La Versione di Banfi

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Colle, è il momento di Casini

alessandrobanfi.substack.com

Colle, è il momento di Casini

Gli anti Draghi Conte e Salvini si incontrano sul Quirinale. Fra i nomi c'è Pierferdinando Casini, che piace a Renzi. Il Cav non ha ancora deciso. Bufera su Ratzinger. Ucraina: oggi vertice Usa Russia

Alessandro Banfi
Jan 21, 2022
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Colle, è il momento di Casini

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Ci sono segnali di ottimismo sul fronte pandemia. Continuano a darli i numeri dei contagi: la curva si va stabilizzando. Oggi l’Istituto superiore di sanità farà il punto e ascolteremo Locatelli e Brusaferro. Sempre oggi il Consiglio dei Ministri potrebbe introdurre per la prima volta indennizzi per eventuali danni da vaccino. Sarebbe una misura importante, perché è la premessa necessaria per introdurre un obbligo vaccinale generalizzato. Obbligo che per prima l’Austria comincia ad applicare in questi giorni. L’altra misura del governo tanto attesa riguarda la semplificazione delle regole su quarantene, positivi e tamponi per la scuola. Il Cdm potrebbe anche occuparsi del caro energia, ieri Bonomi della Confindustria ha incontrato Draghi per chiedere aiuti alle imprese.

Nella corsa al Colle, colpo di scena: gli anti Draghi Matteo Salvini e Giuseppe Conte, prima alleati, poi grandi avversari, quindi di nuovo nello stesso governo, si sono incontrati in un faccia a faccia sul Quirinale. Tre i nomi dei candidati sul tavolo dei giallo verdi: Marcello Pera, Elisabetta Casellati e Pierferdinando Casini. Quest’ultimo oggi è il nome più gettonato per il Quirinale, anche perché è il favorito di Matteo Renzi. Ancora però non si sa se e quando Silvio Berlusconi rinuncerà al suo tentativo, anche se il capo della Lega lo ha dato per scontato. Intanto pare deciso che i grandi elettori positivi potranno votare dal parcheggio: un voto drive-in. Si prevedono voti per Ezio Greggio.

Nuovo rapporto sugli abusi di minori nella Chiesa bavarese. È stato reso noto ieri in una conferenza stampa in cui si è citato anche l’allora arcivescovo di Monaco Joseph Ratzinger per non essersi occupato di quattro casi sospetti. Il Papa emerito, a suo tempo, aveva prodotto una memoria di 78 pagine sui fatti, che pare proprio non sia stata presa in esame. È un paradosso che il Papa più attivo negli ultimi anni contro gli abusi finisca nel mirino di critiche generiche da parte di una chiesa di origine, quella tedesca, che non l’ha mai amato.   

Dall’estero l’attenzione è tutta sull’Ucraina. Restano poche settimane per spostare truppe e mezzi pesanti in quella zona. Poi arriva il pantano del disgelo, ed è una corsa contro il tempo che crea inquietudine. Oggi si parlano il segretario di Stato Usa Blinken e il ministro degli Esteri russo Lavrov. La gaffe di Biden sull’ “incursione minore” fa riflettere sul possibile “casus belli”, come ricorda oggi il Manifesto. A Tonga sono arrivati i primi aiuti, il timore è portare il contagio da Covid nelle isole, finora rimaste incontaminate. I miliardari Bezos e Gates pensano alla salute e all’immortalità. Quanto costa non morire mai?

È disponibile il primo episodio di un nuovo Podcast con la mia voce narrante. Si chiama Le Figlie della Repubblica. È stato realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo primo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide. Il racconto riporta tutta la forza di una vita ricca di grandi ideali e povera di risorse, centrata sulla responsabilità di credente e di cittadino italiano. Alcide De Gasperi è stato un patriota, per usare un termine oggi tornato di moda, che ha lottato tutta la vita per il bene del suo Paese. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco la prima puntata.

https://www.corriere.it/podcast/figlie-della-repubblica/22_gennaio_12/maria-romana-de-gasperi-racconta-padre-alcide-7d88a738-6e45-11ec-b03a-4a0e157e4787.shtml

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

È ripartito il dialogo tra i partiti sul Quirinale. Il Corriere della Sera annuncia: Colle, si tratta per un nome comune. Avvenire usa la metafora delle salite e delle discese: Su e giù dal Colle. Il Domani spiega: I partiti si stanno rassegnando a mandare Draghi al Quirinale. La Stampa annuncia: Passi avanti su Draghi, si cerca il sostituto. Libero sintetizza: Draghi prepara la grande fuga dal governo. Il Fatto è sempre schierato contro il premier e critica la buona reputazione di cui gode sulla stampa internazionale: Poteri esteri su Draghi. Ma qui c’è chi dice no. Titolo molto simile quello del Giornale concentrato sul complotto estero a favore di Draghi: Invasione di campo. Il Quotidiano Nazionale sostiene che è proprio sul premier la contesa: Risiko del Colle, è scontro su Draghi. Il Mattino sottolinea: Colle, dialogo Salvini-Conte. Il Messaggero è in sintonia: Salvini fa pace con Conte: «Serve un nome condiviso». La Repubblica fa un passo in più e tira fuori il nome del candidato di Salvini e Conte: Gialloverdi, spunta Casini. La Verità resta sul tema Covid: Apartheid in ospedale, il governo tace. Il Manifesto dedica l’apertura al rapporto sulla pedofilia nella chiesa tedesca, giocando con il nome della città bavarese: L’abito non fa il Monaco. Il Sole 24 Ore è sui guai delle aziende: Prestiti alle imprese, moratoria ferma. Sofferenze salite a quota 18 miliardi.

PANDEMIA, LE RAGIONI PER ESSERE OTTIMISTI

Il punto sull'epidemia. L'obbligo vaccinale di fatto sta funzionando. In una settimana sono aumentate del 28% le somministrazioni di prime dosi, anche se 2 milioni restano ancora scoperti. Curva stabile, ospedali sotto pressione, 385 morti: ma il confronto con l'anno scorso dice che non siamo in emergenza. Viviana Daloiso per Avvenire.

«Lungo il plateau di Omicron - ovvero la fase di stabilità che si registra al picco di un'ondata epidemica e che l'Italia ha iniziato ad attraversare da qualche giorno - si registrano i primi, timidissimi segnali positivi. Non sono ancora una sostanziale diminuzione degli ingressi in terapia intensiva o nei reparti ordinari degli ospedali, sotto pressione in queste ore, ma per quelli servirà tempo. Come ne servirà per arrivare al picco della curva della mortalità, che in questi giorni si sta drammaticamente alzando a spese soprattutto di chi ha scelto di non vaccinarsi: la stragrande maggioranza delle vittime. Eppure, si diceva, ci sono buone ragioni per essere ottimisti. La prima riguarda proprio la situazione degli ospedali, che merita un confronto con l'anno scorso. Se il 20 gennaio 2021 i nuovi contagi erano 13.571 - in pratica quelli che ieri ha registrato la sola regione Lazio - il bollettino delle ultime 24 ore parla di 188.797 casi. I ricoveri tuttavia sono meno dell'anno scorso (peraltro in una fase in cui, nel 2021, la seconda ondata era ormai ampiamente declinante e i reparti iniziavano a svuotarsi): i pazienti in terapia intensiva quel giorno erano ancora 2.461 (oggi sono 1.698), quelli nei reparti ordinari 22.469 (oggi 19.659). Inoltre quel giorno si registravano ancora 524 morti, dopo aver superato a novembre quota mille: ieri sono stati 385. C'è dell'altro: le oscillazioni del tasso di positività (cioè del rapporto tra positivi e tamponi effettuati) si stanno riducendo e se ieri il valore segnava quota 17% contro il 15,63% di 7 giorni fa (+8,8%), negli ultimi 7 giorni il tasso di positività medio è stato del 16%, cioè in diminuzione del 6,9% rispetto alla settimana precedente. Segno inequivocabile che il virus sta rallentando la sua corsa. E poi l'esercito dei positivi: ancora enorme, sì, con 2,6 milioni di persone imprigionate a casa e assenti dal posto di lavoro, ma anch' esso in fase di stabilizzazione con il numero di guariti (ieri ben 143mila) che ogni giorno - da ormai una settimana - supera di 3 e anche 4 volte quello di chi si scopre positivo (ieri 55mila). Il dato più incoraggiante, in ogni caso, è ancora una volta quello delle vaccinazioni. L'effetto dell'obbligo deciso dal governo per gli over 50 (anche l'Austria ieri è arrivata alla stessa decisione, ma per tutti i suoi cittadini) comincia a incidere con forza sulla curva delle prime dosi: nella settimana 12-18 gennaio in questa fascia anagrafica i nuovi vaccinati sono stati - secondo i calcoli della Fondazione Gimbe - ben 128.966, pari al 28,1% in più rispetto alla settimana precedente. In sostanza si è passati da una media di poco più di 5.500 prime dosi al giorno fino a oltre 20mila. Complessivamente, nello stesso arco di tempo, i nuovi vaccinati sono stati 510.742 rispetto ai 496.969 della settimana precedente (+2,8%) e sono stabili le nuove vaccinazioni nella fascia 5-11 anni (pari a 240.920, 30mila al giorno circa), che rappresentano quasi la metà delle prime dosi. Occhi puntati, naturalmente, anche sulla campagna per la terza dose che è l'unico strumento in grado di ridurre fino al 90% la gravità dei sintomi di Omicron, riducendola alla banale influenza che tutti speriamo possa diventare: al momento l'hanno ricevuta 28 milioni e mezzo di italiani, pari al 48% della popolazione over 12. L'Inghilterra, che si prepara a uscire definitivamente dall'emergenza (complici dati sempre più rincuoranti), è al 63,7%. La Francia è invece molto più lontana: dato che non ha impedito ieri alle autorità (nonostante gli oltre 425mila nuovi contagi in un giorno) di annunciare un allentamento di tutte le restrizioni, con tanto di riapertura delle discoteche e via libera ai concerti dai primi di febbraio».

