La Versione di Banfi

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"Colpa dei mancati ristori"

alessandrobanfi.substack.com

"Colpa dei mancati ristori"

Morra, presidente antimafia, giustifica il proprietario della Funivia. Draghi e Letta si vedono. Vicino l'accordo sul Semplificazioni. Ieri 600 mila vaccini. Grossman sulla pace. Addio a Carla Fracci

Alessandro Banfi
May 28, 2021
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"Colpa dei mancati ristori"

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Venerdì di monitoraggio sui dati e quindi di nuovi colori per le Regioni. Italia in parte già bianca da lunedì. Ma su questo terreno si va in discesa. Come capita, dopo essercene tanto occupati, le buone notizie non fanno grande clamore. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono stati fatti quasi 600 mila vaccini, per l’esattezza 590 mila 547. Le scorte ci sono e in molte Regioni c’è alle viste un fine settimana di “open day” e iniziative eccezionali per la campagna vaccinale. C’è ancora qualche coda polemica sulle mascherine all’interno, ma niente rispetto alla guerra civile sul coprifuoco di un mese fa.

Anche sul fronte della politica economica, ieri è stata una giornata positiva. Letta ha incontrato Draghi in un lungo faccia a faccia. Il Pd e i sindacati (nel pomeriggio a Palazzo Chigi) hanno tenuto soddisfazione per gran parte delle loro richieste. Vedremo alla fine quale sarà il punto di caduta del decreto Semplificazioni che dovrebbe approdare in Consiglio dei Ministri. C’è però discussione, e qualche amarezza, per il “metodo Draghi” sulle nomine. Se non possono discutere sulle poltrone, che ci stanno a fare i partiti? La domanda è tanto impresentabile quanto concreta.

Coda polemica anche sulla vicenda dei 14 morti della Stresa-Mottarone. Come attribuire al nemico politico la colpa morale di una strage, come quella della funivia? Una possibilità è giustificare il proprietario dell’impianto, Luigi Nerini, contro il quale la Pm, Dio la benedica, chiede intanto “pene altissime”. La giustificazione suona così: Nerini era in difficoltà economiche, perché non ha avuto abbastanza ristori dal Governo Draghi. È il ragionamento del senatore dei 5 Stelle, presidente della commissione antimafia Morra. “Se era stressato” dal governo Draghi, è quasi scusato…

Due novità estere importanti sul fronte pandemia. Iniziativa del Cuamm per la vaccinazione dell’Africa, cruciale anche per il nostro futuro, ne parla Avvenire. E offensiva di Biden sul laboratorio virologico di Wuhan: dissolte le fake news di Trump, c’è una chance in più per capire che cosa è davvero successo.  Bellissimo intervento di David Grossman che sogna la pace di Isaia per il Medio Oriente.

Milano piange la scomparsa di Carla Fracci, la grandissima étoile della Scala. Oggi camera ardente nel Piermarini. Vediamo i titoli.  

LE PRIME PAGINE

Ancora sulla strage della Mottarone- Stresa. Il Corriere della Sera sceglie una frase della richiesta d’arresto dei Pm, arrivata ieri ai cronisti: «Funivia, spregio di ogni regola». La Stampa riporta la confessione del responsabile dell’impianto: «Ho manomesso i freni, Dio mi giudicherà». Il Messaggero sottolinea la motivazione del carcere per i tre accusati: «Rischio fuga dopo la strage». La Repubblica va invece sulla giornata di ieri, cruciale per la politica economica: Draghi apre ai sindacati “Appalti in fretta, ma sicuri”.
Per Libero: Draghi smorza la sinistra. Avvenire invece ci vede un: Passo più sociale. Il Manifesto è scettico e gioca con le parole: Minimo ribasso. Il Domani teme per la nostra privacy: Il rischio del piano Colao è che il governo americano acceda ai nostri dati. Sulle spine della pandemia e il ritorno alla normalità, c’è il Quotidiano nazionale sempre critico: Ecco l’ultima: a tavola con la mascherina. Mentre La Verità insiste con lo scandalo degli acquisti d’emergenza: La grande abbuffata sul Covid. Il Fatto sta sul suo cavallo di battaglia: Verdini è detenuto quindi ha il vitalizio. Mentre per Il Giornale c’è un mee too della magistratura: I giudici italiani maltrattano le donne. I quotidiani economici sono ottimisti. Il Sole 24 Ore: Ripresa, fiducia a livelli pre-covid. Mentre Italia Oggi vede un possibile miglioramento della pubblica amministrazione: Commissariata la p.a. lenta.

LA STRAGE DELLA FUNIVIA

La strage della funivia del Mottarone. Ieri i giornalisti hanno potuto leggere le carte dell’accusa, depositate dalla Procura al Gip. Ci sono prove schiaccianti e valutazioni durissime della Pm. Ma non tutto è ancora definito. Adesso il sospetto, terribile, è che quel “malfunzionamento” per cui scattavano i freni d’emergenza, ad un certo punto disattivati, sia in qualche modo legato alla rottura della fune portante. Il punto delle indagini di Giuseppe Guastella sul Corriere.

«C'è una connessione tra la rottura della fune traente e gli allarmi che facevano partire in continuazione i freni di emergenza mentre la cabina viaggiava sulla fune portante? Ciò che gli investigatori impegnati sul disastro del Mottarone si chiedono è se gli allarmi scattassero non per un malfunzionamento ma perché la fune stava cedendo, e sono stati sottovalutati e ignorati in «spregio della vita dei soggetti trasportati», le 14 vittime di domenica scorsa. Gli inquirenti non hanno ancora elementi per poter dare corpo a quello che al momento è solo un sospetto, e cioè che i tre fermati nell'indagine abbiano pensato che quegli allarmi fossero in realtà dei falsi allarmi, dato che la rottura della fune traente d'acciaio è un caso rarissimo, tanto è vero che nell'unico incidente che in Italia ha una qualche similitudine con la tragedia della funivia Stresa-Mottarone, quello sul Monte Bianco del 1994, a cedere fu la fune portante. Siccome dopo gli interventi di manutenzione (l'ultimo il 30 aprile) il problema non era stato risolto, Luigi Nerini, titolare delle Ferrovie del Mottarone, Enrico Perocchio, ingegnere della Leitner (la società si costituirà parte civile nell'eventuale processo) direttore del servizio, e Gabriele Tadini, capo servizio, avrebbero fatto viaggiare la cabina con i «forchettoni» inseriti per quasi un mese. Lo dicono il procuratore di Verbania Olimpia Bossi e il sostituto Laura Carrera nel fermo che all'alba di mercoledì ha portato i tre in carcere quando Tadini «ha ammesso di aver ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni» durante le corse informando costantemente Perocchio e Nerini, «che avallavano tale scelta» e non eseguivano la lunga manutenzione che avrebbe fermato l'impianto con «conseguenti ripercussioni di carattere economico». Chi sapeva dei «forchettoni»? «Lo sapevano tutti e dall'inizio», ripetono gli investigatori. Quante persone? Almeno tre o quattro dipendenti della Ferrovie del Mottarone che potrebbero finire sul registro degli indagati nell'inchiesta per omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro». 

