La Versione di Banfi

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Biden e Putin quasi amici

alessandrobanfi.substack.com

Biden e Putin quasi amici

Vertice a Ginevra fra i due Presidenti. Distanze e dialogo. Anche la politica italiana è messa in crisi dal nuovo ordine mondiale. Italia più povera nel 2020. Sui vaccini ok Figliuolo, no agli altri

Alessandro Banfi
Jun 17, 2021
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Biden e Putin quasi amici

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Putin e Biden si sono ritrovati quasi amici. L’importante vertice di ieri a Ginevra (campo neutro per eccellenza) si è snodato sul filo della prudenza e del pragmatismo. I due Presidenti hanno chiarito che molto li divide, ma che si può dialogare. Certo Putin su Navalny è apparso, come accade quando parla di questo argomento, surreale. Biden ci ha tenuto a ribadire i punti chiari della posizione americana. Complessivamente il viaggio di Biden ha cancellato in pochi giorni il ricordo dell’isolazionista e sovranista, “amico di Putin”, Donald Trump. Non ci sono grandi rimpianti, anche se su certi aspetti Biden è apparso in continuità col suo predecessore. Contro la Cina, ad esempio. Semmai dando l’impressione di fare più sul serio e con più credibilità internazionale.

Anche la politica italiana deve confrontarsi col cambio di paradigma internazionale impostato dalla nuova Presidenza americana. Non è facile, perché l’Italia, lo osserva Sergio Romano sul Fatto, ama l’ambiguità come atteggiamento diplomatico. Socci su Libero legge le posizioni filo cinesi di Grillo e D’Alema come espressioni della linea di 5 Stelle e Leu, che pure sono al governo con l’atlantico Draghi. Repubblica scova il presidente della Commissione Esteri del Senato che non crede alla persecuzione degli uiguri.

Le cronache della pandemia oggi registrano le polemiche sullo stato d’emergenza, il mix nella seconda dose e l’introduzione del green pass. L’esperienza inglese dimostra una cosa: se si prende troppo tempo fra prima e seconda dose si dà spazio alla variante Delta. Intanto nei sondaggi gli italiani sulla campagna vaccinale apprezzano Draghi e Figliuolo e bocciano Speranza, Il Cts e le Regioni. Prevedibile. Drammatici i dati sulla povertà in Italia nel rapporto 2020 dell’Istat. Vediamo i titoli.  

LE PRIME PAGINE

Il vertice di Ginevra fra i Presidenti americano e russo catalizza l’attenzione dei giornali. Il Corriere della Sera è leggermente più ottimista: Biden-Putin, riparte il dialogo. Anche per la Repubblica la parola chiave è dialogo, ma c’è di mezzo anche una contesa: Biden-Putin, la sfida del dialogo. Per il Quotidiano Nazionale parlarsi è doveroso: Biden e Putin: «Dialogo necessario». Per il Manifesto sempre di guerra si tratta anche se ora è il tempo di una: Tregua armata. Sulla pandemia c’è Il Messaggero: Stato d’emergenza, è scontro. Londra teme un’altra ondata. La Stampa ancora sul mix della seconda dose: Lo strappo delle Regioni sul cocktail dei vaccini. Libero suggerisce: Basta virologi. Parla invece di fine vita La Verità: I medici rischiano di doverci ammazzare. Di economia si occupa Avvenire, aprendo il giornale sui drammatici dati Istat del 2020: Povertà da record. Mentre Il Sole 24 Ore riferisce sulle ultime stime delle autorità bancarie centrali americane: Fed, inflazione al 3,4% nel 2021. Polemica del Fatto contro la presidente del Senato: Spoleto, il Festival dei Due Casellati. Mentre il Domani denuncia: Il ricatto della Libia che blocca i soldati italiani a Misurata.

LAMPI DI FIDUCIA TRA BIDEN E PUTIN

È stato Vladimir Putin a tirare fuori una citazione di Lev Tolstoj sui “lampi di felicità” che ci sono nella vita. Nel faccia a faccia con Biden ci sono stati “lampi” di fiducia reciproca. La cronaca di Paolo Valentino sul Corriere.

«La ricerca della felicità non è l'obiettivo dei rapporti tra Stati Uniti e Russia. Né il vertice di Villa La Grange porta a risultati concreti, lasciando irrisolti tutti i punti critici che li dividono. E tuttavia, tre ore di colloqui accendono un lampo di speranza che tra Mosca e Washington possa riprendere e consolidarsi un «dialogo pragmatico basato sui rispettivi interessi» e mirato a costruire fiducia reciproca. Non c'era amicizia prima e non c'è neanche dopo, tra Joe Biden e Vladimir Putin. Ma dall'incontro del Lemano emergono uno sforzo di civile comprensione e un disegno distensivo, che riporta a regime le relazioni diplomatiche con il ritorno degli ambasciatori nelle due capitali e promette la ripresa di trattative per la stabilità strategica e il disarmo nucleare, tema sul quale il Cremlino rimane per la Casa Bianca interlocutore imprescindibile per la sicurezza collettiva. È stato un summit dove il linguaggio ha probabilmente contato più della sostanza. Sia Putin che Biden sono stati attenti a evitare dure polemiche, pur marcando i loro dissensi. Il presidente russo ha elogiato il capo della Casa Bianca come «partner costruttivo, equilibrato e di grande esperienza», definendo i colloqui «privi di ostilità». Biden, che ha iniziato la sua conferenza stampa quando l'altro ha finito, ha detto «che non ci può essere alcun surrogato al dialogo personale tra i leader di due Paesi potenti e orgogliosi», notando che il tono delle conversazioni è stato «buono e positivo» e che anche i disaccordi sono stati espressi senza iperboli e attriti: «Non ci sono state minacce - ha commentato il leader americano - ma ho spiegato al presidente Putin che gli Stati Uniti risponderanno a ogni violazione della sovranità democratica, loro e dei loro alleati».

