C'è l'accordo
Biden e Netanyahu confermano l'intesa: ostaggi e tregua di 3-4 giorni. Nelle scuole italiane un minuto di rumore in memoria di Giulia, uccisa dal fidanzato. Ok Ue alla manovra. Oggi Meloni-Scholz
Ostaggi e tregua, l’accordo c’è. Lo confermano nell’ultim’ora Joe Biden da Washington e soprattutto Benjamin Netanyahu. I giornali di oggi lo danno per vicinissimo, quasi fatto. Sono ore delicatissime, il mondo tiene il fiato sospeso. Proprio stamattina, all’udienza del mercoledì in piazza San Pietro papa Francesco saluterà alcuni parenti degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi di Hamas. La speranza è che la tregua di tre-quattro giorni e il ritorno a casa dei rapiti spinga decisamente verso la pace. La pressione dell’opinione pubblica israeliana ed internazionale sembra aver prevalso. Come nota stamattina Domenico Quirico sulla Stampa, che è stato a lungo nelle mani di sequestratori islamisti, “ogni prigionia salvata è una proclamazione di vita”. È infatti un rifiuto della fermezza, della politica del "non trattiamo". La classe dirigente italiana ancora vive come una sconfitta l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. È un’illusione infatti pensare che siano i terroristi sequestratori a portare la colpa. Non succede così nella storia.
Il presidente cinese Xi Jinping ieri ha fatto un discorso importante ai Brics. Rompendo la sua abituale prudenza, è intervenuto in modo deciso sul Medio Oriente. Ha detto che la «ragione fondamentale» dei problemi tra Palestina e Israele è che «i diritti del popolo palestinese alla statualità e alla sopravvivenza sono stati a lungo ignorati». Per poi ribadire la necessità di attuare la soluzione dei due stati per «ripristinare i diritti legittimi della nazione palestinese». Senza questo passo, dice Xi, «non ci sarà pace e stabilità duratura». Oggi né Xi né Biden saranno al G20 virtuale organizzato dall’India dove è stato invitato anche Vladimir Putin. Al loro posto il premier cinese Li Qiang e il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen.
L’Italia è ancora sotto choc, nelle scuole italiane ieri c’è stato un minuto di silenzio, che è poi diventato un minuto di rumore, secondo le intenzioni della sorella di Giulia Cecchettin, la vittima. La solidarietà delle ragazze e dei ragazzi arriva così. Mentre la politica si divide in una polemica inutile fra slogan importati dalla cultura politicamente corretta degli Usa. Sarà più colpa della famiglia o del patriarcato? O della guerra fra i sessi? Tutti modi per dire che la colpa è dell’altro. Ah, bene, noi siamo dalla parte giusta, moderna ed evoluta. Purtroppo la verita è che l’immaturità dei nostri giovani, la loro mancanza di educazione e di umanità, è la stessa dei lolro genitori e soprattutto della nostra classe intellettuale e dirigente. Manca un’educazione e manca il senso di responsabilità sociale verso l’altro. Verso gli altri.
L’Europa ha promosso la nostra manovra di bilancio, con riserva. Ma non ci sarà bisogno di correzioni. Piuttosto il futuro dei nostri conti pubblici è legato al nuovo Patto di stabilità. Oggi Giorgia Meloni ne parlerà con Olaf Scholz, passaggio fondamentale per ottenere condizioni migliori per la nostra economia. Consueta classifica a cura di Eduscopio delle scuole italiane, con qualche sorpresa. Fra le altre notizie dall’estero la domanda è: si può ancora sperare in Argentina dopo l’elezione del turbo liberista e populista Javier Milei? Alver Metalli ha scritto per Vita.it una pagina di diario, dalla Villa miseria dove vive, che contiene speranza.
La Versione di Banfi si conclude con un doppio ricordo, perché oggi cadono due anniversari di natura diversa ma ambedue interessanti: esattamente 60 anni fa veniva ucciso il presidente americano John Fitzgerald Kennedy a Dallas in un attentato. Sempre 60 anni fa moriva il grande scrittore inglese C.S. Lewis.
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LA FOTO DEL GIORNO
Questa è la gigantografia di Giulia Cecchettin che da oggi resterà esposta sulle pareti del Municipio di Vigonovo (in provincia di Venezia) e della Biblioteca del polo culturale di Saonara (in provincia di Padova), paesi dove è cresciuta e ha vissuto la ragazza uccisa dal fidanzato.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La tregua c’è, ma la notizia vera matura nella notte e quindi i giornali puntano ancora sulla giovane uccisa dal fidanzato. Come il Corriere della Sera, eccitato dai particolari in cronaca: «Giulia ha lottato oltre venti minuti. Inaudita ferocia». Mentre La Repubblica sociologizza: Violenza, divisi sulla scuola. Il Messaggero è sulle esigenze cautelari: «Filippo può uccidere ancora». Il Giornale è in trincea sulla polemica politica: Se questo è un patriarcato. Libero è sempre misurato: Femminismo e martello. Come anche La Verità: Macché patriarcato, pensate alle bollette. Il Domani insegue la polemica su un collaboratore del Ministro: Amadori imbarazza il governo. Ma il ministro Valditara lo difende. Sul Medio Oriente ci sono La Stampa: Ostaggi, intesa con Hamas. «Tregua di quattro giorni». E il Manifesto che trova anche oggi un gioco di parole azzeccato: Ora di scambiare. Il Sole 24 Ore annuncia: Manovra, sì con riserva della Ue. Stesso titolo per il Quotidiano Nazionale: Manovra, sì con riserva dell’Europa. Avvenire resta sui conti degli italiani: Più figli meno mutui. Il Fatto scova una nuova polemica ad personam: Treno in ritardo: Lollo lo fa fermare e scende.
C’È UN ACCORDO SU TREGUA E OSTAGGI
L’accordo su tregua e ostaggi. Il presidente Usa Joe Biden conferma: «Siamo molto vicini». Tregua di quattro, cinque giorni. Netanyahu: «Un cessate il fuoco non significa che la guerra è finita». Luca Veronese per Il Sole 24 Ore.
«L’accordo sugli ostaggi è a un passo, mancava pochissimo ieri sera e nella notte le trattative sono proseguite senza sosta. Dall’attacco di Hamas contro Israele dello scorso 7 settembre, il gruppo estremista palestinese e il governo di Benjamin Netanyahu non erano mai stati tanto vicini allo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. E a una tregua nella guerra scatenata dalle forze israeliane a Gaza da ormai più di sei settimane. Mentre continuano i bombardamenti sulla Striscia (colpendo anche ospedali e campi profughi) e si aggrava la tragedia umanitaria di oltre un milione e mezzo di palestinesi costretti a fuggire dalla loro casa, segnali di speranza sono giunti ieri dai negoziati che stanno proseguendo con la mediazione del Qatar. «I nostri negoziatori sono vicini a raggiungere un accordo di tregua con Israele, abbiamo dato la nostra risposta ai mediatori del Qatar», ha detto il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, in una dichiarazione inviata all’agenzia Reuters. «Stiamo facendo progressi. Non credo che sia corretto parlarne troppo, nemmeno in questo momento, ma spero che presto arrivino buone notizie», ha fatto sapere il primo ministro israeliano attraverso una nota ufficiale. E in serata, da Washington, Joe Biden, ha confermato la concreta possibilità di arrivare in tempi molto rapidi a un accordo per il rilascio di almeno alcuni dei 236 ostaggi detenuti da Hamas. «Il mio team sta lavorano nella regione, fa avanti e indietro tra le capitali. Siamo molto vicini, molto vicini, a riportare a casa alcuni di questi ostaggi molto presto, ma non voglio entrare nei dettagli perché nulla è deciso finché non è deciso», ha detto il presidente degli Stati Uniti lasciando intendere che qualcosa sarebbe potuto accedere nelle ore successive, forse già nella notte. A ulteriore riprova del momento cruciale, Netanyahu ha riunito il gabinetto di guerra, ottenendo il via libera da parte dei responsabili della sicurezza a proseguire sulla linea dei negoziati. Poi, nel corso della seduta di governo convocata d’urgenza, il premier, assieme al ministro della Difesa Yoav Gallant e al ministro Benny Gantz ha sostenuto con decisione il patto sugli ostaggi. «Il nostro governo deve prendere una decisione difficile ma vi assicuro che è la decisione giusta», ha insistito Netanyahu, assicurando che gli obiettivi della guerra non sono in discussione, e che la guerra proseguirà al termine del cessate il fuoco. «Siamo in guerra e continueremo finché otterremo la distruzione di Hamas, il ritorno degli ostaggi e la rimozione di ogni minaccia da Gaza», ha detto Netanyahu, ringraziando il presidente Usa per il suo contributo all’accordo. Una fonte vicina ai negoziati ha fatto filtrare alcuni dettagli, riportati dai media internazionali e dall’israeliano Haaretz: nel cessate il fuoco di quattro o cinque giorni, Hamas dovrebbe liberare 50 donne e bambini, compresi alcuni stranieri, mentre Israele in cambio dovrebbe rilasciare 150 prigionieri palestinesi, per lo più donne e minori. Un funzionario statunitense presente ai negoziati facilitati dal Qatar ha fornito le stesse cifre per i rilasci, confermando anche che lo scambio coinvolgerà soprattutto donne e bambini: «C’è un accordo provvisorio ma non sarà definitivo finché non si saranno chiariti tutti i dettagli», ha detto al’agenzia Reuters. «Crediamo di essere molto, molto vicini a un accordo. C’è ancora tanto da fare, ci sono ancora - ha aggiunto - molti elementi sui quali sarà necessaria un’approvazione, ma crediamo di essere molto vicini». Secondo quanto afferma il governo israeliano, l’attacco terroristico sanguinoso di Hamas del 7 ottobre nei kibbutz israeliani vicino a Gaza ha ucciso 1.200 persone. Nei successivi blitz aerei israeliani e nell’invasione di Gaza - e questi sono dati diffusi dal governo dell’enclave guidato da Hamas - sono statie uccisi oltre 14mila palestinesi, compresi almeno 5.840 bambini. Un esponente di Hamas, Issat el Reshiq, intervistato da Al Jazeera Tv, ha detto che «le trattative sono incentrate sulla durata della tregua, sulle modalità per la consegna degli aiuti a Gaza e sui dettagli dello scambio di prigionieri». E ha poi spiegato che l’annuncio definitivo dell’accordo verrà dato dal Qatar. Mirjana Spoljaric, presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha incontrato Haniyeh in Qatar per «discutere di tutti gli aspetti umanitari» legati alla guerra: la Croce Rossa, pur non avendo partecipato ai negoziati - ha detto - è pronta, come intermediario neutrale riconosciuto, «a facilitare qualsiasi rilascio futuro concordato dalle parti».
L’ACCORDO RAGGIUNTO IN 4 PUNTI
Il retroscena sul Corriere della Sera è affidato a Guido Olimpio: i quattro punti su cui si regge l’accordo. Dal ruolo del Qatar ai droni che saranno fermati. Cruciale la diplomazia degli 007 di diversi Paesi.
«L’accordo sugli ostaggi è una pausa nella tragedia, un’intesa da confermare nei fatti, dove spiccano per ora quattro punti. Il mediatore. Gran parte del lavoro di mediazione ha avuto come pilastro centrale il Qatar. L’Emirato ha usato i suoi legami — politici e finanziari — con Hamas, sfruttando l’ospitalità concessa alla leadership esterna rappresentata da Haniyeh e i rapporti costruiti con una parte della fazione. Ruolo pratico, logistico, di influenza. Sull’altro lato ha lavorato con gli Stati Uniti che sono abituati a bussare alle porte della monarchia quando c’è da trovare uno spiraglio. I palestinesi hanno naturalmente accettato senza dare troppo peso al fatto che lo Stato amico ospita una presenza militare statunitense importante e fa da scudo vero al «nemico sionista». Anche Israele si è adeguato da tempo ad avere i qatarini quali garanti. Non importa se le garanzie non si sono rivelate ferree: Netanyahu si era illuso che i fondi stanziati dal Qatar per la Striscia avrebbero distolto i guerriglieri dal lanciare una nuova sfida. È andata diversamente. Gli agenti. Insieme ai diplomatici si sono mossi i servizi segreti e con i rappresentanti più alti. Sul terreno gli «sherpa» ma in fasi importanti sono spuntati i direttori della Cia, del Mossad, dello Shin Bet, del Mit turco, del Mukhabarat egiziano, del Gid giordano e, forse, anche i colleghi libanesi, a contatto con un attore — l’Hezbollah filoiraniano — in grado di mettersi di traverso: ha relazioni speciali con Hamas, conta sulla sponda della Jihad islamica palestinese (che si era lamentata di essere rimasta fuori dai contatti diretti), tira molti fili. I capi dello spionaggio possono prendersi delle responsabilità dirette, sono più vicini all’arena, dispongono di mezzi per costruire patti pragmatici tra contendenti che si odiano e non si fidano. Lo abbiamo ricordato spesso: rispetto ad un ministro hanno il vantaggio di potersi sottrarre a dichiarazioni pubbliche, conferenze stampa, promesse sotto le telecamere. In storie come queste una mezza frase fuori posto rischia di compromettere settimane di lavoro. Le «ombre» hanno modus operandi, linguaggio e regole elastiche utili per superare ostacoli, convincere interlocutori. Gli ostaggi. Rispetto ad altri scambi il numero degli ostaggi è alto. Se rilasciati alcuni di loro potranno raccontare dettagli utili su come e dove sono stati tenuti. I carcerieri avranno adottato contromisure, trucchi per confondere persone comunque in condizioni difficili. Tuttavia, qualcosa può sempre sfuggire, a volte bastano pochi elementi. E se, come sembra, i prigionieri erano sparpagliati in luoghi di prigionia diversi, aumentano i margini di errore. Sono stati trattenuti nei misteriosi tunnel? Hanno dettagli su altri? Sono attesi dall’abbraccio delle famiglie ma da molte domande. I voli. Tra le condizioni poste dai rapitori c’era la sospensione di sei ore per ogni giorno dei voli dei droni su Gaza. Secondo alcune fonti Gerusalemme avrebbe detto di sì ritenendo di avere altri strumenti per sorvegliare, altre informazioni riferiscono di uno stop solo per la zona sud. Continuerebbero invece le ricognizioni elettroniche al largo della costa — dove operano anche velivoli Usa e britannici — e nel nord. Israele teme che i mujaheddin, durante la pausa, muovano uomini, rimpiazzino perdite, spostino materiale. Le Brigate non sono crollate davanti all’offensiva ma hanno avuto perdite e pensano anche al domani quando l’esercito potrebbe passare ad una nuova fase».
