Boom dei vaccini: siamo a 600 mila
L'Aifa dà il via libera alla campagna sui bambini. Intanto record di somministrazioni nelle ultime 24 ore. Corsa al Colle: nel primo borsino prevale Draghi. Lite Sallusti-Travaglio su Mr.B
Via libera al vaccino per i bambini dai 5 agli 11 anni. Lo ha stabilito ieri l’Aifa in una lunga riunione. Ai piccoli saranno somministrate due mini dosi, a distanza di 21 giorni. Non ci sono infatti evidenze di contro indicazioni per questa vaccinazione. Si avvicina intanto l’inizio del Super Green pass (scatta fra 4 giorni). È pronto l’aggiornamento della app VerificaC19, mentre il dato dei decessi in Italia è di nuovo a tre cifre, sono 103 le vittime in un giorno e non succedeva da sei mesi, per la precisione dall'8 giugno. La buona notizia è il dato record di somministrazioni: dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state 616 mila 346, un numero molto alto, bisogna tornare a maggio (ma allora non c’erano le terze dosi) per avere una cifra simile.
Intanto ieri Ursula von der Leyen ha rotto un tabù ed ha detto esplicitamente che in sede europea bisogna “discutere dell’obbligo vaccinale”. Dopo l’Austria, anche la Germania e la Grecia vanno in quella direzione e in modo spedito. Il nostro governo è molto prudente: per ora, vista la situazione, non si esamina la possibilità di questa misura.
Sulla scuola, poco interesse stamane dei giornali. Il Presidente del Consiglio sarà anche Supermario ma siamo pur sempre in Italia. Dunque alla fine il punto di caduta è esattamente a metà strada: la prima circolare prevedeva Dad con 1 contagiato. La vecchia norma ne richiedeva ben 3 nella stessa classe. Indovinate com’è finita? La Dad scatta con due contagiati.
La corsa al Quirinale. Entra nel vivo. Forse con troppo anticipo. Oggi il Corriere pubblica il primo borsino con le probabilità percentuali per ogni candidato. E ne elenca sei, nell’ordine di preferenza: Draghi, Casini, Amato, Cartabia e ultimi due: Severino e Berlusconi. A proposito di mr. B, c’è uno scontro violento fra Il Fatto e Libero a suon di petizioni ed editoriali. Repubblica propone “un nome condiviso dalla maggioranza”, se proprio Mattarella non accetta il bis.
Dall’estero: venti di guerra dalle parti dell’Ucraina. La Lettonia chiede più protezione militare alla Nato. Manifestazioni popolari per l’acqua in Iran. Mentre la nostra commissione d’inchiesta non ha dubbi: Giulio Regeni è stato ucciso dalla Sicurezza egiziana. Oggi il Papa parte per un viaggio a Cipro e in Grecia, sarà anche dai profughi di Lesbo, cinque anni dopo. Ne scrive Petrini su La Stampa.
Nuovo episodio da non perdere nel mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA CITTÀ TORNA MIA. Racconta la storia di Rebecca Spitzmiller, un’americana diventata italiana e romana al 100 per cento, che ha creato dal nulla un’associazione oggi diffusa in tutta Italia. Si chiama Retake ed è un’esperienza di recupero della città dal degrado e dalla sporcizia. Lei, Rebecca, ha cominciato dal muro del suo palazzo a Roma. E ora l'associazione può contare sull'aiuto di diverse persone nelle principali città italiane. Nell'ottobre di sette anni fa ha fondato Retake insieme ad altri. Da allora offre la possibilità di diventare volontari del bello e insieme responsabili del proprio ambiente. Cercate questa cover…
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Aperture sempre sulla pandemia. Due notizie in primo piano: l’Aifa approva i vaccini per i più piccoli e la Ue esamina l’obbligo vaccinale. Il Corriere della Sera annuncia: Via libera al vaccino per i bimbi. Avvenire è sartoriale: Vaccini taglia mini. Il Quotidiano Nazionale va già sul pratico: Vaccini ai bimbi con due mini dosi. Il Giornale è confortante: Il vaccino ai bimbi «è sicuro e funziona». Il Fatto è cupo: Covid, oltre 100 morti. Vaccini, tocca ai bimbi. La Stampa sceglie il virgolettato della Von der Leyen: “L’Europa valuti l’obbligo vaccinale”. La Verità sarcastico: Il «Buon Natale» della Ue: obbligo vaccinale per tutti. Domani propone un’inchiesta sull’ex deputato leghista Pini: Gli affari sul Covid del fedelissimo di Giorgetti. La Repubblica sottolinea gli ultimi dati sul Pil: Ripresa, locomotiva Italia. Ma Il Mattino: Bollette, rincari fino al 50% stangata sui regali di Natale. E Il Messaggero temono l’inflazione: Natale, shopping con stangata. Il Sole 24 Ore resta ancora sulle imposte: Cartelle fiscali, stretta sui ricorsi. Il Manifesto torna sul caso Regeni, dopo le conclusioni della Commissione d’inchiesta: Delitto di Stato. Libero reagisce alla raccolta di firme del Fatto contro Berlusconi, con un’altra raccolta simmetricamente opposta, uguale e contraria: NO a chi vuole rubarci il Quirinale.
VACCINO AI BAMBINI, VIA LIBERA DELL’AIFA
L’Aifa, l’autorità nazionale sui farmaci, ha deciso: sì al vaccino da 5 a 11 anni perché non c’è «nessun segnale di allerta». Sarà somministrato in due mini dosi a distanza di tre settimane. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere.
«Ora si può. Il via libera alla vaccinazione anticovid dei bambini dai 5 agli 11 anni, è stato licenziato al termine di una lunga riunione, dall'Aifa. Con dose ridotta, un terzo rispetto a quella per gli adulti, con due somministrazioni a distanza di tre settimane e possibilmente «adottando percorsi vaccinali riservati, adeguati all'età». La commissione tecnico scientifica dell'agenzia italiana del farmaco ha quindi approvato «l'estensione di indicazione di utilizzo del vaccino Comirnaty (Pfizer) per la fascia di età 5-11 anni», come già aveva fatto l'organismo europeo di vigilanza sui farmaci, l'Ema, una settimana fa. «I dati disponibili - è scritto nella nota dell'Aifa - dimostrano un elevato livello di efficacia e non si evidenziano al momento segnali di allerta in termini di sicurezza». Cioè il vaccino protegge dall'infezione e dagli effetti peggiori della malattia, come per gli adulti. «Lo studio registrativo del vaccino nella popolazione tra 5 e 11 anni ha mostrato un'efficacia nella riduzione delle infezioni sintomatiche da Covid pari al 90,7% rispetto al placebo e la non-inferiorità della risposta immunologica rispetto a quanto osservato nella popolazione 16-25 anni». E riguardo alle controindicazioni «lo studio non ha evidenziato eventi avversi gravi correlati al vaccino, nei 3.100 bambini vaccinati, non sono stati osservati, almeno a breve termine, casi di anafilassi o miocarditi/pericarditi». Infine «i dati di farmacovigilanza relativi ai circa 3.300.000 bambini di 5-11 anni già vaccinati, prevalentemente con una dose, negli Stati Uniti, ancorché riguardanti un periodo di osservazione di breve durata (media di 16 giorni), non evidenziano al momento nessun segnale di allerta». In sintesi, vaccinare i bambini funziona e non espone a rischi. Inoltre, è la conclusione della commissione dell'Aifa, è opportuno. «I dati disponibili nei rapporti dell'Istituto superiore di sanità mostrano nelle ultime settimane un chiaro incremento del numero di contagi nella popolazione di 5-11 anni di età. Sebbene l'infezione sia sicuramente più benigna nei bambini, in alcuni casi essa può essere associata a conseguenze gravi, come il rischio di sviluppare la sindrome infiammatoria multisistemica, che può richiedere anche il ricovero in terapia intensiva. La vaccinazione dei bambini comporterebbe un aumento della copertura dell'intera popolazione e, quindi, una maggiore protezione anche per i soggetti più fragili di tutte le età». Ma anche «ulteriori benefici quali la possibilità di frequentare la scuola e condurre una vita sociale importante in questa fascia di età». Nelle stesse ore arriva una comunicazione relativa ai tempi per la consegna delle dosi specifiche per i bambini sotto i 12 anni. «Ho parlato con Pfizer BioNTech - annuncia la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen - i vaccini per i bambini saranno disponibili a partire dal 13 dicembre». La somministrazione in Italia, secondo un programma già ipotizzato dal ministro per la Salute Roberto Speranza, potrebbe iniziare subito prima di Natale. A questo punto tocca ai genitori. La speranza degli esperti è che almeno la metà dei 3,6 milioni che compongono la platea, riceva il vaccino. Il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, assicura: «Sarà una scelta volontaria: per gli under 12 non si prevedrà alcun green pass. Ma dobbiamo dire con chiarezza che un vaccino offre un beneficio prima di tutto a chi lo riceve».
IN EUROPA SI DISCUTE DELL’ OBBLIGO
La Germania lo adotterà nel nuovo anno, l’Austria lo ha già decretato da febbraio, la Grecia lo ha già imposto. E ieri Ursula von der Leyen ha rotto il tabù: “Discutiamo dell’obbligo vaccinale”, ha detto. Tonia Mastrobuoni da Berlino per Repubblica.