Anna Zafesova sulla Stampa analizza le parole di Putin nella conferenza stampa subito dopo il vertice a due:

«Quel signore voleva consapevolmente venire arrestato». Vladimir Putin non chiama di nuovo Alexey Navalny per nome, in quella che è ormai una scaramanzia ossessiva, e gli dà perfino la colpa di essere tornato in Russia nonostante sapesse che lo aspettavano le manette. Dopo il laconico incontro con Joe Biden, il Presidente russo si precipita dai giornalisti per raccontare, per primo, la sua versione del mondo. Un'ora dopo, il capo della Casa Bianca dirà di aver promesso «conseguenze devastanti» se il capo dell'opposizione russa morirà in carcere, e alcune fonti moscovite avevano insistito alla vigilia che Putin avrebbe negoziato con Biden un rilascio con esilio per Navalny, da scambiare contro russi detenuti negli Usa, ma Putin prima preferisce non sentire la domanda dell'inviato della CNN, e poi gli replica dicendo che il suo avversario è in carcere «perché ha fatto quello che aveva voluto fare». Poi aggiunge che «quel cittadino» aveva violato la legge, «andando all'estero per cure mediche» e ignorando l'obbligo di firma cui era soggetto in patria: non una parola, nemmeno di smentita, sull'avvelenamento con il Novichok. Ancora prima del vertice di Ginevra, Cremlino e Casa Bianca avevano concordato di evitare una conferenza stampa congiunta, e se alla vigilia alcuni giornali americani avevano ipotizzato che la decisione fosse dovuta al ricordo dell'imbarazzante duetto Trump-Putin, ieri sera è diventato chiaro che il presidente russo e quello americano semplicemente non possono coesistere nello stesso spazio mediatico. Non sono d'accordo praticamente su nulla. Il presidente russo si concede volentieri ai giornalisti, quasi li incoraggia a altre domande, evidentemente ansioso di ribadire tutte le sue idee, che forse non hanno trovato sufficiente ascolto negli interlocutori americani. Ripete i grandi classici della propaganda del Cremlino, come il «sanguinario colpo di Stato in Ucraina», o le accuse all'America di aver ordinato massacri in Iraq e Afghanistan e torturato a Guantanamo in risposta alle altrettanto classiche domande dei giornalisti sull'assenza di libera stampa e libere elezioni in Russia. (…) Angela Merkel già nel 2014, dopo l'annessione della Crimea, aveva dichiarato che Putin «abitava in un altro mondo», e alcune delle sue affermazioni di ieri alimentano il dubbio che attinga informazioni dalla propria propaganda. Per esempio, il Presidente russo ha affermato che la maggior parte degli attacchi di cyberwar partono dal territorio americano, mentre Biden ha parlato di una lista di 16 gruppi di hacker russi che colpiscono regolarmente i Paesi occidentali. A sentirlo dipingere il suo quadro delle relazioni internazionali, diventa quasi impossibile credere che i due Presidenti siano riusciti a rimanere nella stessa stanza per quasi tre ore. Quando parla del suo nuovo interlocutore, il capo del Cremlino recupera il sangue freddo. Nessun sentimentalismo sul «guardarsi negli occhi per vedere l'anima», come era stato con Bush, e Putin appare quasi infastidito da questa retorica: «Abbiamo parlato la stessa lingua, non c'era bisogno di scrutare l'anima», replica, per poi lodare Biden come «professionale e controllato». Commenta laconico di non aver nutrito nessuna illusione sul vertice, e di non aver ricevuto un invito alla Casa Bianca. I tempi dei complimenti e delle pacche sulle spalle tra Mosca e Washington sono lontani, si torna a casa nemici come prima». 

Sempre su la Stampa Francesco Semprini intervista l’analista Cliff Kupchan, presidente di Eurasia Group, che non ha dubbi: ha vinto Biden, dice.

«Joe Biden ha stabilito le linee rosse che Mosca non può oltrepassare». A dirlo è Cliff Kupchan, esperto di Russia e presidente di Eurasia Group. Come considera il vertice di Ginevra? «Si è stabilita una linea di comunicazione e questo è positivo, e si è parlato della stabilità strategica convenendo sulla necessità che sia robusta. Ma su temi come diritti umani e sicurezza cibernetica non si sono fatti passi in avanti sostanziali». Chi ne esce rafforzato tra Putin e Biden? «Biden perché ha messo in chiaro che nulla più passerà impunito in caso di azione offensiva proveniente dalla Russia: quando succederà qualcosa che a questa amministrazione non piace ci saranno conseguenze. In sostanza ha messo in chiaro che a Washington non c'è più Trump che comanda e questo è un importante risultato per Biden». Si aspettava un comportamento più aggressivo da parte di Putin? «No, non ci avrebbe guadagnato nulla. Credo che a nessuno dei due convenisse assumere atteggiamenti aggressivi. Putin sa bene che dall'altra parte non c'è più Trump che avrebbe raccolto provocazioni e Biden è consapevole che alzando la voce sarebbe passato da provocatore dando a Putin l'opportunità di ergersi a leader forte e sicuro. È convenuto a entrambi sfoggiare composti sorrisi durante il vertice». Putin potrebbe guadagnare qualcosa di più con Biden rispetto che con Trump? «No, io credo che abbia tutto da perdere perché l'attuale presidente degli Stati Uniti è assai più pragmatico e scettico sugli atteggiamenti del Cremlino ed è un leader che rappresenta la corrente principale del sistema politico americano. Se quindi non sarà in grado di dialogare con Biden subirà un offuscamento di immagine come leader». 

IL VIAGGIO DI BIDEN IN EUROPA DIVIDE LA POLITICA ITALIANA

Antonio Socci in un approfondimento per Libero sui cambiamenti della politica italiana, impressi dal governo, si sofferma sulle conseguenze dell’azione diplomatica di Mario Draghi durante il viaggio di Biden in Europa. E sulle conseguenze che il cambiamento del quadro internazionale crea sui nostri partiti.