La Stampa raccoglie lo sfogo di Gabriele Tadini, l’operatore della Funivia che ha ammesso per primo con i magistrati le sue responsabilità: Sfogo raccolto soprattutto attraverso il suo primo avvocato, nominato d’ufficio. Ora Tadini è in carcere.

«Mi sento un peso enorme sulla coscienza. Prego e faccio i conti con me stesso. Faccio i conti con Dio». Gabriele Tadini, 64 anni, è l'uomo che ha spiegato tutto quello che si è capito, fino a ora, dello schianto della funivia del Mottarone. Ha ripetuto quelle parole anche mercoledì pomeriggio, quando ha incontrato per la prima volta l'avvocato Marcello Perrillo. Dopo quarant' anni al servizio nella società che gestiva la funivia, era diventato capo servizio. Era lui il responsabile del funzionamento: «L'impianto idraulico dei freni d'emergenza aveva dei problemi, perdeva olio e le batterie si scaricavano continuamente. Dopo la riapertura del 26 aprile, avevamo già fatto due interventi. Ma non erano stati risolutivi. La funivia continuava a funzionare a singhiozzo. Il problema si ripresentava, serviva altra manutenzione. È stato in quel contesto, di tentativi e di interventi tecnici, che toglievamo e mettevano il cosiddetto forchettone per armare e disarmare il sistema dei freni d'emergenza. Tenere i freni scollegati permetteva alla funivia di girare. Mai avremmo potuto immaginare che la cima traente si spezzasse. Era in buone condizioni: non presentava segni di usura. Quello che è successo è un incidente che non capita neppure una volta su un milione». Dopo un giorno passato chiuso in casa senza dire una parola, martedì sera Gabriele Tadini è stato convocato in qualità di testimone nella caserma dei carabinieri di Stresa: «Persona informata sui fatti». Ha deciso di dire quello che sapeva. È stato lui il primo iscritto nel registro degli indagati, perché con le sue stesse parole ha cambiato la sua posizione. (…) È stata chiamata l'avvocatessa Annamaria Possetti (difensore d’ufficio, perché Tadini diventa indagato ndr). A quel punto, erano passate le otto e mezza di sera: «Ho capito subito che il signor Tadini era intenzionato a dire quello che sapeva sull'incidente, non ho fatto altro che accompagnarlo in questo suo percorso di verità. Una scelta non certo fatta per lucrare qualche vantaggio in sede processuale, ma dettata dalla coscienza. Tadini era molto provato. Mai avrebbero pensato di far correre quel rischio ai passeggeri. Siamo tutte persone umane, possiamo fare delle scelte sbagliate senza rendercene conto». Hanno deliberatamente scelto di bloccare i freni d'emergenza per non perdere altre corse della funivia. Hanno lasciato quel forchettone perché così, in quel modo, l'impianto girava senza bloccarsi in continuazione. «Lo so. Ma escludo categoricamente che avessero messo in conto un rischio tanto spaventoso». La confessione è finita alle 3 del mattino. «Ammetto di essermi trovata in forte conflitto con me stessa», dice l'avvocatessa Possetti. «Questa è una tragedia che mette a dura prova, una vicenda umana assurda. Devi avere una scorza ben dura per poterla sopportare, una scorza che forse io non ho. Pensavo alle ragioni degli indagati, ma pensavo anche alle persone offese, a tutto il dolore di questa tragedia. Mi sono sentita sollevata quando ho saputo di essere stata sostituita da un avvocato di fiducia».

Per il senatore Nicola Morra, se Nerini, il proprietario dell’impianto “avesse avuto ristori”… : Non è Lercio.it. È proprio scritto sul Corriere della Sera di oggi:  

«Devo inventarmi un decodificatore del pensiero, certi titoli sono fuorvianti...», dice il senatore Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. Ieri, le agenzie di stampa hanno rilanciato una sua dichiarazione a Sky sulla tragedia del Mottarone: «Forse se questo operatore avesse avuto ristori di altra natura, ora avremmo 14 morti in meno». Così sui social è scoppiata la polemica, Morra è sembrato giustificare Luigi Nerini, l'ad della società che gestiva la funivia. «Ma io ho fatto solo un'ipotesi - spiega -. Ho detto: se questo imprenditore era disperato. Perché la storia ci insegna che spesso è proprio la disperazione a produrre comportamenti inammissibili, folli, criminali. Come quello di togliere i freni a una funivia per ottenere incassi. E allora a Sky ho ricordato che il nostro Paese, con questo governo e quelli passati, durante la pandemia ha erogato sostegni importanti: secondo l'Inps oltre 2 miliardi e 700 milioni di euro di cassa integrazione. Molti di questi soldi però sono finiti ad aziende che non hanno avuto flessioni di fatturato. Perciò, ho fatto l'ipotesi che il gestore della funivia, così come gli altri arrestati, fossero a tal punto stressati, disperati, da mettere a rischio la vita dei passeggeri. Ma è un'ipotesi che diventa fragile, se al posto della disperazione c'era invece solo avidità».

FUORI DAL TUNNEL, I COLORI DELL’ESTATE

Come tutti i venerdì, anche oggi giorno dei colori col monitoraggio della pandemia. Si esaminano ufficialmente i dati epidemiologici forniti dall’Istituto superiore di sanità. La cronaca sul Corriere.