«Fino a due o tre anni fa non lo avrei mai pensato. Ma è tempo di discutere sull'obbligo vaccinale». Dopo la decisione dell'Austria e della Grecia di introdurlo, e in vista dell'attesa riunione di oggi in Germania tra governo e primi ministri dei land che potrebbe fare altrettanto, Ursula von der Leyen rompe gli indugi. In un continente in cui ben 150 milioni di persone - il 33% della popolazione - non è ancora immunizzata, la presidente della Commissione europea suggerisce che i Paesi membri adottino un obbligo vaccinale. E nel giorno in cui la variante omicron è stata intercettata ormai in 24 Paesi del mondo e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie ha contati 59 casi in tutta Europa, von der Leyen ha messo in guardia dalla nebulosa che circonda ancora l'ultima mutazione del coronavirus. Per avere qualche schiarita ci vorranno «due o tre settimane, che in pandemia sono un'eternità. Per questo la raccomandazione è "vaccinatevi"». L'Oms, che considera l'omicron «ad alto rischio» ha spinto von der Leyen a dirsi «preoccupata». Ma non tutti i Paesi stanno pensando al ricorrere "all'atomica" della guerra al Covid. L'Italia, che continua a vantare un tasso di vaccinazione tra i più alti del continente - l'86% - e una curva dei contagi meno ripida del Nordeuropa, frena. «Per ora - ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio - ci possiamo permettere di non affrontare ancora questo argomento, perché gli italiani sono responsabili». Anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, sembra fiducioso che l'Italia potrà evitare l'obbligo vaccinale e ha parlato di «numeri molto incoraggianti». In Germania la cancelliera uscente Angela Merkel e il suo erede in pectore Olaf Scholz si riuniranno oggi con i governatori per decidere una nuova stretta anti-covid. I vaccinati languono ancora intorno al 71%; troppo poco per contenere una pandemia che corre al ritmo di 67mila nuove infezioni al giorno mentre i ricoverati in terapia intensiva sono saliti a 4.600 e potrebbero raggiungere quota seimila per Natale, secondo l'Associazione per la medicina intensiva Divi. Oltre all'immunizzazione obbligatoria per il personale sanitario, Scholz ha già detto che vorrebbe che il Parlamento decidesse un obbligo vaccinale per tutti i tedeschi che dovrebbe scattare da febbraio o marzo del 2022. E al di là dell'ultradestra Afd che è contraria e due partiti che si potrebbero spaccare, la Linke e la Fdp, è prevedibile che Scholz riesca a ottenere una maggioranza al Bundestag per imporre l'obbligo. Aumentano nel frattempo i Paesi che corrono ai ripari chiudendo le frontiere: dopo il Regno Unito e il Giappone anche gli Stati Uniti hanno annunciato una stretta sui viaggi. Ma il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, dopo che il Sudafrica aveva protestato nei giorni scorsi contro il bando dei voli provenienti da lì, ha voluto sottolineare che i «divieti di viaggio» per la nuova variante Omicron sono «ingiusti» e «inefficaci». Le ragioni per la diffusione rapida della nuova variante l'ha ricordata ieri l'Organizzazione mondiale della Sanità attraverso il suo il direttore generale, Tedros Adhanom: «Nel mondo abbiamo un mix tossico di bassa copertura vaccinale e molti pochi test», che continuerà a generare altre mutazioni - «a meno che non si trovi una soluzione».
Sull’obbligo c’è grande prudenza a Palazzo Chigi. Per ora si aspetta di vedere gli effetti del Super Green pass. Giuseppe Alberto Falci sul Corriere.
«A Palazzo Chigi la parola d'ordine è prudenza. L'ipotesi di introdurre l'obbligo vaccinale al momento non è sul tavolo del presidente Mario Draghi. L'intenzione è aspettare gli effetti che avranno il super green pass e le altre norme anti Covid in vigore dalla prossima settimana, il 6 dicembre, per almeno quindici giorni. Anche perché nel provvedimento approvato all'unanimità dal Consiglio dei ministri è già previsto l'obbligo per il personale amministrativo della sanità, per i docenti e il personale amministrativo scuola, i militari, le forze di polizia, il soccorso pubblico dal 15 dicembre, oltre alla terza dose per il personale sanitario. Il monitoraggio dei dati è costante, il premier si confronta quotidianamente con il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Franco Locatelli. Insomma, non vuole farsi trovare impreparato nel caso di una recrudescenza. È vero, l'incidenza dei casi quotidiani è in crescita e ieri per la prima volta, dopo diverso tempo, si è superato la quota di 100 decessi. Ma resta il fatto che i numeri dell'Italia sono i più bassi rispetto alla stragrande maggioranza dei Paesi europei. E soprattutto che altissima, rispetto agli altri, è la percentuale di vaccinati. Una percentuale che con le nuove categorie costrette a immunizzarsi salirà ulteriormente. «Non vogliamo creare ulteriore confusione e allarmismo», ripetono ambienti di governo. Anche perché il provvedimento ha già avuto un effetto, come ha ricordato ieri nel corso del question time il ministro Speranza: «Negli ultimi giorni c'è stata una crescita significativa di somministrazioni della prime dosi: lunedì abbiamo avuto oltre 31 mila dosi mentre nella settimana precedente la media era fra 15 e 20 mila». La strategia dell'esecutivo punta tutto sul potenziamento della campagna vaccinale, sul completamento delle terze dosi: «Sono oltre sei milioni i richiami effettuati fino ad ora». La possibilità di cominciare a vaccinare anche i più piccoli conforta rispetto alla possibilità di interrompere la salita della curva epidemiologica. Se questo non dovesse accadere, se dovesse crescere i numero delle Regioni che in vista del Natale passano in fascia gialla o arancione, è evidente che il governo studierà delle contromisure e rivaluterà l'obbligo vaccinale esteso a tutti gli italiani. Le pressioni che arrivano dai sindacati e da Confindustria aumentano, ma ugualmente forte è l'avversità dei no vax che nel nostro Paese sono una minoranza, ma hanno comunque dimostrato di poter mobilitare le piazze. Ed è proprio lo scontro ciò che si vuole evitare. Una linea attendista che comunque potrebbe cambiare rapidamente qualora ci fosse il rischio di dover imporre chiusure di imprese e attività commerciali. Su questo Draghi è stato sempre esplicito: «Non possiamo permetterci nuove restrizioni generalizzate. Non torneremo indietro rispetto al periodo del lockdown». Dunque se la nuova variante Omicron diventerà dominante a quel punto l'esecutivo sarebbe costretto a intervenire e a fornire una risposta immediata».
LA CIVILTÀ CATTOLICA SPIEGA IL PAPA SUI VACCINI
Avvenire pubblica uno stralcio dell'articolo di padre Andrea Vicini, tratto dall’ultimo quaderno della Civiltà Catttolica, in cui si spiega la posizione di Francesco sui vaccini. Il Papa è preoccupato che ciascuno, soprattutto tra i più poveri e indifesi, riceva una giusta ed efficace protezione.