«Mario Draghi si trova al centro delle due "rivoluzioni"- quella geopolitica e quella economica- quindi è un protagonista della partita internazionale, come si è visto in tutti i summit di questi giorni. Con Draghi l'Italia si trova ad avere un peso internazionale che è davvero insolito. Le conseguenze sono notevoli. Però molti nostri politici faticano a capirlo. Si attardano in polemiche provinciali e il mondo nel frattempo va da un'altra parte. Nel M5S, Conte sembra voler solo organizzare la guerra a Draghi, mentre Grillo si mette in evidenza come filocinese in perfetta contrapposizione a Draghi e agli Usa. D'Alema - padre di Leu - va anch' egli contro la linea Biden - Draghi, sperticandosi in elogi del regime comunista cinese. Enrico Letta non spiega come fa il Pd ad essere alleato strategico di M5S e Leu che si contrappongono così al governo Draghi sull'alleanza occidentale. Il segretario Dem sembra far finta di nulla e fatica pure ad accettare di essere in maggioranza con Lega e Forza Italia. Il suo partito appare frastornato e non sa più ritrovare sé stesso (come mostrano le sue primarie)».

Su Repubblica Concetto Vecchio va a scovare il presidente 5 Stelle della Commissione Esteri del Senato, che è completamente allineato con Pechino, persino sulla persecuzione degli uiguri.

«Senatore Vito Petrocelli, presidente M5S della Commissione esteri, l'intervento filocinese sul blog di Grillo impegna i Cinquestelle? «No, direi di no. Il blog non è da tempo più l'organo del Movimento». Lei può essere definito filocinese? «Posso essere definito in tanti modi, anche filocinese». Ha fatto un tweet per dire che "l'Italia dev' essere il miglior riferimento per Cina e Russia. Non il contrario". Cosa intendeva dire? «A differenza di altri non devo ogni volta ribadire la mia fede filoatlantica, ma penso che proprio all'interno del campo occidentale l'Italia debba essere il miglior riferimento per Russia, Cina e Iran». Non è una contraddizione? «No, in piena guerra fredda la Fiat costruì lo stabilimento in Unione sovietica, a Togliattigrad. Era una contraddizione?». Ma i Cinquestelle stanno con Draghi, filoatlantico, o con i cinesi? «L'Italia deve fare tutto il possibile per mantenere un dialogo con questi Paesi. Draghi ha detto che con la Cina il governo si muoverà lungo tre linee, ma io aggiungerei anche le relazioni commerciali e culturali». Siete gli unici filocinesi in maggioranza. «Che io sappia nessuno del M5S ha fatto gli auguri per il centenario della fondazione al Partito comunista cinese. Qualcuno del Pd invece l'ha fatto. Ecco, ne approfitto per farli anch' io». Per il G7 la Cina è il nuovo avversario delle democrazie avanzate. «La trovo una posizione quasi da guerra fredda. In Cina nessuno contesta che noi siamo una democrazia, mentre trovo poco corretto che noi mettiamo in discussione un modello di stampo socialista, che viene accettato da un miliardo di persone». La Cina è contestata per la minaccia che rappresenta ai nostri valori e alla nostra economia. «Non penso affatto che la Cina rappresenti una minaccia per i nostri valori morali e commerciali: durante la pandemia ha importato prodotti italiani come mai prima d'ora. "Chiedete agli imprenditori se sono contenti", ha detto Di Maio». Draghi le sembra freddo sulla Via della Seta? «Mi sarei meravigliato del contrario. Invece ho mantenuto la stessa posizione che avevo quando venne firmato l'accordo durante il Conte 1. È una grande opportunità per il nostro Paese e per l'Europa». E sui diritti? Sulla persecuzione della minoranza uigura è un negazionista? «Ho sottoscritto il rapporto che mette in discussione la persecuzione. Sono per ricostruire il dialogo, su una questione così delicata, che va affrontata senza faziosità». 

Il Fatto cerca (e trova) in Sergio Romano un’autorevole conferma: meglio che l’Italia “resti in bilico”, di fronte alle iniziative internazionali di Biden. In questa “ambiguità” può esistere la posizione filo cinese di Grillo, tanto per fare un esempio:

«Per Sergio Romano, ex ambasciatore in Unione Sovietica e accademico tra i massimi esperti di politica internazionale, "in questo riassetto atlantico, l'Italia è come sempre abbastanza ambigua: non si vuole lo schieramento totale, si mantiene una politica prudente, per dimostrare che non bisogna rompere i rapporti o sprecare occasioni. È quello che ha fatto Draghi, ma lo avrebbe fatto chiunque al suo posto. È stata sempre questa la linea dell'Italia nei momenti più critici". Ambasciatore Romano, tra Nato, Russia e Cina, è corretto dire che l'Italia rimarrà in bilico? «Non è bello, ma si può dire così». Ieri per la prima volta si sono incontrati i presidenti Joe Biden e Vladimir Putin a Ginevra. «Se hanno deciso di incontrarsi, non lo hanno fatto per manifestare dissenso: desiderio reciproco di entrambi è dare un'immagine positiva e portare a casa qualcosa. Sanno che se il risultato sarà un fiasco totale, il clima internazionale precipiterà e condannerebbero se stessi all'insipienza e all'incapacità. Dare un'immagine di impotenza, non gioverebbe a nessuno dei due. Dichiareranno qualcosa di non impegnativo, come per esempio che cercheranno di incontrarsi in altre circostanze e che manterranno i colloqui tra collaboratori». Putin ha urgenza di risolvere due conflitti: Libia e Siria. Biden chiede invece chiarezza sulla guerra in Ucraina e sull'oppositore Navalny, ora in carcere. «Navalny, Libia, Ucraina: non potranno non parlare di queste problematiche urgenti, ma non so quanto diranno del vero risultato delle loro conversazioni. Anche se nessuno dei due rinuncerà a quelle affermazioni di principio che fanno parte del loro inevitabile bagaglio, tenteranno di conservare un clima disteso, non diranno nulla di esplicitamente costruttivo, ma preserveranno la continuità del dialogo». Biden, nel suo tour in Europa, ha rinvigorito l'immagine di imprescindibilità e supremazia della Nato, un'organizzazione che Macron, qualche anno fa, ha definito in stato di 'morte celebrale'. «Credo che il Presidente francese lo pensasse e, per certi versi, aveva ragione. Di certo è avvenuta la sua rivalutazione, insieme a quella degli Usa come leader globale. La Nato, tornata a essere la più importante e principale organizzazione del momento, è sulle prime pagine di tutti i giornali, ma vediamo questo cosa significherà in termini reali».