«Da martedì l'Italia non sarà più tutta gialla, tre regioni, Sardegna, Molise e Friuli-Venezia Giulia passeranno al bianco. Dal 7 giugno, poi, seguiranno Abruzzo, Veneto, Umbria e Liguria. Infine, se i dati dell'incidenza continueranno ad essere buoni, ovvero costantemente sotto quota 50 casi ogni 100 mila abitanti, dal 14 giugno sarà la volta di Lombardia, Piemonte, Puglia, Emilia-Romagna e Provincia di Trento. Anche il Lazio, con molta probabilità, passerà in bianco per quella data, tutto dipende dal monitoraggio settimanale della cabina di regia che sarà reso noto oggi. Il monitoraggio, mettendo insieme i dati che arrivano dalle regioni nei 7 giorni, sancirà dunque i primi passaggi al colore «della libertà» ma già l'incidenza giornaliera calcolata ieri conta 13 casi su 100 mila per la Sardegna, 12 per il Molise e 17 per il Friuli Venezia Giulia; queste tre regioni sono ben sotto quota 50 già da tre settimane e registrano tutte un carico ospedaliero ai minimi. Dopo un'altra settimana, al prossimo monitoraggio previsto per il 4 di giugno, saranno Abruzzo, Liguria, Veneto e Umbria a passare dal giallo al bianco: queste regioni da due settimane sono sotto la soglia di allerta e tutto lascia pensare che ci rimarranno nei prossimi 7 giorni. Dal 14 giugno, infine, sarà la volta di altre 5 regioni, sempre se l'andamento rimarrà costante: Lombardia, Piemonte, Puglia, Emilia-Romagna e Provincia di Trento. Non dovrebbero esserci problemi neppure per il Lazio che ieri era a quota 51 ma che nei giorni scorsi è sempre stato al di sotto di questa soglia. Se il monitoraggio registrerà oggi un valore inferiore o pari a 50, anche il Lazio guadagnerà il bianco».

SEMPLIFICAZIONI, IL GIORNO DEL DIALOGO

Giovanni Vitale su Repubblica racconta la giornata campale di Palazzo Chigi: la cabina di regia, il confronto pomeridiano coi sindacati, soprattutto il faccia a faccia Draghi-Letta. Il segretario del Pd, al termine della giornata, twitta: “Sintonia piena per accelerare le riforme”.

«Stralciata la norma sul massimo ribasso, resta sub judice la liberalizzazione dei subappalti: la prova che il braccio di ferro sulla proroga della soglia al 40%, fissata dal precedente governo, non è ancora concluso. Arriva dal nuovo testo sulle Semplificazioni, che ha inglobato le regole sulla governance del Pnrr, il segnale atteso dal Partito democratico dopo giorni di tensione lungo la tratta Nazareno-Chigi. Durante la cabina di regia convocata da Draghi per sciogliere gli ultimi nodi che frenavano l'approdo del decreto in Consiglio dei ministri (previsto nel pomeriggio), sulle due richieste avanzate dal capodelegazione dem Andrea Orlando, una è stata accolta, l'altra è in fase di approfondimento. Ma, cosa ancor più importante per il segretario Enrico Letta - impegnato al mattino in un «lungo e proficuo» faccia a faccia chiarificatore con il premier - è stata confermata la clausola di premialità voluta con forza dal Pd per le imprese che assumeranno giovani e donne. Durato un paio d'ore, il vertice di maggioranza non è stato privo di frizioni. Specie quando è stato fatto notare al premier come nessuno dei ministri avesse fin lì avuto modo di leggere il testo sulla governance del Recovery, illustrato dal sottosegretario Roberto Garofoli solo a voce, e nemmeno l'ultima versione del Semplificazioni. Mentre Orlando e Speranza hanno insistito sulla necessità di un incontro con i sindacati - già sul piede di guerra per la proroga negata allo stop dei licenziamenti - per coinvolgerli in un processo da cui non potevano restare esclusi. Suggerimento che Draghi ha accettato di buon grado, convocando per il pomeriggio stesso un tavolo con i leader di Cgil, Cisl e Uil. Utile anche a ribadire alcuni punti fermi che sembrano sfuggire sia ai partiti, sia alle parti sociali. Intanto sui tempi: l'accordo con la Commissione Europea - ha fatto presente l'ex banchiere centrale - è di licenziare in Cdm il decreto entro la fine di maggio. Un aspetto fondamentale per poter accedere subito alla prima tranche dei fondi Ue. Fondi che, è stato ribadito, vanno spesi di rigore entro il 2026: un orizzonte non particolarmente lungo alla luce dei profondi cambiamenti che dovrà subire la macchina dello Stato per essere sicuri che questo avvenga. Sul fronte degli appalti, ha poi spiegato Draghi, il governo deve semplificare se si vuole accelerare sulla realizzazione dei progetti, senza tuttavia indebolire, anzi rafforzando le cautele e la tutela del lavoro. Parole che hanno rassicurato i sindacati. Entrati però in allarme quando il premier, dopo aver garantito che «non è previsto alcun allargamento della pratica del massimo ribasso», ha ricordato che sul tema del subappalto la normativa europea ha di fatto liberalizzato quest' area, facendo cadere i limiti imposti nell'ordinamento italiano. C'è quindi la necessità - ha precisato Draghi - di tenere insieme il rispetto del diritto Ue con la massima tutela del lavoro e della legalità. Segno che la partita sul subappalto è ancora aperta e foriera di un nuovo scontro, visto che né il Pd né i confederali intendono cedere». 