IL GOVERNO VARA RISARCIMENTI PER DANNI DA VACCINO

Oggi in Consiglio dei Ministri si affronterà il tema degli indennizzi per eventuali danni da vaccino, premessa indispensabile per introdurre un obbligo vaccinale generalizzato. Adriana Logroscino per il Corriere.

«Il governo ha deciso. Salvo colpi di scena, nel decreto ristori che sarà varato oggi, saranno previsti indennizzi per risarcire eventuali danni da vaccino. Sarebbe una vittoria della Lega. Ma questa presa di posizione potrebbe anche aprire la strada a un obbligo vaccinale generalizzato, bandiera del Pd. Sul tavolo del Consiglio dei ministri inizialmente previsto per ieri, ci saranno diverse questioni relative alla pandemia. Quella degli indennizzi per le conseguenze più gravi del vaccino (infermità, menomazioni permanenti) prevista nella bozza, è una sorpresa. Rappresenterebbe l'accoglimento dell'ordine del giorno, presentato dai salviniani e approvato anche dal resto della maggioranza in Senato pochi giorni fa. Dovrebbe vedere la luce oggi, poi, il Dpcm che stabilisce in quali attività commerciali e uffici si potrà accedere senza green pass base (quello che si ottiene anche con il tampone) dal primo febbraio. L'obbligo, infatti, riguarderà tutte le attività a eccezione di quelle che soddisfano bisogni essenziali: quindi sicuramente alimentari e supermercati, farmacie e parafarmacie, negozi di ottica, di prodotti per animali, rivendite di carburante e chioschi di giornali. Si discute se inserire nella lista delle deroghe le tabaccherie. E su come regolarsi per i servizi essenziali e urgenti di uffici come le questure (presentare una denuncia lo è, ritirare il passaporto no) o banche e poste. Oggi i dubbi dovrebbero essere sciolti. Se il contagio rallenta, la scuola, alle prese con la dad e le difficoltà pratiche per il rientro in classe, ne sopporta parte del peso. Ha raccolto quindicimila firme in pochi giorni la petizione dei genitori al ministro della Salute, Roberto Speranza, con cui si chiede di «modificare immediatamente il protocollo che, nelle scuole primarie, non distingue tra vaccinati e guariti, da un lato, e non vaccinati, dall'altro, discriminando di fatto» chi ha optato per l'immunizzazione. Il governo dovrebbe affrontare il tema con due interventi già oggi: uno stanziamento diretto alle scuole per fornire agli studenti di medie e superiori le mascherine Ffp2 indispensabili per ridurre le quarantene dei vaccinati, inoltre potrebbe essere cancellato l'obbligo di tampone per tornare a scuola. A sperare, per effetto dell'appiattimento della curva, in una rimodulazione del sistema delle fasce di colore sono i presidenti di Regione. Nessuna decisione, però, dovrebbe essere assunta oggi. Quando, invece, potrebbe essere deciso il passaggio in zona arancione, da lunedì, per Piemonte, Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia e Sicilia. «Ci aspettiamo che la settimana prossima la discussione in corso con il governo porti a misure che hanno più il senso della realtà», attacca il presidente della Toscana, Eugenio Giani. Per i governatori la fotografia dell'epidemia non deve basarsi più sui positivi, numerosissimi con Omicron, ma sui sintomatici. Anche per snellire le procedure di uscita dalle quarantene. Dalla Valle d'Aosta, già in arancione, il presidente Erik Lavévaz che si è appellato a Speranza per una misurazione più flessibile del tasso di occupazione negli ospedali, rassicura: «I dati migliorano, non rischiamo la zona rossa».

SEMPLIFICARE LE REGOLE A SCUOLA

Scuola, si punta a semplificare le regole per certificati e tamponi. Chiedono presidi, pediatri e genitori: "Anche in classe via la quarantena per guariti e vaccinati". Se ne discute sempre oggi in Consiglio dei Ministri. Viola Giannoli per Repubblica.

«Guariti o vaccinati eppure in quarantena perché alunni di asili, materne, elementari. Oppure a casa perché contatti stretti di familiari positivi, ma senza diritto alla Dad. Ancora: immunizzati con due dosi da più di 4 mesi ma isolati per 10 giorni (e non 5) perché l'incontro con due positivi è avvenuto in classe. Oppure: bloccati in attesa di un certificato medico che non arriva nonostante la negatività. Migliaia di studenti intrappolati dalle regole della burocrazia, prigionieri delle quarantene, costretti a rimandare il vaccino, penalizzati da norme più rigide rispetto agli adulti, persi nel ginepraio di regole differenti a seconda che si consulti la circolare del ministero della Salute del 30 dicembre o quella congiunta Istruzione-Salute dell'8 gennaio. «Un'ingiustizia», «un'assurdità», un «disincentivo alla vaccinazione», tuonano i genitori nelle chat, sui social, nelle petizioni. Perché la quarantena sociale e quella scolastica non coincidono. E il fronte stavolta non vede schierati solo padri e madri, ma anche i pediatri, che spacciano alla pari informazioni mediche e burocratiche, i presidi e i docenti, affogati tra domande, tamponi, gestione delle classi, le Regioni che vogliono rivedere i protocolli. Tra i due ministeri proseguono gli incontri tecnici, segno che qualcosa cambierà. E ieri il ministro Patrizio Bianchi è stato ricevuto dal presidente del Consiglio Mario Draghi per fare il punto dopo dieci giorni dalla riapertura delle scuole, certo, ma anche per discutere dei provvedimenti cui mettere mano, forse già da oggi, in Consiglio dei ministri. Si lavora in particolare su quattro punti: eliminare il certificato medico ora necessario per il rientro a scuola degli ex positivi, sul modello dell'Emilia Romagna che lo ha già soppresso; ridurre i tamponi imponendone soltanto uno al posto di T0 (il primo giorno) e T5 (dopo 5 giorni) per gli alunni delle elementari in caso di due positivi in classe; chiarire quali norme debbano prevalere nelle quarantene per i vaccinati; ridurre la quarantena stessa da 10 a 7 giorni per i contatti immunizzati e asintomatici dei positivi, nei casi in cui è prevista. Sul tavolo anche la possibilità di una circolare dedicata agli studenti disabili. E i fondi per le Ffp2, ma solo per gli studenti di medie e superiori in autosorveglianza. «Perché per gli adulti le regole sono cambiate e per i bambini no? - chiede intanto Caterina, mamma di Como - Gli avevamo promesso una vita più normale e più continuità a scuola dopo il vaccino, adesso come glielo spieghiamo che non è così?». Tra i 12 e i 19 anni ci sono 3 milioni e mezzo di vaccinati con due dosi, ma in caso di due positivi in classe scatta la quarantena di 10 giorni. Eppure secondo le norme generali chi ha due dosi da più di 120 giorni deve stare in isolamento per sole 5 giornate. Poi ci sono i bambini tra 5 e 11 anni: 213.635 quelli con due dosi, 230.488 i guariti. Per loro la solita circolare della Scuola non prevede differenze tra vaccinati e non. «Un clamoroso autogol per la buona riuscita della campagna vaccinale» si sfoga Valerio, un papà di Roma. Poi ci sono i casi in cui i ragazzi sono in quarantena perché in casa c'è un positivo. Saltato ogni tracciamento dalla Asl, non arrivano comunicazioni. E quando gli studenti chiedono la Dad le scuole la rifiutano perché non hanno nessuna certificazione della quarantena. Difficile dar torto alle scuole, o ai ragazzi».

MARIO CERCAVA LA LIBERTÀ?

La fuga di Mario, l’ospite della casa di riposo di Rovigo, che è morto calandosi dalla finestra ha assunto un carattere simbolico. Cercava la libertà? Il caffè di Massimo Gramellini, prima pagina del Corriere, è dedicato alla sua vicenda.

«Non sapremo mai perché Mario Finotti si sia calato dalla finestra con un lenzuolo attorcigliato alla vita come un evaso. Da che cosa stava scappando? Era arrivato nella casa di riposo vicino a Rovigo l'estate scorsa, a novant' anni suonati. Ma non rientrava in nessuno dei luoghi comuni con cui di solito si ritiene comodo incasellare la vita. Non era malato. Non si sentiva abbandonato. Andava d'accordo con le infermiere. Riceveva visite regolari da nipoti e pronipoti. Aveva un carattere indipendente, e prepotente, a detta degli amici. Perché aveva ancora degli amici. Ma allora da che cosa stava scappando, quando ha atteso l'alba per scendere dal primo piano con un'imbracatura da film? Forse gli era presa nostalgia di casa, distante pochi isolati. Lui, così allergico ai legami da non avere mai sopportato nemmeno una badante, ha deciso di stringersi a un lenzuolo e, nel tentativo di toccare terra coi piedi, è andato invece a sbattere la testa contro il muro. No, non conosceremo mai le ragioni del suo tentativo di fuga finito in tragedia. Come l'amore, la libertà non ha un perché. È il perché. Il corpo ci ossessiona a tal punto da indurci a pensare che un uomo sia fatto solo di prestazioni fisiche e intellettuali, e che quando i movimenti e i pensieri cominciano a perdere colpi, evaporino anche i sogni e le pulsioni. Invece quella sfera, che la razionalità rifugge, esiste in un poppante come in un vegliardo, ed è forse l'unica cosa di noi che conta davvero, alla fine».