MASCHERINE, STATO D’EMERGENZA, GREEN PASS

Nelle cronache della pandemia i temi di oggi sono: lo stato d’emergenza da prorogare o meno, le mascherine da togliere e il green pass per circolare. Il punto di Monica Guerzoni per il Corriere, che inizia dalla polemica sullo stato d’emergenza:

«A Palazzo Chigi assistono con un po' di stupore alla polemica politica che si è scatenata, ma confermano l'orientamento del presidente Draghi. Il quale, ai ministri che lo hanno chiamato per aggiustare in corsa la linea, ha risposto con un monito: «Serve ancora prudenza, perché è vero che stiamo uscendo dalla pandemia, ma purtroppo non ne siamo ancora fuori». Parole con cui l'ex capo della Bce frena la corsa verso il «liberi tutti». Una cautela che però non dovrebbe rallentare un'altra decisione molto attesa: il superamento dell'obbligo di indossare la mascherina all'aperto. Nel governo molti pensano che Draghi, sulla scia di altri Paesi europei, cancellerà dal 15 luglio una delle regole base che hanno segnato le nostre vite in questo anno e mezzo di Covid. Sarebbe un segnale forte e simbolico di ritorno alla normalità, tanto che Speranza ha detto di ritenere «realistica» la previsione di Draghi, di eliminare le mascherine all'aperto a metà luglio. L'atteggiamento prudenziale del capo del governo fa infuriare la destra. Giorgia Meloni boccia come «ipotesi folle» l'intenzione di prorogare lo stato di emergenza e anche Matteo Salvini, per quanto faccia parte della maggioranza, sostiene che «non ci sono i presupposti per trascinare lo stato di emergenza». La decisione non è presa e costringe i ministri a riposizionarsi, alla luce di quel che trapela dalla presidenza del Consiglio. Mariastella Gelmini, che pure si era detta favorevole a chiudere a luglio il lungo periodo di eccezionalità innescato dalla pandemia, su Rai1 a Oggi è un altro giorno ha confermato che nel governo «c'è un atteggiamento di grande prudenza». Quaranta milioni di italiani vivono in zona bianca e per la ministra degli Affari regionali «non si deve abusare della proroga dello stato di emergenza», perché si tratta di «poteri speciali dal punto di vista costituzionale». Però per Gelmini la variante Delta o indiana non può essere sottovalutata e «sicuramente il governo non farà questo errore». Come a dire che la proroga è scontata, anche perché «agevola le procedure e semplifica la burocrazia». A leggere due giorni fa le dichiarazioni di Speranza alla Stampa non sembrava così, perché il ministro della Salute si era mostrato pronto a cancellare lo stato di emergenza il 31 luglio per «dare un segnale positivo al Paese». Ma poi, visto anche il fastidio di Draghi per le fughe in avanti dei ministri, ha un po' aggiustato il tiro, sottolineando che «bisogna verificare le condizioni» e che «45 giorni sono tanti in una pandemia». La strada verso la proroga è tracciata. Il Pd è d'accordo e lo dice a Radio Immagina la capogruppo al Senato, Simona Malpezzi: «La guerra non è vinta, ci vuole serietà». Eppure la questione solleva dubbi anche tra scienziati e giuristi. Su Huffpost il giudice emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese, non trova spiegazioni a un eventuale prolungamento dei poteri speciali: «Non ci sono più le condizioni e in caso di necessità bastano poche ore per reintrodurlo». E oggi Draghi firma il Dpcm che dà il via libera al green pass. È lo strumento normativo che - attraverso le app Immuni e Io, un sito web dedicato e il fascicolo sanitario elettronico - darà la certificazione verde a chi è stato vaccinato, è guarito dal Covid o si è sottoposto a un tampone risultato negativo.».

Le Regioni si sono allineate sul caos AstraZeneca. Ma l’assessore alla Salute della Regione Lazio Alessio D’Amato insiste: se un cittadino che ha già fatto la prima dose chiede un richiamo con AstraZeneca, dobbiamo farglielo, non ha senso costringerlo al mix. Lo ha intervistato Margherita De Bac per il Corriere.

«Senta, le ripeto, il Lazio non vuole imboccare una strada alternativa. Siamo stati i primi a rispondere ai piani vaccinali. Ogni giorno immunizziamo circa 64 mila cittadini. Non solo siamo stati coerenti con le strategie nazionali, ma il ritmo delle somministrazioni non è rallentato neppure quando altrove gli appuntamenti saltavano per il diffondersi della paura sugli episodi di trombosi. Vogliamo siano dissipati tutti i dubbi». Quali? «Riceviamo fiumi di lettere da cittadini informati, di livello culturale medio alto, specie insegnanti e docenti universitari tra 50 e 60 anni, che vorrebbero non cambiare vaccino e mantenersi su Vaxzevria in quanto non sono convinti che il mix sia sicuro. Non si possono trascurare le loro obiezioni, sono circa il 10 per cento dei vaccinandi. La maggior parte dei richiami è stata eseguita utilizzando Pfizer-BioNTech, come prescrive il ministero. Ma questi casi come li risolviamo?». Cts, Aifa e ministero si sono già espressi. La sua posizione sembra pretestuosa. «Guardi, la circolare del ministero e la determina di Aifa sono discordanti. La prima è perentoria, la seconda è possibilista, basta leggere bene l'articolo 2: non esclude che il medico possa decidere in scienza e coscienza quale tipo di vaccino somministrare avvalendosi del meccanismo dell'off label (prescrizione non contenuta nel bugiardino). Oppure dobbiamo ricorrere all'obbligo?» Risponda lei. «L'obbligo è un errore. La via più efficace è quella della persuasione. Non siamo nell'esercito dove bisogna rispettare gli ordini». (…) Dunque conviene accontentare chi pone questi interrogativi pur essendo pro vax? «Meglio dare una doppia dose di Vaxzevria a chi la chiede, dietro la sottoscrizione di uno specifico consenso informato, che negare la seconda dose, azzardo oltretutto pericoloso visto che se la profilassi non viene completata c'è il rischio di essere infettati dalla variante Delta, la cosiddetta indiana. Un giorno potremmo essere accusati di non aver garantito adeguata protezione a chi, vaccinato a metà, si è preso il virus e ne ha riportato danni. E poi ci sono i diritti dei medici i quali mi chiedono come comportarsi». Cosa temono? «Hanno paura di essere denunciati se dispensano un tipo di vaccino diverso da quello richiesto o viceversa. Anche loro devono poter lavorare in serenità». (…) Sugli open day il Lazio è andato oltre. «Avevamo ricevuto la rassicurazione di poter dare Vaxzevria anche ai giovani. Li abbiamo immediatamente sospesi quando sono emersi i primi sospetti sul rischio del vaccino. Ai maturandi abbiamo somministrato sempre Pfizer».