«Fin dall'inizio della pandemia il Papa ha riconosciuto la necessità di risposte integrate e globali per far fronte a quanto l'umanità stava vivendo. In molteplici istanze e in ambiti ecclesiali e politici, in contesti nazionali e internazionali, ha richiesto di riconoscere la dimensione globale della pandemia e, fedele all'esperienza biblica, evangelica e del magistero cattolico, ha invitato a prendersi cura in modo particolare dei più poveri, di coloro che hanno minori risorse sociali, politiche, finanziarie e sanitarie. Francesco ha riaffermato e sostenuto l'impegno generoso ed eroico di tanti professionisti sanitari al servizio dei loro pazienti nella molteplicità di strutture sanitarie presenti nei vari continenti. Nello stesso tempo, si è mostrato attento a quanto concerne la salute delle popolazioni e alla complessità di far progredire la salute globale. Il Papa ha chiesto che la ricerca per un vaccino potesse essere sostenuta e facilitata per ottenere vaccini efficaci, mentre si controllava la diffusione dell'infezione con le misure di salute pubblica necessarie (igiene, mascherine protettive, distanza nei contatti sociali, quarantena per le persone infette, riduzione mirata della libera circolazione e delle diverse attività sociali: educative, lavorative e ricreative). Oltre a domandare la disponibilità e l'accesso per tutti ai test diagnostici necessari, Francesco non ha smesso di richiedere che i vaccini, dopo le necessarie verifiche scientifiche sulla loro efficacia e sicurezza, vengano resi disponibili a tutti, dappertutto, senza vincoli legati ai brevetti e, ancora una volta, con un'opzione preferenziale per le persone più povere e bisognose. Per promuovere la vaccinazione a livello globale, mostrando in tal modo il suo impegno volto a favorire la salute dell'intera umanità, il Papa ha fatto appello all'elemento caratteristico della vita cristiana: l'amore. Per Francesco, «vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore. E contribuire a far sì che la maggior parte della gente si vaccini è un atto di amore. Amore per sé stessi, amore per familiari e amici, amore per tutti i popoli. Vaccinarci è un modo semplice ma profondo di promuovere il bene comune e di prenderci cura gli uni degli altri, specialmente dei più vulnerabili». L'amore è sempre inclusivo e comprensivo, come ci ricorda il comandamento evangelico. La vaccinazione è un atto di amore per se stessi e per gli altri, in particolare a vantaggio dei più deboli, la cui salute è più fragile per malattie o condizioni preesistenti o per età e attività professionali. Inoltre, ogni atto di amore dipende dall'amore di Dio, donato gratuitamente, per sempre e senza condizioni, a tutti e dappertutto. Infine, ogni atto di amore ci rende capaci di amare, di concretizzare l'amore di Dio qui e ora, nella nostra quotidianità e ordinarietà. Dall'inizio del suo pontificato, Francesco ci esorta continuamente a vivere la nostra realtà di discepoli, illuminati, ispirati, nutriti e fortificati dall'amore di Dio, che sperimentiamo in molteplici modi in Gesù, nella Chiesa e nel mondo, grazie allo Spirito e ai suoi innumerevoli doni. In tal modo, il Papa ha incoraggiato e ispirato scienziati, operatori sanitari, leader, organizzazioni nazionali e internazionali e persone di buona volontà che in tutto il mondo spingono i cittadini a vaccinarsi e lavorano perché sia possibile vaccinarsi dovunque. La vaccinazione globale sta procedendo a ritmi diversi: nel Nord del mondo in modo più spedito, mentre nel Sud in modo più lento. Le cause di questa differenza sono molteplici e includono la disponibilità di vaccini, le strategie di distribuzione, la presenza ed efficienza delle strutture sanitarie, i processi di informazione, coinvolgendo le comunità locali, come pure le autorità che in modo responsabile si mettono a servizio dei cittadini, le comunità ecclesiali e le varie confessioni religiose presenti nel territorio. Trattando il tema della vaccinazione globale, il Santo Padre ha richiesto che l'estensione vaccinale globale sia rispettosa e avvenga nel contesto della crescita di una cultura sanitaria locale: «Il sapere va condiviso, la competenza va partecipata, la scienza va messa in comune. La scienza, non soltanto i prodotti della scienza che, se offerti da soli, rimangono dei cerotti in grado di tamponare il male ma non di curarlo in profondità. Questo vale ad esempio per i vaccini: è urgente aiutare i Paesi che ne hanno di meno, ma occorre farlo con piani lungimiranti, non motivati solo dalla fretta delle nazioni benestanti di stare più sicure. I rimedi vanno distribuiti con dignità, non come elemosine pietose. Per fare del bene davvero, occorre promuovere la scienza e la sua applicazione integrale: capire i contesti, radicare le cure, far crescere la cultura sanitaria». Senza dubbio la fiducia nella ricerca scientifica e nelle pratiche mediche in generale, e in particolare vaccinali, ha e continua ad avere un ruolo importante, influendo sui singoli e sulle comunità. Chiunque abbia sofferto a causa di progetti di ricerca scientifica o di pratiche sanitarie - per esempio, nel caso di minoranze etniche, razziali, culturali, religiose e linguistiche - giustamente starà attento ed esaminerà in modo critico quanto viene proposto, anche nel caso della vaccinazione contro il Covid-19. Tuttavia, in modi che continuano a sorprendere, e anche a scandalizzare, a livello mondiale ha luogo oggi una resistenza, anche aggressiva e violenta, ai vaccini ora disponibili e alla possibilità di vaccinarsi, e quindi a proteggersi e a proteggere dall'infezione causata dal Covid-19 e, qualora si contragga l'infezione, ad avere sintomi ridotti. I ripetuti interventi del Papa, come pure di autorevoli voci ecclesiali, sociali, culturali, politiche e scientifiche, non sembrano in grado di favorire una ricezione positiva dei vaccini disponibili, come pure di invitare a una riflessione critica circa le prese di posizione. Troppo spesso campagne di disinformazione e informazioni false seducono e fanno pensare che si stia vivendo una cospirazione globale, che il Covid non esista, che i vaccini introducano computer microchip nel nostro corpo. Non sono rare le famiglie in cui alcuni membri sono vaccinati e altri non hanno alcuna intenzione di vaccinarsi, adducendo motivi vari, creando divisioni e separazioni e rendendo difficile il dialogo e la riflessione critica. In queste situazioni, la salute e ciò che può proteggerla sembrano divenuti un bene personale, soggettivo e individuale, che è minacciato da quanto mira a promuovere la salute globale. Pare che il singolo possa preoccuparsi della sua salute - e solamente della sua - in modo autonomo e indipendente, a suo piacimento, come se la sua salute non dipendesse dalla salute altrui e da quella dell'intero Pianeta. Inoltre, la ricerca della verità, decisioni prudenti e sapienti, riflessioni autocritiche e un esame attento delle fonti di informazione non sembrano essere più valori condivisi. Con rammarico, si osserva che chi cerca di vivere tali valori viene attaccato verbalmente nei social media e, nel contesto sociale, anche fisicamente. Infine, in molti casi la salute è politicizzata. Così proteggere e promuovere la salute individuale, delle popolazioni, dei più vulnerabili e dell'intera umanità è ridotto a una scelta di parte, informata da logiche partitiche, confondendo scelte sanitarie con approcci proposti da partiti o da gruppi di pressione motivati ideologicamente».
Nicoletta Dentico, esperta di diritto alla salute, spiega sul Manifesto il nuovo Trattato pandemico:
«Si è conclusa con una decisione all'unanimità la sessione speciale della Assemblea mondiale della Sanità, iniziata il 29 novembre: aveva come unico punto all'ordine del giorno la deliberazione di un negoziato per un nuovo trattato pandemico per la preparazione e risposta alle pandemie future. LA POSTA IN GIOCO non banale, in un tempo di così bassa marea dell'azione multilaterale, è la possibilità di rispondere a due anni di emergenza sanitaria con la messa a punto di un nuovo strumento vincolante, ai sensi della funzione normativa dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), per adeguare la governance globale della salute alla gestione delle nuove inevitabili pandemie. L'idea originaria nasce dalla fantasia del presidente del Consiglio d'Europa Charles Michel, il quale ha lavorato sodo nell'ultimo anno per incardinare la proposta a Ginevra con l'appoggio di Francia e Germania e per conseguire in poche battute il sostegno incondizionato del direttore generale dell'Oms, Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, e di 25 paesi spiluccati in giro per il mondo (The Friends of the Treaty) per conferire alla proposta un senso di adesione che - sia chiaro - è rimasta piuttosto sfumata fino a questi ultimi giorni della assemblea dedicata al tema. SOTTO L'IMPALCATURA RETORICA del consenso diplomatico - in molti interventi si è ribadito che l'esito della assemblea speciale dell'Oms segna una pagina storica dell'organizzazione, alla ricerca di nuova legittimazione dopo due anni vissuti pericolosamente - si sono ravvisate nei giorni scorsi crepe assai meno accomodanti. Le crepe di realismo dei governi che hanno denunciato lo scandaloso stato di difficoltà in cui si dimenano ogni giorno, nella lotta contro Covid-19, a causa della diseguaglianza organizzata che impedisce l'accesso ai vaccini per immunizzare la loro popolazione. Le fessure di indignazione dei ministri che hanno ricordato il fallimento della comunità internazionale nel far funzionare il dispositivo di cooperazione sanitaria Covax, la incapacità di mantenere la promessa (di ripiego) sulle donazioni dei vaccini, e la caparbia resistenza contro la adozione della moratoria dei diritti di proprietà intellettuale, ferma da un anno all'Organizzazione Mondiale del Commercio. La comparsa della variante Omicron riflette, ha detto in apertura di assemblea Dr Tedros, questo scenario scoraggiante: occorre ricordare che solo 1 su 4 persone dei servizi sanitari in Africa ha ricevuto la prima dose di vaccino. NEL CORSO DELL'ASSEMBLEA si sono alzate molte voci governative con la richiesta di sospendere immediatamente il blocco dei voli nei confronti del Sudafrica. La decisione repentina di isolare una parte consistente del continente africano non ha alcuna evidenza scientifica, corrisponde a un esercizio di palese discriminazione da parte delle nazioni occidentali (che hanno bandito i voli con il Sudafrica, ma non con Israele e il Belgio dove sono stati identificati i primi pazienti), e una chiara violazione dei Regolamenti Sanitari Internazionali del 2005, l'accordo che già vincola 196 paesi della comunità internazionale a precisi comportamenti in situazioni di emergenza sanitaria. SÌ, PERCHÉ LA STRANA STORIA di questo trattato pandemico voluto dall'Europea è che uno strumento vincolante l'Oms già ce l'ha, anche se naturalmente la sua implementazione è stata a dire poco carente dall'inizio di Covid-19, e lo è evidentemente anche mentre gli stati membri si trastullano con parole altisonanti come equità, trasparenza, inclusività, efficacia, solidarietà, accountability. L'iniziativa europea, in nuce già nell'estate 2020, si è imposta per motivi geopolitici legati alla necessità di occupare lo spazio lasciato dal ruvido ritiro di Trump dall'Oms nel maggio 2020. La demarche però rimanda anche all'aspirazione di rafforzare un presidio europeo della salute globale, tra intraprendenza cinese e nuovo attivismo multilaterale americano della amministrazione Biden, non particolarmente entusiasta all'idea di un nuovo trattato. C'è poi la necessità di salvaguardare il mandato e la legittimità dell'Oms nel momento in diverse commissioni indipendenti dell'Oms e del G20 hanno estratto dal cilindro una pletora di nuove istituzioni sanitarie da insediare al Palazzo di Vetro, sottraendo autorità dunque alla agenzia tecnica dell'Onu. È il caso del Global Health Threat Council che tanto piace al G20 e a Biden, ovvero della Global Finance and Health Taskforce partorita ultimamente dal G20 a presidenza italiana, su spinta di Mario Monti - una storia questa che merita una trattazione a parte. In questa contingenza di competizione geopolitica e di troppi galli nel pollaio della salute globale, in molti respirano un'aria di forced multilateralism, di costrizione a seguire il vento dei più forti. Lo conferma una ricerca svolta da Geneva Global Health Hub (G2H2), una piattaforma indipendente della società civile che dopo aver intervistato 23 delegati, esperti di salute del nord e sud del mondo si chiede se sia necessario un nuovo trattato pandemico in questo mondo disincantato. Il 1 marzo 2022 parte il processo formale intergovernativo. Ne vedremo delle belle».