QUIRINALE 1. IL VERTICE GIALLO VERDE

Nella corsa al Colle ieri colpo di scena. Matteo Salvini e Giuseppe Conte si sono incontrati in un vertice romano degli “anti Draghi”. Le  proposte sul tavolo: convergenza su Casini mentre l'avvocato rilancia il Mattarella bis. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Gli anti-Draghi si incontrano a sorpresa ma non trovano l'accordo su un nome comune per il Quirinale. L'ennesima curva della gimcana che porta al Colle ha come protagonisti Matteo Salvini e Giuseppe Conte, due volti simbolo del vecchio governo gialloverde, che nel primo pomeriggio si vedono in un'abitazione privata vicino al Senato e provano a costruire le basi di un'intesa. Lontani i tempi dell'aspra reprimenda dell'allora premier al suo ministro che aveva aperto la crisi, in una Camera riunita d'agosto. Due anni e mezzo dopo, il segretario della Lega e il presidente dei 5 Stelle tornano a parlarsi in nome di un obiettivo comune, cercare una soluzione condivisa che sblocchi l'impasse sull'elezione del Capo dello Stato. Salvini vi giunge con un paio di "buone intenzioni" in più: individuare un'alternativa a Berlusconi nell'ipotesi - che lui ritiene concreta - che il Cavaliere rinunci alla sua candidatura e far passare comunque un profilo di centrodestra. Sul primo proposito ha strada libera, e Conte con un pizzico di malizia rivelerà che nel corso del colloquio il suo interlocutore non ha mai nominato Berlusconi. La seconda strada, per Salvini, è sbarrata: il leader del Carroccio prova a sedurre il rappresentante del Movimento che aveva invocato una donna per il Colle proponendo due figure femminili, Letizia Moratti e Maria Elisabetta Casellati, rimarcando anche il rilievo istituzionale di quest' ultima. Ma niente da fare. Non c'è favore per candidature comunque considerate di parte, così come non scalda il cuore dell'avvocato quella di Marcello Pera. Conte, insomma, tiene fede all'impegno con gli alleati Letta e Speranza di fare scudo davanti a proposte di nomi di centrodestra. E infatti, in casa Pd, viene vista con soddisfazione l'apertura di una «via della condivisione », insomma la possibilità di un confronto ad ampio raggio. Ma in serata fonti del Nazareno definiscono una «fake news» quella secondo cui «i numeri danno al centrodestra un diritto di prelazione». I dem si dicono «indisponibili a prestarsi a questo gioco. Noi voteremo solo un candidato super partes, come la fisionomia di questo Parlamento senza maggioranza impongono». In quest' ottica, altri nomi sono finiti sul tavolo: Conte ha fatto un cenno al Mattarella-bis, il sogno di una parte dei 5Stelle, ma sul tavolo sono finiti anche i nomi di Paola Severino e di Pierferdinando Casini, carta coperta dell'area moderata, che però non convince parte del centrodestra. Resta, al termine dell'incontro durato un'ora, l'esigenza dell'ex presidente del Consiglio e di Salvini di trovare «una figura di prestigio» per il Quirinale. Lo scopo, si apprende in ambienti 5S, è quello di «scongiurare una crisi di governo». La conferma di un no a Draghi che rimane una posizione semi-ufficiale ma destinata a confrontarsi con l'evolversi di una situazione attualmente senza sbocchi, con le due principali coalizioni lontane da un approdo comune. Quella del premier, insomma, è una soluzione istituzionale che resta comunque sullo sfondo, sostenuta da un partito trasversale. Come il Mattarella-bis, che pure è una prospettiva negata fino a ieri dallo stesso Capo dello Stato a fine mandato, intervenuto alla seduta del Csm. Il prossimo passaggio sarà l'incontro, ancora non fissato, fra Salvini e Letta. Mentre l'uomo di Arcore prosegue, probabilmente ancora per poco, nelle sue riflessioni».

QUIRINALE 2. BERLUSCONI RESISTE

Gli scenari del centro destra dipendono dalle decisioni di Silvio Berlusconi. Il Cav «resiste» (ma non si sa quanto). Voci di un passo indietro, con indicazione per Draghi. Il retroscena sul Corriere della Sera è di Francesco Verderami.

«Resistere, resistere, resistere. La parola d'ordine che il Cavaliere non intende ritirarsi dalla corsa al Colle, è arrivata ieri in mattinata agli sherpa impegnati a raccogliere i voti dei grandi elettori. Sono state le personalità più vicine al leader di Forza Italia a spiegare che «fino a quando Berlusconi non ci comunicherà qualcosa di diverso, continueremo a lavorare». Si vedrà se il fondatore del centrodestra sfiderà la sorte alla quarta chiama, ma non c'è dubbio che tatticamente oggi deve attestarsi su questa linea. O verrebbe sopraffatto dai suoi stessi alleati, che non vogliono lasciargli il ruolo del king maker. È bastato che si spargesse la voce sull'intenzione del Cavaliere di passare la mano - accompagnato dall'invito a convergere su Draghi - per scatenare l'iradiddio nella coalizione e indurre la Meloni a chiedere la convocazione del vertice con toni ultimativi. Il fatto è che da giorni Berlusconi ha interrotto i contatti, complice anche la preoccupazione dei familiari per la sua salute. Ciò non toglie che gli alleati siano insofferenti per l'atteggiamento dell'ex premier, così come lui è irritato verso gli alleati per la tecnica della «doccia scozzese» che hanno applicato alla sua candidatura: perché dalle dichiarazioni sul «non abbiamo altro nome», si è passati all'evocazione del «piano B», fino all'annuncio che «daremo al Paese un capo dello Stato eletto a larga maggioranza». Perciò ieri, davanti alle richieste del vertice, il Cavaliere ha reagito: «Se vogliono parlarmi, vengano a trovarmi». Per questo Salvini si è subito speso per ribadire che «Berlusconi per noi è determinante». In effetti il suo posizionamento blocca qualsiasi manovra e lo rende centrale. Per ora. Ma tutto questo gli sta costando fisicamente. Si era già notato all'ultimo vertice, quando non aveva fatto battute e non aveva raccontato barzellette. Da giorni poi il Cavaliere non chiude occhio, combattuto dalla decisione che dovrà prendere. Sui numeri per scalare il Colle, secondo uno dei suoi più stretti collaboratori, è stato vittima di una «contabilità velleitaria». Inoltre Pd e M5S sono pronti a disertare il voto per togliergli ogni residua speranza. Se così stanno le cose, la parola d'ordine di ieri - quel «resistere resistere resistere» - è solo un modo per tenere coperta la sua scelta. Anche le ipotesi alternative che gli vengono attribuite, Gianni Letta e Casellati, appaiono forme di dissimulazione. L'ex sottosegretario alla Presidenza - che l'altra sera ha incontrato i ministri Carfagna e Gelmini - non solo non ci pensa ma è anche consapevole che Salvini e Meloni sarebbero contrari. Sulla presidente del Senato, potrebbero convergere in teoria i grillini, che l'hanno votata come seconda carica dello Stato. Ma lo farebbero al prezzo della rottura con il Pd? In più la candidatura resterebbe appesa alla variabile di Italia viva. Troppo rischioso per il centrodestra, che si troverebbe esposto a un pericolo concreto: veder convergere i voti di centristi, cinquestelle e democratici su Casini. Sarebbe pesante per Enrico Letta dover accettare la vittoria di Renzi e doverla poi gestire nel partito. Ma sarebbe ancor più pesante per Salvini e Meloni assistere a un simile finale. Per loro sarebbe una disfatta: non possono permetterselo. Non se lo può permettere nemmeno Berlusconi, ecco perché i suoi alleati attendono di capire quale sia la sua vera mossa, se è attendibile la tesi secondo cui l'ex premier - con un gesto da «padre della Patria» - starebbe preparando un documento per offrire il proprio endorsement a Draghi. È noto il fatto che il Cavaliere si sia rammaricato per «la mancanza di riconoscenza» dell'ex presidente della Bce nei suoi confronti. Ma è altrettanto nota la capacità di Berlusconi di farsi «concavo e convesso», di essere pragmatico. Da giorni le indiscrezioni sui suoi ragionamenti erano rimbalzate nel governo, da dove erano giunte al Cavaliere voci sullo stato di tensione che regna a palazzo Chigi: tanto che, dato il clima politico, il presidente del Consiglio avrebbe chiesto al Guardasigilli di spostare dopo il voto sul capo dello Stato la presentazione della riforma sul Csm. Materia incandescente. L'eventuale mossa di Berlusconi a favore di Draghi agevolerebbe la soluzione del rebus Quirinale ma non lo risolverebbe. Perché il nodo attorno a cui resta attorcigliata la candidatura del premier è il governo. Ieri Salvini e Conte hanno sollevato un tema - conferma un autorevole ministro - «che trova la convergenza di tutti i partiti della maggioranza», disposti a dare il loro assenso a Draghi solo dopo un accordo sul suo successore a Palazzo Chigi e sull'assetto ministeriale. Ancora due giorni fa Renzi confidava che «al momento non siamo riusciti a trovare la quadra», e questa condizione di incertezza si riflette sui grandi elettori, che è meglio non sfidare. Infatti i leader scommettono che Berlusconi passerà la mano ma che il nuovo capo dello Stato non si conoscerà prima della quinta votazione».

QUIRINALE 3. TUTTO IL PD VA SU DRAGHI?

E Nel Pd che sta succedendo? La cronaca di Maria Teresa Meli sul Corriere: i dem si stanno convincendo che la soluzione migliore è Mario Draghi al Quirinale.