Da leggere il retroscena di Ilario Lombardo su La Stampa di Torino:

«Nella fatica quotidiana di gestire una maggioranza composta da avversari, litigiosa e molto mediatica, Mario Draghi ha già imparato a smussare gli spigoli del dibattito politico appena questo minaccia di infiammarsi. E cioè: ha imparato a concedere quando deve concedere. E così, ampiamente previsto e annunciato già da una cortese telefonata di una settimana fa, il faccia a faccia con il segretario del Pd Enrico Letta ha prodotto un chiarimento e una mediazione, offrendo all'opinione pubblica l'immagine di un'intesa che resta anche quando i due non la pensano allo stesso modo. «In piena sintonia - parole di Letta - e senza che ci sia alcuna freddezza». La giornata sembra sin dal mattino nascere sotto i migliori auspici per il Pd. E la duttilità politica di Draghi fa in modo di assecondare questa lettura. Mentre il ministro del Lavoro, il democratico Andrea Orlando e il collega alla Salute, leader di Leu, Roberto Speranza, incassano lo stralcio della norma sul massimo ribasso e si occupano di convincere il premier ad aprirsi a un maggiore coinvolgimento dei sindacati sul decreto Semplificazioni e sulla governance del Recovery fund, Letta arriva all'incontro con i compiti già fatti. Poco prima del suo ingresso a Palazzo Chigi fissa una segreteria di partito in cui si discute di fisco nel quadro di una riforma organica, esattamente come vuole il presidente del Consiglio, dentro la quale però il segretario conferma la presenza della tassa di successione sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro, destinata a fornire una dote di diecimila euro ai diciottenni. Una settimana fa Draghi aveva ruvidamente liquidato la proposta per due motivi: perché considerata improvvisata e parziale, e perché non ne avevano mai discusso prima. Ieri si sono chiariti in «un lungo e proficuo colloquio», lo definisce Letta, nel quale sono stati affrontati tanti nodi, dalla riforma della giustizia a quella degli appalti e delle semplificazioni. E nel quale Letta ha potuto articolare meglio la proposta. La tassa resta, ribadisce, ma «confluirà in un pacchetto di proposte fiscali completo che il Pd presenterà al governo».

LA GUERRA DEI METODI

È giusto decidere? E decidere da solo? Il nodo politico-psicologico del governo guidato da Mario Draghi è sempre quello: i partiti non sopportano lo stile del “Whatever it takes”. Francesco Verderami sul Corriere illustra il metodo Draghi:

«Il fatto che sia cambiato il quadro di comando non è per vendetta verso Conte e i contiani. Ipotecando di fatto il futuro, Draghi sta applicando lo spoil system con nomine dall'evidente profilo fiduciario che sono funzionali alla sua strategia. E a un cambio di fase, oltre che di passo. È successo con la Protezione civile, con l'Autorità delegata ai servizi, con il capo del Dis. Prosegue ora con la Cassa depositi e prestiti e con le Ferrovie, che non sono organismi neutri nella gestione del Pnrr. Non si fermerà. Continuerà a fare quanto aveva anticipato ai partiti, che sono sempre stati consultati e ai quali è stata comunque garantita una presenza proporzionale al loro peso nei cda delle aziende partecipate. Ma nulla più: i vertici li deciderà sempre il premier. Ecco l'altro elemento di rottura con i metodi della gestione passata: non c'è discussione in Consiglio dei ministri o nella cabina di regia; non c'è un tavolo di contrattazione sui nomi dei manager pubblici; non ci sono nemmeno accordi separati. Anche in questo caso non c'è una sfida al sistema politico, semmai si certifica il fatto che oggi il sistema politico non è nelle condizioni di negoziare. E ovviamente nei partiti il nervosismo è latente: i grillini si sentono umiliati, il Pd vede intaccato quel ruolo che si è sempre attribuito, la Lega e Forza Italia trattengono a stento la loro insofferenza. E in modo bipartisan criticano sottovoce i metodi di Draghi, lo ritengono afflitto dalla sindrome di Palazzo Chigi che causa deliri di onnipotenza. C'è chi avvisa che senza una regia politica l'incidente parlamentare possa essere sempre dietro l'angolo. E chi, molto più prosaicamente, minaccia di rovesciare la rottura del principio di solidarietà nelle votazioni a scrutinio segreto per l'elezione del prossimo capo dello Stato. Tutti in ogni caso promettono di rivalersi e le nomine Rai rappresenteranno il momento ideale per la rivincita, perché la Tv di Stato è da sempre terreno di caccia dei partiti, perché il suo presidente deve essere votato dalla Commissione parlamentare di vigilanza, perché storicamente nel cda i consiglieri indossano una maglietta. Si vedrà se la maggiore azienda culturale del Paese sarà ancora una volta sottomessa al destino che l'ha segnata. O se anche lì si noterà un segno di discontinuità». 

Maurizio Belpietro su La Verità vede così il “metodo Draghi”: per certi versi è la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.

«Le scelte non sono state oggetto di una discussione con i capi della maggioranza che appoggia il governo. Draghi ha deciso di sostituire gli amministratori della Cassa depositi e prestiti, delle Ferrovie e basta. Al posto di uomini nominati dai partiti con una rigorosa assegnazione di incarichi in base al manuale Cencelli della lottizzazione, ha messo persone di sua fiducia, funzionari in arrivo da Banca d'Italia o da alcune grandi aziende. Punto. In un colpo, ha liquidato i riti della Prima e della Seconda Repubblica, che prevedevano mesi di discussione tra le parti, per contrattare ogni strapuntino. A ogni giravolta di governo, infatti, la faccenda più complicata non era assegnare i posti di ministro e nemmeno quelli di sottosegretario. Il vero problema era distribuire le poltrone di sottogoverno, perché quelli sono gli incarichi che contano davvero. Sedersi ai vertici di una partecipata significa avere soldi da spendere, assunzioni da fare, potere vero da amministrare. Mentre se si finisce a fare il sottosegretario senza portafogli, al massimo ne è gratificato l'ego, ma nulla di più. Infatti, nel passato, ogni volta che si avvicinava la scadenza dei consiglieri di amministrazione delle partecipate, la lotta si faceva scivolosa. Nel passato, gli sgambetti per far cascare un candidato e agevolarne un altro erano all'ordine del giorno. E con l'avvento dei 5 stelle non era cambiato nulla, se non la corsa ad accreditarsi fra i seguaci di Grillo. Manager pubblici, professionisti, aspiranti amministratori dello Stato, tutti in fila per una poltroncina. Ma poi, ecco arrivare un tizio che non discute con nessuno. Altro che risiko delle nomine pubbliche, gran ballo dei posti a disposizione. Draghi fa da sé, consultandosi al massimo con il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che poi è una specie di suo segretario, nel senso che fa esattamente ciò che il presidente del Consiglio gli dice di fare. La tecnica è sempre la stessa. All'inizio il presidente del Consiglio fa finta di niente, anzi lascia intendere che ha intenzione di riconfermare gli incarichi. Poi all'improvviso arriva la rimozione. Uno dopo l'altro sta cadendo tutto il sistema di potere che Giuseppe Conte aveva schierato in due anni e mezzo a Palazzo Chigi. Via Arcuri, via Vecchione, via Fabrizio Palermo. A guardare le mosse di questi mesi, si capisce che il premier sta sistematicamente liquidando tutti coloro che in qualche modo gli ricordano il predecessore. Il metodo Draghi è semplice: senza strilli, senza polemiche, l'ex governatore fa secchi uno a uno i dieci piccoli indiani del precedente governo. Nel mirino, a dire il vero, non c'è solo Conte, che voleva farsi un partito, ma non riesce nemmeno a farsi leader. Nell'obbiettivo del premier c'è anche Massimo D'Alema, che da vero ispiratore del governo giallorosso, aveva piazzato le sue pedine. Ma Draghi, lo sminatore, una a una le sta rimuovendo tutte. Per certi versi, è la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra».