LA LOCOMOTIVA ITALIA GUIDA LA RIPRESA UE
L'Italia cresce più veloce di tutti i Paesi avanzati. L'Ocse lima al 5,6% le stime di sviluppo dell'economia globale, ma corregge al rialzo quelle del nostro Paese: +6,3% quest' anno e +4,6% nel 2022. Due le criticità che incombono: la variante Omicron e il rischio inflazione. La cronaca di Vittoria Puledda per Repubblica.
«La crescita economica mondiale continua robusta e si appresta a chiudere l'anno in rialzo del 5,6% ma la ripresa comincia a manifestare segnali di minor irruenza e, soprattutto, mostra squilibri e diseguaglianze tra il mondo occidentale e le aree a più basso reddito, dove i tassi di vaccinazione sono più contenuti. Ma, per una volta, l'Italia si porta in testa alle classifiche, conquista il ruolo di locomotiva e si appresta a concludere l'anno con un rialzo del 6,3% rispetto all'annus horribilis del 2020. È questa la fotografia scattata dall'Ocse nelle previsioni sull'economia globale pubblicate ieri, il suo Outlook. Che ha rivisto leggermente al ribasso le stime mondiali 2021 rispetto a quelle diffuse a settembre (quando calcolava un più 5,7%) mentre ha confermato quelle per il 2022 (al 4,5%) e ampliato lo sguardo al 2023, quando la crescita complessiva dovrebbe attestarsi al 3,2%. Stime più contenute anche per la crescita di Stati Uniti (ora al 5,6% nel 2021 rispetto al 6% delle stime precedenti, per poi proseguire al 3,7% l'anno dopo) e per l'eurozona (5,2% quest' anno, 4,3% nel 2022 e 2,5% nel 2023), mentre la Cina dovrebbe crescere dell'8,1% nel 2021 e poi attestarsi a più 5,1% nei due anni successivi. L'Italia invece ha portato a casa una promozione significativa, dal 5,9% stimato in precedenza all'attuale 6,3% (che proprio ieri ha avuto una conferma dall'andamento dell'indice Pmi, che misura la fudicia del settore manifatturiero, a livello record in novembre), seguito da un rialzo del 4,6% - dal 4,1% - nel 2022 e del 2,6% nel 2023. Meglio degli Stati Uniti quindi, meglio dei Paesi dell'eurozona, anche se va ricordato che il nostro Paese è reduce da una caduta record del Pil nel 2020 (-9%), ben più accentuata rispetto al dato mondiale (-3,4%) e all'area euro (-6,5%). Tuttavia l'accelerazione degli ultimi mesi porterà a ritornare ai livelli pre-Covid nella metà del 2022, riducendo il ritardo rispetto a Francia e Germania. «È un riconoscimento al lavoro fatto dal Governo Draghi», ha chiosato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio; un'accelerazione che dovrebbe essere «sostenuta da una politica di bilancio espansionista» anche grazie ai forti investimenti finanziati con i fondi del Next Generation Ue, sottolinea l'Ocse. E se l'alto livello del debito pubblico rimane una fonte di potenziale vulnerabilità, insieme ai rischi legati alla pandemia, scrive il rapporto, i rischi i per l'outlook sono «equilibrati» mentre «resta cruciale» per l'Italia attuare le riforme strutturali per digitalizzare e semplificare la giustizia, aumentare la concorrenza, soprattutto nei servizi, e migliorare l'efficacia della pubblica amministrazione, insieme alla riforma fiscale per ridurre il cuneo e la complessità delle imposte sul lavoro. In miglioramento anche il tasso di disoccupazione, che nel nostro paese scenderà dal 9,6% del 2021 all'8,9% del 2022 e all'8,4% del 2023; un miglioramento che, sottolinea l'Ocse, dovrebbe sostenere i consumi. Sulla crescita globale tuttavia continuano a sussistere ombre. «Omicron potrebbe rappresenta re una minaccia per la ripresa», ha sottolineato la capoeconomista dell'Ocse, Laurence Boone, e la campagna vaccinale, specie nelle aree meno sviluppate, resta una priorità assoluta. Su tutto, infine, pesa l'incognita dell'inflazione. Il picco è atteso a cavallo tra il 2021 e il 2022 per poi attestarsi gradualmente verso il 3%. Per questo l'Ocse raccomanda prudenza nelle politiche fiscali («Dovrebbero rimanere flessibili») e monetarie: «Nelle circostanze attuali - scrive Boone - la cosa migliore che le banche centrali possono fare è solo aspettare che le tensioni sull'offerta diminuiscano e segnalare di essere pronte ad agire se necessario».
DOMANI GIORNATA MONDIALE, ARRIVA LA DISABILITY CARD
Domani è la Giornata mondiale delle persone con disabilità. Alla vigilia dell’appuntamento Vita, con Lorenzo Alvaro, ha intervistato la ministra Erika Stefani, che ha presentato una nuova iniziativa, la Disability Card. Ecco uno stralcio.
«Sembra che la Disability Card sarà finalmente realtà. Che cambiamenti apporterà?
La Disability Card è una tessera di semplificazione che porterà dentro di sé tutti i dati relativi ad una persona. Le persone con disabilità soffrono un’eccessiva burocrazia. Non tutte le disabilità, ad esempio, sono visibili, e in alcuni casi si concretizzano situazioni spiacevoli per cui le persone devono dimostrate la propria condizione portando con sé verbali di accertamento di invalidità civile. Con la tessera si evita questo tipo di situazioni. Ma la bellezza della Card, che è un progetto europeo, riguarda la sua apertura. Già oggi noi abbiamo una convenzione con i Beni Culturali. Nel momento in cui verrà stampata la tessera si potrà accedere a musei. Ma essendo uno strumento aaperto a ogni nuova convenzione, per esempio Poste, federazione sportive, autostrade, potremo aggiungere nuovi servizi.Con che tempi diventerà disponibile?
Auspico che con l'anno nuovo avremo le prime tessere di Disability Card stampate. Ci manca l'accordo con il tipografico per la stampa della tessera e la relativa convenzione che dovrà passare alla Corte dei Conti.State lavorando nel contempo alla Legge Delega come richiesto dall’Europa. A che punto siete?
Stiamo lavorando a qualcosa di diverso rispetto a un Testo Unico o ad un Codice. Questa Legge Delega non vuole riformare il sistema della 104, delle pensioni e dell’accompagno. E neanche ha la presunzione di prendere la normativa per farne un nuovo codice. È una norma concentrata sull’attuazione del progetto individuale di vita. È una norma procedurale per semplificare i passaggi che una persona con disabilità deve affrontare per costruire il proprio progetto di vita. Oggi un disabile per accertare la propria condizione deve passare da innumerevoli enti e uffici. Con la Legge Delega vogliamo ridurre tutto ad un unico processo con un unico interlocutore. Vogliamo costruire un contenitore in cui ci siano tutte le figure con cui la persona con disabilità è tenuto a dialogare. Penso al Comune, le Regioni, la parte socioassistenziale, ortopedici, fisioterapisti, neuropsichiatri e enti del terzo settore. Non verrà quindi modificato il contenuto sostanziale della legge 104. Non toccheremo nulla di quello che già c’è. Ci limitiamo ad aggiungere il concetto di valutazione multidimensionale in senso semplificativo.Quanto tempo ci vorrà per vederla diventare realtà?
Siamo obbligati perché ce lo impone il Pnrr: entro il 31 dicembre 2021 dobbiamo approvare la legge. Entro i venti mesi successivi devono poi essere adottati tutti i decreti legislativi delegati. Se non venisse rispettata questa tabella di marcia l’Italia incorrerebbe in sanzioni da parte della Commissione Europea».
QUIRINALE 1. UN NOME CONDIVISO
Una semplice dichiarazione di Enrico Letta a Cartabianca, martedì sera, (“la maggioranza deve trovare un accordo”), ha messo in moto una piccola valanga di reazioni. Stefano Cappellini per Repubblica la interpreta così: se Mattarella proprio non vuole accettare il bis, si trovi un altro nome “super partes” condiviso, cioè che possa essere votato dalla maggioranza che sostiene Draghi.
