lammert, il presidente della KAS, le ha chiesto un incontro per provare a convincerla a restare. Ma Merkel è stata irremovibile e avrebbe risposto a Lammert che «è ormai cresciuta oltre quel ruolo». Così come ha rifiutato il semplice titolo di «amica» della fondazione. Una decisione, secondo Merkel, coerente con le sue affermazioni pubbliche di voler chiudere con la politica attiva per di dedicarsi ad altro. A cosa? «Dormire un po’ e poi vedere cosa mi interessa davvero», rispose quando alla Johns Hopkins a Washington le conferirono la laurea honoris causa. Ma questo taglio netto di Merkel, l’addio anche alla Konrad Adenuauer Stiftung — definito un «club di studenti merkeliani» per tutti gli amici che aveva fatto entrare nel board — ha irritato i conservatori, che le danno dell’ingrata. Lei intanto sta scrivendo, insieme alla fidata e silenziosa segretaria Beate Baumann, le memorie che saranno pubblicate l’anno prossimo in autunno. Risponderà, o meglio darà la sua versione su tante scelte dei suoi anni? Cosa si è rotto tra Merkel e la Cdu non è dato sapere. Nulla è trapelato in pubblico. Quanto contino le elezioni perse a sorpresa due anni fa, quando Merkel appoggiò Armin Laschet come candidato-cancelliere contro l’ala dura di Merz, una scelta che si è rivelata disastrosa e ha portato al governo la Spd, si può solo immaginare. Quanto sono forti gli odi e i rancori personali? Certo, non si può non pensare a un partito che divora e rinnega i suoi leader. Difficile che un pensiero non corra a Helmut Kohl, ripudiato o meglio ucciso alle spalle nella tormentata vicenda dei fondi neri della Cdu alla fine degli anni Novanta. E non si può non ricordare che fu proprio Angela Merkel, «la Ragazza» protetta dal cancelliere, che gli diede la pugnalata finale quando per prima, con una lettera a un giornale, disse che per il bene della Cdu Helmut Kohl se ne doveva andare. Destini che si rincorrono e ripetono? Solo che stavolta è Merkel a chiudere la porta. La Cdu di oggi è lontana da quella sua. In una bozza programmatica appena uscita, gli uomini di Merz hanno ribaltato l’eredità di Merkel. Ne esce un partito più di destra, identitario: come era prima di lei. Soprattutto sull’immigrazione c’è una svolta a U. Il testo apre ai centri per selezionare i rifugiati in Paesi terzi, fuori dalla Ue, mentre «una coalizione di volenterosi» si farà poi carico di accogliere in Europa quelli che ne hanno i requisiti. Modello Albania, o modello Ruanda. Sulla stampa conservatrice compaiono editoriali che dicono che Merkel ha danneggiato la Cdu, svuotandola di idee e contenuti. Che cosa ci facesse, e perché, Merkel in quel partito era una domanda che l’ha accompagnata spesso nell’ultima fase. Qualcosa forse ci dirà la sua biografia, se ci permetterà di vedere un po’ di più nella sua lunghissima ed enigmatica leadership».
IL VOLTO METICCIO DELLA MADONNA DI GUADALUPE
In San Pietro ieri la Messa in onore della Madonna di Guadalupe, venerata nell’America Latina e in tutto il mondo. Nell’omelia papa Francesco ha esortato a «profumare la nostra fragile realtà con opere di bene, crescendo in virtù ed eliminando odio e timori». La cronaca di Gianni Cardinale per Avvenire.
«Il Messaggio della Beata Vergine di Guadalupe «ci difende da tante ideologie sociali e politiche con le quali con tanta frequenza si usa questa realtà guadalupana per fondarsi, giustificarsi e guadagnare denaro». Ma il messaggio guadalupano «non tollera ideologie di nessun genere». Con queste parole papa Francesco ha terminato la breve e intensa omelia pronunciata, in spagnolo, per la celebrazione eucaristica presieduta ieri pomeriggio nella Basilica di San Pietro in occasione della festa liturgica della patrona del Continente americano. «La prima cosa che ci viene in mente - ha esordito il Pontefice - è l’immagine della Vergine impressa sulla tilma », il mantello del giovane indio san Juan Diego a cui apparve nel 1531. La Vergine, ha ricordato Francesco, «chiede a Juan Diego un piccolo lavoro, raccogliere dei fiori». E « i fiori, nella mistica, rappresentano le virtù che il Signore infonde nel cuore, non sono opera nostra ». Così l’atto di raccoglierli «ci rivela che Dio vuole che accogliamo questo dono, che profumiamo la nostra fragile realtà con opere di bene, crescendo nella virtù ed eliminando odio e timori ». Secondo il Pontefice guardando «nel messaggio di Guadalupe le parole della Vergine: “Non sono qui con te, io che sono tua Madre?” acquistano un nuovo significato». Questo “esserci” della Vergine vuol dire «rimanere permanentemente impressa in quei poveri abiti, profumati da virtù raccolte in un mondo che sembra incapace di produrle». Virtù «che riempiono la nostra povertà nella semplicità di piccoli gesti di amore, che illuminano la nostra tilma, senza che ce ne rendiamo conto, con l’immagine di una Chiesa che porta Cristo nel suo grembo». «Celebrare Maria è celebrare la vicinanza e la tenerezza di Dio che incontra il suo popolo, che non ci lascia soli, che ci ha dato una Madre che si prende cura di noi e ci accompagna». Ha scritto il Papa in mattinata con un post sull’account @Pontifex, rilanciando l’hashtag #MadonnadiGuadalupe. Papa Francesco ha iniziato nel 2014 la tradizione di presiedere la Messa in San Pietro in occasione di questa festa mariana per il continente americano. In un Messaggio all’America per la festa del 2013 il Pontefice ha ricordato che quando apparve a san Juan Diego il volto di Maria «era quello di una donna meticcia e le sue vesti erano piene di simboli della cultura indigena». Infatti «seguendo l’esempio di Gesù, Maria sta accanto ai suoi figli, accompagna come madre premurosa il loro cammino, condivide le gioie e le speranze, le sofferenze e le angosce del Popolo di Dio, del quale sono chiamati a far parte tutti i popoli della terra». Così «l’apparizione dell’immagine della Vergine sulla tilma di Juan Diego fu un segno profetico di un abbraccio, l’abbraccio di Maria a tutti gli abitanti delle vaste terre americane, a quanti erano già lì e a quanti sarebbero arrivati in seguito». Questo abbraccio di Maria, sottolinea Francesco, «indicò il cammino che sempre ha caratterizzato l’America: essere una terra dove possono convivere popoli diversi, una terra capace di rispettare la vita umana in tutte le sue fasi, dal grembo materno fino alla vecchiaia, capace di accogliere gli emigranti, come pure i popoli e i poveri e gli emarginati di tutte le epoche». Ecco quindi che l’America «è una terra generosa». Di qui l’incoraggiamento a tutti gli abitanti del Continente americano «a tenere le braccia aperte come la Vergine Maria, con amore e con tenerezza».
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