I PARENTI STAMATTINA DAL PAPA
Stamattina all’udienza del mercoledì dal Papa ci saranno alcuni parenti degli israeliani rapiti. Il racconto di uno di loro: «Mio fratello è stato portato via, mia cognata uccisa. Siamo qui perché speriamo nella forza del Papa». Alessandra Arachi per il Corriere.
«Michael Levy ha lo sguardo fiero e un teddy bear stretto tra le mani. La sintesi del suo dolore. L’orsacchiotto bianco è di suo nipote, due anni appena. La foto che gli ha fatto stampare sul bavaglino è quella di suo fratello Or, 33 anni, dal 7 ottobre nelle mani dei terroristi di Hamas. «Or era andato al rave party con sua moglie Eynav. Lei è morta durante l’attentato di Hamas. Di mio fratello non ho avuto notizie per giorni, fino a quando mi è stato confermato che è nelle mani dei rapitori». Michael è venuto a Roma per l’incontro con papa Francesco, sono in tanti insieme con lui i parenti degli ostaggi che verranno ricevuti oggi in Vaticano. «Spero che il Papa ci aiuterà con la pressione che lui può fare nel mondo», spiega e da sotto la giacca si intravede una t-shirt, anche qui Michael ha fatto stampare la foto di suo fratello. È appena tornato da New York, sempre in delegazione con gli altri parenti. A Roma ha incontrato il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Ho sentito il ministro molto vicino alla nostra causa», dice e scuote la testa davanti alle notizie che arrivano dai telegiornali ventilando la possibilità della liberazione degli ostaggi israeliani. «Sono quarantasei giorni che sento dire questa cosa. Ci crederò soltanto quando succederà». Sono passati ormai quarantasei giorni da quella mattina del 7 ottobre. Michael ha ricostruito gli eventi in maniera minuziosa. Dolorosa. Dalla mamma ha saputo della telefonata di Or alle 7.39 del mattino. «Mia madre sentiva rumore e chiedeva e richiedeva: “ma cosa sta succedendo”, fino a quando è caduta la linea». Al telefono con la mamma Or aveva raccontato che lui e Eynav erano corsi a nascondersi in un rifugio antimissili, quando i missili di Hamas hanno cominciato a fischiare sopra le loro teste. «Ce ne sono tanti in quella zona, collaudati. Si sentivano al sicuro. Ma i terroristi sono andati davanti ai rifugi a buttare le granate». Nel rifugio di Or erano in ventinove. «Diciotto sono stati uccisi, sette si sono salvati nascondendosi sotto i cadaveri. Quattro sono stati rapiti e c’era un video del rapimento ma mio fratello non si vede. Soltanto dopo mi hanno detto che era tra gli ostaggi». Michael è arrivato da Ganey Tikva, in provincia di Tel Aviv, ed è pronto a rimanere in giro per il mondo per cercare aiuto per suo fratello. «Ma anche per portare un messaggio di pace. Voglio che si sappia che il messaggio di quel rave era di pace e di amore. Che tra le persone uccise quel giorno ce ne erano tante che avevano lavorato per aiutare i palestinesi».
LA TESTIMONIANZA DI UN MEDICO ITALIANO A GAZA
Nello Scavo intervista un medico italiano che lavora a Gaza, il dottor Paul Ley. Sul tetto dell’ospedale è stata messa una bandiera, di sei metri per sei, con il simbolo della Croce Rossa. Racconta: «Dall’Africa all’Afghanistan non so in quante guerre sono stato ma una cosa così, con tanti bambini morti, mai».
«Sul tetto dell’ospedale hanno dispiegato per bene una bandiera di sei metri per sei: c’è il simbolo della Croce Rossa Internazionale. «Impossibile che aerei, droni e satelliti non la vedano», dice al telefono il dottor Paul Ley, che a Gaza deve ricomporre le ossa rotte dei civili a cui spesso tocca dire una cosa: «Dobbiamo amputare». E mentre ce lo racconta, tra interruzioni della rete e corse in sala operatoria, dal telefono sentiamo distintamente uno di quei colpi ravvicinati che fanno imprecare. «Questo non ci è caduto addosso – esclama il medico italiano –, qualche giorno fa un mio collega è stato investito dalle schegge di vetro». Di famiglia francese ma cresciuto nel Varesotto, Ley non ha fatto altro che stare in guerra. Prima con i missionari comboniani, poi 14 anni con Gino Strada negli ospedali di Emergency, e dal 2014 con il Comitato internazionale della Croce Rossa. Timbro vocale grave, e la rassicurante calma del medico che vorresti incontrare quando finisci in guai seri, impiegheremo tre giorni a completare la chiacchierata dall’epicentro del conflitto. Non c’è niente che stia andando come dovrebbe. La fuga dall’ospedale di al-Shifa è ancora una corsa per non morire. Le ambulanze sono a terra, i corridoi umanitari un miraggio, e c’è chi si sposta lasciandosi trainare da un bue morto di fame e paura, come la famiglia che si è presentata nell’Ospedale Europeo a Khan Yunis, nel sud tornato nel mirino dei bombardieri, con un bambino operato a Nord, ma che a Nord non ci si può più stare. Avvolto in un sudario, che sembrava esanime, il ragazzino si salverà. Ma non era così che doveva essere evacuato. «O come quell’uomo giunto da noi con una gamba sola. Era stato amputato da poco ma non poteva restare ad al-Shifa, ed è venuto a piedi, percorrendo chilometri in quelle condizioni», racconta Ley. In corsia è l’inferno raccontato a bassa voce. Una bambina triamputata, gli arti di un adulto tranciati e gettati nel secchio dei rifiuti speciali, o quella madre a cui non è stato così difficile dire che dopo l’anestesia si sarebbe svegliata senza più le gambe. Il difficile è stato ascoltare la sua risposta: «Hanno bombardato la nostra casa – ha spiegato al dottore –. Sono morti mio marito e tutti i miei figli. Sono rimasta solo io. Intera o a pezzi, io sono già una persona morta». Le immagini che ci manda Paul Ley tolgono il sonno. Una bambina è stata schiaffeggiata da una scheggia grande coma un’ascia: il naso non c’è più, l’occhio destro è cucito. Non si riaprirà più. Quante ne ha viste questo chirurgo di prima linea. «Ma mai come questa volta – confessa –. Dall’Africa all’Afghanistan non so neanche in quante guerre sono stato, ma una cosa così, con tanti bambini morti e feriti, mai». La Striscia di Gaza è un ammasso di edifici «che la distanza tra un obiettivo militare legittimo e uno da risparmiare, quando va bene è di 150 metri». Che vuol dire un niente quando a cadere sono le bombe da diversi quintali. «La maggior parte dei nostri pazienti sono ustionati, ma soprattutto il 40% sono ragazzi e bambini al di sotto dei 15 anni, nessuno di loro può essere considerato in età da combattimento», insiste Ley sgombrando il campo dai sospetti di chi dice che sul tavolo operatorio ci finiscono soprattutto i miliziani di Hamas. Prima ancora che arrivi il referto delle radiografie il dottore sa già come sono andate le cose: «Vediamo ferite da schegge e da ustioni provocate dalle esplosioni. Poi ci sono le lesioni da “blast”, l’onda d’urto che provoca ustioni e soprattutto traumi al torace con ricadute polmonari e spesso cerebrali». Come faccia a reggere la pressione mentre intorno piovono saette mortali è impossibile da spiegare. Capita però che siano i pazienti a spezzare la litania dei tormenti. «Una donna palestinese vuole che la chiamiamo “Wonder Woman”», racconta Ley mentre per un solo istante s’intuisce che su quella faccia di chi ha viste troppe si sta aprendo un sorriso: «Ci ha detto che la guerra le ha fatto scoprire di avere i superpoteri. È stata sbalzata da terra al secondo piano, per ripiombare di nuovo al terreno». Viva e con le ossa rotte. «In un istante – ripete la signora per sdrammatizzare – sono andata a salutare la mia vicina del secondo piano e sono tornata giù». Ma in guerra non c’è mai lieto fine. E chi in guerra ci va per rammendare i corpi, lo sa che guarire non vuol dire restare vivi. Prima di chiudere con l’ultima chiamata della sera, chiediamo a Paul Ley come sta la ragazzina che rischia la vista. Il dottore dice che se la caverà, ma lei ha capito che la sua vita non sarà come avrebbe desiderato. Perciò piange, più che per il dolore. «Quella che vedi nella foto – dice Ley – non è una emorragia. Sono le sue lacrime, e sono rosso sangue».
BARAK: IL BUNKER SOTTO L’OSPEDALE È STATO FATTO DA NOI
L’ex premier israeliano racconta: il bunker sotto l’ospedale Al Shifa di Gaza è stato costruito da noi. La notizia è dal Corriere della Sera
«L’ ex premier israeliano Ehud Barak ha dichiarato alla Cnn : il bunker sotto l’ospedale Al Shifa di Gaza lo abbiamo costruito noi anni fa. Sorpresa della giornalista Christiane Amanpour che teme di avere male interpretato l’affermazione. Il politico, invece, la conferma. E la sua frase diventa un caso. La storia non è però del tutto inedita. Nel gennaio 2009 il quotidiano israeliano Haaretz descrive come i capi di Hamas sfruttino strutture sotterranee realizzate da Israele a metà degli anni ’80 quando occupava la Striscia. I lavori avrebbero interessato la Palazzina 2, un edificio che ospitava nel seminterrato lavanderie e spazi amministrativi. A luglio del 2014 un articolo sul sito Tablet Magazine rilancia la notizia, parla di finto segreto. Diverse, a questo punto, le ipotesi. Primo: i rifugi sono quelli vecchi e ormai abbandonati. Secondo: Hamas ha riconvertito gli spazi esistenti a fini militari. Terzo: i miliziani potrebbero aver impiegato alcune delle stanze solo in fasi critiche. Israele ha mostrato un video del possibile tunnel che si ferma davanti ad una porta blindata e martedì ha diffuso le foto dell’apertura. Per avere risposte bisognerà aspettare nuove ispezioni del cunicolo».