«Con la nascita del governo Draghi, voluto da Sergio Mattarella, i partiti sono stati, di fatto, commissariati. Hanno pagato il prezzo del loro fallimento, una legislatura nella quale sono caduti malamente due esecutivi di segno opposto e si sono bruciate tutte le formule politiche possibili. Ora, davanti al passaggio decisivo, l'elezione del presidente della Repubblica, tutte le forze parlamentari sono a un bivio: possono scegliere di chiudere questi cinque anni con un disastro in linea con le esperienze precedenti oppure riscattarsi e rilegittimarsi in vista della fine, comunque non lontana, della parentesi di unità nazionale. La prova non è facile. È la prima volta nella storia della Repubblica in cui uno dei candidati più accreditati al Quirinale è il presidente del Consiglio in carica. Assecondare il suo legittimo desiderio di trasferirsi al Colle significa rischiare di precipitare il Paese in un pauroso vuoto di potere. D'altra parte, chiedergli di restare a Palazzo Chigi, come hanno fatto negli ultimi giorni quasi tutti i leader delle forze e politiche di maggioranza, significa però farsi carico di trovare una soluzione all'altezza e condivisa da tutte le forze che concorrono al governo. Perché a Draghi non si può chiedere al contempo di rinunciare all'elezione al Colle e continuare a governare per ancora un anno con una maggioranza già malferma di suo e per giunta squassata da un blitz presidenziale della sinistra contro la destra o viceversa. Quei partiti che hanno messo la stabilità in cima alle priorità per il 2022 devono muoversi coerentemente. Quindi, al netto delle fumisterie tattiche, anche qui le strade sono solo due: o un appello bipartisan che convinca Mattarella a restare in carica in nome di una emergenza non ancora superata o l'individuazione di un nome votabile da Conte, da Letta, da Di Maio, da Renzi, da Berlusconi, da Salvini e dagli altri piccoli azionisti della maggioranza. Il Mattarella bis è certo uno scenario rassicurante qualora il capo dello Stato ne prenda in considerazione l'attuazione, ma tra le ragioni che lo hanno spinto ad allontanarlo con pubbliche dichiarazioni c'è forse - oltre a questioni costituzionali care a un professore di diritto come Mattarella - anche il fastidio per il tatticismo e la fuga dalla responsabilità che ha fin qui animato il dibattito sulla ipotesi della rielezione. Un conto è una operazione di sistema che porti al bis, con il consenso generale che richiede, altro è evocarlo per nascondere l'incapacità di trovare un accordo condiviso su un nome, operazione che richiede intelligenza, pazienza e coraggio, tre qualità non diffusissime nel nostro panorama politico. Eppure è qui che si gioca la credibilità dei partiti, qui che possono dimostrare di potersi presentare al voto delle prossime politiche dichiarando chiusa la fase dell'unità nazionale e riaprendo quella della normale alternanza, come deve accadere in una democrazia sana. Pensare di lucrare sulle difficoltà che ciascuno dei due schieramenti ha al suo interno sarebbe una scelta miope, perché un terremoto che renda il Paese acefalo o instabile condanna chi vincerà le prossime elezioni a governare su macerie che né il centrosinistra né il centrodestra, tantomeno terzi e improvvisati poli, può pensare di affrontare con le sue sole forze. Il rischio è che i partiti si consegnino da soli allo stato di eccezione e all'ipoteca tecnocratica. Al contrario, un finale ordinato della legislatura, capace di archiviare con successo le due grandi sfide in corso, la lotta alla pandemia e la spesa dei fondi del Pnrr, e magari di introdurre modifiche necessarie al sistema istituzionale, permetterà ai partiti di riprendere quella sovranità della quale si sentono parzialmente defraudati. Non ci sono scappatoie, non ci sono scorciatoie. Serve la politica, quella vera. Per i partiti è la grande occasione: sul Quirinale si tratta, se perdonate la metafora banale, di fare un passo indietro oggi per farne due avanti domani».
QUIRINALE 2. AL COLLE “UNO SCUDO EUROPEISTA”
Piero Ignazi su Domani ricorda però ai partiti che la chiamata di Draghi a Palazzo Chigi è stata provocata da una situazione che perdura. Non è certo un’emergenza temporanea: c’è un’esigenza di “stabilizzazione del sistema”. Chi offre le più “solide credenziali internazionali”? Detta così, ci sono poche alternative a Supermario.
«Preoccupa la vista corta di coloro che operano per trovare il prossimo inquilino del Quirinale. Non si tratta di trovare una soluzione temporanea, un rattoppo qualsiasi a una situazione di emergenza. Intanto perché non c'è nessuna emergenza, nel senso che non ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito e improvviso come due anni fa. Il Covid rimarrà tra noi come l'influenza e il raffreddore. Sul piano politico, non siamo nelle condizioni eccezionali del 2013, con un parlamento appena eletto, affollato da neofiti populisti, e ancora provi di un governo. È in quel clima che tutti andarono in ginocchio da Giorgio Napolitano perché salvasse il sistema, anche se vi erano state appena cinque votazioni andate a vuoto. Un nulla rispetto alle 21 necessarie per eleggere Giovanni Leone nel 1971, e alle 16 per Sandro Pertini nel 1978. La soluzione che va adottata nel prossimo febbraio si svolgerà presumibilmente in condizioni del tutto diverse e quindi deve fondarsi su un progetto di stabilizzazione interna ed esterna del sistema. Perché se oggi esiste un certo equilibrio, domani potrebbero venire a mancare le condizioni che lo reggono. Quindi lasciare in campo il team Mattarella-Draghi? Esattamente il contrario. Va cercato un nuovo assetto, sia per lo scenario domestico che per quello internazionale. All'interno, va garantito che il Colle sia presidiato nei prossimi, lunghi, sette anni - quando vi saranno almeno due elezioni politiche, referendum, e richieste di modifiche dei rapporti stato-regioni visto che giacciono, finora inevase, quelle di autonomia differenziata delle regioni del nord - da una personalità autorevole e di sicura affidabilità democratica. Una personalità che sappia tenere a freno eventuali pulsioni populiste e anti sistemiche che circolano ancora, a dispetto della normalizzazione grillina: non sappiamo cosa farà quel 15-20 per cento di No-vax dichiarati o sommersi. Inoltre è indispensabile avere al Quirinale una personalità che faccia da scudo ai ritorni di fiamma dei paladini nord europei del rigore finanziario quando dovremo cominciare a restituire il debito accumulato. Solo una figura di questo genere dietro al quale si staglia, inevitabilmente quella di Mario Draghi, assicura un futuro più governato. Mentre a una personalità di minor rilievo i partiti possono imporre turbolenze politiche di vario genere fino a distorsioni sistemiche, e i mercati e rigoristi avere la via spianata, questo non accadrebbe di fronte chi, attualmente, ma solo per un anno e mezzo ancora, siede a palazzo Chigi. Per mettere in sicurezza il sistema e assicurargli stabilità nei prossimi anni, va insediato al Colle chi offre le più solide credenziali internazionali».
QUIRINALE 3. SPUNTA L’IPOTESI FRANCO AL GOVERNO
Voce dal sen fuggita? O necessaria informazione fra diplomatici? Fatto sta che secondo Repubblica, Di Maio avrebbe spiegato ad interlocutori esteri che sarebbe pronta una staffetta di Mario Draghi col ministro dell'Economia, Daniele Franco. Lui al Quirinale e il tecnico a Palazzo Chigi. Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«L'episodio è recente. Lo riferiscono fonti diplomatiche di Roma. Raccontano che nel corso di un vertice internazionale il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si sarebbe lasciato andare a una confidenza con alcuni interlocutori, a loro volta diplomatici. Il cui senso è questo: Mario Draghi starebbe lavorando a una staffetta con Daniele Franco. L'attuale premier andrebbe al Quirinale, il ministro dell'Economia traslocherebbe a Palazzo Chigi. È normale che il titolare della Farnesina venga interpellato sullo snodo cruciale che attende il Paese a metà gennaio. Ed è ovvio che gli interlocutori lo incalzino con domande mirate, ovviamente a margine dei format ufficiali. Altrettanto ovvio è che Di Maio - se non altro per il ruolo che ricopre - assicuri che si troverà una soluzione in grado di mettere in sicurezza il Paese. Sempre secondo la confidenza ai diplomatici, l'obiettivo del responsabile del Tesoro sarebbe quello di traghettare il governo quantomeno fino a settembre del 2022. Obiettivo minimo, visto che la legislatura scade la primavera dell'anno successivo. Proprio oggi, intanto, Franco sarà a Strasburgo. L'occasione è la commemorazione di Valéry Giscard d'Estaing. È stato Emmanuel Macron a invitare i capi di Stato e di governo. Per le istituzioni europee parteciperanno Ursula von der Leyen, Charles Michel e David Sassoli. Per l'Italia il ministro, a dimostrare il legame di fiducia che lo lega al premier. Lo scenario confidato da Di Maio, a scavare nei partiti, resta comunque un'opzione non priva di incognite. Tre in particolare: è uno schema che rischia di ingabbiare il Pd in un accordo di unità nazionale dal quale Salvini potrebbe sfilarsi poco dopo, tornando a saldarsi con Giorgia Meloni in vista delle politiche. E ancora: i 5S, che si sono pubblicamente esposti a favore della permanenza del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, sosterranno questa ipotesi? E infine: avrebbe il ministro del Tesoro la forza per gestire una maggioranza che va dal Carroccio al Pd, e che lo stesso Draghi a volte fatica a contenere? Tutto, è evidente, ruota e continua a ruotare attorno al ruolo dell'attuale presidente del Consiglio. Soltanto tre giorni fa, pubblicamente, il ministro degli Esteri ha insistito sulla necessità che Draghi continui a rappresentare l'Italia, senza indicare esplicitamente una preferenza tra Palazzo Chigi e il Colle. Nel frattempo, anche Giancarlo Giorgetti sembra continuare a sperare nell'eventuale ascesa dell'ex banchiere al Colle. Così, almeno, lascia intendere, intercettato a Montecitorio in un piovoso mercoledì pomeriggio dedicato al question time. Il big leghista è alla buvette. Sorseggia un caffè con un collega. È un giorno importante, Salvini ha appena annullato la missione a Varsavia. Sembra aver prevalso la linea "giorgettiana", quella che recita: lontani dai sovranisti di estrema destra, vicini al popolarismo europeo. È così? «Non so, sapete più cose di me. A Roma c'è brutto tempo, figuriamoci a Varsavia». Ecco la sua linea, travestita da metafora meteorologica: meglio tenersi alla larga dagli estremisti dell'Est Europa. Ma è alla domanda sul Quirinale che il titolare dello Sviluppo economico lancia un altro segnale. La domanda è sempre la stessa: con il balletto "Draghi sì, Draghi no" al Colle non si rischia di spezzare la corda? «Dipende dalla qualità della corda», è la replica. Il primo ad aver lanciato l'attuale premier per il Colle, insomma, non sembra aver rinunciato alla missione. E dire che invece altri leader pensano che Draghi debba restare a Palazzo Chigi. Uno è Silvio Berlusconi, che punta a quel traguardo per coronare la carriera. Un altro è Salvini, almeno stando alle sue ultime uscite pubbliche in netta controtendenza rispetto a Giorgetti. Un altro ancora è Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva si muove molto, ultimamente. Dopo anni di gelo, ha cenato a Bruxelles con il commissario europeo ed ex premier, Paolo Gentiloni. Agisce avendo come obiettivo politico quello di scardinare l'asse Pd-Movimento, in modo da rimescolare le carte e risultare determinante nella scelta del candidato per il Colle. Il nome considerato assai vicino a Renzi è quello di Pier Ferdinando Casini. Non è una novità e non si tratta di un profilo che facilmente riuscirà a imporsi. Nelle ultime ore, però, il fondatore di Italia Viva sarebbe tornato alla carica, spingendo per questa soluzione direttamente con Salvini».