Certo le nomine di Draghi bruciano. Soprattutto a chi vede rimuovere coloro che aveva nominato su quelle poltrone. Luca De Carolis sul Fatto si chiede: ma i 5 Stelle che ci stanno a fare?

«Le nomine sono state l'ultimo schiaffone. L'ultima conferma che il Movimento nella maggioranza di quasi tutti fa il portatore di voti, e pochissimo altro. "Mario Draghi si è mosso come al solito, ha deciso lui e poi ci ha fatto sapere" ruminano dal M5S , dove la rimozione di Fabrizio Palermo dal vertice di Cdp è stata vissuta come un'umiliazione. Così adesso i big, come i soldati semplici, molti dei 5Stelle di governo, come quelli che nell'esecutivo non ci sono più, si pongono la stessa domanda: "Ma in questo governo cosa ci stiamo a fare?". Cosa ci restano a fare, i grillini, che non toccano palla e devono affannarsi per difendere almeno qualche bandiera, a partire dalla riforma della prescrizione? Certo, i 5Stelle sono inconsistenti anche e forse innanzitutto per colpe proprie, visto che il capo prossimo venturo Giuseppe Conte è bloccato da mesi dalla guerra sui dati con Rousseau e il reggente Vito Crimi è reduce da infinite proroghe nella carica, che ne hanno stinto peso e rappresentatività. E figurarsi il fondatore e Garante Beppe Grillo, auto-affondatosi con il video sul figlio indagato per stupro. "Almeno Enrico Letta può andare a parlare da Draghi, ma per conto del M5S chi sarebbe legittimato a farlo?" dicono nel Movimento che non sa dove andare e soprattutto perché. Alla Camera i capannelli tra parlamentari sembrano ormai sedute di auto-coscienza. Mentre in Senato la battaglia sui vitalizi ha almeno raggrumato un po' il gruppo, con Paola Taverna a fare da mastice. "Ma non è un caso che abbiano attaccato ora su quel tema - sibilano i grillini - Ci hanno visto deboli, e provano a schiantarci". È stato difficile, raccontano, anche convincere il Pd a firmare la mozione sul tema. Ma è tutto complicato. Anche reggere certe posizioni del ministro alla Transizione ecologica Stefano Cingolani, per cui Grillo si era battuto durante le consultazioni e che nei suoi post il M5S aveva indicato come il 5° ministro grillino. Ieri però Cingolani ha ribadito la sua autonomia, con una frase che è l'antitesi della linea del Movimento sull'ambiente: "L'Italia deve fare una riflessione sugli inceneritori". Notte fonda, insomma. E il Draghi che manda i testi di legge ai ministri all'ultimo minuto utile non aiuta. Anche se il premier deve aver fiutato che nel M5S il malessere trabocca. Non è un caso che la ministra della Giustizia Marta Cartabia abbia ricevuto la delegazione grillina, la prima rappresentanza di un partito vista separatamente. Perché ai piani alti sanno che sulla Giustizia il Movimento potrebbe veramente sollevarsi. Anche per questo Cartabia ha avuto un lungo e piuttosto franco colloquio innanzitutto con l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, con cui pare abbia ottimi rapporti. Perché è stato lui a spiegare con toni pacati e concetti chiari che sulla prescrizione il M5S potrebbe al massimo tollerare il cosiddetto Orlando: ossia il decorrere dei termini solo per gli assolti in primo o secondo grado, mentre lo stop alla prescrizione rimarrebbe per i condannati. Di più, il Movimento, non può proprio concedere. Anche perché sul tavolo ci sono altre misure pesanti da deglutire, come il divieto di proporre appello per le procure. E allora si spiega perché i grillini puntino a far scivolare più avanti possibile il nuovo processo penale. "Le priorità sono la riforma del processo civile e del Csm", ripetono da giorni Luigi Di Maio e gli altri maggiorenti. E proprio Di Maio, raccontano, è "preoccupato" dalla situazione interna al Movimento. "Sappiate che dopo il governo Draghi c'è solo il voto" ha ricordato in alcuni colloqui. Sottotesto: in queste condizioni il M5S sarebbe pronto?».

IL CENTRO DESTRA HA UN PROBLEMA DI “CORAGGIO”

I guai del centro destra: non ci sono ancora idee chiare sulle candidature per le amministrative. Ma soprattutto un piccolo terremoto è la nascita del raggruppamento di Brugnaro “Coraggio Italia”, alleato con il movimento di Toti. L’area “centrista” è in subbuglio. Amedeo La Mattina su La Stampa