«A Roma c'è un modo per dirlo: non capita, ma se capita? Cioè se alla fine veramente Mario Draghi dovesse andare al Quirinale, nonostante le residuali resistenze di una parte del centrodestra e di un pezzo del centrosinistra. Nessuno vuole entrare in rotta di collisione con il possibile futuro capo dello Stato. Tanto meno nel Pd che ha fatto della responsabilità il suo vessillo. Perciò nella ex maggioranza giallorossa ci si sta adeguando. Andrea Orlando che fino a qualche giorno fa è stato visto nell'ufficio di Giuliano Amato (uno dei papabili presidenti, caldeggiato finora da Massimo D'Alema e da alcuni big del Pd), per esempio, ora spiega: «Draghi è una delle carte fondamentali e la nostra preoccupazione è di non bruciarla». Suppergiù le stesse parole va ripetendo da qualche ora Beppe Provenzano, che prima non aveva mai nascosto la sua propensione per un bis di Mattarella o per la prima volta di Amato: «Non possiamo permetterci di bruciare nessuna carta». Stefano Bonaccini preferirebbe che il premier restasse al suo posto ma alla fine della festa ammette: «Non si può escludere Draghi». Sta andando come aveva profetizzato Goffredo Bettini, benché la sua prima scelta non fosse il premier: «Se non si riesce a trovare un candidato comune con una sua autonoma forza politica, si finirà su Draghi». E l'ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, ora senatrice, nonché esponente di spicco della corrente di Dario Franceschini, corrente che certo non sponsorizza il presidente del Consiglio, con i colleghi di Palazzo Madama ammette: «Se c'è Draghi non possiamo non appoggiarlo convintamente». Del resto, Enrico Letta che sta lavorando sull'ipotesi di Draghi al Colle è fermo: «Non voteremo un candidato di centrodestra». Tradotto: no a Casellati, Moratti e Franco Frattini. E ieri tra i senatori dem, che per la maggior parte tifano per il premier al Colle, si raccontava con soddisfazione dell'ultima esternazione di Paola Taverna davanti a un gruppetto di parlamentari: «Draghi? Ma si, Draghi forever!».

QUIRINALE 4. I GRANDI ELETTORI POSITIVI VOTERANNO DAL PARCHEGGIO

Voto drive in per i positivi, potrebbe essere questa la soluzione per permettere ai grandi elettori contagiati di esprimersi. Giovanna Casadio per Repubblica.

«I Grandi elettori contagiati o in quarantena voteranno per il Quirinale: avranno un seggio tutto per loro nel parcheggio di Montecitorio. La Camera e il presidente Roberto Fico hanno indicato la soluzione drive-in, uno spazio aperto dove i Grandi elettori positivi possono entrare in auto o walk-in, a piedi. E l'area del parking di via della Missione risponderebbe ai criteri di segretezza, contestualità e sicurezza chiesti da Fico sulla scorta dei regolamenti. Quindi un gazebo, l'urna, due segretari d'aula e funzionari della Camera a disposizione. Questa la soluzione per Montecitorio. Ma l'ultima parola tocca al governo per rendere possibile l'operazione "positivi al voto per il Quirinale". E Palazzo Chigi sta pensando a un decreto per consentire gli spostamenti. Indispensabile infatti è una deroga normativa che permetta ai positivi di trasferirsi dal domicilio/quarantena a un altro domicilio/quarantena a Roma. Certo si tratta di immaginare con quali mezzi rendere possibili gli spostamenti. Inoltre il domicilio romano potrebbe essere una propria abitazione o un Covid hotel presso Montecitorio? La deroga per i Grandi elettori assenti forzati avverrebbe comunque con un decreto del governo, anche se si era ipotizzata una ordinanza del ministero della Salute o una semplice circolare. Ieri la curva dei deputati e senatori assenti per Covid era in calo: una trentina, ma l'altro ieri erano oltre quaranta. Non si può prevedere quanti saranno lunedì prossimo, quando alle 15 si comincerà a votare per il nuovo Capo dello Stato. Però il pressing del centrodestra, con Fratelli d'Italia in testa e Forza Italia, che subito si è allargato ai renziani e poi ai 5Stelle, ha smosso le acque. La funzione costituzionale dei Grandi elettori non può essere compressa: questo è stato l'argomento trasversale. Il Pd e Leu alla fine si sono allineati, pur convinti che meno eccezioni si fanno e meglio è. Tanto che in conferenza dei capigruppo ieri, la dem Debora Serracchiani ha espresso dubbi, ad esempio sulla sanificazione delle schede votate dai positivi. I deputati- questori - il grillino Francesco D'Uva, il forzista Gregorio Fontana, Edmondo Cirielli per FdI - stanno valutando le varie possibilità, la più quotata è di usare una lampada a infrarossi. Fico, nello speech con cui ha aperto la riunione dei capigruppo, ha fornito indicazioni minuziose. «Ritengo di poter prospettare la previsione di una postazione per la raccolta del voto appositamente predisposta al di fuori dell'aula, ma in un'area esterna di pertinenza della Camera e dunque rientrante nella sede della Camera stessa», ha detto, indicando il parcheggio di via della Missione. Non una semplice questione logistica, ma che risponde anche a ragioni costituzionali. Ai deputati è quindi arrivato un messaggio di prepararsi a non parcheggiare più là. Le opzioni del governo sullo strumento normativo da usare avevano preso in considerazione la possibilità di una circolare per sburocratizzare e ampliare l'altro provvedimento varato il 13 gennaio in cui, previa autorizzazione sanitaria, si regolano gli spostamenti dei positivi da Covid in base alla necessità e urgenza e con mezzi ad hoc. Marco Di Maio, il renziano che ha proposto il Covid hotel, ha invitato a fare presto, in modo che i positivi possano organizzarsi. «Siamo soddisfatti che alla Camera si stia lavorando per permettere a tutti i Grandi elettori di votare per il Colle. Ora la palla è nelle mani del governo, si muova», ha commentato Francesco Lollobrigida per FdI. Nodi ancora da sciogliere ce ne sono, sia pratici sia politici. Tra quelli pratici: con quali mezzi si sposteranno i positivi, con navette apposite? Ci sono poi accuse "anti casta", che indicano questa eccezione come un privilegio, ad esempio dagli ex grillini di "Alternativa"».

QUIRINALE 5. I LEADER SONO RE SENZA ESERCITI

Antonio Padellaro nella sua rubrica sul Fatto “Franco tiratore” si chiede: quale leader può davvero fidarsi del suo partito?  Sembrano generali senza eserciti.

«Articolo 67 della Costituzione: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Chi non controlla chi? Nel vorticoso giro di consultazioni in atto non esiste leader, soprattutto nei partiti maggiori, che non ragioni sulla possibile tenuta dei propri gruppi parlamentari davanti alle candidature in gioco, vere o presunte che siano. Perché, a parte l'esercizio sacro e inviolabile del voto segreto, del succitato articolo 67 - che mette i parlamentari in una botte di ferro senza obblighi nei confronti dei partiti, dei programmi elettorali e perfino di chi li ha eletti - in passato se ne chiese spesso la modifica in senso restrittivo per limitare la tarantella dei cambi di casacca. Però, come è noto, senza esito alcuno. Sia come sia, da lunedì in avanti si dovranno fare i conti non soltanto con i cosiddetti "cani sciolti" (un centinaio circa tra "Misto" e non iscritti a gruppi) ma pure con la progressiva insofferenza di molti parlamentari "di partito", quando si tratta di obbedire a scelte calate dall'alto e non condivise. Questo arcipelago del dissenso comincerà a emergere, probabilmente, nei tre primi scrutini con il quorum a 672 voti, raggiungibile solo con una candidatura di unità nazionale molto forte, ma che al momento non è alle viste (in sostanza, il leggendario Mattarella bis ). Per il resto abbiamo un M5S frantumato a tal punto che perfino l'asse Conte-Di Maio, di cui si parla in queste ore, avrebbe difficoltà a ricomporre. Problemi simili, seppure in una dimensione più ridotta, li ha Enrico Letta nel Pd dove c'è chi vuole votare Draghi e chi no (si parla di Orlando, Franceschini, Orfini). Il caso più eclatante di mancata disciplina di coalizione riguarda proprio Silvio Berlusconi. Candidato da Salvini e Meloni che ci mettono il marchio, a patto però che i voti che gli mancano, nella Lega e in FdI, se li procuri lui stesso. Un caso abbastanza bizzarro di merchandising elettorale, che infatti rischia di finire in burletta».

BONOMI A PALAZZO CHIGI SUL CARO ENERGIA

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi incontra Mario Draghi sul tema bollette. Serve un coordinamento interministeriale per interventi immediati.  Oggi il Consiglio dei Ministri potrebbe affrontare il tema. Nicoletta Picchio per il Sole 24 Ore.

«Un colloquio ieri mattina a Palazzo Chigi, per un confronto sulle misure che il governo sta per prendere e gli interventi richiesti dalle imprese, di fronte all'emergenza bollette. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ne ha parlato faccia a faccia con il presidente del Consiglio. Una convocazione su cui Confindustria poco dopo, in una nota, ha espresso «apprezzamento». Per gli imprenditori il tema del caro bollette riguarda la politica economica e industriale del governo ad ampio raggio e va affrontato con una task force interministeriale coordinata da Palazzo Chigi. L'incontro, dice la nota «va nella direzione auspicata da Confindustria della maggiore condivisione possibile e con il coordinamento diretto di Palazzo Chigi», con «l'obiettivo di attuare immediatamente gli interventi congiunturali e strutturali necessari per rispondere all'emergenza, a sostegno della manifattura italiana e del Paese». Al confronto di ieri per il governo insieme a Draghi erano presenti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli e il capo di Gabinetto, Antonio Funiciello; Bonomi era accompagnato dal direttore generale di Confindustria, Francesca Mariotti. L'appuntamento a Palazzo Chigi è arrivato il giorno dopo l'incontro tra il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, e le associazioni imprenditoriali più esposte al caro energia, guidate da Confindustria, rappresentata dal delegato per l'Energia, Aurelio Regina. Proprio per approfondire numeri e richieste il Consiglio dei ministri, inizialmente previsto ieri pomeriggio, è slittato ad oggi. Confindustria ha presentato una serie di proposte, congiunturali e strutturali, da attuare subito e appunto «da condividere necessariamente in un tavolo interministeriale». In una nota di mercoledì ha specificato nel dettaglio ciò che occorre alle imprese: come misura strutturale per il gas si punta ad aumentare la produzione di gas nel paese di circa 3 miliardi di metri cubi all'anno; sempre sul gas come misura congiunturale la richiesta è di un aumento della remunerazione del servizio di interrompibilità tecnica dei consumi di gas prestato dai soggetti industriali; la terza linea di intervento richiede un'azione sulla fiscalità e parafiscalità. Per il settore elettrico occorre prevedere l'estensione del perimetro dei beneficiari della riduzione degli oneri di sistema per impegni superiori ai 16,5 KW di potenza; un incremento per i settori energivori delle aliquote di riduzione delle componenti parafiscali della bolletta elettrica e, infine, la salvaguardia e il rafforzamento della remunerazione dell'istituto del servizio di interrompibilità per la sicurezza del sistema elettrico. Complessivamente se venissero attuate le proposte di Confindustria ci sarebbe un sollievo per la bolletta delle imprese pari a una riduzione di costo di 7,5 miliardi. La situazione è grave e sono a rischio interi settori industriali. Richiede «interventi urgenti e strutturali», superando la logica delle misure spot».