XI JINPING AI BRICS: TREGUA E POI PALESTINA INDIPENDENTE
Il presidente cinese Xi Jinping esce allo scoperto e in modo molto diretto: chiede il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi nella prospettiva dei due popoli e due Stati. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi civili, aiuti umanitari e Palestina indipendente. Xi Jinping entra con decisione sul conflitto tra Israele e Hamas, dismettendo cautela e ambiguità di altre circostanze. E lo fa durante il summit virtuale dei Brics, la piattaforma multilaterale su cui più di tutte la Cina spinge per proporre la sua visione di mondo. La ricetta al conflitto è la stessa proposta a più riprese dalla diplomazia cinese dopo gli attacchi del 7 ottobre, ma il discorso di Xi è ancora più chiaro e articolato. «La priorità assoluta è che tutte le parti cessino immediatamente il fuoco e i combattimenti, pongano fine a ogni violenza e attacco contro i civili». Il pensiero va subito a Gaza, dopo che il giorno prima la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning si era detta scioccata «dagli attacchi contro i civili e i bambini» della Striscia. Xi chiede anche di «rilasciare i civili in ostaggio», un'aggiunta rilevante che sembra tenere in considerazione le lamentele di Israele, che lunedì aveva polemizzato col governo cinese chiedendo una presa di posizione sugli ostaggi di Hamas piuttosto che sul cessate il fuoco. Xi chiede entrambe le cose, per poi esporre l'esigenza di «garantire il flusso sicuro e regolare dei canali di soccorso umanitario» e di «fermare i trasferimenti forzati, i tagli all'acqua e all'elettricità e altre punizioni collettive contro la popolazione di Gaza». Non è tutto: «La comunità internazionale deve adottare misure concrete per evitare che il conflitto si espanda», dice Xi, a cui la scorsa settimana Joe Biden ha chiesto di esercitare la sua influenza sull'Iran proprio per scongiurare il rischio. Poi arriva la parte più politica della posizione di Xi, secondo cui la «ragione fondamentale» dei problemi tra Palestina e Israele è che «i diritti del popolo palestinese alla statualità e alla sopravvivenza sono stati a lungo ignorati». Per poi ribadire la necessità di attuare la soluzione dei due stati per «ripristinare i diritti legittimi della nazione palestinese». Senza questo passo, dice Xi, «non ci sarà pace e stabilità duratura in Medio Oriente». E la Cina non è neanche lontanamente la più dura dei paesi Brics: ieri il parlamento del Sudafrica ha votato la chiusura dell’ambasciata di Israele a Pretoria (deciderà il presidente Ramaphosa), e il governo ha chiesto alla Corte penale internazionale un mandato d’arresto per Netanyahu. Il presidente cinese chiede infine la convocazione di una conferenza internazionale di pace, che si candida implicitamente a ospitare dopo che una delegazione di paesi a maggioranza musulmana ha cominciato un tour diplomatico proprio da Pechino, che a novembre detiene la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I ministri di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Indonesia e Palestina hanno incontrato il ministro degli esteri Wang Li, che ha definito la Cina «un buon amico e un fratelli dei paesi arabi e islamici». Dopo aver officiato il riavvio delle relazioni tra Arabia saudita e Iran in marzo, la Cina dice di sostenere l'unità e il coordinamento dei paesi musulmani sulla questione palestinese. A differenza di quanto accaduto sulla guerra in Ucraina, Pechino non ha utilizzato gli appuntamenti multilaterali per rivolgere critiche esplicite a Washington, ma Xi ha comunque sottolineato il ruolo della piattaforma Brics. «Abbiamo coordinato le nostre posizioni sulla questione israelo-palestinese, dando un buon inizio alla grande cooperazione dopo l'espansione», ha detto, alludendo all'imminente ingresso di sei nuovi membri (anche se la vittoria di Javier Milei mette in bilico l'Argentina) e alla possibilità di istituire un'agenda comune più precisa. Oggi, invece, Xi non sarà al G20 virtuale organizzato dall'India dove è stato invitato anche Vladimir Putin. Al suo posto (di nuovo) il premier Li Qiang».
LIBERATE BARGHOUTI SE VOLETE CHE SIA RICONOSCIUTO ISRAELE
I giornali italiani ne parlano poco. Ma il New York Times ha ospitato l’opinione di Avinoam Bar-Yosef, presidente del Jewish People Policy Planning Institute ed ex corrispondente diplomatico per il quotidiano Maariv. Bar-Yosef suggerisce la liberazione del leader palestinese Marwan Barghouti, unico capo politico che per la sua popolarità tra i palestinesi potrebbe sconfiggere, secondo i sondaggi, Hamas alle elezioni.
«Quando il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha recentemente chiesto a Israele di rilasciare più prigionieri palestinesi prima di ogni possibile negoziato, stava ponendo una condizione che probabilmente Israele non avrebbe accettato. Uno dei prigionieri sulla sua lista, Ahmed Saadat, è accusato di aver ucciso un ministro israeliano. Un altro, se rilasciato, molto probabilmente prenderebbe il posto dello stesso Abbas. Ciò non è sfuggito ai leader israeliani. In effetti, si dice che la liberazione di Marwan Barghouti, che è considerato l’unico leader palestinese a godere della piena fiducia di Fatah e dell’opinione pubblica palestinese, abbia avuto un ruolo di rilievo nelle consultazioni israeliane ad alto livello come mezzo di ritorsione contro Abbas per il suo tentativo di Stato palestinese alle Nazioni Unite e come un modo per inaugurare una nuova generazione meno corrotta di leader palestinesi. Il campo pacifista israeliano ha spesso chiesto il rilascio di Barghouti, ma l'establishment della sicurezza si è fermamente opposto. Il 52enne, attivista da sempre, è ritenuto responsabile da Israele di aver diretto numerosi attacchi e attentati suicidi contro civili israeliani, ed è stato condannato nel 2004 a cinque ergastoli. Ma nei suoi primi anni come leader studentesco palestinese e poi membro del Consiglio legislativo palestinese, ha anche aperto canali non solo con la sinistra israeliana, ma anche con il centrodestra israeliano, perché credeva che non si potesse raggiungere un accordo con solo i “pacifici”. Lo conoscevo bene in quegli anni, prima che diventasse militante. Parla ebraico e non ha mai negato il diritto del popolo ebraico ad uno Stato ebraico. E mentre ha sempre chiarito ai suoi colleghi che uno Stato palestinese avrebbe un carattere islamico, ed è orgoglioso di essere musulmano, ha anche espresso disprezzo per i fondamentalisti islamici. Soprattutto, non è mai stato associato alla corruzione dell’establishment palestinese formatosi attorno a Yasser Arafat. Mentre era studente all’Università Birzeit di Ramallah, i suoi sforzi principali erano rivolti ai campi profughi: lavoro sociale, aiuto ai malati e ai poveri, alla pulizia delle strade. Nel 1987 fu deportato dal defunto Yitzhak Rabin, allora ministro della Difesa, a causa del suo ruolo nella preparazione della prima, meno violenta, Intifada. Barghouti trascorse sette anni in esilio, mantenendo le distanze dall’entourage corrotto di Arafat a Tunisi. Gli fu permesso nel 1994, in base agli accordi di Oslo firmati dallo stesso Rabin, e nel 1996 eletto al Consiglio legislativo palestinese, dove fu un forte critico della corruzione di Fatah. Nel 1995 è stato tra i fondatori di Tanzim, formazione armata e popolare che ha avuto un ruolo significativo nella seconda intifada, molto più violenta della prima. Allora perché gli israeliani, compresi alcuni membri della comunità dell’intelligence, dovrebbero seriamente prendere in considerazione il rilascio di Barghouti? Per prima cosa, lui e Tanzim rappresentano la prossima generazione di leader palestinesi laici. Uno dei più grandi errori dell’establishment israeliano e degli inviati americani negli ultimi due anni è stato l’incapacità di riaprire i canali verso Tanzim, un gruppo ignorato anche da Abbas e dai suoi funzionari. Barghouti formerebbe anche un potente gruppo dirigente con il primo ministro Salam Fayyad. Come Barghouti, Fayyad è considerato al di sopra di ogni comportamento corrotto. Ha strutturato una burocrazia straordinariamente efficiente. È giustamente corteggiato dall’amministrazione Obama e da molti israeliani. È risaputo che tra lui e Abbas non c'è alcun affetto, ma il presidente palestinese ha bisogno che Fayyad garantisca un flusso di fondi dall'Occidente. Il problema è che Fayyad è considerato dai palestinesi un professionista, come l’amministratore delegato dell’Autorità Palestinese, ma non come suo leader. Molti esperti ritengono che i negoziatori israeliani e occidentali dovrebbero incoraggiare la cooperazione tra Fayyad e Barghouti. L’appoggio di Tanzim porterebbe a Fayyad e alle sue riforme un sostegno critico da parte dei palestinesi. Questo potrebbe essere il motivo per cui alcuni nella leadership israeliana, coloro che sono interessati a raggiungere una soluzione a due Stati al conflitto, vedono Barghouti come un possibile partner, anche se i suoi peccati non sono perdonati. Almeno è onesto e gode della fiducia del popolo palestinese. Abbas, dopo tutto, è l’ex vice di Arafat, e difficilmente un santo agli occhi degli ebrei, e a 76 anni sembra ora largamente interessato alla sua eredità. Tenere il processo di pace in ostaggio per il rilascio di Barghouti rappresenta un ostacolo impossibile per qualsiasi politico israeliano. Abbas e i suoi collaboratori lo capiscono bene. Ma anche se gli israeliani non possono rilasciarlo adesso, dovrebbero almeno aprire immediatamente un canale segreto con Tanzim e consentire ai suoi rappresentanti di comunicare senza ostacoli con Barghouti incarcerato. Il mondo dovrebbe capire che c’è un nuovo fenomeno israeliano: la maggior parte degli israeliani si è spostata a sinistra quando si tratta del processo di pace e sono pronti al compromesso anche se, per ragioni tattiche, votano per la destra. La maggioranza degli israeliani sosterrebbe un accordo a due Stati se includesse uno Stato palestinese che riconoscesse Israele per quello che è, uno Stato ebraico, e il diritto al ritorno dei palestinesi fosse limitato alla nuova Palestina, mentre il diritto al ritorno degli ebrei fosse limitato. all'Israele vero e proprio. Non credono che Abbas sia pronto, a questo punto, ad accettarlo. Se tale intesa potesse essere raggiunta con Tanzim e Fayyad, allora Barghouti potrebbe essere rilasciato e prendere il suo posto nel panorama della leadership palestinese».
LE PRIME ORE DI LIBERTÀ DI UN SEQUESTRATO
Tornare alla vita per chi ha attraversato la morte. L'unico antidoto all'angoscia è riscoprire i gesti semplici: camminare, toccare, ascoltare la radio Ma la prigionia vive per sempre: un attimo di cedimento e la trappola dell'odio ti ri-incatena al rapitore. Sulla Stampa Domenico Quirico, che è stato prigioniero dell’Isis per molti mesi, si imme3desima in quello che potrebbe accadere agli ostaggi israeliani fra poche ore.
«Le prime ore del ritorno a casa dopo la liberazione: si sta come trasognati, quieti e composti, immagino con le finestre e le porte dolcemente spalancate sul luminoso autunno di Palestina dove ogni grido di luce esige di essere ascoltato. I rumori non contano, non ci sono; come se il silenzio della prigionia si prolungasse, ma rovesciato, composto, gonfio quanto l'altro era tragicamente vuoto. Assorbire tutto poiché fino a ieri non c'era più nulla da guardare. Forse già oggi una parte dei rapiti da Hamas sarà a casa. Forse. Come è sempre lunga e incerta la via del ritorno. Sì. Le porte spalancate. Quando si diventa ex ostaggi, ogni cosa bisogna farla adagio, senza trasalire, in tempi raccolti, misurati. Poiché si rivive è meglio che tutto avvenga sommessamente, in un muto concerto di pause e percezioni, piccole occasioni di esistere che il cuore deve afferrare senza smarrirsi. Ogni volta è così, quando il dramma dell'attesa e del dubbio si scioglie. Forse gli altri non se ne accorgono, pensano che aver gente intorno, sentire chiasso, far festa, essere travolti da mille domande sia rinascere, una gioia per chi è tornato a casa. Oppure ci si rivolge, con ottusa fiducia, a pseudo scienze dell'anima, il cosiddetto supporto psicologico che ormai, nel nostro mondo quieto, non manca nemmeno quando si smarrisce il gatto, al certificato in psiche, che non sa cosa voglia dire questo aver perso la vita e rinascere dalla morte, si chiede di porre rimedio alla "sindrome di Stoccolma"! Bisogna mettere alla porta questi venditori di favolette se si vuol bene a chi è stato ostaggio, lasciare le finestre aperte, eliminare chiavistelli e serrature perché quella, poter entrare ed uscire, è la prova che si è liberi, l'ossigeno della resurrezione. E' quello il vero "supporto", che grottesca parola. I sopravvissuti al sequestro del sette ottobre saranno felici di esser lì, soli , nel girare intorno alla vita ritrovata, a farle la ronda, scovarla, percepirne un moto. Sopravvivere è il dono di una tenerezza del dio, una consolazione che non è nell'uomo e nelle sue povere arti. Quando si torna a casa come per gli ostaggi dei gruppi islamisti (non di daesh, quelli del califfato non prendono ostaggi, soli impuri da sacrificare), non si può essere che muti e soli: la mia ora era l'ultima ora e invece… Già, d'ora in avanti nel destino di ognuno di loro ci saranno quei minuti concitati, la mattanza al rave party, la caccia all'uomo come fosse un armenti nei kibbutz assaltati. Una prigionia, tra nemici che dichiarano brutalmente la volontà di estinguere tutto ciò che è Israele, vive perennemente nel presente. Basta un attimo di disattenzione, lasciarsi andare, ed eccola di nuovo lì, a portata di mano attraverso la trappola dell'odio, della voglia di vendetta che incatena al rapitore. Compiere i gesti semplici della vita, camminare bere toccare gli oggetti quotidiani, ascoltate la radio che racconta il presente, tutto ciò che era impossibile e si temeva vietato per sempre nelle ore dell'angoscia, è l'unico antidoto possibile. Questo gli altri non possono capire, nessun altro. Lo scambiano per turbamento, atonia che continua. Loro proporranno la domanda: come vi hanno trattato? Che vuol dire? Che cosa significa? La domanda dovrebbe essere: raccontami come hai attraversato la morte… raccontate per favore che cosa è la morte. Ma questo è un racconto possibile? O è indicibile, troppo denso, per la comprensione di chi non l'ha vissuto? Il sequestrato e il profugo: sono le due figure centrali del ventunesimo secolo. Restano fuori dalla nostra normalità, non riusciamo a tenerli al cappio delle nostre banalità quotidiane. La prigionia, come ostaggio intendo, è una pianura in cui domina il silenzio. Tutto hanno vissuto, nulla costituisce per loro ancora un mistero. Certo. Se ne può fare un racconto, buttar dentro i luoghi le facce dei carcerieri, il terrore: alla fine la parola può contenere tutto. Ma quello che conta è davvero dentro quelle parole? Resta ancora un fatto. Ogni liberazione di ostaggi - e questa più che mai! - è anche un fatto politico. Se lo scambio si concluderà è stato giusto accettare la trattativa con Hamas attraverso non certo immacolati mediatori? Non è un cedimento al terrorismo, un modo per renderlo redditizio? Israele era di fronte a un dilemma eschileo: esiste una necessità superiore alla vita dei propri figli? Per il trageda classico la scappatoia era l'intervento del Dio. Ma oggi? Non si può negare che, politicamente, Hamas ha vinto un'altra battaglia dopo la bruciante imboscata del sette ottobre, li ha costretti a scendere a patti, ad accettare il suo nemico più implacabile come controparte che può porre condizioni e ottenere contropartite, usando i suoi cittadini. E forse la sconfitta di Israele è irrimediabile. Dopo più di un mese di morti, dolori, strazi, lacerazioni di uomini, accuse di crimini compiuti nella vendetta, tornerà il conto? Solo gli israeliani possono rispondere; ed è questo il travagliato cammino dentro di sé che li attende quando la guerra sul campo, che ha fatto irruzione nel loro vivere e lo ha stravolto, sarà, almeno in parte, quietata. Da spettatori non ci resta che rispondere che ogni prigionia salvata è una proclamazione di vita. Il rifiuto della politica del "non trattiamo", sono gli altri, i sequestratori che porteranno la colpa dei nostri morti, alla sicurezza dello Stato si può sacrificare un pugno di vite umane ... ebbene tutto questo "cedimento" così coraggioso non cessa mai, per la sua grandezza, di incantarmi. Forse questa, e non il numero di presunti obbiettivi annientati, è la prima, vera vittoria di Israele in questo dramma senza pietà».