Nei sondaggi viene fuori che gli italiani hanno un cattivo giudizio sulla gestione della pandemia e sulla vaccinazione di massa. Promuovono solo Figliuolo. Regioni, esperti del CTS e Speranza sono visti molto male. Lo dice Alessandra Ghisleri, Euromedia Research, dalle colonne de La Stampa presentando i numeri dell’ultima rilevazione, di tre giorni fa.

«Con le riaperture delle attività e l'arrivo anche in Italia della variante Delta si corre veloci con il pensiero al prossimo autunno. Il Paese si divide tra gli ottimisti (39,3%), in maggioranza convinti che non ci troveremo impreparati e nelle stesse condizioni dell'autunno del 2020 e i più pessimisti (37,1%), che al contrario temono di ritrovarsi in un'ennesima ondata pandemica dominata dalle nuove varianti. In questo sicuramente non ha aiutato non solo il vissuto della scorsa estate, ma anche il caso AstraZeneca che, negli ultimi 6 mesi, compare alla ribalta delle cronache con una cadenza regolare. Nel merito il giudizio degli italiani è molto severo: sono tutti bocciati. Chi ne paga il prezzo più alto è il ministero della Salute guidato da Roberto Speranza (giudizio negativo 56,9%), a seguire il Cts - Comitato tecnico scientifico (giudizio negativo 52,7%) e per la prima volta le Regioni nel loro insieme, non tutte (giudizio negativo 46,8%). L'unica promozione la ottiene il Commissario Francesco Paolo Figliuolo con un giudizio positivo del 50,9%. La fiducia nelle parole degli esperti rimane confermata (68,9%), anche se ognuno sceglie il suo "virologo" di riferimento (49%). Nonostante questo, per quella percentuale inferiore al 10% dei "no vax" convinti, la credibilità degli "esperti" raggiunge solo il 15%. Il dato più sensibile che emerge è che anche coloro che si dichiarano esitanti sull'opportunità di immunizzarsi affermano per il 46,7% di non fidarsi più delle informazioni tecniche diffuse. Non è solo l'efficacia del vaccino definita in tempi così rapidi e massivi a tenere i cittadini con il fiato sospeso, ma è anche il cambiamento di quelle che possiamo considerare le nuove prospettive legate alle varianti del virus a convincere il 49,6% dei cittadini che sia maggiormente rischioso per la propria salute non vaccinarsi. Tuttavia la mancanza di certezze nella comunicazione tecnica si traduce in una confusione ed incertezza di ciascuno nel poter avere delle rassicurazioni valide in merito alla seconda dose. Fino ad oggi era diffusa l'opinione che non poteva essere eterologa la vaccinazione, oggi questo impianto è stato smontato senza ulteriori indicazioni certe. Pertanto ad oggi il vaccinarsi con due dosi differenti -vaccinazione eterologa- spaventa e intimorisce tanto quanto ricevere la seconda dose di AstraZeneca. Si è sempre pensato che il cittadino sia un calcolatore razionale le cui decisioni sono prese suffragate dal calcolo: investimento e benefici. Ora il rischio è che la gente si convinca che il vaccino, in mezzo a tutte le discussioni del caso, si sia trasformato nell'unica possibile soluzione alla mancanza di interventi e risposte strutturali della politica per tutto quello che riguarda la vita del Paese come i trasporti, la ripresa del lavoro e della scuola, le aperture dei locali pubblici, i controlli per il rispetto delle regole».

LA DISEGUAGLIANZA NEI VACCINI E I PROFITTI DEI BIG PHARMA

Nei giorni in cui si discuteva sulla sospensione dei brevetti, la Merkel e le altre autorità europee sostenevano che bisognava fare ben altro per distribuire i vaccini ai Paesi più poveri. Ma poi non c’è stata nessuna iniziativa per colmare la diseguaglianza globale. Il Fatto anticipa un articolo di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, su questo tema:

«Fino al 4 maggio scorso, meno dell'8% della popolazione mondiale aveva ricevuto almeno una dose di un qualsiasi vaccino contro il Covid -19, ma l'80% delle vaccinazioni praticate era avvenuto in sole dieci Nazioni. Ciò non dipende soltanto dal fatto che i Paesi ricchi hanno acquistato tutte le dosi disponibili, ma anche dalla constatazione che, semplicemente, non ci sono state dosi sufficienti per soddisfare tutte le richieste. L'intera produzione di Moderna e più del 96% di quella di Pfizer/BioNTech sono state acquistate da Paesi sviluppati, e la distribuzione del vaccino di AstraZeneca/Università di Oxford è andata prevalentemente all'Europa. Secondo stime della Gavi, l'Alleanza mondiale per vaccini e immunizzazione, i Paesi sviluppati hanno incamerato un numero di dosi dei principali vaccini sufficiente a immunizzare per tre volte i loro cittadini, mentre le Nazioni più povere potranno ritenersi fortunate se nel corso del 2021 riusciranno a somministrare una dose per ogni dieci abitanti. Questa penuria è in grande misura voluta. La produzione di vaccini è stata limitata dal rifiuto delle case farmaceutiche di condividere conoscenze e tecnologia. Nonostante il fatto che le imprese produttrici dei vaccini approvati abbiano goduto di sussidi pubblici e della ricerca finanziata con fondi pubblici, esse hanno comunque approfittato della protezione dei loro brevetti per mantenere un potere oligopolico, limitandola produzione alle loro fabbriche e a un esiguo numero di aziende alle quali hanno concesso licenze. Secondo la piattaforma multimediale per la comunità di sviluppo globale Devex, i governi hanno destinato fondi pubblici per l'astronomica cifra di 37.700 milioni di dollari alla ricerca, allo sviluppo, alla distribuzione e all'applicazione di vaccini, mentre il settore privato vi ha investito un quarto di quell'ammontare: 9.500 milioni. Inoltre, non sono stati resi pubblici gli accordi di licenza con i singoli Paesi e viene osteggiata la proposta, presentata al WTO da India e Sudafrica, di sospendere per tutta la durata della pandemia il pagamento dei diritti di proprietà intellettuale di tali vaccini. Questa tutela del WTO era già stata attivata nel caso dell'Aids, in seguito a una campagna internazionale volta a rendere disponibili trattamenti generici che potessero essere fabbricati a costi inferiori da altre Nazioni. La proposta di ripeterla per il Covid-19 gode dell'appoggio di un centinaio di Stati, ma trova l'opposizione di vari Paesi che sono sede di grandi aziende farmaceutiche».

UN ANNO DOPO SIAMO PIÙ POVERI

Rapporto Istat: l’Italia è diventata più povera nell’ultimo anno. In particolare, due milioni di famiglie sono in difficoltà. Luca Mazza per Avvenire.

«La percezione di un quadro in netto peggioramento era piuttosto evidente: le code sempre più lunghe ai centri che offrono pasti caldi e l'aumento delle richieste di aiuto rivolte alle associazioni che assistono i più fragili, del resto, erano indicatori di situazioni di difficoltà crescenti nel Paese. Ora il report diffuso dall'Istat sulla povertà in Italia nel 2020 conferma la portata di un'emergenza che è sempre più allargata all'intera Penisola. Nell'anno più duro della pandemia si contano oltre 5,6 milioni di persone in povertà assoluta, il numero più alto da 16 anni, ovvero da quel 2005 che segna l'avvio delle serie storiche. Se sul piano sanitario siamo stati abituati a una conta quotidiana dei danni causati dalla pandemia - con la diffusione del bollettino con casi, contagi e decessi - lo stesso non può dirsi sugli effetti socio-economici. Ecco perché l'indagine Istat può essere considerata un primo bilancio su questi aspetti. L'istituto di statistica certifica come l'avvento del virus abbia cancellato i leggeri progressi avvenuti nel 2019, perché la povertà assoluta è tornata a schizzare a livelli record. Nel 2020 si trovano in questa condizione poco più di due milioni di famiglie. Si passa dal 6,4% del 2019 al 7,7% sul totale dei nuclei. Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019). Questo dato, unito all'impennata della povertà as- soluta, dimostra che a essere in profonda sofferenza è soprattutto chi già stava male prima dell'emergenza sanitaria. Una questione 'nazionale'. Si può dire, inoltre, che la pandemia abbia reso la povertà un'emergenza sempre più 'nazionale'. La fame e le difficoltà non mordono più solo in determinate aree tradizionalmente in affanno, come il Sud, ma ovunque. Anzi, lo studio dell'Istat segnala che il Covid ha colpito soprattutto le Regioni del Nord. Se infatti l'incidenza delle famiglie in indigenza assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (9,4%), nell'anno del Covid la crescita più ampia si registra al Nord dove la povertà familiare sale al 7,6% dal 5,8% del 2019. Così se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese erano distribuite in modo quasi uniforme al Nord (43,4%) e al Sud (42,2%), nel 2020 arrivano al 47% al Nord contro il 38,6% del Mezzogiorno, con una differenza in valore assoluto di 167mila famiglie».

CENTRO DESTRA, LA MELONI CONTRO IL PARTITO UNICO

La politica italiana è ancora concentrata sulla preparazione delle amministrative di autunno. Beniamina del Corriere della Sera, Giorgia Meloni viene intervistata da Paola Di Caro.

«Noi siamo all'opposizione, e avevamo proposto un intergruppo parlamentare. Credo ancora che potrebbe essere utile parlarsi anche da posizioni diverse, perché noi possiamo fare "l'ariete" non avendo il vincolo di fedeltà che lega i partiti di maggioranza. Sul coprifuoco, ricordo, siamo stati noi con il nostro ordine del giorno a consentire il cambiamento». Il partito unico che propone Berlusconi invece? «Ho sempre pensato che le specificità di ogni partito siano la forza del centrodestra. Rappresentiamo più del 50% degli elettori: omologare tutto ci farebbe perdere più di quanto potremmo guadagnare. Io ho vissuto l'esperienza del Pdl: dopo lo slancio iniziale, riuscire a conciliare le diverse identità ha portato a scontri e a mediazioni poco efficaci. Il partito unico ha più rischi che vantaggi». Con Berlusconi ha parlato? «No, non in questi giorni. Conosco la sua idea, è da sempre un grande federatore e lo apprezzo anche per questo. Ma mi sento di consigliare a tutti prudenza in questo dibattito, che agli italiani - alle prese con l'uscita dalla pandemia, la disoccupazione, la povertà, la crisi di molte imprese - può apparire lunare. Come ci organizzeremo non è l'interesse primario degli italiani. Lo è quello che faremo». Più facile dirlo quando si è all'opposizione con il 20%. «Lo sento dire spesso: "Meloni lucra sul suo stare all'opposizione". Quando decidemmo di restare soli però in tanti prevedevano una nostra sparizione. Ed era davvero un'ipotesi in campo. Ma è stata una scelta per convinzione, non per convenienza. Il che non significa non lavorare per la coalizione. Lo si vede dalle decisioni sulle Amministrative: avremmo potuto chiedere un candidato di partito a Roma, abbiamo scelto insieme un civico che è il migliore su cui si poteva puntare. E sempre nell'unità». Sinceramente: se lo aspettava di arrivare al 20% nei sondaggi? «Forse no, ma ho sempre detto che sarebbe stato più facile passare dal 5% al 15% che dal 3 al 5. Sono 10 anni che esiste FdI, stiamo raccogliendo i frutti di un grande lavoro. Ci sono stati momenti in cui ho pensato: ho fatto la scelta giusta? Lavoravamo, ma i risultati non si vedevano. Poi piano piano siamo cresciuti e gli italiani, che scelgono sempre un voto utile, dalla simpatia sono passati alla decisione: questo partito mi piace, è serio, lo voto. E crescere è diventato più facile».