INCHIESTA SU GRILLO E LA MOBY

L'inchiesta di Milano su Beppe Grillo e i rapporti con l’imprenditore Onorato si arricchisce di particolari. Il ministro Patuanelli dice: mai ricevute pressioni. Emanuele Buzzi per il Corriere.

«Beppe Grillo assediato, ma il Movimento fa muro attorno al garante. Continuano a emergere nuovi dettagli dell'inchiesta sul caso Moby in cui il fondatore dei Cinque Stelle è indagato per traffico di influenze illecite. Messaggi inviati a politici del M5S del tipo «Lui dobbiamo trattarlo bene». È questo il tenore - riporta l'Adnkronos - delle parole sull'armatore Vincenzo Onorato che Grillo avrebbe indirizzato ai parlamentari più direttamente coinvolti nelle questioni legate alle concessioni sulle tratte e alla normativa sugli sgravi fiscali nel settore del trasporto marittimo. Secondo l'accusa il garante avrebbe inoltrato i messaggi di Onorato agli esponenti M5S nei dicasteri interessati come l'ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, l'ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni, tutti non indagati. I diretti interessati smentiscono coinvolgimenti. «Non ho ricevuto alcuna pressione da parte di Grillo», ha detto al Fatto quotidiano Patuanelli. «Non mi sono mai occupato di quel dossier, ma per quel che so faceva parte di un più ampio problema del settore della navigazione nel periodo lockdown», ha precisato Buffagni. L'ipotesi degli inquirenti è che grazie a un contratto pubblicitario con il blog di Grillo Onorato stesse in realtà tentando di influenzare in suo favore le mosse del Movimento che anche all'epoca si trovava al governo. Ma mentre una parte del Movimento si difende, un'altra prova a fare da scudo al garante. «Sulle indagini a carico di Grillo non ne so molto, ma da quello che leggo ho capito che si tratta di un concordato su cui la magistratura sta facendo chiarezza. È normale che vengano percorse tutte le strade, e siccome Beppe ha anche dei rapporti politici immagino che i magistrati stiano giustamente facendo tutte le verifiche del caso. Ma sono certo che Grillo abbia sempre agito nel rispetto della legge», ha commentato il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Michele Gubitosa. Stessa linea anche per la sottosegretaria Barbara Floridia: «Su Beppe Grillo ho massima fiducia, e per una semplice ragione: lo conosco. Lui è stato per me anche ispiratore di grandi valori». C'è chi tra i parlamentari lancia un appello alla compattezza: «Dobbiamo rimanere uniti, le indagini vanno rispettate, ma non ci sono sentenze ora. Beppe è e rimarrà sempre il custode dei nostri valori».

RAPPORTO SUGLI ABUSI NELLA CHIESA TEDESCA

È stato reso noto ieri un nuovo rapporto sulle violenze subite dai minori nella Chiesa bavarese. La cronaca di Avvenire a firma di Vincenzo Savignano.

«Lo scandalo degli abusi scuote l'arcidiocesi di Monaco e Frisinga. Ieri è stato reso noto il nuovo rapporto sulle violenze subite dai minori nella Chiesa bavarese. I numeri e i dati, freddi e dolorosi, riaprono una ferita che le comunità ecclesiali coinvolte non possono e non vogliono chiudere. «Questa pubblicazione - ha commentato alla vigilia della presentazione del rapporto la principale diocesi della Baviera - è una pietra miliare nell'ulteriore processo di gestione degli abusi sessuali». Secondo l'indagine, tra il 1945 e il 2019 sono state almeno 497 le vittime di abusi sessuali. Per lo più di sesso maschile, nel 60% dei casi avevano tra gli 8 e i 14 anni. Nel rapporto si sottolinea che sono state coinvolte 235 persone: 173 preti, 9 diaconi, 5 referenti pastorali e 48 addetti dell'ambito scolastico. Ma a far discutere c'è anche la parte controversa del rapporto che riguarda direttamente il Papa emerito, Joseph Ratzinger, arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982. In quattro casi viene accusato di comportamenti erronei: stando al rapporto, non avrebbe intrapreso nulla nei confronti di quattro religiosi accusati di abusi. In due casi si tratta di religiosi i cui abusi erano stati documentati da tribunali statali. I due preti sono rimasti attivi nella cura delle anime e non è stato avviato alcun iter canonico nei loro confronti. Inoltre «non è stato ravvisabile» un interesse per le vittime da parte di Ratzinger, hanno sottolineato i legali che hanno redatto il rapporto. Il Papa emerito, che già in più occasioni aveva confutato le accuse, ha rilasciato una dichiarazione scritta allegata al rapporto in cui respinge ogni accusa. Marion Westpahl, la legale che ieri a Monaco ha presentato il dossier, ha riferito che il cardinale Reinhard Marx, attuale arcivescovo di Monaco e fino al 2020 presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha preferito non essere presente all'incontro con la stampa. «Lo abbiamo invitato ma ha deciso di non venire», ha detto Westpahl. Al cardinale Marx, secondo la legale, sono da attribuire errori di comportamenti relativi a due casi di abusi nel 2008. Il porporato aveva presentato a giugno le sue dimissioni a papa Francesco che le ha respinte. Marx aveva anche diffuso parte della lettera inviata al Pontefice in cui citava, tra le ragioni della scelta, «la catastrofe degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti». Nel 2010 l'arcidiocesi di Monaco e Frisinga aveva presentato un primo rapporto sugli abusi; quello invece presentato ieri è stato commissionato dalla Chiesa bavarese allo studio legale Westpfahl Spilker Wastl quasi due anni fa, con il mandato di esaminare le vicende di violenze tra il 1945 e il 2019 e di capire se gli uomini di Chiesa avessero gestito correttamente le accuse. Ieri tutti i media tedeschi, nessuno escluso, hanno dato ampio spazio al nuovo documento a seguito del quale la Santa Sede, attraverso il direttore della Sala Stampa, Matteo Bruni, ha ribadito la vicinanza alle vittime, confermando «la strada intrapresa per tutelare i più piccoli garantendo loro ambienti sicuri». Nel pomeriggio anche il cardinale Marx ha commentato l'indagine. «È in gioco pure il rinnovamento della Chiesa - ha detto -. Ne va anche di quello che abbiamo cercato di portare avanti con il cammino sinodale: l'elaborazione di quello che è l'abuso sessuale non può essere separato dalla via del cambiamento, del rinnovamento e della riforma della Chiesa. A questo continueremo a lavorare insieme». Poi ha evidenziato che «ancora una volta» al centro di tutto, «anche per decidere i passi da compiere nel futuro, c'è la prospettiva delle vittime». Lo stesso porporato ha annunciato una conferenza stampa nella prossima settimana per riferire in modo dettagliato sui casi».

Ratzinger aveva prodotto una memoria di 87 pagine sulla vicenda. Ma a Monaco l’hanno letta?  Matteo Matzuzzi per Il Foglio.

«Annunciato come la grandine in pieno agosto, è stato presentato il rapporto indipendente sugli abusi del clero nella Chiesa di Monaco di Baviera. A stilare il documento, lo studio legale Westpfahl Spilker Wastl, incaricato dalla diocesi stessa. I dati: in un periodo lunghissimo, dal 1945 al 2019, sarebbero stati accertati 497 abusi. Il metodo seguito è sempre lo stesso: colloqui e interviste. 235 gli abusatori, tra preti, diaconi e responsabili pastorali a vario titolo legati a parrocchie, oratori e strutture affini. Delle due ore di conferenza stampa, i media globali si sono naturalmente soffermati sulle responsabilità dell'allora arcivescovo Joseph Ratzinger ( in diocesi dal 1977 al 1982): secondo i legali, il Papa oggi emerito avrebbe sottovalutato "quattro casi", lasciando i responsabili degli abusi al loro posto. Ratzinger si è difeso con un'articolata memoria di 87 pagine in cui respinge ogni addebito, ma sembra - il dubbio è lecito visto che del rapporto si conoscono solo estratti sapientemente scelti - che nulla di quanto scritto da Benedetto XVI sia stato tenuto in considerazione. "Lui sostiene che non era a conoscenza di certi fatti, noi crediamo che non sia così", hanno sentenziato gli estensori del dossier, chiudendo la discussione. Dall'eremo nei Giardini vaticani, dove il quasi 95enne Pontefice emerito si è ritirato dal 2013, si fa sapere che il rapporto non è stato ancora letto ( consta di oltre mille pagine, dopotutto) e che quel che si può fare, per il momento, è ribadire la vicinanza alla vittime, come più volte Benedetto XVI ha fatto quando governava la Chiesa. All'evento non era presente l'attuale arcivescovo, il cardinale Reinhard Marx - che ha espresso "vergogna" -, reo secondo l'accusa d'aver coperto due pedofili. Marx, però, fa meno notizia del vecchio Pontefice, anche se lo scorso giugno Francesco aveva respinto le sue dimissioni dalla guida diocesana presentate proprio per le defaillance mostrate nel contrastare la piaga della pedofilia. Marx, pochi mesi fa, aveva parlato di "catastrofe" e di "scacco sistemico" di una Chiesa giunta "a un punto morto". L'arcidiocesi bavarese commenterà il rapporto solo tra sette giorni, dopo averlo studiato con la dovuta attenzione. Il paradosso è che oggi a essere messo sul banco degli imputati è proprio Ratzinger, il Papa che per primo è intervenuto sul problema, e non solo con lettere e discorsi pubblici ( che pure non sono mancati nel corso del pontificato). Benedetto XVI ha inasprito tutte le norme canoniche in tema di pedofilia, raddoppiando la prescrizione ( da dieci anni a venti) e consentendo così di punire casi vecchi di decenni, anche quando per le leggi civili non erano più giudicabili. E' il Papa che ha ridotto allo stato laicale i colpevoli in presenza di prove evidenti. Senza dimenticare che uno dei suoi primi atti appena eletto fu di punire Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, finito da tempo nel mirino della congregazione per la Dottrina della fede da lui guidata ma fin lì immune da provvedimenti vaticani. Atti concreti e probabilmente più efficaci degli show a favore di telecamere con vescovi e laici in cui si chiede coralmente "perdono" tra volute d'incenso e silenzi contriti».