NELLE SCUOLE UN MINUTO DI RUMORE
L’Italia è ancora sotto choc per la brutale uccisione di Giulia Cecchettin, massacrata dal suo fidanzato. Il minuto di silenzio (ma con tanto rumore) ha riempito ieri le scuole. La scelta di farsi sentire come ha chiesto la sorella Elena. Virginia Piccolillo per il Corriere.
«Un minuto di silenzio assordante. In memoria di Giulia, massacrata dal suo ex fidanzato, ieri nelle scuole si è manifestato con commozione e tanta rabbia. C’è chi, come chiesto dal ministro dell’Istruzione e Merito Giuseppe Valditara, per 60 secondi ha taciuto. E chi invece, come auspicato dalla sorella della vittima Elena, ha fatto rumore. Usando di tutto: battendo mani e chiavi sui banchi, con fischi, grida, applausi, slogan al megafono e, a Torino, poesie. Da Nord a Sud i liceali si sono fatti sentire. A Roma sono scesi in piazza con fumogeni viola a scandire il conto alla rovescia prima delle 11, orario fissato dal ministro per il minuto di silenzio. E scandendo l’invito di Elena divenuto slogan: «Bruciamo tutto». Una protesta cui si è unita anche l’università La Sapienza in occupazione. «Gli studenti fanno bene a scendere in piazza ma non sono d’accordo che si debba bruciare tutto. Bisogna costruire, bruciare il male, bruciare una cultura maschilista,questo sì», ha detto il ministro-professore Valditara. Ricordando: «Dovete rispettare i no». Ricordo di Giulia anche al Senato, dove la senatrice di Azione Giusy Versace, assieme alla cantante Jo Squillo e una trentina di studenti ha osservato un minuto di silenzio, seguito da un minuto di rumore. Polemiche a Bari per un volantinaggio in favore di una giornata «per i diritti che gli uomini non hanno». E tensioni a Firenze per il sommarsi delle proteste pro Palestina. Nei prossimi giorni ci saranno altre iniziative. Il presidente del Senato Ignazio La Russa rilancia la necessità di una manifestazione che preveda la partecipazione soli di uomini. Mentre i senatori della maggioranza stanno organizzando per domani un flash mob da tenere a Piazza Navona o al Pantheon. I capigruppo lavorano per avere a fianco anche le opposizioni. Oggi a Milano i collettivi della Statale terranno a loro volta un flash mob davanti all’università portando una corona di alloro fucsia. Mentre a Roma ci sarà un sit-in a San Lorenzo. Per sabato, Giornata internazionale contro la violenza di genere, Non Una di Meno organizza due manifestazioni: una al Circo Massimo a Roma alle 14,30, l’altra a largo Seggiola a Messina contro «la violenza patriarcale». Per sabato a Firenze il sindaco Dario Nardella annuncia un flash mob in piazza della Signoria. A Giulia sarà dedicata domenica la terza tappa di «Corri per il verde» a Roma. Mentre a Lampedusa ieri in suo onore è stato piantato un albero. Fino a domenica a Ferrara sarà illuminata la Fortezza estense. A Cagliari è comparso un maxi murales con su scritto: «È stato il vostro bravo ragazzo. Non è amore. È femminicidio». E a A Treglio (Chieti) sui muri della scuola primaria sabato sarà inaugurato l’affresco: «Da Franca Viola a Masha Amini il coraggio di dire NO!».
LILIANA SEGRE: LA SFIDA È EDUCARE I PROPRI FIGLI
Il Giornale pubblica un intervento di Liliana Segre contenuto nel libro in uscita, La memoria che educa al bene, scritto a quattro mani con l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini per la San Paolo.
«C’è una consapevolezza molto triste, che purtroppo non mi abbandona mai: l’esistenza dell’odio, nel mondo, le sue dinamiche e il suo terribile mistero. A questo proposito vorrei leggervi due righe di una poesia che ho in parte trascritto e che ho portato con me stasera. È di una scrittrice polacca, una persona molto intelligente. Si intitola L’odio. Si potrebbe dire: cosa c’entra una poesia sull’odio in una serata in cui parliamo di educazione e di scuola e di insegnamenti? Secondo me c’entra tantissimo, ed è per questo che ho copiato queste parole e ve le offro. Perché l’odio serpeggia, oggi più che mai. Serpeggia a livelli bassissimi, ma con danni molto gravi. I bulli non cambiano la scuola, sono i bullizzati che la devono cambiare. I genitori dei bulli li difendono: dopo che questi hanno odiato il bullizzato, l’hanno offeso e umiliato, i suoi li considerano ancora bravi e magari attaccano la scuola che non li sa «tenere», «sorvegliare» e correggere. In questo modo la scuola, contro tutte le migliori intenzioni, diventa una scuola dell’odio. E la scuola dell’odio può essere ovunque, intorno a noi: se uno posteggia la macchina in un posto dove non deve e trascura i diritti di un disabile, se una persona considera nemici dei migranti che sono venuti qui in cerca della salvezza dalla morte e dal dolore e dalla povertà, la società intera diventa una scuola dell’odio. Una Commissione che a breve riprenderà i suoi lavori anche con questo nuovo Governo.
Ed ecco il frammento dalla poesia L’odio, di Wisława Szymborska: Guardate com’è sempre efficiente/ come si mantiene in forma/ nel nostro secolo l’odio/. Con quanta facilità supera gli ostacoli/...
Per me queste parole, che in realtà sono semplicissime, non sono concetti astrusi, filosofici, difficili da interpretare... È l’odio di cui questo tempo è permeato... Ecco: è questo che secondo me è incredibile di questi tempi che sono permeati di odio e troppo pochi se ne lamentano. E quando ho fatto il mio discorso in Senato, proprio alla fine di settembre, all’ingresso del nuovo governo, ho usato un termine completamente fuori luogo, completamente vecchio come me, perché non saprei che altro aggettivo usare, che è la parola «mitezza». La auspico anche per i governanti, la auspico lì, proprio in Parlamento, in Senato, perché anche lì abbiamo sentito e visto, a volte sbalorditi, personaggi avventarsi uno contro l’altro per temi di relativa importanza: per il prosecco, per esempio, come se si trattasse di una questione di vita o di morte. E proprio da lì dovrebbe venire l’esempio di una civile convivenza. Penso ovviamente anche alla lettera dell’articolo 3 della nostra santa Costituzione, che dice quanto ognuno di noi abbia il diritto di essere se stesso e il dovere di non fare del male all’altro per nessun motivo, mai. E voglio rivolgere un pensiero anche al mio mestiere di madre. Io certamente non sarò stata con i miei una grande educatrice: avendo sperimentato cose terribili e temendo in ogni modo la presenza, nel cuore dei miei figli, di qualsiasi ombra di male, non sono stata una madre permissiva, piuttosto il contrario. Ero quindi una madre piuttosto severa, e penso che i miei figli ne abbiano anche in parte sofferto e che devo farmi perdonare da loro, rispetto a diverse circostanze. Viceversa, i miei figli, e quelli della loro generazione, che sono presenti questa sera in gran numero, io penso siano stati e siano, nei confronti dei loro figli, sarebbero in questo caso i miei nipoti, di un lassismo preoccupante... Su questo mi esprimo con prudenza, come deve sempre fare una nonna, rispettando le scelte dei genitori. Ma mi sembra che oggi ai ragazzi tutto sia permesso, tutto sia lecito. L’educatore di una volta, soprattutto il genitore, usava dare anche qualche sculaccione e se ne prendeva la responsabilità: comunicava anche così, a malincuore, l’importanza di certe scelte e la gravità di certi errori. Oggi c’è forse un’eccessiva tendenza a proteggere i piccoli da ogni prova e da ogni tensione, mentre io, quando ero severa, non mi sentivo in colpa, ma ero convinta di servire, in quei momenti, un bene più grande».
“GLI UOMINI DEVONO CEDERE IL POTERE”
Parla Lucia Vantini, presidente del coordinamento delle teologhe italiane. Gli uomini? Devono riposizionarsi in una nuova alleanza di genere, mettendo da parte il potere. Luciano Moia per Avvenire.
«Di fronte a tragedie come quella capitata a Giulia, dove ancora una volta una giovane donna è rimasta vittima della criminale volontà di possesso di un uomo che la considerava evidentemente qualcosa di cui liberamente disporre, non è arrivato il momento di prendere sul serio la sollecitazione del Sinodo concluso da pochi giorni che ci invita a rivedere le «categorie antropologiche che abbiamo elaborato » riconoscendo che «non sono sufficienti a cogliere la complessità» in cui siamo immersi?
La tristissima vicenda di Giulia Cecchettin - risponde Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, docente di filosofia e teologia fondamentale a Verona, esperta di prospettive di genere - ci ha segnato in profondità. Si è inscritta in noi con tutto il dolore e la rabbia che può portare la notizia di una giovane donna assassinata nel fiore della vita da un ragazzo che non riusciva a elaborare il suo abbandono e ad accettare che le loro strade si fossero divise. Come scriveva Elsa Morante, l’ossessione scambiata per amore scatena l’inferno sulla terra: «è un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né sé stesso, ma soltanto te». Oltre all’amarezza che si lega all’impotenza per una vita appena sbocciata e che vorremmo miracolosamente rianimare, quello che mi inquieta e agita ora è la percezione di un’impressionante impreparazione culturale riguardo le questioni di genere e di un insistente analfabetismo affettivo che si ostina a non riconoscere o per lo meno a sminuire l’ingiustizia del patriarcato in tutte le sue forme esplicite di violenza ma anche in quelle nascoste nelle false e ossessive premure del controllo continuo. Se è infatti facile leggere in Masha Amini la storia di una donna che paga con la vita il fatto di non stare con docilità nel posto che il sistema le ha assegnato, più difficile è cogliere lo schema in storie come questa e c’è chi si ostina a non vedere. Le categorie necessarie per questa consapevolezza non sono però da inventare: sono un’eredità dei femminismi che hanno liberato le vite delle donne dall’oppressione del patriarcato e del fratriarcato e che ora chiedono insistentemente a tutti gli uomini di riposizionarsi in una nuova alleanza come padri, compagni, amici, fratelli, figli. Senza invidia che consuma né potere da contendere bensì, semmai, da discutere.
Quanto pesano in queste situazioni gli stereotipi di genere a cui, più o meno consapevolmente, tutti siamo stati educati e a cui, in forme diverse, abbiamo educato i nostri figli?