«Matteo Salvini prima convoca i leader del centrodestra per discutere le candidature alle comunali, poi rinvia il vertice alla prossima settimana. I nomi ancora non ci sono, i sondaggi su alcune personalità papabili per Roma non sono arrivati. Ad essere sondati in queste ore sono l’avvocato Enrico Michetti, diventato popolare con il suo programma su Radio Radio, e il magistrato Simonetta Matone. Tutti aspettavano il leader della Lega confermasse per Milano il nome di Annarosa Racca, presidente di Federfarma Lombardia, o che tirasse fuori un nuovo nome a sorpresa. Salvini non aveva alcuna novità da comunicare per il semplice fatto che non ha avuto l’ok dalle persone sentite. «Ci sono alcuni dati che mancano, alcuni sondaggi che mancano e alcune frizioni all'interno, che non riguardano me - spiega l’ex ministro dell’Interno - ma ci rivediamo la settimana prossima. Penso che siamo a buon punto». Le frizioni riguardano l’area centrista del centrodestra che è esplosa dopo la nascita del nuovo gruppo alla Camera di Coraggio Italia, lanciato ieri da Luigi Brugnaro insieme a Giovanni Toti. Antonio Tajani si è rifiutato di sedersi attorno al tavolo con i «traditori» che gli hanno sfilato in un solo colpo 11 deputati che valgono mezzo milione di euro. Non poco in tempi d’austerità dopo il taglio al finanziamento pubblico. Il coordinatore di Fi è stato durissimo: non parteciperà ad alcun vertice con chi ha promosso «un'iniziativa fondata sul trasformismo e sul cambio di casacca di parlamentari. È gente che pensava di non essere eletta. Auguri, noi andiamo avanti per la nostra strada, non c'è nessun problema». Poi i veleni, le ricostruzioni. A Toti e Brugnaro, in tempi diversi, Berlusconi aveva chiesto di prendere in mano il partito e rilanciarlo ma poi tutto venne bloccato dai veti interni. È finita che sono stati emarginati (con Toti anche Mara Carfagna) ed è nato il movimento del governatore ligure, Cambiamo, che aveva unito le sue forze con Idea di Gaetano Quagliarello e Paolo Romani, tutti ex esponenti di primo piano di Forza Italia. Adesso Coraggio Italia, che già nel nome vuole fare concorrenza a Forza Italia e prosciugarla pezzo dopo pezzo. Toti è convinto che presto al Senato i 7 di Coraggio Italia diventeranno 10, il numero necessario per un gruppo autonomo. Alla Camera ieri erano già in 24 a formare la pattuglia. Il capogruppo è Marco Marin, ex coordinatore del Veneto di Fi. Poi c’è l’ex coordinatore toscano Mugnai e l’ex governatore della Liguria Biasotti. Raccontano che Berlusconi abbia provato a dissuaderli a lasciare Fi, facendo presente il rischio di indebolire il governo Draghi. Poi, ai suoi avrebbe detto «ma dove vanno questi con Brugnaro? Quelli che se ne sono andati via sono scomparsi politicamente». I ribelli però pensano che il partito abbia esaurito da tempo la spinta propulsiva, che sia a fine corsa anche a causa del disinteresse del Cavaliere non in condizioni fisiche e di salute a recuperare i milioni di voti persi. «Ringrazio il presidente Berlusconi per tutto che ha fatto - dice senza mezzi termini Brugnaro - ma ora dobbiamo andare avanti, è un altro tempo». Ma ora bisogna convincere Tajani a sedersi insieme a Toti. Cosa che ha fatto finora anche dopo che il governatore aveva sfilato una ventina di parlamentari tra Camera e Senato al suo vecchio partito. «Coraggio Italia - promette Toti - parteciperà al prossimo vertice, nessuno può pretendere di escludere un pezzo dell'elettorato moderato in virtù di quarti di nobiltà inesistenti. Qualcuno vuole continuare a giocare al “meno siamo, meglio siamo”. Nessuno ha la primogenitura dell’area moderata».

VACCINI PER L’AFRICA, ANCORA SU WUHAN

Avvenire intervista don Dante Carraro della ong Cuamm che ha lanciato ieri una raccolta fondi per la vaccinazione delle popolazioni africane.

«Fare in modo che le dosi di vaccino, già scarsissime per il Sud del mondo, si trasformino in una effettiva vaccinazione, raggiungendo anche «l'ultimo miglio», l'ultimo villaggio, e non solo le aree urbane più attrezzate. (…) Si sta muovendo Medici con l'Africa Cuamm, Ong in prima linea sui fronti caldi della sanità con 23 ospedali in diversi Paesi africani. L'organizzazione ha lanciato ieri «Un vaccino per noi», una cruciale raccolta fondi che punta a contribuire a un piano vaccinale per l'Africa. Perché il continente nero, una volta vaccinati tutti gli altri, non resti il continente del Covid. «Io dico sempre che ci sono due gambe su cui lavorare - spiega ad Avvenire don Dante Carraro, direttore del Cuamm -. La prima è una battaglia che riguarda la politica internazionale e i grandi interessi legati ai brevetti dei vaccini, un aspetto sul quale il Papa è stato tra i primi a esprimersi, in modo da aumentarne la produzione, magari riuscendoci anche in Africa. È un investimento a lunga gittata per il continente africano, ma che va affrontato. La seconda sfida è quella della distribuzione: far sì cioè che si possano raggiungere anche i posti più lontani, lavorando con le comunità e con la formazione degli operatori locali». L'obiettivo del Cuamm è di raccogliere 2,5 milioni di euro, con offerte che partono dall'acquisto di una dose di vaccino da 10 euro, per immunizzare 5 milioni di persone in sei Paesi: Angola, Etiopia, Mozambico, Sierra Leone, Sud Sudan, Uganda. Al lancio della raccolta, con il rettore dell'Università degli Studi di Milano Elio Franzini, sono intervenuti in una tavola rotonda gli esperti Pasquale Ferrante, Massimo Galli, Alberto Mantovani, Donatella Taramelli e Mario Raviglione. «Non dimentichiamo - aggiunge don Dante Carraro - che questa campagna è importante per le popolazioni africane ma anche per la nostra sicurezza. Con le vaccinazioni interrompiamo il ciclo replicativo del virus e la possibilità che si sviluppino nuove varianti». (…) In Sierra Leone don Dante ha assistito alle prime vaccinazioni tenutesi in una zona rurale per le categorie prioritarie: operatori sanitari, insegnanti e militari. «Dopo di loro occorrerà mobilitare le comunità. Ed è più facile che le persone si fidino se al loro fianco è già stato affrontato un cammino di cooperazione, che necessita di tempi lunghi». «Bisogna spiegare anche gli adulti perché è cruciale vaccinarsi, senza sostituirsi ai sistemi sanitari locali, ma accostandosi a questi perché funzionino meglio, riempiendo i loro vuoti. Tutti insieme, possiamo farcela».