CENTRO SINISTRA, PD E 5 STELLE ALLEATI CONCORRENTI

Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera racconta invece la situazione dell’alleanza Pd-5Stelle:

«In tempi non sospetti Goffredo Bettini, che è stato il primo a teorizzare la necessità di costruire un rapporto tra Pd e 5 Stelle, aveva profetizzato: «Il Movimento sarà un nostro competitore-alleato». E così dicendo l'esponente dem aveva individuato il possibile doppio ruolo dei grillini rispetto ai dem. I dirigenti pd, però, si sono esercitati - e hanno litigato - solo sul tema dell'alleanza, trascurando il fatto che il M5S potesse ingaggiare una competizione con il Partito democratico. Ora che mancano pochi mesi alle Amministrative quell'aspetto della possibile evoluzione del rapporto tra dem e grillini emerge con chiarezza. Come si evince da Giuseppe Conte, che spiega che il M5S, al contrario del Pd, si rivolge anche al centro. Un modo per relegare i dem a sinistra. Ma Enrico Letta evita questo rischio: «Noi non abbiamo nessuna sudditanza nei confronti del M5S. Il Pd parla a tutti e recupera l'ispirazione originaria interclassista che è stata alla base del modello di Andreatta quando pensò al progetto di partito dei democratici». Lo spirito competitivo del M5S, dunque. A cui si aggiungono le difficoltà incontrate in molti territori nelle trattative sulle Amministrative. Accade così che l'alleanza, auspicata, vagheggiata, perennemente annunciata come prossima, adesso segni il passo. Del resto, è sempre Conte a dire «non mi straccerò le vesti laddove non sarà possibile stringere intese». E non è stato possibile in molte città importanti, come Milano, Roma e Torino. Non si faranno nemmeno gli apparentamenti al secondo turno, come pure in un primo tempo avevano sperato i dem. A Milano perché i grillini sono praticamente ininfluenti. A Torino perché il vincitore delle primarie Stefano Lo Russo è l'arcinemico di Chiara Appendino. A Roma perché anche Roberto Gualtieri, che finora aveva evitato di infierire troppo su Virginia Raggi, negli ultimi giorni è stato costretto a dire qualcosina in più e l'altro ieri ha annunciato: «Non vedo spazi per apparentamenti con i 5 Stelle». Ciò nonostante una parte del Pd punta ancora a convincere almeno gli elettori grillini a sostenere i candidati dem al secondo turno. Francesco Boccia, per esempio, ammette di nutrire questa speranza: «Confido negli elettori ai ballottaggi». E anche Gualtieri ci sta facendo un pensierino: «Ci rivolgeremo anche agli elettori di Raggi». I quali, però, stando a un sondaggio commissionato dal centrodestra, sono pronti per la maggior parte a votare per Enrico Michetti. Se ciò non bastasse ci ha pensato Appendino a troncare ogni speranza: «Al secondo turno i nostri elettori faranno ciò che credono. Le alleanze non si costruiscono in dieci giorni, sarebbe come uno scambio di poltrone».

UNA DONNA NEMICA DEI BIG TECH ALL’ANTI TRUST AMERICANO

Il Sole 24 Ore dà grande risalto ad una nomina di Biden contro i Big Tech: una giovane docente di giurisprudenza guiderà l’authority anti trust americana. Marco Valsania.  

«"Tech critic". Gran critica delle Big tecnologiche. Il biglietto da visita informale di Lina Khan, insediata dalla Casa Bianca alla guida della Ftc, l'authority antitrust americana, è sobrio ma non potrebbe essere più esplicito. La giovane docente di giurisprudenza della Columbia University, 32 anni, è salita alla ribalta per la sua crociata a favore di un aggressivo ammodernamento delle norme contro monopoli e concentrazioni nell'era digitale. Un'offensiva che ha preso di mira uno dei colossi più rappresentativi: Amazon. La quale dovrebbe essere spezzata, separando la piattaforma di e-commerce dal business retail. L'agenda che attende Khan sarà subito fitta. La Federal Trade Commission della quale prende le redini sta già considerando ricorsi contro il gruppo di Jeff Bezos. Non solo: un'inchiesta è aperta sul social network Facebook e le sue acquisizioni di WhatsApp e Instagram. Ma la repentina ascesa della 32enne accademica, la più giovane chairperson nella storia della Ftc, mostra anzitutto la priorità di lungo periodo data dall'amministrazione democratica di Joe Biden alla sfida dello strapotere di marchi che accanto a Amazon e Fb comprendono da Apple a Google di Alphabet. Una sfida raccolta sotto le bandiere di una svolta intellettuale e non solo di immediata applicazione dell'antitrust. In questo sfrutta una preoccupazione diffusa - dalla privacy ai rischi di disinformazione e troppa influenza economica - divenuta in parte bipartisan e tradottasi di recente in cinque progetti di legge presentati alla Camera per circoscrivere l'influenza di Big Tech. Khan garantisce inedita leadership a questo sforzo riformatore».