Ci sarà mai un’indagine in Italia su casi simili? Se lo chiede Paolo Rodari per Repubblica.

«Tutto dipenderà da chi sarà il prossimo presidente del vescovi italiani. A maggio l'assemblea della Cei eleggerà il successore del cardinale Gualtiero Bassetti e a seconda di quale nome uscirà si capirà se anche in Italia potrà iniziare dall'alto un lavoro di analisi dell'operato dei vescovi in merito ai casi di abusi sessuali su minori commessi da preti oppure no. La notizia è che una parte dell'episcopato ha capito che questo lavoro di verità e giustizia insieme è imprescindibile e deve riguardare ogni diocesi. Infatti, secondo dati non ufficiali, ma che girano anche Oltretevere, l'Italia ha un numero importante di accuse di abusi sessuali su minori perpetrati da parte di sacerdoti e al quale in pochi vogliono guardare. Insieme alla Spagna, è l'Italia uno dei Paesi europei più reticenti a un'azione comunitaria dell'episcopato sul modello di quanto sta avvenendo a Monaco. Ha detto lo scorso ottobre Bassetti che «è pericoloso affrontare la piaga della pedofilia con delle statistiche». E ancora: «La conoscenza del fenomeno va fatta scientificamente. Noi abbiamo fatto la cosa più importante per la prevenzione e il monitoraggio nelle diocesi». Il nome del prossimo presidente dei vescovi non lo conosce nessuno. Fra i tanti "papabili", sembra che il cardinale Paolo Lojudice, presule di Siena, e l'arcivescovo Erio Castellucci di Modena, siano quelli più propensi a un eventuale lavoro di scavo e verità in merito alla pedofilia. Lojudice, in particolare, è molto sensibile al tema dei minori. Da presidente dell'Osservatorio per la tutela dei minori "Fonte d'Ismaele" ha chiesto che vengano convocati gli Stati Generali dell'Adozione. Mentre all'udienza dal Papa dell'Associazione Meter che da tempo lotta contro la pedofilia, il fondatore don Fortunato Di Noto ha voluto proprio lui al suo fianco. La paura di molti presuli è che i numeri veri escano allo scoperto. Francesco da sempre ha dato ascolto alle vittime, mettendole al centro di un serio lavoro di trasparenza. Riceve diverse di loro a Santa Marta, anche lontano dai riflettori dei media. Tuttavia, a parte iniziative su singoli casi, lascia che siano gli episcopati dei Paesi ad agire nel modo che ritengono più opportuno. Dopo aver respinto le dimissioni di Marx il giugno scorso sembra inverosimile che, a motivo dell'uscita del report, torni sulla sua decisione e lo porti a dimettersi. Sebbene l'operato del porporato non sia stato impeccabile a Monaco, come anche, si dice, nella sua diocesi precedente, Treviri. Joseph Ratzinger è ancora lucido, nonostante l'età. Si consiglia con il suo segretario particolare e con altri fedelissimi. Al momento ha negato la veridicità delle accuse anche se non ha ancora avuto modo di leggere approfonditamente il report. In futuro non è escluso che delle scuse possano arrivare anche da lui, in scia a quanto ha fatto Marx in queste ore, il primo dei presuli a rendersi conto degli sbagli fatti».

UCRAINA 1. IL VENTO GELIDO DELLA VIGILIA

C’è inquietudine in Ucraina perché “qualcosa sta per succedere”. Reportage da Kiev di Paolo Brera per Repubblica.

«C'è un vento gelido che viene da Est, in Ucraina. Porta con sé una crescente inquietudine, la sensazione "che qualcosa stia per succedere". «Non so che cosa accadrà, ma non voglio trovarmi impreparato: ho messo in vendita il mio appartamento a Kiev, voglio essere libero di lasciare subito il Paese, se i russi avanzeranno», dice Vadim Moisenko, imprenditore e interprete. Prima del 2014 viveva a Donetsk, nel Donbass: ha visto i carri armati delle milizie filo-russe occupare la sua terra, ora ha paura di non essere fuggito abbastanza lontano. L'escalation della tensione è quotidiana, i tentativi di riportare gli attriti sul piano della dialettica diplomatica si sono finora dimostrati inefficaci. Al termine di una giornata di dichiarazioni di fuoco, ieri gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro quattro ucraini accusati di lavorare per i servizi segreti russi. Due sono i deputati Taras Kozak e Oleg Voloscin: secondo il Tesoro americano tentavano di reclutare per conto dei russi alcuni dirigenti governativi «per prepararsi a prendere il controllo del governo ucraino e delle infrastrutture del Paese» in presenza di una «forza di occupazione russa». L'opzione di un attacco militare imminente «è data come altamente probabile dagli americani e dagli inglesi, anche se resta da capire su che scala - spiegano fonti diplomatiche italiane - mentre l'Europa ha ancora una certa fiducia nel dialogo, ma ritiene che occorra una risposta forte e chiara sul piano delle sanzioni ». Tra i due blocchi, la posizione dell'Ucraina è ineccepibile: nessuno prenda decisioni senza Kiev. Se ci sono margini per scongelare i rapporti, oggi a Ginevra saranno proprio i ministri degli Esteri russo e americano, Serghej Lavrov ed Antony Blinken, a tastare il polso alla crisi. Ma la distanza tra Mosca e le capitali del mondo democratico è enorme. Ai recenti vertici internazionali la Russia ha posto sul tavolo una richiesta inaccettabile per l'Occidente: una promessa formale che non ci sarà un ingresso nella Nato dei Paesi confinanti un tempo membri dell'Unione sovietica. Per Mosca è fondamentale, e non solo per quanto riguarda l'Ucraina, ma anche per la Georgia e gli altri Stati che con l'indipendenza si sono allontanati dal Cremlino guardando ad Ovest. Ma per la Nato la politica delle "porte aperte" non può essere messa in discussione. Il muro contro muro manda alle stelle la tensione. Dopo il passo falso di Joe Biden che mercoledì aveva prefigurato una risposta graduale e non militare se i russi si dovessero limitare a un attacco su scala ridotta portando il leader ucraino Volodimir Zelenskij a sottolineare che «non esistono incursioni minori», ieri sono corsi ai ripari un po' tutti, ribadendo l'unione di vedute e annunciando che la risposta sarebbe durissima. A partire dallo stesso presidente Usa che ha chiarito: «Qualsiasi ingresso in Ucraina di truppe russe sarebbe invasione». Sulle scrivanie degli strateghi occidentali ci sono diversi scenari di attacco russo: si va da forme non militari - come quelle informatiche - alla conquista della striscia costiera che permetta di raggiungere via terra la Crimea, con la presa di Mariupol; molto più grave sarebbe l'invasione dell'intero Donbass, compresa la parte controllata da Kiev con città come Kharkiv. Lo scenario peggiore, infine, è un blitz spinto fino a Majdan, la piazza di Kiev simbolo della rivoluzione. Non lontano dal confine con il Donbass Vladimir Putin ha ammassato 100mila uomini e mezzi militari per ogni scenario. Boris Johnson dice che «un attacco russo sarebbe un disastro», mentre Antony Blinken da Berlino - dopo aver sentito il segretario Nato Stoltenberg, il ministro polacco Blaszczak, e l'Alto rappresentante Ue Borrell - assicura «una risposta severa e rapida» in caso di attacchi all'integrità territoriale ucraina. Ma Mosca alza il tiro e annuncia esercitazioni delle «forze navali, aeree e spaziali» nei «mari e negli oceani» ed esercitazioni navali congiunte con Cina e Iran. A rendere il quadro ancora più complesso c'è il Nord Stream 2, l'oleodotto che ricombina interessi e scompagina alleanze».

UCRAINA 2. BIDEN CHIARISCE DOPO LA GAFFE

La Casa Bianca chiarisce dopo la gaffe di Biden, che aveva parlato di «incursione minore» dei russi in Ucraina. La precisazione dice: «Ogni ingresso russo è invasione». Oggi Blinken vede Lavrov. Giuseppe Sarcina da Washington.