Che cosa sta succedendo sul laboratorio virologico di Wuhan, livello 4? Dissolta la nube cospirazionista di Trump che aveva avvelenato la scena, si può forse arrivare ad una versione dei fatti più realistica a proposito dell’origine della pandemia. Viviana Mazza intervista sul Corriere un esperto, Jamie Metzl, che ha lavorato con Clinton come direttore degli affari umanitari.  

«Lei, democratico, ha assunto sulle origini del virus la stessa posizione di Trump. Si può separare scienza e politica? «Sono un democratico, forte critico di Trump, ma la scienza mostra che Pechino mentiva nel dire che il virus provenisse dal mercato di Wuhan. Trump criticava l'Oms e la Cina per compensare il fallimento catastrofico della sua Amministrazione nella crisi, ma ciò non significa che non vada verificata la veridicità di tutte le affermazioni. Fui criticato da altri democratici e da alcuni importanti scienziati che scrissero che l'ipotesi più probabile era l'origine naturale e accusarono chiunque sostenesse il contrario di fomentare teorie complottiste. Ora il mondo si sta svegliando. Dall'anno scorso faccio parte di un gruppo informale di una ventina di esperti. Ci riuniamo regolarmente per cercare la verità. Abbiamo pubblicato tre lettere aperte e crediamo di aver contribuito a cambiare il dibattito mondiale». Lei attribuisce all'origine in laboratorio una probabilità dell'85%. «Non possiamo escludere la possibilità di un'origine in natura, è accaduto anche questo in epidemie passate, oltre che incidenti di laboratorio. Stavolta quest' ultima è l'ipotesi più valida perché sappiamo che il precursore del virus Sars-CoV-2 è stato trovato nei "pipistrelli ferro di cavallo", che non si trovano a Wuhan, ma lì si trova l'unico istituto cinese di virologia di livello 4, con la più ampia collezione di ricerche sui coronavirus dei pipistrelli; e perché il virus si è manifestato già perfettamente adattato alle cellule umane: in quell'istituto si tenevano ricerche aggressive, con il fine di arrivare a cure e vaccini. Ritengo altamente improbabile che lavorassero ad un'arma biologica». E se la Cina rifiuta di collaborare? «L'Assemblea mondiale della sanità è in corso, si chiuderà lunedì. È importante che i governi ordinino un'inchiesta onnicomprensiva sulle origini della pandemia: idealmente, con la collaborazione della Cina. Se la Cina la blocca, non avremo altra scelta che condurre un'indagine parallela, riunendo governi ed esperti mondiali. Molte delle informazioni apparse ora sui giornali sono state reperite da investigatori del web che fanno parte del nostro gruppo, e ci sono fonti scientifiche e di intelligence ancora non emerse. Se non troviamo la verità e non affrontiamo le vulnerabilità, correremo rischi non necessari per future pandemie».

HAMAS E ISRAELE. GROSSMAN E IL SOGNO DELLA PACE

Interessante commento sul Manifesto di Alberto Negri che nota come per l’informazione italiana non ci sia più interesse per la situazione a Gaza e a Gerusalemme. E dà notizia di un’iniziativa dell’Onu.

«Se non fosse per pochi inviati, per quel che riguarda Gaza sui media italiani sarebbe calato il silenzio più totale. L'atteggiamento nostrano è questo: "Se ne riparlerà alla prossima eruzione", come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. Ma le bombe e le loro vittime non sono fenomeni naturali: sono crimini di guerra. Ce lo dice Michelle Bachelet, Alto commissario Onu per i Diritti umani, secondo la quale i raid israeliani su Gaza possono costituire dei crimini di guerra e che pure Hamas ha violato le leggi umanitarie internazionali lanciando razzi su Israele. Se c'è un inferno sulla terra è quello che ha investito le vite dei bambini palestinesi a Gaza, dice la signora Bachelet: i morti - ma il bilancio è ancora assai provvisorio - sono stati 270 tra la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, di questi 68 sono bambini. Nonostante le dichiarazioni israeliane, non c'è nessuna prova che gli edifici sgretolati dai missili e delle bombe dello Stato ebraico ospitassero gruppi armati o fossero usati per scopi militari. In poche parole, secondo l'Onu, il governo israeliano del premier Netanyahu ha giustificato con delle menzogne la morte di centinaia di civili che nulla avevano a che fare con il conflitto. Per questo al consiglio Onu dei diritti umani è partita una richiesta, appoggiata dagli Stati musulmani, di insediare una commissione d'inchiesta per investigare su possibili crimini di guerra e stabilire le responsabilità. Una cosa è certa: le bombe "intelligenti" israeliane non esistono, e tanto meno a Gaza. Ci sono certamente negli arsenali e si possono usare con estrema precisione ma non è questo il caso: missili e ordigni sono stati puntati e scaricati consapevolmente sui civili perché questa è la guerra che combatte oggi lo Stato ebraico, un conflitto dai contorni terroristici, speculare a quello di Hamas. L'obiettivo è soltanto in parte colpire i bersagli pregiati, come i capi di Hamas o del Jihad, oppure i famosi tunnel. In realtà, come hanno ammesso le stesse fonti delle forze israeliane (Idf) riportate da Haaretz nei giorni scorsi, a un certo punto "i bersagli militari erano finiti"».

David Grossman prende le mosse dalla profezia di Isaia, quella visione della pace in cui l’umanità vede trasformarsi “le spade in vomeri e le lanci in falci”. Lo scrittore su Repubblica racconta la sua speranza. Titolo: Sogno una pace che cambi le coscienze.