VOLONTARIATO PATRIMONIO DELL’UMANITÀ

Promuovere il terzo settore come patrimonio culturale immateriale. L’iniziativa è stata presentata ieri in Senato. La cronaca di Avvenire.  

«La candidatura del volontariato come patrimonio culturale immateriale Unesco non è soltanto la richiesta di un riconoscimento formale dell'impegno gratuito di milioni di persone. Si tratta piuttosto di accreditare una volta per tutte la solidarietà attiva come principio irrinunciabile e fondante di ogni democrazia moderna. E se per lungo tempo si è faticato a far comprendere l'importanza delle reti di prossimità, la pandemia dovrebbe aver reso evidente a tutti quanto invece non se ne possa fare a meno. Ieri al Senato la presentazione alla stampa della candidatura, su iniziativa del senatore Antonio De Poli, questore a Palazzo Madama: «L'idea era già stata annunciata al termine della cerimonia che ha nominato Padova capitale europea del volontariato - ha chiarito il senatore Udc - ma in molti hanno lavorato per questo negli ultimi due anni e si tratta di uno sforzo al quale abbiamo contribuito tutti assieme». Come ha ricordato Riccardo Bonacina, fondatore di Vita, è stato lo stesso capo dello Stato, Sergio Mattarella, a sottolineare l'errore di chi tende a derubricare l'intero settore come impegno ascrivibile ai tempi residuali della vita. Quando invece costituisce una dimensione fondamentale della vita sociale. D'altronde, ha evidenziato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, «è stata la Corte costituzionale, con una sentenza del 2020, a rimarcare come gli enti che si occupano di volontariato siano soggetti rivolti a perseguire il bene comune e a svolgere attività di interesse generale». E questo certamente non vale soltanto per il nostro Paese, che pure eccelle nel Terzo settore, ma anche per chiunque abbia a cuore giustizia sociale e carità: «Da domani inizierà un cammino europeo assieme a tutti gli organismi che si occupano di volontariato - ha annunciato Emanuele Alecci, presidente di Padova capitale europea del volontariato -. Questo per fare in modo che la candidatura abbia maggior consistenza e che l'Europa tutta si appoggi su basi di giustizia». Ma perché il volontariato è così necessario? La realtà, come messo in luce da Francesco Rocca, presidente di Croce Rossa Italiana, è che gli oltre sei milioni di persone che prestano servizio gratuito in Italia sui territori sono in grado di raggiungere «tutti coloro che anche le migliori leggi non riescono a toccare nei loro bisogni più profondi», come la pandemia ha dimostrato. Il lavoro di sostegno alla candidatura richiederà almeno un anno e si avvarrà anche dell'appoggio dell'Anpas: «Sosterremo l'iniziativa perché il settore - ha spiegato il virologo e presidente Anpas Fabrizio Pregliasco - ottenga il riconoscimento Unesco e venga favorita una più completa conoscenza del Terzo settore da parte delle istituzioni». Va però ricordato che il volontariato non è solo solidarietà e prossimità sociale. Ma anche cultura e identità. Solo attraverso le ProLoco, come ha ricordato il presidente nazionale Unpli, Antonino La Spina, operano «600mila volontari in 6mila località per un totale di 25 milioni di ore donate». Per questo, ha spiegato, «abbiamo accolto con grande entusiasmo la proposta». Senza contare il fondamentale contributo all'integrazione: «Il nostro lavoro è anche e soprattutto inclusivo - ha detto Paola Capoleva, presidente del Csv Lazio -. Molti immigrati sono diventati a loro volta volontari e il loro esempio incide profondamente nella coscienza di tutti». Tra i componenti del Comitato promotore che ha portato avanti l'iniziativa, oltre al presidente del Fai, Andrea Carandini, e dell'associazione Luciano Tavazza, Giuseppe Lumia (presente ieri mattina in Senato), ci sono anche i direttori del Corriere della Sera, Luciano Fontana, e di Avvenire, Marco Tarquinio. Forte sostegno è arrivato anche dal vicepresidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che ha descritto i volontari come portatori dei «principi essenziali per la convivenza e la collaborazione delle tante diversità che dovranno vivere insieme nel mondo che ci aspetta».

IL PAPA SCEGLIE L’EDITORIALISTA

Il Foglio dà notizia di una nomina di papa Francesco: Luigi Maria Epicoco, teologo e autore di best seller nel mondo cattolico, sarà editorialista dell’Osservatore. Ma poi critica la scelta, non nel merito ma nel metodo.  

«Bollettino diffuso dal Vaticano ieri alle ore 12: "Il Santo Padre ha nominato assistente ecclesiastico del dicastero per la Comunicazione ed editorialista de L'osservatore Romano il Rev. do Luigi Maria Epicoco, del clero dell'arcidiocesi de L'Aquila". Tralasciando il nome del promosso - poteva essere chiunque, non è questo il punto - quello che fa specie è che il Papa provveda a nominare l'editorialista di un giornale. E che ci tenga a farlo sapere tramite bollettino ufficiale diffuso dalla Sala stampa. Davvero deve essere il Pontefice, vicario di Cristo in terra, che si può immaginare occupato in materie ben più delicate, a determinare chi deve scrivere gli editoriali del quotidiano della Santa Sede? Evidentemente, Francesco non deve riporre grande considerazione in coloro (scelti da lui) preposti a guidare i canali informativi vaticani, peraltro già "rimproverati" qualche settimana fa durante una visita al Palazzo dei media ("Ma quanti ascoltano la Radio, e quanti leggono l'Osservatore Romano? Voi qui siete come la montagna che partorisce il topolino"). Se dopo anni passati a riformare, accorpare, tagliare e assembleare, il risultato è che il Papa sceglie gli editorialisti di un giornale, qualcosa da domandarsi c'è».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana   https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi intervista da non perdere a Oscar di Montigny.

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Biden e Putin quasi amici

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