QUIRINALE 4, IL BORSINO DI POLITO
Mancano due mesi e 15 giorni alla convocazione degli elettori e il Corriere già pubblica il primo Borsino dei candidati al Colle. Polito qua sotto spiega perché. Intanto ecco sintetizzato il primo termometro dei quirinabili. In ordine di percentuali assegnate. Primo: Draghi colll’80 per cento. Secondo Casini col 65. Terzo Amato al 55. Quarta Cartabia ferma al 50. Ex aequo, entrambi col 35%, Berlusconi e Severino.
«Finalmente qualcuno l'ha detto, e per ironia della sorte è stato proprio colui che aveva giurato di non parlarne fino a gennaio, Enrico Letta: se nel voto per il Quirinale si spacca la maggioranza di governo, può finire anche il governo. Dunque i partiti e i leader che sostengono di lavorare per tenere in vita il gabinetto Draghi fino al 2023, hanno anche l'onere di cominciare a dire chi potrebbe realisticamente ottenere una tale «larga maggioranza», pur al netto degli inevitabili franchi tiratori. Abbiamo provato a calcolare le percentuali di sei dei candidati più citati. Ma attenzione, non sono le probabilità di successo finale, che potrebbe arrivare anche senza un accordo comune, ma alla fine di una dura battaglia e a prezzo di una spaccatura del Parlamento: se andasse così sarebbe una lotteria, o una corrida, e prevederne le probabilità è oggi impossibile. Quelle che seguono sono invece, e più modestamente, le probabilità che assegniamo a ciascuno di loro di diventare il candidato di tutti, o quasi tutti. Tutta un'altra partita».
SCONTRO SU BERLUSCONI
A proposito di Silvio Berlusconi, in coda nelle previsioni del Corriere, Marco Travaglio oggi ritorna sulla grande offensiva contro la sua elezione. Si sviluppa un duello a distanza con i giornali della destra. Ecco il commento in prima.
«La valanga di firme che ha subito accolto la nostra petizione contro l'incubo di B. capo dello Stato è indice di una repulsione tanto ampia quanto trasversale: abbiamo la presunzione (speriamo non l'illusione) che la stragrande maggioranza degli italiani, a parte gli irriducibili elettori di Forza Italia, presi a tu per tu ritengano vergognosa, o almeno ridicola, la sola ipotesi che uno così possa ascendere al Quirinale. Eppure nessun leader dei maggiori partiti ha il coraggio di dirlo fuori dai denti. Che non lo dicano Salvini e Meloni, anche se probabilmente lo pensano, è ovvio: sono suoi alleati, hanno imbarcato e riciclato pezzi della sua classe dirigente (anzi digerente), sperano di ereditarne i pochi voti rimasti, beneficiano dei favori dei suoi giornali e delle sue tv, e sanno che basta un lieve dissenso, una pallida critica, per finire massacrati e sputtanati come Fini, Boffo e tutti gli altri "amici" che hanno osato allontanarsi da Arcore. Che non lo dica l'Innominabile, è scontato: a parte l'ammirazione dell'allievo ripetente per il maestro, se al prossimo giro quello non gli regala un seggio sicuro, è politicamente morto, più di quanto già non sia. Che non lo dicano Conte, Letta & C. è invece stupefacente. Finora si limitano a precisare che B. non è il loro candidato: e ci mancherebbe pure. Ma, quando spiegano il perché, balbettano frasi politichesi che lasciano basiti milioni di loro elettori, abituati da 27 anni a considerare il Caimano la peggior sciagura che si sia abbattuta sulla nostra povera Repubblica. Sentite Letta (Enrico): "Non credo che la candidatura di Berlusconi sia in grado di essere votata dal Pd e nemmeno da una larga maggioranza. Se il capo dello Stato non viene eletto a larga maggioranza, cade il governo. È assurdo pensare al candidato di bandiera di uno schieramento". Par di sognare: il Pd non vota B. perché gli altri non lo votano (quindi, se gli altri lo votassero, il Pd lo voterebbe); perché, se B. passasse per pochi voti, cadrebbe il governo Draghi (una buona notizia su due); e perché è di centrodestra (ma, se il problema fosse questo, non verrebbe eletto nessuno, perché i candidati o sono di centrodestra, o di centrosinistra, o del M5S , salvo eleggere un paracarro, un termosifone o un morto). Il ministro Orlando invece dice no a B. perché "è molto auspicabile una donna al Quirinale": quindi il problema è che B. non è donna (ma Nicole Minetti lo è). Conte si spinge più in là, tracciando un identikit del futuro presidente - "persona di grande profilo morale e autorevolezza che possa guidarci per sette anni" - che esclude in radice B. Ma che ci vuole a dire che un vecchio puttaniere pregiudicato e finanziatore della mafia non può fare il capo dello Stato neppure in Italia?».
Alessandro Sallusti su Libero lancia una controffensiva: anche il suo giornale raccoglie le firme ma perché Berlusconi possa candidarsi. Anche lui scrive in prima pagina.
«La sola idea che Silvio Berlusconi possa, sostenuto da tutto il Centrodestra e ovviamente non solo - altrimenti mancherebbero i numeri necessari - giocarsi seriamente la partita del Quirinale deve fare davvero paura se ieri, con due mesi di anticipo sulla scadenza, il Fatto Quotidiano ha lanciato una petizione: "Berlusconi al Quirinale? No grazie". La cosa è ovviamente legittima, ma dà l'idea che il Centrodestra non sia libero di proporre il suo candidato - Berlusconi o chi sarà - se non gradito alla banda di Travaglio, Conte, Davigo e compagnia cantante. Che poi non è un'idea ma una certezza che, scommetto, prenderà corpo nelle prossime settimane con una campagna mediatica di odio e di fango - sarebbe strano che non partisse anche qualche iniziativa giudiziaria che quelle viste fino ad ora sembreranno bazzecole. Il Quirinale è roba loro, della sinistra e di quella massa informe che sono i Cinque Stelle. Tutto il resto è indegno anche solo di pensare di avere voce in capitolo, figuriamoci con un candidato proprio, peggio mi sento se quel candidato fa di nome Silvio Berlusconi che dal 1994 in poi è l'unico che questi signori li ha quasi sempre messi in riga o quantomeno arginati. Chi dovrà essere il candidato del Centrodestra non possiamo lasciarlo decidere a Travaglio, né a Letta, né a Conte né a nessun altro che non ne abbia titolo. La scelta spetta unicamente a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni - oltre naturalmente a Silvio Berlusconi - cioè agli unici che rappresentano gli italiani non di sinistra che ancora oggi sono, secondo tutti i sondaggi, la maggioranza degli elettori. In questa situazione stare zitti non è possibile. Non tocca neppure a noi indicare il candidato, diciamo che se anche fosse Silvio Berlusconi ne saremmo orgogliosi e felici. Se in queste settimane per difendere un diritto e combattere editti presuntuosi ci sarà da menare le mani - dialetticamente e giornalisticamente parlando - certo non ci tireremo indietro. Lanciamo quindi oggi una petizione - le modalità per partecipare le trovate qui sotto - contro chi vuole rubarci il Quirinale, contro chi pensa che Salvini, Meloni e Berlusconi non abbiano la stessa dignità politica dei loro rivali, contro chi getta veleni e menzogne nella campagna quirinalizia. Che poi è povera gente che non ne ha mai azzeccata una, che nel tempo si è ispirata al pm Antonio Ingroia, quello del processo bufala sulla trattativa Stato-Mafia, prima allontanato dalla magistratura e poi indagato; a Piercamillo Davigo, il moralista manettaro sulla cui testa ora pende una richiesta di rinvio a giudizio; a quei falliti di Giuseppe Conte e Domenico Arcuri. Bene, si parta. Che l'ultima volta che Travaglio ha sfidato pubblicamente Berlusconi - ricordate la scena in diretta da Santoro del Cavaliere che spolvera disgustato la sedia sulla quale era stato seduto il direttore de Il Fatto - il centrodestra recuperò un mucchio di voti che sembravano persi per sempre. Avere contro certa gente porta bene e sono sicuro che al Quirinale salirà solo chi avrà il gradimento dei tre leader del centrodestra che su questa partita non può distrarsi un attimo né sbagliare un colpo. Ne va del suo futuro».