«L'ipotesi più quotata è che Joe Biden, parlando l'altro giorno con i giornalisti, si sia spinto troppo in là sull'Ucraina. La Casa Bianca si aspetta davvero una mossa di Vladimir Putin. Da mesi gli esperti del Pentagono indicano l'obiettivo più vulnerabile: la città portuale di Mariupol, a metà strada tra la Crimea, già annessa da Mosca, e il Donbass occupato dai filorussi ormai dal 2014. Potrebbe essere questa «l'incursione minore» evocata da Biden nella conferenza stampa dell'altro giorno? Può darsi. Ma è un'informazione che non sarebbe dovuta diventare pubblica. Per tutta la giornata di ieri la Casa Bianca ha cercato di recuperare. Lo stesso Biden, in una dichiarazione citata dalla tv Abc , ha precisato che «qualsiasi sconfinamento delle truppe russe sarà considerato un'invasione. La reazione degli Stati Uniti sarà rapida, durissima e unitaria». È la stessa frase ripetuta dal segretario di Stato Antony Blinken, davanti a telecamere e reporter, insieme con la ministra degli esteri tedesca, Annalena Baerbock. Sarà proprio Blinken a consegnare il messaggio alla controparte: oggi a Ginevra incontrerà il pari grado russo, Sergey Lavrov. Il segretario di Stato si presenta con un'apertura: «Chiederò a Lavrov di tornare a lavorare con gli Stati Uniti e gli alleati in modo da garantire la sicurezza reciproca. Ma questa strada verrebbe interrotta se ci sarà un'aggressione russa all'Ucraina». Probabilmente i due ministri sonderanno anche la possibilità di un altro summit tra Biden e Vladimir Putin. E se il portavoce del Cremlino si è detto possibilista, lo stesso Peskov, commentando le dichiarazioni di Biden ha spiegato come queste possano «ispirare false speranze ad alcune teste calde in Ucraina» e dunque «favorire la destabilizzazione». Intanto il governo di Kiev è in allarme. Il presidente Volodymyr Zelensky ha reagito con irritazione all'uscita di Biden: «Non esistono incursioni minori». Il tutto mentre gli Stati Uniti hanno sanzionato quattro deputati di Kiev accusati di collaborare con i servizi russi. Si inserisce anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, proponendo un faccia a faccia tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Ma è uno scenario da scartare. Zelensky guarda agli Stati Uniti e alla Nato. Si ritorna così a Biden. Mercoledì scorso, il presidente ha toccato almeno altri tre punti molto importanti. Primo: l'Alleanza atlantica potrebbe spostare più forze militari sul fianco est, nei Paesi baltici, per esempio. Ieri il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, lo ha confermato. Secondo: la Finlandia, Stato neutrale dal dopoguerra, potrebbe chiedere l'adesione alla Nato. Un colpo durissimo per Mosca. Terzo e ultimo: Biden ha sottolineato come l'export di gas rappresenti il 45 per cento del prodotto interno russo. Come dire: se lo blocchiamo, Putin non può reggere. Non ha ricordato, però, che il fabbisogno energetico dipende per il 48% dalla Russia».

Tommaso di Francesco sul Manifesto teme il “casus belli”, che la gaffe di Biden in qualche modo implica.

«Oggi Blinken incontra Lavrov, ma è difficile che si diradino le nebbie gravide di tempesta. In buona sostanza, qual è il pretesto, il casus belli più appropriato che gli Usa e la Nato stanno cercando? Perché appare chiaro che il clima di incertezza in questo pericoloso momento, propone proprio uno scenario pretestuoso. Temiamo, assai simile a quella che fu la vicenda georgiana dell'agosto del 2008. Quando lo sconsiderato premier Saakashvili - diventato poi perfino ministroucraino e ora in galera in Georgia - lanciò su consiglio improvvido della Nato un attacco contro i ribelli russi e filorussi dell'Ossezia, e nel giro di 24 ore arrivarono centinaia di carri armati russi per una guerra che fu disastrosa per Tbilisi. Questa è la possibilità: un incidente, o meglio un attacco ucraino sul fronte del Donbass - una guerra civile che ha già fatto 14mila morti e due milioni di profughi -, un attacco che provochi la reazione immediata delle truppe russe da tempo denunciate come ammassate ai confini. Non dimenticando però che gli accordi di Minsk fin qui raggiunti con il ruolo centrale di Angela Merkel, dicono che la Russia non considera un'altra Crimea il Donbass, per il quale accetta una autonomia interna all'Ucraina. Dimenticavamo di raccontare che le ambiguità della conferenza di Biden non hanno riguardato solo l'Ucraina, ma la crisi interna. Per la quale Biden riconosce che il suo programma ha raggiunto la condizione dell'impotenza, al limite della sconfitta: sei mesi fa ha decretato la sconfitta della pandemia e oggi invece negli Usa più che diseguali dilaga; l'inflazione è il dato economico più preoccupante; non riesce a superare l'ostruzionismo dei repubblicani; per i disegni sul diritto di voto non sembrano esserci speranze, contraddetti anche in casa democratica - alla faccia del Paese che si considera «faro della democrazia». Apparteniamo alla scuola di pensiero che è contro la guerra, da bandire come strumento scellerato nelle crisi internazionali, come da dettato costituzionale. Siamo contro ogni militarismo e blocco militare, sia esso occidentale, russo, cinese o quant' altro. Una convinzione dura a morire, anche di fronte ad una evidenza tragica: i due anni di pandemia. È mai possibile che, di fronte a ben altre priorità, i governi occidentali rivendichino l'allargamento della Nato ad Est, con sistemi d'arma, missili, truppe, basi navali e terrestri di 28 Paesi alleati, tutti intorno alla Russia, con un «assembramento ai confini» che sembra fatto apposta per provocare una reazione? È possibile che i governi europei investano in ulteriori riarmi, come fa il nostro «migliore» Draghi, o Macron nella sua prolusione programmatica? È possibile pensare che dietro la chiacchiera sulla «transizione ecologica», ci sia il rilancio produttivo del complesso militare-industriale, che tra gli altri effetti nefasti ha quello di indurre al riarmo ogni Paese, a cominciare dalla Russia e dall'antagonista vero, la Cina? E tutti poi a cercare il nemico e ad imporre nuove sanzioni, che altro non sono ormai che un'arma a doppio taglio nell'epoca della carenza di risorse? Il tutto come unica ragione di legittimità politica. Eppure la fragilità del sistema economico mondiale, di fronte alla carenza di energia e di materie prime dopo due anni di pandemia, dice tutto il contrario. Una fragilità che un focolaio «afghano» di guerra, acceso in piena Europa farebbe esplodere definitivamente».

POLONIA, LA UE CHIEDE LA MULTA DI 69 MILIONI

L’Europa chiede il conto alla Polonia perché ora paghi la multa da 69 milioni. Giovanni Maria Del Re per Avvenire.

«Sessantanove milioni di euro. A tanto ammonta la multa che dovrà pagare la Polonia, rea di non aver ancora rimosso, nonostante un'ordinanza della Corte di giustizia Ue del 14 luglio 2021, la controversa «Camera disciplinare» per i giudici. Ad annunciarlo è stato ieri un portavoce della Commissione Europea. Secondo la Commissione e la Corte Ue la camera disciplinare, in grado di punire giudici anche per sentenze emesse, e sotto diretto controllo governativo, mette la magistratura sotto tutela annullandone l'indipendenza, tra i principi cardine dello "stato di diritto". Bruxelles già il 22 dicembre aveva avvertito Varsavia dell'imminente multa (stabilita dalla Corte Ue il 27 ottobre nella misura di un milione di euro al giorno). Lettera a cui il governo polacco, il 10 gennaio, aveva risposto chiedendo una sospensiva. Motivo: la Corte suprema, aveva scritto l'ambasciatore Andrzej Sados, ha già deciso di non passare più nuovi casi alla camera disciplinare, preannunciando possibili e non meglio definite «nuove iniziative» del governo. In realtà sono mesi che Varsavia promette di rimuovere la controversa Camera, e invece l'organo continua a funzionare, ancora la scorsa settimana ha sospeso un giudice della corte distrettuale di Varsavia. «Dopo aver analizzato la risposta alla lettera del 22 dicembre - ha affermato il portavoce - la Commissione ha concluso che la Polonia non è riuscita a dimostrare di aver rispettato l'ordinanza della Corte di giustizia del 14 luglio 2021». Per questo «la Commissione ha mandato ieri (mercoledì, ndr) una richiesta alla Polonia di pagare la multa per il periodo che va dal 3 novembre 2021 al 10 gennaio incluso ». Trattandosi di un milione al giorno, il conteggio arriva a 69 milioni di euro. Se Varsavia continuerà a non ottemperare, seguiranno altre multe «con cadenza mensile». Il governo di Varsavia è diviso: più conciliante il partito di maggioranza, il PiS (i nazional-populisti guidati da Jaroslaw Kaczynski), più rigida l'ancor più nazionalista Polonia Unita, alleata di governo, che chiede di non pagare la multa, ma sarà difficile: Bruxelles può semplicemente detrarne l'importo dai fondi comunitari spettanti a Varsavia. Lo scontro con Bruxelles sulla giustizia costa insomma sempre più soldi alla Polonia. Bruxelles non ha ancora approvato il Pnrr polacco necessario per accedere ai 36 miliardi di prestiti e sovvenzioni del Piano europeo di rilancio destinati a Varsavia, proprio perché non contiene le richieste garanzie sulla indipendenza della magistratura. Lo stesso, peraltro, vale per l'Ungheria, di Viktor Orbán anch' essa ai ferri corti con Bruxelles: pure il Pnrr magiaro (per 7,2 miliardi di euro) è bloccato, soprattutto per il mancato intervento sulla lotta alla corruzione. L'emorragia potrebbe aggravarsi, grazie al nuovo strumento Ue che lega il versamento di tutti i fondi comunitari al rispetto dello Stato di diritto, e sulla cui validità è attesa a breve una sentenza della Corte Ue che tutti si aspettano positiva».

TONGA, ARRIVANO I PRIMI AIUTI

Le ultime dalle isole di Tonga: arrivano i primi aiuti. Enrico Franceschini per Repubblica.