È come se il mondo ancora non riuscisse a cogliere le connessioni tra una tragedia come questa e le culture, gli immaginari, le leggi, le abitudini in cui ci troviamo a vivere. Certamente la vicenda di Giulia e di Filippo, nella differenza e nella asimmetria delle loro posizioni, è singolare e non può essere usata come argomento per dire altro, ma allo stesso tempo rivela un’urgenza non più rimandabile: corrodere il sistema del dominio degli uomini sulle donne con una cultura, un’educazione, una prassi capaci di riconoscere la libertà femminile come un valore per il mondo intero, e di prendersi finalmente cura di un’interiorità maschile che spesso fatica a reggere una vulnerabilità ormai senza coperture, e che tende ad affrontare le perdite della vita con risentimento e violenza. L’incapacità di accettare la rottura di una relazione non è solo vissuto intimo, ma si collega subdolamente all’ordine simbolico del contesto. Forse in questo caso c’entra anche la competizione tra i sessi, su cui spesso si glissa. Sul piano personale, magari la laurea di Giulia poteva apparire a Filippo come il tragico sintomo di una strada divergente, ma sul piano culturale viene spontaneo collegare il disagio a quelle leggi non scritte secondo le quali non è accettabile che una donna superi un uomo nei traguardi della sua vita. In questo senso, la prassi di uno stipendio inferiore per le donne non è un dato casuale, ma una forma di rassicurazione sociale. Pubblico e privato sono sempre intrecciati.
Se vogliamo davvero preparare questa grande svolta qual è il ruolo della famiglia?
Le famiglie non sono tutte uguali: alcune sono parte del problema, perché disfunzionali. In queste circola violenza psicologica, fisica, spirituale, magari riassorbita in narrazioni normalizzanti o nel silenzio che simula il bene. Tutto questo non si nutre necessariamente di episodi drammatici e ben riconoscibili, perché la cultura tossica che struttura l’identità maschile sull’orgoglio e quella femminile sulla cura e sulla forza di salvare i legami a qualunque costo viene potenziata anche ogni volta che chiediamo a una figlia di essere più paziente e più gentile del fratello, rispetto al quale magari si tollerano comportamenti e atteggiamenti più istintivi e aggressivi, ogni volta che ci viene spontaneo esaminare e giudicare lei – i suoi vestiti, il suo atteggiamento, la sua vita – quando denuncia la violenza di lui, quando si insinua l’inaffidabilità femminile in posizioni di autorità e di potere, quando si insiste troppo sull’evanescenza dei padri senza alcuna attenzione alle madri, quando da bambine ci dicono che i dispetti dei bambini sono un segno del loro interesse per noi o che la gelosia è una forma d’amore, quando diamo per scontato che lo stupro sia un’arma di guerra. Forse tenendo presente tutto questo, Elena Cecchettin, sorella di Giulia, ha dichiarato che i mostri non nascono mai dall’oggi al domani perché c’è una cultura che li alimenta e li protegge, e che il dramma che ha coinvolto la sua famiglia non sia un delitto passionale ma un delitto di potere.
E il ruolo della Chiesa?
Per parte sua, la Chiesa è sempre a rischio di scambiare per « vaneggiamento » le parole femminili, di neutralizzare il desiderio di giustizia delle donne attraverso idealizzazioni o demonizzazioni, di rimuovere ogni lamento o profezia femminili che potrebbero intaccare un potere maschile a cui alcuni uomini non vogliono rinunciare. Una comunità giusta si vede da come osa riconfigurare sé stessa quando le donne non vogliono più stare nel quadro asfittico che aveva inizialmente assegnato loro».
MANOVRA 1, LA UE PROMUOVE L’ITALIA
Manovra, l’Italia promossa con riserva a Bruxelles. Paolo Gentiloni dice: «L’Europa non chiede misure correttive». Sull’economia faccia a faccia oggi fra Giorgia Meloni e Olaf Scholz. Francesca Basso e Marco Galluzzo per il Corriere.
«La Commissione europea ha promosso con riserva la manovra finanziaria italiana: «Non è pienamente in linea» con la raccomandazione del Consiglio del luglio scorso però «non si tratta di una bocciatura, ma di un invito a politiche di bilancio prudenti e al pieno uso per gli investimenti e le riforme del Pnrr», ha spiegato il commissario all’Economia Paolo Gentiloni. Bruxelles ha indicato tre punti critici: una spesa primaria netta nel 2023 più alta rispetto a quella prevista al momento della raccomandazione (dello 0,8% del Pil) a causa dei crediti di imposta per il Superbonus, che va a pesare sulla valutazione complessiva; l’uso dei risparmi legati all’eliminazione graduale delle misure di sostegno all’energia non per ridurre il deficit ma per farne altro; la portata limitata degli effetti del taglio della tassazione sul lavoro. La Commissione Ue, dunque, invita l’Italia a «tenersi pronta ad adottare le misure necessarie nell’ambito del processo di bilancio nazionale per garantire che la politica fiscale nel 2024 sia in linea con la raccomandazione». Non significa però che l’Italia si debba preparare a una manovra correttiva. «I nostri inviti sono uniformi per i vari gruppi di Paesi. E per i Paesi non pienamente in linea sono inviti a prendere le misure opportune e non a fare manovre correttive», ha chiarito Gentiloni. In tutto sono 9 i Paesi «non pienamente in linea» inclusa l’Italia. Gli altri: Germania, Austria, Lussemburgo, Lettonia, Malta, Olanda, Portogallo e Slovacchia. La Francia, invece, rischia di non essere in linea con la raccomandazione del Consiglio assieme a Belgio, Finlandia, Francia e Croazia per l’eccessiva spesa pubblica. Promozione per Cipro, Estonia, Grecia, Spagna, Irlanda, Slovenia e Lituania. Tutto a posto quindi? Non proprio, perché da gennaio torna in vigore il patto di Stabilità. Dopo le Europee in giugno «la Commissione intende aprire procedure per deficit eccessivo in base all’esito dei dati di bilancio del 2023», ha ricordato il vicepresidente Valdis Dombrovskis. L’Italia è dunque a rischio procedura. Bruxelles conclude la sua opinione spiegando che nel 2024 il disavanzo di bilancio nominale dell’Italia sarà al 4,4% del Pil (sopra il 3% previsto dai Trattati), e il debito pubblico al 140,6% del Pil nel 2024 (oltre il 60% stabilito dai Trattati) «ma 6,5 punti percentuali al di sotto del rapporto di fine 2021». Inoltre secondo Bruxelles l’Italia ha «compiuto progressi limitati per quanto riguarda gli elementi strutturali delle raccomandazioni di bilancio». Di economia si parlerà anche nel faccia a faccia che oggi Meloni avrà con il Cancelliere Scholz a Berlino a margine del vertice fra i due Stati. L’occasione sarà sfruttata dalla premier per cercare di fare un passo avanti sui negoziati per il nuovo patto di Stabilità. Per l’Italia è imprescindibile che una massa di spese di bilancio, dai cofinanziamenti ai Fondi di coesione sino al Fondo complementare del Pnrr, in tutto fra 60 e 70 miliardi, risorse che l’Italia dovrà spendere nei prossimi anni, non vengano computate nelle regole sul deficit e sul debito del nuovo patto di Stabilità. Solo Berlino può dare il via libera».
MANOVRA 2, LA LEGA PRESENTA 3 EMENDAMENTI
Depositate le proposte di modifica alla manovra: sono circa 2.650 Pd, M5s, Avs e +Europa progettano un fronte comune. Convergenza su sanità e salario minimo. A sorpresa ci sono anche tre emendamenti dei leghisti, nonostante i propositi di Giorgia Meloni. Per Avvenire Matteo Marcelli
«L’opposizione affila le armi in vista della battaglia sulla manovra e, fatta eccezione per l’ex Terzo polo, prepara il fronte comune su sanità e salario minimo. Ma, a sorpresa, la Lega rompe il fronte della maggioranza: presenta tre emendamenti e parla di proposte «non onerose», ben sapendo però che in maggioranza c’era un accordo per non chiedere modifiche. Il primo pacchetto siglato da M5s, Pd, Avs e +Europa contiene tre proposte di modifica, già depositate ieri in Senato. La prima, si legge in una nota congiunta, «riguarda lo stanziamento di 4 miliardi nel 2024» per «avviare un percorso di incremento del Fabbisogno sanitario nazionale» e «raggiungere gradualmente una percentuale di finanziamento annuale non inferiore al 7,5 % del Pil» (un miliardo sarà destinato all'assunzione di nuovo personale sanitario). La seconda prevede «la costituzione di un fondo di 600 milioni finalizzato a dare avvio all'attuazione della legge delega del 2023 sull'assistenza delle persone anziane non autosufficienti, per la quale la legge di Bilancio non prevede alcun finanziamento». Infine la terza, che punta invece all’abbattimento delle liste d'attesa e «sostituisce integralmente la proposta del governo, puntando su più personale, costi dell'intramoenia a carico del Servizio sanitario nazionale, gestione centralizzata delle liste limitando il ricorso al privato accreditato al solo 2024». Per il resto, e a esclusione del salario minimo su cui sembra reggere la comunione di intenti, ognuno andrà avanti da sé. Il Pd (1103 emendamenti circa) tirerà le somme nel corso della direzione nazionale di oggi, con la stesura definitiva della “contromanovra” immaginata da Elly Schlein, mentre i pentastellati presenteranno la loro “manovra giusta” in Senato, dove interverranno anche alcuni rappresentanti delle categorie che rischiano di pagare sulla propria pelle gli effetti della legge di Bilancio. L’idea di fondo, spiegano fonti 5s, è quella anticipata da Giuseppe Conte ieri sera: dimostrare che la coperta non è affatto corta, basta saperla usare. I temi sono diversi, ma l’obiettivo resta quello di scardinare una Finanziaria «che fa cassa sui deboli creando enormi disuguaglianze». Nei quasi mille emendamenti grillini, ci sarà anche il Reddito di cittadinanza, smantellato dall’esecutivo Meloni, ma anche incentivi per l’innovazione e norme a favore delle aziende sulla scorta di quanto prevedeva “Industria 4.0”. Prevista anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Un progetto ambizioso, ma i soldi per portarlo a termine, insistono dall’entourage del presidente pentastellato, si possono trovare. Come? Prendendoli dove ci sono e quindi ampliando la tassazione sugli extra-profitti, non solo sulle banche, ma anche sulle case farmaceutiche, le aziende energetiche, le assicurazioni e l’industria bellica. Poi c’è il taglio agli armamenti e il recupero delle risorse destinate alla sanità privata. Anche Azione ha depositato il proprio pacchetto di modifiche, in completa autonomia, benché alcuni parlamentari dem ritengano che la formazione di Calenda potrà aggiungersi in corso d'opera su parte delle proposte unitarie. Lo schema è pragmatico, come è nello stile del fondatore: 91 emendamenti a saldi invariati (i 24,4 miliardi). Sanità, istruzione, crescita e sviluppo saranno gli assi portanti e tutto, ha assicurato Mara Carfagna, sarà accompagnato dalle indicazioni per le coperture».
ITALIA-ALBANIA, SI VOTERÀ IN PARLAMENTO
Antonio Tajani, titolare della Farnesina, annuncia: presenteremo in tempi rapidi un Ddl di ratifica dell’accordo con Tirana sui migranti. I costi interamente coperti da Roma, anche per la polizia albanese. Vincenzo R. Spagnolo per Avvenire.
«Effettuando quella che le opposizioni bollano senza mezzi termini come «una giravolta», il governo fa sapere che, per il varo del controverso accordo in materia di migranti fra Italia e Albania, occorrerà una legge di ratifica da far approvare in Parlamento. A dichiararlo, ieri nell’aula di Montecitorio, è stato il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, nell’attesa informativa sul suddetto memorandum. L’esecutivo, ha detto, «intende sottoporre in tempi rapidi alle Camere un disegno di legge di ratifica che contenga anche le norme e gli stanziamenti necessari all’attuazione del protocollo ».Dopo gli interventi delle forze politiche e le dichiarazioni di voto, l’Aula ha approvato la risoluzione della maggioranza (189 sì, contro 126 no), che impegna appunto l’esecutivo ad «adottare ogni iniziativa necessaria, anche tramite un disegno di legge di ratifica, per un’efficace e urgente attuazione del Protocollo ». E un ampio via libera (317 sì, nessun contrario) è arrivato pure per alcune parti delle diverse risoluzioni delle opposizioni: una presentata da Pd, Italia Viva e +Europa, sul tema del coinvolgimento delle Camere; e un’altra che M5s invece ha presentato da solo e che chiedeva fra l’altro una relazione annuale del governo sul funzionamento dell’intesa. «Non è come Regno Unito-Ruanda». Il vicepremier è tornato sul contenuto dell’intesa, ribattendo a «chi, nell'opposizione, ha descritto il progetto come una Guantanamo all'italiana, ha parlato di deportazione o evocato il precedente dell'accordo tra Regno Unito e Ruanda». Secondo Tajani, invece, l’accordo «non è paragonabile al protocollo tra Regno Unito e Ruanda, non c’è esternalizzazione a un terzo Paese nella gestione delle domande di asilo e non si deroga ai diritti internazionalmente garantiti». L’Italia intende costruire due centri migranti in territorio albanese: uno per la prima accoglienza, l’altro per le persone in attesa di rimpatrio (che potranno restarci fino a 18 mesi). In contemporanea, potranno ospitare al massimo 3mila migranti. E «gli avvocati e le organizzazioni internazionali potranno entrare». I costi dei centri, compreso il rimborso della vigilanza della polizia albanese, saranno «a carico dell’Italia», con un primo anticipo di 16,5 milioni di euro. L’ironia delle opposizioni. Per Tajani, il dibattito in Aula «dimostra che il governo non si è mai sottratto al dialogo e al vaglio del Parlamento». Le opposizioni ricordano tuttavia come - poco dopo la firma dell’accordo fra la premier Giorgia Meloni e il suo omologo albanese Edi Rama - in maggioranza siano stati molti, a partire dal ministro dei Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, a dire che un placet del Parlamento «non serve», perché «c’è già un accordo internazionale in materia ». Per la vicecapogruppo dem Simona Bonafé, l’esecutivo ha fatto «un imbarazzante dietrofront». Rincara la dose il 5s Alfonso Colucci: «Una redenzione di Tajani, se non la vogliamo chiamare una giravolta - argomenta -. E il governo ha omesso i reali costi: una spesa di 80 milioni di euro, con un deposito di 100 milioni a garanzia. Chi pagherà?». Nicola Fratoianni (Avs) ritiene l’intesa «un’operazione di pura propaganda. Come l'accordo con la Tunisia ». Tagliente è pure il pronostico del segretario di +Europa, Riccardo Magi: «State provando a edificare una costruzione di cartapesta che non reggerà».