Il Giornale intervista Luciano Violante che, incalzato da Edoardo Sirignano, ricorda le condizioni costituzionali per il voto. Ecco il passaggio su Mr.B.
«Luciano Violante non usa mezzi termini. La campagna denigratoria di Marco Travaglio contro Silvio Berlusconi non solo non gli piace, ma lo fa addirittura inorridire. «Quelle parole sono inutilmente offensive», tuona contro il direttore del Fatto che oggi ha aperto il suo giornale insultando il Cavaliere. «Si può esprimere un qualcosa in tanti modi, ma quando lo si fa in modo aggressivo e volgare, è dequalificante a prescindere». È giusto impedire a Berlusconi la corsa al Colle? «Tutti i cittadini che hanno più di cinquanta anni possono candidarsi. Spetta ai parlamentari decidere chi votare. Ad ogni modo le persone non vanno mai offese. È sbagliato usare questi toni nella lotta politica».
REGENI FU UCCISO DALLA SICUREZZA EGIZIANA
Conclusione choc ed esplicita quella della Commissione d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Il giovane italiano fu ucciso dalla sicurezza egiziana. Francesco Grignetti su la Stampa.
«Non ci sono giri di parole dietro cui nascondersi. «La responsabilità del sequestro, della tortura e dell'uccisione di Giulio Regeni grava direttamente sugli apparati di sicurezza dell'Egitto». Così afferma la Relazione finale della Commissione d'inchiesta, votata all'unanimità dai suoi componenti. Così rilancia il presidente della Camera, Roberto Fico: «Con questo impegno la Camera dei deputati continua a tenere acceso un faro sulla vicenda» e «ha aggiunto un ulteriore e prezioso tassello nella ricostruzione dei fatti». C'è unanimità anche nella richiesta al governo di fare di più perché non muoia il processo istruito dalla procura di Roma: una via può essere un contenzioso internazionale con l'Egitto, richiamando la Convenzione Onu contro la tortura, firmata da entrambi i Paesi. La Commissione, presieduta dal deputato Erasmo Palazzotto, ha scavato a fondo nella tragedia di Giulio Regeni. Ci sono voluti due anni di lavoro e 45 audizioni. Alla fine il quadro è quello che emerge dalle indagini della procura di Roma, che è ampiamente ringraziata, assieme al Ros dei carabinieri e allo Sco della polizia. In estrema sintesi: è del tutto inverosimile la pista portata avanti dalla magistratura egiziana di un rapimento ed uccisione da parte di criminali comuni; ma non regge neanche la versione cospirazionista di un Giulio agente segreto al soldo dei servizi britannici. La storia è tutt' altra. Il movente è la ricerca stessa che Giulio stava svolgendo sul sindacalismo indipendente ed in particolare sull'organizzazione dei venditori ambulanti. «Ma non sarebbe bastato il tema in sé ad attrarlo nell'orbita della National Security, se non fosse intervenuta la delazione del sindacalista Said Abdallah a cui il giovane ricercatore si era rivolto in perfetta buona fede». È il sindacalista, che sperava di intascare i soldi di una fondazione inglese, ma si scontrò con l'integrità del giovane, a darlo in pasto alla polizia segreta. La quale era alla ricerca spasmodica di un successo da rivendicare con il nuovo regime di al-Sisi. E c'entra anche la concorrenza tra servizio segreto civile, potentissimo ai tempi di Mubarak, e quello militare, prediletto dal presidente. Ovvero «l'aspirazione a fare carriera di un'unità della National Security, desiderosa di recuperare nel nuovo regime il terreno perduto in termini di influenza politica». I depistaggi egiziani sono stranoti, ma la Relazione racconta anche un «altro» Egitto. Ad esempio quello di coraggiosi attivisti e avvocati che si battono per dare giustizia a Giulio «e hanno affrontato carcere e persecuzioni». Parla di un pezzo della magistratura che «sembrerebbe essersi resa conto dell'enormità dell'accaduto (l'uccisione dei presunti banditi nel 2016, ndr), aprendo, pur senza esito, un'inchiesta sugli eccessi compiuti dalla polizia». Sono gli stessi magistrati che inizialmente collaborano con i colleghi italiani, per poi venire tutti sostituiti. Di quel ministro della Giustizia, Ahmed El-Zend, che ebbe l'ardire di chiedere «piena luce» e finì defenestrato nella primavera del 2016 con «strumentale accusa di blasfemia». Per finire con gli ambienti diplomatici «da cui perverrà la notizia del ritrovamento di un corpo che avrebbe potuto essere quello di Giulio». Pezzi di un Egitto che al-Sisi ha progressivamente emarginato. E la conclusione è una sola: il regime «copre» le responsabilità dei suoi apparati di sicurezza».
IRAN, LA PROTESTA DELL’ACQUA
Iran in piazza nella protesta dell'acqua. I problemi creati dalla siccità sono complicati dalla corruzione e dalla cattiva gestione del Paese. Gabriella Colarusso per Repubblica.
«Ridateci lo Zayanderud! Ridate la vita a Isfahan!». Il 19 novembre, nel letto ormai arido del fiume che fece ricca l'elegante Isfahan, la città dei giardini in mezzo al deserto, c'è stata la più grande protesta ambientalista della storia iraniana. Migliaia di persone hanno sfilato risalendo il corso del fiume, sotto lo storico ponte Khaju, per chiedere che venga restituito alla città il bene più prezioso, l'acqua. La protesta è partita dai contadini, ma a loro si uniti cittadini di Isfahan e della pianura intorno, con i ristoratori che offrivano zuppe calde ai manifestanti e passanti che incitavano e applaudivano. La manifestazione è finita persino sui media nazionali controllati dal governo. I contadini, che già protestavano da giorni, avevano deciso di accamparsi nel letto del fiume fino a quando non fosse stata riaperta la diga che porta acqua allo Zayanderud. Le autorità sembravano tollerare. Quando però la protesta si è estesa anche a Shahrekord, a 80 chilometri più a sud, arrivando a lambire il Khuzestan ribelle che già a luglio era sceso in strada per chiedere acqua, lavoro e salari dignitosi, il sit-in pacifico è stato strozzato. Venerdì scorso all'alba le forze di sicurezza sono piombate nell'accampamento, nel giro di poco molte tende erano state date a fuoco. Al mattino in centinaia sono tornati sulla piana. La polizia ha usato gas lacrimogeni e manganelli per «rispondere al lancio di pietre dei rivoltosi », dicono le autorità locali. Ci sono stati diversi feriti: video condivisi online - nonostante il blocco di internet - mostrano il volto di una donna sanguinante e di un uomo a terra. Almeno 67 persone sono state arrestate. La marcia di Isfahan arriva dopo mesi di proteste diffuse nel Paese per la scarsità di acqua, ma è stata uno «spartiacque», ci dice un giornalista di Teheran che preferisce restare anonimo: ha riunito cittadini di diversa estrazione sociale e appartenenza politica. L'Iran è un Paese arido e semi-arido, colpito dal riscaldamento globale, e quest' anno sta affrontando la peggiore siccità in 50 anni, secondo l'ex ministro dell'energia, Reza Ardakanian. Il 70% del territorio non riceve abbastanza acqua dalle piogge e le autorità hanno spesso utilizzato le risorse delle regioni dove ce n'era di più per alimentare zone aride: è successo nel Khuzestan, ma è successo anche con lo Zayanderud, deviato per soddisfare le necessità delle imprese agricole e industriali delle aree intorno a Isfahan. C'entra la siccità, certo, ma c'entra soprattutto quella che lo studioso dello European Middle East Research Group, Bijan Khajehpour, definisce «la bancarotta dell'acqua»: malgoverno e cattiva gestione che hanno alimentato la corruzione. I capitali che girano intorno ai grandi progetti strutturali hanno spinto il sistema delle dighe sottraendo fondi a politiche idriche più sostenibili. Per l'ufficio del leader supremo, Ali Khamenei, la questione è una priorità nazionale. Le proteste sono una sfida vitale al sistema. Il governo ultraconservatore di Ebrahim Raisi, eletto a giugno in consultazioni con l'affluenza più bassa della storia e ora impegnato a Vienna in una difficile trattativa per salvare il Jcpoa - l'accordo sul nucleare firmato nel 2015 ma poi abbandonato dagli Usa - dovrà dimostrare di saper tirare fuori il Paese dalle molteplici crisi in cui è piombato».