«Preghiamo per la pioggia, per una grande pioggia che lavi via la cenere». Quella di Marian Kupu, una giornalista di Tonga, è una delle prime voci che arrivano dall'arcipelago colpito dallo tsunami, dopo l'eruzione di un vulcano sottomarino che per cinque giorni ha tagliato fuori dal resto del mondo queste isole della Polinesia e la loro popolazione di 100 mila abitanti. «Di colpo è diventato tutto grigio, automobili, case, i cani per strada, tutto ricoperto da uno spesso strato di cenere», dice via radio la reporter polinesiana alla Bbc . «E adesso siamo anche preoccupati per la salute dei volontari, in maggioranza giovani arrivati dai villaggi, venuti a spazzare via la cenere manualmente, con i badili e con i secchi». È grazie al lavoro di questa coraggiosa armata di cittadini che è stato possibile rendere di nuovo agibile l'aeroporto di Nukualofa, la capitale di Tonga, dove ieri sono finalmente atterrati i primi voli di soccorso: un aereo dalla Nuova Zelanda e due dall'Australia, che hanno portato acqua, tende, medicinali e generatori elettrici. «Facendo bene attenzione a non avere alcun contatto fisico con la gente del posto», dice il ministro della Difesa neozelandese Peeni Henare. Grazie all'enorme distanza da ogni continente e a una rigida quarantena di tre settimane per qualunque visitatore, Tonga è infatti uno dei pochissimi Paesi non contagiati dal Covid: finora non ha avuto nemmeno un singolo caso. Perciò i soccorritori calati dal cielo, spiega il ministro Henare, «sono rimasti a terra soltanto 90 minuti, lasciando gli aiuti umanitari sulla pista, senza avvicinare nessuno e indossando materiale protettivo. L'ultima cosa che volevamo era causare un focolaio di coronavirus sull'isola, in aggiunta al disastro che ha sofferto». Il bilancio ufficiale continua a parlare di tre morti, nonostante il livello di distruzione "senza precedenti" trasmesso dalle prime immagini e la valutazione degli scienziati secondo cui l'eruzione ha avuto 500 volte la potenza della bomba atomica di Hiroshima. Le vittime sembrano destinate a salire, come indica l'incredibile resoconto di un uomo travolto dalle onde anomale che è riuscito a salvarsi nuotando per 13 chilometri. Lisala Folau, un carpentiere in pensione disabile («cammino come un bambino piccolo», ha raccontato alla radio di Tonga Broadcom Fm ), si era aggrappato a un albero insieme al figlio e alla nipotina, ma un'onda alta cinque metri li ha separati. «Era notte, non vedevo niente, in acqua nel buio sentivo la voce di mio figlio che mi cercava», afferma, «ma non l'ho chiamato nel timore che morisse per cercare me». Dalla sua isola, Atata, ha nuotato fino a Toketoe e quindi a Poloa, due isolotti disabitati, e di lì fino a Sopu, l'isola principale in cui si trova la capitale, dove alle 9 di sera un automobilista l'ha avvistato e se l'è portato a casa. Non si sa che fine abbiano fatto il figlio e la nipote».

BEZOS E L’ETERNA GIOVINEZZA, GATES E I VIRUS

Il miliardario Jeff Bezos si concentra su una nuova sfida: essere giovani in eterno. L’obiettivo è vivere 50 anni di più. Grazie alle staminali. Irene Soave per il Corriere.

«Volare nello spazio come in vacanza, creare e abitare mondi paralleli come Zuckerberg con il suo «metaverso», comprarsi la giovinezza eterna e l'eterna salute. I grandi miliardari, dopo averne messo a reddito quasi ogni caratteristica, sembrano voler scavalcare la condizione umana. L'ultima sfida viene da Jeff Bezos ed è quella dell'eterna giovinezza. Fondatore e presidente di Amazon, è il secondo uomo più ricco del mondo, il primo centimiliardario - parola coniata in suo onore - mai entrato in una classifica di Forbes e anche il primo a volare in orbita (mentre il rivale Elon Musk, a sua volta fondatore di una compagnia spaziale e primo uomo più ricco del mondo, se n'è finora guardato, forse intendendo anche lui allungarsi la vita, o almeno non accorciarla). Ieri Bezos ha annunciato un «salto di qualità» nella gestione della sua startup Altos Labs, che si occupa di «lotta contro l'invecchiamento» e «rigenerazione cellulare». Altos appartiene a Bezos da settembre, ma ieri lui ha annunciato di avere reclutato come direttore esecutivo l'ex supermanager farmaceutico Hal Barron, 59 anni, finora in forze alla multinazionale britannica GlaxoSmithKline. Già questa mossa, da sola, sarebbe un segnale; ma è stata accompagnata, così l'annuncio di ieri, anche dall'investimento di tre miliardi di dollari nei prossimi piani di ricerca e sviluppo. Che si concentreranno soprattutto sulla «riprogrammazione cellulare», tecnica già usata in laboratorio finora solo su cellule singole, che effettivamente «ringiovanisce»: per alcuni studiosi qui sta la chiave del vero possibile prolungamento della speranza di vita attraverso la sconfitta di mali correlati all'invecchiamento, come i tumori. «Vivere più a lungo in un corpo che però è al suo meglio», come nel patto con Mefistofele a cui Faust cede l'anima in cambio della durata eterna di un attimo di perfetto piacere: questo è lo scopo di Altos, fondata da Bezos con altri miliardari come il russo Yuri Milner, e con l'ex dirigente dell'istituto oncologico nazionale degli Stati Uniti Richard Klausner, che sarà a capo del comitato scientifico. Da settembre Altos sta conducendo una campagna di reclutamenti tra gli accademici più stimati, a cui offre - così il «Times» - «stipendi da calciatori». Tra loro c'è il biologo Juan Carlos Izpisua Belmonte, che di recente ha predetto che la vita possa essere allungata di «almeno cinquant' anni»; e il Nobel per la Medicina Shinya Yamanaka, luminare delle staminali (che ha rinunciato al suo compenso). Nomi di garanzia che servono anche a tranquillizzare i molti critici di Bezos, che vedono in questo investimento sulla «vita eterna» una deriva distopica simile a quella rappresentata, nel film più visto di queste settimane che è Don't Look Up , dal perfido miliardario che boicotta i piani per salvare la terra da una cometa assassina, ma intanto promette ai più ricchi una «seconda vita» in criocapsule spaziali. Proprio come un lusso da ricchi occidentali, la cui speranza di vita è già comunque quasi centenaria, potrebbero essere almeno all'inizio i progressi che eventualmente Altos assicurerà. A caccia dell'eterna giovinezza, del resto, il 58enne Bezos lo sembra da un po': la foto di Capodanno pubblicata sui social lo ritrae a bordo piscina, in jeans e sorriso ugualmente candidi, avvinghiato alla nuova compagna Lauren Sànchez, che nel 2019 ha sostituito la prima moglie Scott McKenzie, in un antidoto alla mezza età già ben collaudato da generazioni di ricchissimi. Sànchez, a sua volta ha 52 anni e ne dimostra forse metà. Un perfetto attimo di Faust, da prolungare il più possibile».

Un altro imprenditore, e filantropo, Bill Gates teme nuove pandemie. Dice: «Prepariamoci a virus più letali». Ha donato milioni di dollari per investimenti che scongiurino nuove crisi sanitarie. Matteo Persivale per il Corriere.

«Ha realizzato il sogno giovanile di «mettere un computer su ogni scrivania, in ogni ufficio, in ogni casa», è stato per molti anni l'uomo più ricco del mondo, ha investito (per ora) 38 miliardi di dollari nella lotta alla malaria (i casi, dal 2000 al 2015, sono calati del 57%), e nei ritagli di tempo ci aveva anche avvertito, sette anni fa, che una pandemia ci avrebbe messo in ginocchio se non ci fossimo preparati in tempo con piani pandemici, investimenti nella sanità, ricerca. Sarebbe stato un classico esempio, per usare una frase alla quale è affezionato il matematico Nassim Taleb, esperto di analisi del rischio, di «spendere spiccioli oggi per risparmiare miliardi domani»: non è stato ascoltato. Ora Bill Gates lancia un altro avvertimento: rischiamo che una pandemia ancora peggiore del Covid-19 si presenti a breve, e per questo ha invitato i governi mondiali a fare quello che non hanno fatto sette anni fa: prepararsi. Gates, che è ormai da anni filantropo a tempo pieno, ha spiegato che se da una parte è vero che le varianti Omicron e Delta del Sars-CoV2 sono tra i virus più contagiosi mai visti, il mondo potrebbe trovarsi a affrontare un altro agente patogeno capace di causare un tasso ancora più elevato di decessi, o malattie gravi. La Bill & Melinda Gates Foundation e il Wellcome Trust del Regno Unito (fondazione benefica attiva nella ricerca biomedica dal 1936) hanno scelto di donare 300 milioni di dollari (264 milioni di euro) alla Coalition for Epidemic Preparedness Innovation (nata dopo l'epidemia di Ebola del 2014-2015) che ha contribuito a formare il programma Covax, quello che si preoccupa di fornire vaccini ai Paesi a basso e medio reddito. Secondo Gates le priorità dei governi mondiali sono «strane», ed è in effetti singolare che tocchi ai filantropi affrontare il problema della diseguaglianza nell'accesso ai vaccini. «Se si parla di spendere miliardi per risparmiare migliaia di miliardi di danni economici, e salvare decine di milioni di vite, beh, a me pare una polizza assicurativa piuttosto buona», ha detto Gates al Financial Times. L'innovazione è secondo lui lo strumento per affrontare sia le pandemie sia la crisi climatica: dall'innovazione, ha detto, potrebbe arrivare finalmente un vaccino per l'Hiv, e vaccini migliori per tubercolosi e malaria. Il forte investimento di Coalition for Epidemic Preparedness Innovation e del governo americano che nel 2020 ha portato alla creazione degli attuali vaccini anti-Covid «è stato un rischio, ma ha fatto partire un processo importante. C'è stato un enorme vantaggio globale. Siamo tutti molto più svegli, ora. E abbiamo bisogno di più capacità per la prossima volta. E se si parla di Covid, dobbiamo vaccinare il mondo, anche se nei Paesi in via di sviluppo è logisticamente molto più complesso». L'anno scorso Gates, in un'intervista con 7, settimanale del Corriere della Sera , si è detto «sorpreso» di essere diventato il bersaglio preferito dei cospirazionisti del Covid semplicemente per averci avvertito del pericolo (come facevano peraltro molti studiosi senza la sua rilevanza mediatica): «Sì, sono rimasto sorpreso. Internet può essere usato per spiegare cose a un pubblico enorme, per informare e divulgare, però su Internet sembra sempre che le motivazioni per le quali qualcuno fa qualcosa vengano messe sotto accusa. E allora, certo, mi ha sorpreso che il dottor Fauci e io (Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, immunologo e consigliere di Trump prima e adesso di Biden, ndr) siamo diventati protagonisti di teorie cospiratorie sulla pandemia».

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