LE SCUOLE D’ITALIA SECONDO EDUSCOPIO
Gianna Fragonara e Orsola Riva per il Corriere presentano l’ultima classifica delle scuole italiane, secondo eduscopio, che trovate completa qui.
«La migliore scuola d’Italia è anche quest’anno il liceo scientifico delle scienze applicate — con l’informatica al posto del latino — Nervi-Ferrari di Morbegno in provincia di Sondrio. Torna Eduscopio (www.eduscopio.it), decima edizione della mappa interattiva delle scuole superiori d’Italia redatta dalla Fondazione Agnelli in base agli esiti universitari (esami sostenuti e media dei voti) e lavorativi (tasso di occupazione e alla coerenza fra studio e lavoro) a un anno dal diploma. Uno strumento pensato per aiutare le famiglie nella scelta della scuola in vista delle iscrizioni. Il gruppo di lavoro della Fondazione Agnelli, coordinato da Martino Bernardi, ha analizzato i dati di 1.326.000 diplomati italiani di 7.850 scuole, in tre successivi anni scolastici: 2017/2018, 2018/2019, 2019/2020. Questi ultimi hanno inevitabilmente risentito della chiusura delle scuole a causa dell’emergenza Covid. Nonostante abbiano ottenuto voti più alti del solito alla maturità (grazie anche al fatto che, a causa dell’emergenza sanitaria, l’esame si è svolto in forma solo orale) e siano stati protagonisti di un autentico boom di immatricolazioni, fra i neodiplomati del 2020 che si sono iscritti subito all’università purtroppo è notevolmente aumentata anche la percentuale di studenti che non hanno dato alcun esame nel corso del primo anno accademico. «Una possibile spiegazione — ha commentato Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli — è che l’emergenza sanitaria, insieme alle drammatiche prospettive del mercato del lavoro nel 2020, abbiano indotto a iscriversi all’università studenti che in altre situazioni non lo avrebbero fatto».
CAMBIO AI VERTICI DI FORZA ITALIA
Cambio ai vertici di Forza Italia al Senato: Maurizio Gasparri è il nuovo capogruppo azzurro. Ieri sera il voto. Licia Ronzulli verso la vicepresidenza dell’assemblea di Palazzo Madama. Pierfrancesco Borgia per il Giornale.
«Cambio al vertice del gruppo di Forza Italia a Palazzo Madama. Ieri sera i senatori azzurri si sono riuniti per sancire l’avvicendamento tra Licia Ronzulli e l’attuale vicepresidente della Camera alta, Maurizio Gasparri. Un avvicendamento che era nell’aria da giorni, anticipato sugli organi di stampa. Un cambio che accontenta tutti. E che sicuramente vede i due protagonisti coinvolti allineati sulla stessa lunghezza d’onda. La riunione di ieri è stata convocata dalla stessa Ronzulli. E si è tenuta alla presenza del segretario del partito, Antonio Tajani. Segno che il cambio al vertice del gruppo è un passaggio in linea con la nuova leadership azzurra. «Ringrazio Licia Ronzulli per il lavoro svolto», scrive su X lo stesso segretario, affidando così ai social la notizia della nomina di Gasparri a capogruppo. Il passaggio rappresenta un ulteriore passo di avvicinamento al congresso di febbraio, quando non solo si deciderà con il voto diretto di tutti i rappresentanti la nuova guida del partito orfano del suo leader e fondatore ma stabilirà anche la linea da seguire in previsione del voto di giugno per le elezioni europee. Un test importante per tutta la maggioranza di governo ma soprattutto per gli azzurri che hanno fin qui avuto in Europa, con il Ppe, un ruolo da protagonista. Ronzulli, verrebbe quindi candidata alla successione di Gasparri per la carica di vicepresidente del Senato. Un ruolo di prestigio e una responsabilità istituzionale che premiano la sua militanza e il suo impegno. Gasparri tornerà quindi a un ruolo più politico. L’ex ministro si è anche distinto a settembre per l’organizzazione di numerose iniziative legate al tesseramento che ha portato 4 il partito a crescere in maniera esponenziale raggiungendo le oltre 100mila iscrizioni. Ora l’impegno di tutti, rassicurano dal partito, è di procedere a tappe forzate verso l’organizzazione del congresso. Ancora ieri mattina, interrogato dai cronisti, Gasparri negava la possibilità di un avvicendamento. «Resto dove sono» ha ripetuto anche dai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora di Radiouno dove è frequentemente ospite. Il cambio, però, è un passaggio salutato con favore dallo stesso Tajani. Ed è in linea, fanno notare gli osservatori di cose politiche, con quanto accaduto già a Montecitorio con il ritorno alla presidenza del gruppo di Paolo Barelli, fedelissimo di Tajani, al posto di Alessandro Cattaneo. La riunione di ieri sera non ha colto di sorpresa i senatori azzurri. Il crisma dell’ufficialità, però, deve attendere la decisione dell’aula. Sarà in fatti l’emiciclo di Palazzo Madama a mettere il sigillo a questo avvicendamento con il voto alla Ronzulli. Secondo quanto riferiscono al partito di Berlusconi, il cambio potrebbe avvenire già entro la fine di questa settimana».
“VICINI ALL’ENERGIA NUCLEARE SICURA”
Intervista del Sole 24 ore a Piero Martin, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova. Martin spiega: «Difficile immaginare quel che accadrà dopo il prototipo ma siamo vicini a produrre energia nucleare sicura».
«Il primo prototipo per la fusione nucleare previsto dall’alleanza Eni-Mit nel 2025? «Da fisico sono fiducioso, finalmente si intravede il primo obiettivo: dimostrare che si può produrre elettricità da un reattore sicuro per natura». Il suo ruolo nella transizione energetica globale? «Sarà il futuro insieme alle rinnovabili: finalmente il mondo, soprattutto l’Europa complice la guerra in Ucraina, si è svegliato». E l’Italia? «Nella fusione è stata pioniera con vari progetti, intravedendo con grande anticipo questa opportunità». Piero Martin è professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova ed è considerato tra i più grandi esperti di fusione nucleare (è anche Fellow dell’American Physical Society, riconoscimento riservato a un limitato numero di fisici internazionali). Alle valutazioni dello scienziato, che preferisce non sbilanciarsi sui tempi («mi servono elementi forti e dipenderà da tanti fattori e dalle prossime urgenze ambientali e strategiche globali»), Martin aggiunge una lettura più strategica, altrettanto cruciale per centrare l’ambizioso obiettivo di produrre energia come nel sole. «Sulla fusione vedo tanti attori e tante iniziative, in concorrenza ma anche complementari tra loro, così come un grande interesse dei principali Governi mondiali e un asse pubblico-privato sempre più forte, testimoniato in Italia dall’alleanza tra Enea ed Eni», sottolinea il professore, evidenziando come più in generale – per costruire il paniere energetico del futuro, da improntare sull’elettrificazione – bisognerà «ragionare in maniera più complessiva, senza imposizioni dall’alto ma anche senza no a prescindere, consapevoli che nei prossimi anni avremo ancora bisogno sia del gas sia della fissione nucleare, magari con i mini reattori Smr».
I tempi confermati da John Kerry per i progetti del Commonwealth Fusion Systems di Mit ed Eni sono stretti con il primo prototipo già nel 2025.
«Se Kerry lo ha detto, avrà avuto i suoi buoni motivi. Da fisico più che commentare i tempi preferisco ricordare che prima di tutto è necessario dimostrare che il reattore può produrre elettricità, cosa che non è stata ancora fatta. Tuttavia, vedo una base scientifica forte e un grande sprint verso questo obiettivo, che ormai si può intravedere. Sono fiducioso. Lo stesso Kerry ha parlato di un’immissione in rete dell’energia in rete già nel 2030. Quello che verrà dopo il prototipo è difficile immaginarlo e dipenderà da molti altri fattori, non escludo che ci possa essere una grandissima accelerazione. Le faccio un esempio: Enrico Fermi ha realizzato la prima pila atomica nel 1942 e poi sotto la spinta dei driver legati alla Seconda guerra mondiale, la fissione ha prodotto per la prima volta elettricità nel 1951 ma per l’equivalente di quattro lampadine, nulla di paragonabile alle centrali nucleari da oltre 1 GW di oggi. In sostanza, passare da una fase dimostrativa a una più industriale richiederà del tempo. Per questo ribadisco: più che parlare di date, preferisco evidenziare la chiarezza, che oggi c’è, di un percorso e di una strategia».
In quest’ottica quanto è importante il ruolo dei privati?
«Ad oggi hanno investito oltre 6 miliardi, il loro ruolo è fondamentale tanto quanto lo è la loro alleanza con il pubblico: parlo di aziende come l’Eni, impegnate in prima fila, e in parallelo di progetti internazionali come il reattore sperimentale Iter, un modello di diplomazia scientifica, visto che vede come partner Ue, Usa, Corea del Sud, Giappone, India e Russia, che punta a risolvere i problemi legati alla fase più “commerciale” della fusione. Nel complesso vedo iniziative e sforzi complementari che creano competizione positiva ed entusiasmo».
Va letto in quest’ottica anche l’esperimento dello scorso dicembre in California, che ha prodotto una reazione di fusione che ha liberato più energia di quanta ne sia servita per innescarla?
«Sì perché sfrutta un approccio inerziale interessante ma molto complesso, che usa raggi laser per comprimere il combustibile e portarlo alla fusione, diverso dal confinamento magnetico del Mit.Tuttavia ritengo che quest’ultimo abbia più potenzialità».
In questo scenario come si colloca l’Italia?
«In prima fila. Nel 2017 abbiamo lanciato il progetto Divertor Tokamak Test con Enea ed Eni: un’alleanza pubblico-privato che dovrà risolvere i problemi fondamentali sulla gestione di flussi di calore per tutti i reattori. Il nostro Paese ha visto in anticipo una grande opportunità, anche grazie a una tradizione accademica molto forte, ci sono tantissimi studenti che oggi si avvicinano a questo settore».
Come vanno letti i progressi sulla fusione nell’ottica della transizione energetica?
«Forse anche grazie a quanto avvenuto in Ucraina il mondo si è svegliato, sono fiducioso che in futuro la fusione sarà un componente essenziale del paniere energetico. Ovviamente non l’unico, ci saranno le rinnovabili e la fissione nucleare continuerà a mantenere un suo ruolo, con i reattori Smr come soluzione interessante a breve termine. Sull’energia dobbiamo avere un approccio su scala europea, laico, guardando ad ampio spettro e soprattutto con una visione d’insieme, grazie alla quale anche il tema dei tempi si aggiusta. Senza preconcetti e senza imposizioni dall’alto».
L’energia oggi vive anche di squilibri a livello globale. La fusione nucleare può attenuarli?
«Ad oggi abbiamo 800 milioni di persone senza energia elettrica, soprattutto in Africa. L’energia che un giorno arriverà dalla fusione dovrà essere un patrimonio di tutti: se oggi servono grandi capitali occidentali per la ricerca, domani avremo bisogno di una grande idea politica per far sì che le conquiste della scienza contribuiscano a una democratizzazione dell’energia».
ASSALTO AL BALLO D’INVERNO, UN 16ENNE UCCISO
Veniamo alle altre notizie dall’estero. In Francia attacco alla festa di un paese di provincia, poco lontano da Grenoble: un 16enne morto e 20 feriti. La denuncia: «Puntavano ai bianchi». Una gang di ragazzi ha teso l’imboscata. Stefano Montefiori per il Corriere della Sera.