VERTICE DELLA NATO A RIGA IN LETTONIA
La Lettonia chiede protezione: vuole che Washington schieri nel suo Paese una divisione blindata e forze di manovra. Anche Estonia e Lituania invocano un'assistenza dalla Nato. Il Segretario di Stato Usa Blinken dice: «Siamo pronti a rispondere in Ucraina». Francesco Palmas per Avvenire.
«Si riarma l'Est europeo. In Lettonia soffiano impetuosi i venti di guerra che spirano dalla vicina Ucraina. Le minacce russo- bielorusse e gli intensi movimenti di forze corazzate a 160 chilometri dal Donbass incutono paura. Riga si sente scoperta. È sotto la minaccia dei missili Iskander schierati a Kaliningrad. Teme un'invasione da parte dei 50mila uomini che Vladimir Putin ombreggia fra la Crimea e la Bielorussia, pronti a varcare il fronte in qualsiasi momento. Se in Ucraina si tornasse a combattere, l'area di Suwalki, limitrofa ai Baltici, sarebbe la prima a capitolare, per tagliare fuori la Polonia e rallentare la controffensiva Nato. Suwalki è un corridoio di 60 chilometri che s' incunea fra la Bielorussia e l'enclave russa di Kaliningrad. È l'unico passaggio terrestre che collega i Baltici ai Paesi dell'Ue e agli alleati della Nato. È un punto nodale per l'Alleanza Atlantica, che i russi tengono sotto costante pressione con missili e interdittori. Un vero rompicapo per la Nato, che avrebbe le mani legate e non potrebbe soccorrere tempestivamente Estonia, Lituania e Lettonia. Ecco perché il trio baltico invoca da anni un rafforzamento della presenza militare alleata sul proprio territorio, oltre ai tre battaglioni multinazionali già in linea. Ieri il segretario di Stato Usa, Antony Blinken ha assicurato che la Nato è «pronta a rafforzare le sue difese sul fianco orientale», ribadendo che ci sono «prove» su possibili piani di aggressione da parte di Mosca. «Siamo pronti a rispondere se Putin entra in Ucraina», ha detto. Mentre Artis Pabriks, ministro della Difesa lettone, ha rotto gli indugi a margine del vertice Nato dei ministro degli Esteri a Riga. Si è detto insoddisfatto dei 1.500 soldati del gruppo da battaglia guidato dal Canada. Vuole almeno una batteria di difese aeree americane per abbattere i missili che sarebbero lanciati da Kaliningrad e ha chiesto a Joe Biden di schierare permanentemente nel suo Paese una divisione blindata o una brigata con carri e forze di manovra. Una richiesta che il Cremlino ieri ha già letto come una «sfida ai suoi confini». Il fronte è ampio, ma i russi hanno in riserva altri 100 gruppi tattici. Segno dei tempi, sta rinascendo la famosa British Army of the Rhine, dissolta in Germania nel 2020. Giovedì scorso, il ministero della Difesa, a Londra, ha annunciato il prossimo schieramento in Westfalia di una brigata blindata. Per effettivi e mezzi, i 6.000 soldati della Corona e i 250 blindati da combattimento saranno ancora pochi rispetto ai 55mila del periodo della guerra fredda. Ma il clima in Europa centro-orientale è sempre più teso, molto simile a quello successivo alla Seconda guerra mondiale. I britannici andranno vicino a Paderborn. Vi creeranno un centro di irradiamento di forze terrestri alleate per l'Europa. L'ha confidato a inizio ottobre il capo di Stato maggiore britannico, generale Mark Carleton-Smith, in occasione della nascita di un'unità mista anglo-tedesca del genio, indispensabile per spianare la strada verso est. Anche gli americani sono sul piede di guerra. Nel 2022, investiranno 1,2 miliardi di dollari nella rete di siti di armamenti, munizioni, carburante, veicoli e pezzi di ricambio che tengono operativa fra la Norvegia, il Belgio, l'Olanda, la Germania e la Polonia. Devono potenziarla, perché i russi hanno dimostrato di saper modificar con la forza i confini poco graditi. E quei siti sono un pilastro, insieme ai jet e alle navi, per proiettare uomini ed equipaggiamenti nei fronti aperti. Nell'attesa, gli Usa continuano a puntellare le forze ucraine. Dal 2014 ad oggi, le hanno aiutate con 2,5 miliardi di dollari. Più di 400 milioni li hanno investiti nel solo 2021. Un modo per alzare il prezzo alle intemerate russe. La partita rischia però di sfuggire di mano. Al club Valdai, Putin ha ammonito gli occidentali: «Il potenziamento delle infrastrutture militari alleate in Ucraina è una linea rossa». Se valicata, sarebbe un casus belli: l'Armata Rossa entrerebbe in forze in Ucraina. Forse è meglio tornare a dialogare».
IL PAPA FRA I PROFUGHI DI LESBO DOPO 5 ANNI
Stamattina Francesco parte per un viaggio che lo porterà prima a Cipro e poi in Grecia. Nel Paese ellenico il papa visiterà i profughi di Lesbo. Ne parla Carlin Petrini oggi su La Stampa.
«Dopo cinque anni, il 5 dicembre il Papa tornerà a Lesbo. L'isola greca diventata ormai uno dei simboli della tragica, vergognosa, e ahimè cronica, mancanza di volontà politica nel gestire il fenomeno migratorio a livello europeo. Da luogo perlopiù di transito, la Grecia è ora una trappola per individui che rimangono nei campi di accoglienza per lunghissimi periodi, vittime di un sistema iper burocratizzato e incapace di garantire il futuro di riscatto da loro auspicato. Dico questo soprattutto alla luce dei risvolti degli ultimi due mesi, in cui i profughi presenti sul suolo ellenico, vengono legalmente lasciati senza cibo, o senza la possibilità di comprarselo. Insomma, affamati. Due sono le misure che legittimano tutto ciò. La prima è legata a una legge greca del 2020, resa esecutiva solo ora e che prevede l'esclusione dalla distribuzione di ogni tipo di bene, compresi acqua e cibo. I destinatari di questa disposizione sono tutti coloro che hanno ricevuto da almeno trenta giorni il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e quelli a cui è stata rinnegata tale richiesta per la seconda volta. La ratio - disumana - dietro a questa legge è semplice: si tratta di individui che non sono più di competenza del sistema di accoglienza greco. Anche se non riescono a trovare un lavoro, lasciare il Paese, o non possono venire rimpatriati; a loro non può essere dispensato alcun tipo d'aiuto. Nemmeno se questo prevede la privazione a uomini e donne di ogni età, bambini compresi, di un diritto umano fondamentale, quello senza il quale si muore. Succede allora che queste persone fanno ritorno o rimangono nei campi di accoglienza per cercare in ogni modo possibile di accedere - illegalmente - almeno a cibo e acqua. Il secondo fattore che ha portato all'inasprimento dell'insicurezza alimentare è legato al passaggio di gestione del cash assistance - il contributo monetario mensile di 75 euro al mese a cui hanno diritto i richiedenti asilo - dall'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, al governo greco. Quest' ultimo avrebbe dovuto erogarlo dal 1 ottobre, ma a distanza di due mesi tutto risulta essere inspiegabilmente bloccato. Ecco allora che circa 34 mila persone, si ritrovano così private dell'unico strumento che ancora assicurava loro una certa indipendenza; una dignità e identità. In questa situazione, l'unica fonte di sussistenza rimane infatti il cibo che viene distribuito da società appaltate dal governo. Un cibo, tra l'altro non sufficiente in termini di quantità e qualità nutrizionale, che obbliga le persone a lunghe attese e le mette in competizione le une con le altre facendole sentire disumane e inermi. Ma di come si sentano queste persone alle istituzioni pare non importare. D'altronde le migliaia di profughi che giungono disperati sul territorio europeo sono prima un numero, poi uno status giuridico e solo in ultimo - spesso per suscitare quello stato di pietismo che non serve a nulla se non a rimarcare il nostro privilegio occidentale - un volto con un nome; una storia di sofferenze e un grandissimo desiderio di riscatto. Una concezione che non si limita alla Grecia, ma che pervade l'intero continente - dalla Polonia, alla Francia e alle Canarie - legittimando quello che non può e non deve essere in un mondo civile (come la fame, la violenza e la morte). Mi chiedo in quale momento questa sia diventata l'Europa. Quando "l'aprirsi al mondo" è diventata un'espressione di appannaggio del commercio e dei mercati con l'obiettivo di incrementare il Pil, e ha smesso di essere una questione etica e morale nei confronti dell'umanità intera. Spero che la visita del Papa a Lesbo ci rammenti che la politica è innanzitutto questo. La capacità di gestione della questione migranti deve essere l'essenza di una politica che sa rispondere ai bisogni del delicato periodo storico che stiamo attraversando. Un percorso obbligato non semplice da affrontare, ma che è l'unico terreno di verifica dell'esistenza di una vera comunità europea».
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