«In un piccolo villaggio di campagna appartato e molto tranquillo, poco lontano da Grenoble, abitato da neanche 600 persone, nella notte tra sabato e domenica è esplosa una violenza inaudita. Tutto il paese, in pratica, si trovava nella sala delle feste di Crépol per il «ballo d’inverno». Intorno alle due di notte un gruppo di ragazzi venuti dalla periferia di una cittadina vicina ha dato l’assalto, colpendo a caso chiunque capitasse a tiro con coltelli e accette da macellaio. Venti accoltellati, dei quali due ancora in prognosi riservata, e un morto: Thomas, 16 anni, liceale, colpito al torace e alla gola, spirato sull’ambulanza che correva verso l’ospedale. È stato un massacro che sta scuotendo la Francia, anche perché la prima reazione delle autorità forse non è stata adeguata. Il procuratore di Valence, Laurent de Caigny, all’inizio ha parlato di una «rissa generale», definizione che indigna gli abitanti di Crépol. A distanza di pochi giorni tutte le testimonianze concordano nel dire che non si è trattato affatto di una rissa, né di un regolamento di conti tra bande rivali: una decina di ragazzi venuti forse dal malfamato quartiere della Monnaie del centro più vicino, Romans-sur-Isère (33 mila abitanti), sono arrivati già armati e decisi a entrare alla festa. Quattro uomini del villaggio all’ingresso li hanno respinti, anche perché si sono accorti dei coltelli. Loro hanno aspettato che la festa finisse e che i partecipanti cominciassero a uscire, e a quel punto è cominciato il bagno di sangue. Una testimonianza, sul giornale locale Dauphiné , suscita reazioni soprattutto nell’estrema destra: «Siamo qui per accoltellare dei bianchi», dicevano gli assalitori. Più che una rissa, pare un attentato. L’adolescente ucciso, Thomas, viene descritto dagli amici come un ragazzo appassionato di rugby che, per carattere, aveva semmai l’abitudine di fare da paciere. È stato accoltellato a caso, nel mucchio, solo perché si trovava lì. Uno dei quattro uomini all’ingresso ha avuto le dita mozzate, e i due feriti ancora tra la vita e la morte — uno di 23 e l’altro di 28 anni — sono stati colpiti al ventre e alla gola. Una marcia bianca alla memoria di Thomas si terrà oggi alle 13 e 30 a Romans-sur-Isère, dove l’adolescente andava a scuola. I genitori chiedono che l’evento sia «apolitico», ma i fatti di Crépol sono al centro del dibattito. «Ormai il razzismo anti bianchi arriva anche nelle nostre campagne — ha detto Marion Marechal, del partito Reconquête —. A Crépol i barbari volevano “accoltellare dei bianchi”. Siamo alla caccia ai Gaulois (termine che vuole distinguere i francesi di origine da quelli immigrati, ndr )». Il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, parla di «fallimento generale della nostra società». Ieri all’Assemblea nazionale, durante un dibattito parlamentare molto acceso, il ministro ha potuto annunciare i primi arresti: nove giovani pregiudicati sono stati catturati in un piccolo albergo di Tolosa mentre si apprestavano a fuggire in Spagna».
L’ARGENTINA DI MILEI E LA SPERANZA DI ALVER
Si può ancora sperare dopo l’elezione del turbo liberista e populista Javier Milei in Argentina? Alver Metalli ha scritto per Vita.it una pagina di diario, dalla Villa miseria dove vive, che contiene speranza.
«Lunedì mattina ho percorso i 30 chilometri dal centro di Buenos Aires alla villa miseria dove vivo con molta amarezza, rimuginando il risultato della notte, peraltro anch’essa insonne come quella di tanti argentini. Pensavo e ripensavo non tanto ai perché del risultato elettorale che ha portato Javier Milei alla presidenza. È chiaro che l’insofferenza verso una situazione di deterioramento prolungato fino all’insostenibilità ha portato una grande maggioranza di connazionali a scegliere un cammino oscuro. Poi si possono aggiungere tante altre considerazioni, ma al fondo questa è stata la spinta propulsiva fatale, o provvidenziale, a seconda dei punti di vista. Sono arrivato alla villa con questi pensieri in testa, ho posteggiato il furgone ed entrando ho visto un gruppo di uomini armato con vari attrezzi che ripuliva un posto alquanto malmesso. Erano lì dalla mattina presto sollevando pietre, spazzando, scartavetrando, occupati in manualità varie per rendere salubre e più accogliente un pezzo di territorio. Facevano un lavoro che non erano tenuti a fare, in un giorno festivo, il 20 novembre qui è il Día de la Soberanía Nacional, con lo stato d’animo che era quello che era. Ed invece erano lì e lavoravano e non venivano pagati per farlo. Ad uno ho chiesto di mostrarmi la mano perché mentre parlavo con lui avevo notato una piccola piaga sul palmo (nella foto), e ho poi saputo che glie l’aveva provocata il badile che aveva usato per spostare un cumulo di terra. Poco distante dal punto che stavano bonificando c’è una cucina e una porta dove tutti i giorni si raggruppano persone per ritirare un pasto caldo. E poco distante ancora un cortile che si riempie di bambini tutti i giorni della settimana. Un po’ più in là c’è un campetto di calcio e uno di basket, tutto il tempo occupati da ragazzini vocianti. Alcuni di loro, 6 o 7 mi hanno detto che, alla mattina presto, ancor prima che arrivassero gli uomini per lavorare, si sono ritrovati per andare a giocare con un’altra squadra di baseball di una baraccopoli della capitale con il loro professore, un tipo che conosco e che non ha proprio il fisico da atleta. Non ho potuto non pensare che il lavoro di quegli uomini per migliorare un pezzetto di habitat che trascende il minimo vitale delle loro catapecchie, fosse una risposta anche alle avversità del momento politico di cui alcuni di loro patiranno le conseguenze. E anche a quel professore ingobbito che non so come ha smaltito rapidamente l’amarezza del risultato elettorale, si è rimboccato le camicia e ha mantenuto l’impegno preso con i suoi allievi. A questo pensiero se n’è aggiunto un altro, sul perché lo facessero, gli uomini “restaurando” un ambiente comune ad altri, il professore di baseball portando un gruppo da una villa a un’altra per giocare una partita. Qualcuno, evidentemente, li ha abituati a comportarsi in quel modo. So che è così. Non è la prima volta che degli uomini che hanno i loro problemi in casa propria si danno da fare per cose che non sono loro. Ci sono state tante altre occasioni in cui l’hanno fatto prima di adesso. Hanno costruito mense, cappelle, ripulito marciapiedi, rifatto dei tetti che erano crollati. Il tutto mescolato a messe e processioni. Così sono diventati proclivi ad una solidarietà che anche tra i poveri non è affatto spontanea. Voglio dire con queste poche righe che ho visto, quando non ci pensavo, una risposta alla disfatta elettorale della sera precedente, perché per me è questo, una sconfitta, anzi, ne porto ancora la delusione stampata in faccia. Ma adesso non è la stessa debacle di prima».
SUDAN, 5 MILIONI DI BIMBI A RISCHIO
Nel Darfur, a causa della guerra civile in Sudan, secondo l’Unicef «ci sono almeno 5 milioni di bambini a rischio della vita». La notizia è da Avvenire.
«Per l'escalation della crisi umanitaria in Sudan negli ultimi sette mesi, nel Darfur almeno 5 milioni di bambini si trovano ad affrontare «un’estrema privazione dei loro diritti e rischi di protezione a causa del conflitto in corso». Lo afferma l’Unicef in una nota. «Dallo scoppio della guerra, il 15 aprile, sono state denunciate oltre 3.130 violazioni gravi dei diritti dell’infanzia nel Paese, di cui almeno la metà nella regione del Darfur. Questa è solo la punta dell’iceberg, con importanti dati sottostimati a causa dei blackout delle comunicazioni e della mancanza di accesso», scrive il Fondo per l’infanzia della Nazioni Unite. «Il Sudan – e il Darfur in particolare – è diventato un inferno per milioni di bambini, con migliaia di persone prese di mira per motivi etnici, uccise, ferite, abusate e sfruttate. Tutto questo deve finire», ha dichiarato Catherine Russell, che è la direttrice generale dell’Unicef. «I bambini continuano a subire nuove violenze, mentre i loro genitori e nonni portano ancora le cicatrici di precedenti cicli di violenza. Non possiamo permettere che questo accada ancora una volta. Tutte le parti in conflitto devono rispettare il diritto internazionale e proteggere i bambini e i civili. I bambini hanno bisogno di pace». Il numero di gravi violazioni dei diritti dell'infanzia denunciate in Darfur ha registrato un'impennata del 550% rispetto al numero verificato in tutto il 2022. Di tutti gli episodi di uccisione e mutilazione riportati in tutto il Sudan, per il 51% riguarda bambini del Darfur. Inoltre, il 48% dei casi di violenza sessuale denunciati in Sudan si verifica in Darfur».
L’URLO DI BEN JELLOUN: VITA E PACE CONTRO LA BARBARIE
Repubblica stampa un brano del nuovo saggio dello scrittore Tahar Ben Jelloun, che è un appello a palestinesi e israeliani perché cessino la guerra. L’anticipazione è da L’Urlo, in uscita ora con l’editrice La Nave di Teseo.
«Io, arabo e musulmano di nascita, di cultura ed educazione marocchina tradizionale, non riesco a trovare le parole per esprimere l’orrore che provo per ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei. La brutalità, quando attacca donne e bambini, diventa barbarie e non ha scuse o giustificazioni. Sono inorridito perché le immagini che ho visto hanno toccato nel profondo la mia umanità. Credo che si possa resistere a un’occupazione, lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di smisurata ferocia. Hamas è nemico non solo del popolo israeliano, ma anche di quello palestinese. Un nemico crudele e senza alcun senso della politica, manipolato da un Paese in cui le giovani oppositrici vengono impiccate per non aver indossato il velo. Prendere ostaggi e usarli come strumento di ricatto, minacciandone l’esecuzione, non fa che esacerbare la rabbia che tutti noi proviamo. Questa brutalità ha una lunga storia. Sicuramente comincia con l’occupazione e le umiliazioni subite da una gioventù senza futuro, rapidamente caduta nelle mani di un movimento islamista dipendente dalla benevolenza dell’Iran. Dopo il massacro, qualunque sia il numero dei morti da una parte e dall’altra, la barbarie ha permeato il nostro immaginario e oggi è difficile credere che quegli uomini lo abbiano fatto per “liberare” un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati. Non uccidendo civili innocenti. No, non c’è ragione per quello che hanno fatto nelle case, nei campi, ovunque siano riusciti a catturare giovani che si stavano divertendo. L’orrore è un fatto tutto umano. Un ministro del governo Netanyahu ha definito gli abitanti di Gaza “animali”. No, ci sono uomini senza coscienza, senza morale, senza umanità che hanno compiuto dei massacri, e poi c’è una popolazione che soffre, che non è né armata né barbara. Non bisogna confondere Hamas con la popolazione (due milioni e mezzo di persone) che vive sotto occupazione e sotto embargo. Continuo a ripeterlo, ma la mia voce è sola. I capi degli Stati arabi della regione rimangono in silenzio. Nella mia solitudine, nella mia tristezza e vergogna di essere umano, nel mio disgusto per questa umanità alla quale mi rifiuto di appartenere, mi ribello, questa è una lotta che non fa onore alla loro causa. No agli applausi in certe capitali arabe. No a questa esplosione di sangue innocente. No alla cecità di chi sta tirando le fila di una tragedia in cui, prima o poi, sarà il popolo palestinese a pagare il conto più salato. Ricorderemo questa tragedia come una ferita inferta a tutta l’umanità. Una ferita mai rimarginata, mai dimenticata. Decapitare un uomo è qualcosa che va oltre l’orrore. Come descrivere quest’azione, la più ripugnante del mondo? Cosa c’è da dire? Le parole in questo caso non riescono a esprimere le cose. Fanno sciopero, non vogliono avere nulla a che fare con questi orrori. Le parole sono assenti e il linguaggio si trasforma in silenzio. Un bambino, indipendentemente dal colore della pelle o dalla religione (ma un bambino non ha ancora una religione) è un dono insostituibile. Ho visto madri in lutto che non avevano più lacrime da versare. Lo stesso succederà due settimane dopo a Gaza dove un uomo, circondato dai suoi tre figli morti sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano, piange la sua solitudine e la sua tragedia. Ho visto persone anziane, molto anziane, che avevano vissuto il nazismo e i suoi crimini. Sono stati ricacciati in un luogo che pensavano fosse sepolto per sempre. Le immagini sono crudeli. Parlano, entrano nella nostra mente e non vogliono andarsene. Si depositano dentro di noi e abbiamo bisogno di tempo per liberarcene, per dimenticarle o archiviarle. Mi sono rifiutato di vederle. Gli amici me le mandano. Cerco di cancellarle dal telefono. Ma non ci riesco. Resistono. Vogliono dirmi soprattutto: «Guarda cosa hanno fatto i tuoi fratelli arabi ai bambini e agli anziani; guarda bene di cosa sono capaci; non voltare la faccia, non distogliere lo sguardo; guarda e assorbi queste immagini; sì, devi farle tue, perché sono opera dei tuoi fratelli arabi». A un ebreo oggi non direi: guarda cosa ha fatto l’esercito israeliano. Non lo renderò responsabile, così come gli arabi non sono responsabili di ciò che ha fatto Hamas. Queste immagini si accompagnano a urla e grida. Tale è la violenza che è come se venissero strappati, con un solo gesto, tutti i capelli di una donna anziana e il sangue le colasse sulla fronte e sul viso. Guarda: questo sangue è stato versato con lo stesso coltello usato per tagliare una gola. Sgozzare… È stata l’Isis, l’organizzazione dello “Stato Islamico”, a fare dello sgozzamento una prassi abituale per eliminare gli occidentali presi in ostaggio. Tale pratica è un’aberrazione che va di pari passo con la ferocia di queste persone che hanno preso l’Islam a bandiera per commettere i peggiori crimini. Un taglio, un colpo secco e finale, e il sangue sgorga come da una generosa fontana. È uno spettacolo progettato per catturare lo sguardo occidentale, per trafiggere l’occhio della civiltà. Hanno abbandonato l’umanità. E l’umanità non li riconosce più. Non sono nemmeno animali. Perché gli animali non fanno quello che hanno fatto loro. Non abbiamo mai visto animali attaccare strategicamente altri animali solo per impedire loro di respirare. Ogni vita equivale sempre a un’altra vita, qualunque sia la tua religione, il colore della tua pelle, la tua storia, la tua età, il tuo destino. Volere stabilire una gerarchia tra le vite è un segno di razzismo, che è ciò che fa l’estrema destra israeliana. Che cosa sono, queste persone? Continuo a chiedermelo. E poi c’è il momento dei funerali. La televisione li riprende. Il dolore, un lutto impossibile, le lacrime e poi, come il rumore di un tuono, il ricordo di ciò che è accaduto. Dopo le emozioni, dopo lo choc, ci prendiamo una pausa. Restiamo in silenzio. Cerchiamo di pensare. Rimanere calmi. Evitare le parole inutili. Affrontare i fatti. Tenerci stretti al presente. E rimanerci. Il presente è essenziale. Il passato e il futuro offuscano la prospettiva. Dobbiamo avere una visione chiara e senza pregiudizi della radice del male, delle origini della bestialità che si è impossessata di giovani che, non molto tempo fa, erano bambini. Ma bambini che hanno aperto gli occhi su una prigione a cielo aperto. Un Paese che è stato trasformato in una prigione dove ogni movimento, ogni attività era ed è tuttora sotto il controllo di un esercito di occupazione. Attenzione! Dare un contesto geografico e politico non significa giustificare o iniziare ad accettare. Assolutamente no. Cerco di mettere le cose al loro posto come fa un regista quando prepara la scena per la storia che intende raccontare».
CHE COSA CI RESTA DI JFK
Il 22 novembre 1963 avviene l’assassinio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy a Dallas. I successi, gli errori, l’impatto su una generazione del leader che la morte ha trasformato in mito. Viviana Mazza sul Corriere della Sera.
«Nel sessantesimo anniversario dell’assassinio di Jfk, suo nipote Robert F. Kennedy Jr non poteva stare zitto. In corsa come indipendente per la Casa Bianca nel 2024, con i sondaggi che gli danno ben un quarto dei voti negli Stati in bilico in una ipotetica sfida contro Biden e Trump, il carismatico Kennedy, noto per le teorie cospirative sui vaccini, ha chiesto all’attuale presidente e suo rivale di pubblicare tutti i file ancora in parte top secret sulla morte di John F. Kennedy e ha promesso di «riportare l’America sulla strada della pace» voluta da suo zio. «I misteri della morte di Kennedy sono parte della sua eredità e hanno contribuito al declino di fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni americane, non solo nella Cia», dice al Corriere l’ex segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, Luigi R. Einaudi. Anche lui erede di una dinastia, è nipote del nostro ex presidente della Repubblica; è nato in America ed entrò in diplomazia sulle orme di Kennedy. «È un’eredità complessa. La giovane età, la moglie, la morte ne hanno fatto una leggenda. Non fu l’unico membro di una dinastia politica (i Bush, i Roosevelt e altri) e suo fratello Ted forse alla fine ebbe un impatto legislativo maggiore. I suoi risultati furono misti: il successo di avere risolto la crisi dei missili di Cuba è bilanciato dal disastro della Baia dei Porci e dall’escalation in Vietnam. Il suo discorso «Ich bin ein Berliner» fu memorabile, ma il suo rapporto con il golpe che rovesciò Diem fu ambiguo. Era giovane e inesperto all’inizio e seguiva il consenso della sua cerchia. Non sapremo mai se sarebbe diventato più maturo». Da Vienna alla California Lo storico Fredrik Logevall, premio Pulitzer, sta lavorando al secondo tomo di una biografia di Kennedy (JFK: coming of age in the American Century) che grazie ai file d’archivio diffusi finora racconta tra l’altro il peso sulla sua elezione del fatto che fosse cattolico. Al telefono da Harvard, traccia un paragone tra il summit della primavera 1961 a Vienna tra Kennedy e Krusciov, e quello tra Biden e Xi Jinping questo mese a San Francisco per evitare «che la competizione si trasformi in un’altra Guerra fredda» come ha detto l’attuale inquilino della Casa Bianca. Krusciov «era furioso, l’incontro avvenne poco dopo la Baia dei Porci, ma i leader del 1961 credevano che fosse importante che la situazione non uscisse fuori controllo. Spero che anche i leader di oggi capiscano che si possono fare passi per prevenire un’inalterabile escalation». Oggi Biden sta rafforzando le alleanze nell’Indo-Pacifico; Kennedy lanciò l’Alleanza per il Progresso tra Nord e Sud America. «Era imperfetta per diverse ragioni: perché era più anti-Castro che pro-sviluppo, perché era più angloamericana e portoricana che latino-americana, e perché non durò», dice Einaudi. «Ma d’altro canto un’intera generazione fu ispirata a entrare nel governo e pensare a una vita di servizio pubblico dalla famosa frase: “Non chiederti quello che il tuo Paese può fare per te, ma quello che tu puoi fare per il tuo Paese”. E il Paese deve molto ad una generazione che sta scomparendo». Oggi in una società americana diventata «cinica», afferma Logevall, «Jfk ricorda di un’era in cui era possibile credere che il governo potesse fare cose davvero grandi, anche se non poteva risolvere tutti i problemi. Le divisioni visibili oggi erano presenti in misura minore. C’erano persone che si opponevano con violenza a Kennedy e infatti gli era stato sconsigliato di andare a Dallas. Ma Lyndon Johnson fu in grado di usare l’assassinio per galvanizzare il Paese e passare leggi importanti, un’unità che poi il Vietnam spazzò via». Da alcuni punti di vista era un’epoca più facile per essere leader: «Kennedy non doveva affrontare i social o le news 24 ore su 24. Sarebbe stato più difficile tenere segreti i suoi rapporti extra-matrimoniali, anche se a Trump, che ha cavalcato la rivoluzione dei social, ciò non ha impedito di diventare presidente». L’era di Kennedy ci dà anche una lezione di realismo sui piccoli malintesi possibili anche tra alleati. «Quando Gianni Agnelli gli fece visita alla Casa Bianca — racconta Einaudi nel suo libro «Learning Diplomacy» — portò in dono una prelibatezza piemontese, un tartufo bianco gigante. Quella sera, lo servirono a cena: bollito, come una gigantesca patata».
C. S. LEWIS, UNA LEZIONE VIVA, 60 ANNI DOPO
In occasione dei 60 anni dalla morte di C.S. Lewis ci sono tre libri da rileggere, secondo Roberto Righetto che ne scrive su Avvenire. L’ultimo uscito è la nuova biografia di Paolo Gulisano per le edizioni Ares.
«Nel romanzo Il grande divorzio (Jaca Book 2007), C.S. Lewis - autore fra l’altro delle Lettere di Berlicche e della trilogia di fantascienza composta da Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza - s’immagina la vita nell’aldilà, ma la sua lettura può insegnare molto ai cristiani sulla vita sulla Terra oggi. Tutto comincia con la fermata dell’autobus posta all’Inferno, che porta i suoi abitanti a vedere il Paradiso e addirittura ad entrarvi. Ma c’è molta strada da fare e la maggior parte, presa da scetticismo, non salirà mai sull’autobus. Le anime vivono in una sorta di città desolata e aspettano con terrore la fine della giornata, l’arrivo della notte e del buio. Molti poi non pensano affatto di essere all’Inferno. Negazionisti che assomigliano a coloro che oggi mettono in discussione la gravità del cambiamento climatico e che sono stati stigmatizzati dal Papa nella lettera apostolica Laudate Deum. Uno dei personaggi esclama: “Non c’è uno straccio di prova che questo crepuscolo si trasformerà mai in una notte”. Applicato alla situazione attuale, viene da dire che ogni azione significativa per il clima deve iniziare con il riconoscimento che l’inferno climatico non è distante decenni, ma è già qui. Nel mondo di Lewis, poi, la consapevolezza di essere all’Inferno non basta per arrivare in Paradiso. Prima i dannati devono compiere una battaglia contro i loro vizi, le concupiscenze, le avidità. E non è affatto semplice. Quasi tutti falliscono perché sono ancora troppo legati al loro vissuto egoistico, sicché anche coloro che sono giunti in Paradiso tornano indietro, salendo sul prossimo autobus che li riporta all’Inferno. Per Lewis, di cui oggi ricorrono i 60 anni dalla morte, l’Inferno rimane un’opzione terribile che non può essere abbandonata, ma da esso si può uscire incamminandosi verso quella che i beati chiamano “la valle dell’ombra di vita”. Il Paradiso è una grande prateria dove gli uomini vivono con gli animali. Commenta lo scrittore: “Se già qui possiamo gioire con chi gioisce, tanto di più sarà nella comunione dei santi in cielo”. Di aldilà si parla molto anche in un altro volume di Lewis, L’immagine scartata, un saggio che come dice il sottotitolo è “un’introduzione alla letteratura medievale e rinascimentale” e viene ora pubblicato dalle edizioni Studium a cura di Danilo Zardin (pagine 190, euro 21). Il libro, che era già uscito in Italia nel 1990 per i tipi di Marietti, raccoglie le lezioni che Lewis tenne a Oxford per presentare le differenze fra il modello teologico, antropologico e letterario del Medioevo, che affondava nella cultura classica e in quella cristiana, e quello del mondo moderno, improntato alle scoperte scientifiche. Senza nostalgie di tipo tradizionalistico, il grande studioso non nasconde la sua simpatia per l’unità fra i diversi saperi che impregnava la civiltà medievale. Era la visione di un cosmo ordinato, “lo spettacolo di una formidabile convergenza della massima varietà a supporto del primato irrevocabile dell’essere umano”, come annota Zardin nell’introduzione. Vi sono due elementi che l’autore mette in luce e che oggi ci possono stupire dell’uomo medievale, il quale per Lewis “non era né un sognatore né un vagabondo; era al contrario un organizzatore, un codificatore, un fabbricatore di sistemi. Pretendeva di trovare un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. Non v’era nulla che amasse o svolgesse con maggior ardore del lavoro di cernita e riordinamento. Tra tutte le invenzioni moderne, quella che secondo me avrebbe ammirato di più è sicuramente lo schedario”. Un impulso che è presente in tutte le sue creazioni, i cui modelli più mirabili sono la Divina Commedia di Dante e la Summa di Tommaso d’Aquino, “compatti e ordinati come il Partenone o l’Edipo re, affollati e vari come un capolinea d’autobus in un giorno di festa”. La seconda sottolineatura è che l’uomo del Medioevo è libresco, ha un’enorme fiducia nel libro e nella sua forza. Avendo ereditato una mole enorme di volumi spesso eterogenei, testi pagani, giudaici e cristiani primitivi, si affida completamente alla loro autorità. Ne sono esempio alcuni testi antichi che trattano appunto la vita nell’aldilà, come la Repubblica di Platone col racconto finale del viaggio nel regno dei morti di Er l’armeno, il Somnium Scipionis di Cicerone, in cui il grande retore descrive il paradiso come un luogo riservato solo agli statisti, o il De deo Socratis di Apuleio, con la sua particolareggiata descrizione dei demoni. Ancora, i testi dell’era patristica, da Calcidio a Macrobio, o dell’Alto Medioevo, dallo Pseudo-Dionigi a Boezio; tutti rifluiti in qualche maniera nel poema dell’Alighieri. Per Lewis (sul quale in questi giorni sce anche la biografia Nella terra delle ombre di Paolo Gulisano; Ares, pagine 244, euto 16,00) il fatto che al modello medievale sia succeduto quello moderno dominato vieppiù dalla scienza non può essere liquidato come “un semplice passaggio dall’errore alla verità. Nessun modello è un catalogo delle realtà ultime, ma nemmeno pura fantasia. Ognuno rappresenta un serio tentativo di comprendere tutti i fenomeni conosciuti in una data epoca”. E forse la cosmologia stessa non è poi così tanto passata di moda».
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