«Israele si trova in uno stato di guerra da più di un secolo, principalmente con il popolo palestinese, e ormai da cinquantaquattro anni questo popolo è sotto la sua dominazione. Apparentemente non c’è alcuna soluzione a questa situazione distorta e nessuno ne sta cercando una. Da più di un secolo i membri di entrambi i popoli si svegliano ogni mattina con l’annuncio dell’ennesimo omicidio o atto di distruzione, di vendetta o di odio avvenuto durante la notte. (…)  Io ho 67 anni e in tutta la mia vita non ho conosciuto un solo giorno di pace. Di pace vera, radicata nei cuori, che cambi la coscienza. Sì, gli accordi firmati da Israele con l’Egitto e la Giordania (e ultimamente con gli Emirati Arabi Uniti) sono importantissimi ma, in fin dei conti, sono stati stipulati tra governi, tra leader, e non si traducono in una pace vera e “naturale” tra popoli. Non creano una situazione in cui le lance si trasformino in falci. I cittadini di questo conflitto non hanno nemmeno mai conosciuto un tipo di pace che esaudisca desideri molto più modesti, che consenta loro di non pensare affatto alla pace ma di abbandonarvisi in maniera semplice e naturale. Una pace che permetta loro di fare respiri profondi, a pieni polmoni, senza avvertire in fondo a ogni respiro una punta di paura, di dolore, di lutto. Nella realtà delle nostre vite la paura è sempre in agguato. Abbiamo sempre una spada che pende sopra la nostra testa. E anche se di tanto in tanto affiorano momenti di tranquillità e di calma, questi vengono percepiti come una pericolosa illusione, una cospirazione tramata nell’oscurità. Quindi, se allentassimo anche di poco la vigilanza, la tensione, se ci mostrassimo distratti, se concedessimo fiducia ai nostri vicini-nemici, questa illusione potrebbe esplodere all’improvviso e, come al solito, ci ritroveremmo nella realtà della guerra. (…) Un popolo che ha vissuto per innumerevoli anni in uno stato di guerra è condannato a definire se stesso e la situazione in cui si trova in termini bellici, violenti, di sopravvivenza. Un popolo simile, che non conosce una realtà che non sia stata plasmata dalla guerra, farà fatica a credere che esiste la possibilità che non ci siano conflitti. Nell’anno 2000, a Camp David, si tennero colloqui di pace tra israeliani e palestinesi nel tentativo di raggiungere un accordo. I colloqui fallirono. La diffidenza reciproca fu più forte della volontà di pace e innescò una brutale spirale di violenze. A quel tempo, nei giorni della seconda Intifada, molti israeliani si sentirono ingannati, traditi, e non solo dai palestinesi. Vedevano se stessi come traditori, avevano l’impressione di aver tradito la loro impietosa ed eloquente esperienza storica, accumulata nel corso di generazioni, di guerre, di sofferenze. Un’esperienza che avrebbe dovuto metterli in guardia dal non lasciarsi tentare da “illusioni di pace”. E invece era successo, si erano lasciati “tentare”, avevano tradito il loro istinto guerriero di eterni sopravvissuti, l’amara convinzione che noi ebrei siamo un popolo condannato a vivere e a morire con la spada in mano, per l’eternità. È possibile che israeliani e palestinesi abbiano mai una vita diversa, sicura e pacifica nella loro terra? Che possano godere di rapporti di buon vicinato? Potrà mai avvenire dentro di noi l’agognato cambiamento, la metamorfosi vaticinata dal profeta Isaia? Come ho già accennato di recente sono stati firmati accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e tra Israele e Marocco. Questi sono sviluppi importantissimi e positivi. Ma, in fin dei conti, questi accordi hanno sancito una pace tra ricchi mentre quella più vitale, tra israeliani e palestinesi, non è stata ancora firmata. Una pace tra popoli che cambi la coscienza, l’esistenza, la percezione del futuro e l’approccio alla vita, in tutti i suoi substrati. Una pace che al giorno d’oggi non ha molti sostenitori e quasi nemmeno “agenti” che la promuovano. Gli agenti presenti nella nostra regione fomentano infatti più che altro il sospetto, la violenza e la disperazione. Il profeta Isaia visse in un’epoca di guerre tra i regni di Giuda, di Egitto e di Assiria. Se oggi resuscitasse rimarrebbe sicuramente sbalordito nel vedere che i guerrieri sono cambiati ma la guerra c’è sempre. L’auspicata trasformazione da lui pronosticata non è ancora avvenuta».

I VESCOVI HANNO PREGATO PER EITAN

Il cardinal Bassetti ha incontrato i giornalisti ai margini dei lavori dell’assemblea annuale dei Vescovi. Il resoconto di Mimmo Muolo su Avvenire:

««Il nostro cammino sinodale vuole essere una mamma che accompagna la gente», con la luce del Vangelo. Con questa premessa non è strano dunque che domande sul cammino sinodale appena iniziato e questioni di stretta attualità politico-sociale si intreccino nell'incontro del porporato con i giornalisti. Si fa fatica ad arrivare a fine mese? Ecco il problema del lavoro, sul quale Bassetti chiosa: «Il lavoro è vocazione, la vocazione diventa missione. La missione diventa diritto. L'attività umana dà dignità della persona. Se a un giovane di 30 anni togli la possibilità di lavorare, lo privi anche della possibilità di farsi una famiglia e dunque della dignità». Le morti sul lavoro poi «sono una gravissima ingiustizia, proprio perché sono diminuiti in questo periodo, a causa del Covid, i posti di lavoro e sono aumentati gli incidenti. Da qualche parte ci saranno delle responsabilità, se non viene garantita la vita delle persone». Altra cosa, anche se con qualche collegamento con la questione lavoro, è la tragedia del Mottarone. Se si accertassero responsabilità precise, ricorda il cardinale, «non saremmo più nell'ambito dell'incidente, ma del crimine». In ogni caso deve essere garantita a tutti la sicurezza e ci sono i mezzi per farlo». I vescovi, dice Bassetti, hanno pregato per la guarigione del piccolo Eitan. Un problema di primaria urgenza è la denatalità. «Il sintomo - secondo il cardinale - di una paura del futuro diffusa tra la gente. Occorre aiutare le giovani famiglie a programmare più serenamente il proprio futuro. Ne abbiamo parlato anche con il presidente Draghi. Dobbiamo creare tutte le condizioni perché la gente viva in un clima favorevole a generare figli». Da questo punto di vista «l'assegno unico è una buona soluzione». Ma non bisogna sempre ripartire da zero. «L'Europa è più avanti di noi nell'attenzione alle famiglie. L'Italia deve adeguarsi a quello che si fa da altre parti, ad esempio in Francia». Quanto poi al dibattito sullo ius soli, il cardinale (a nome personale) afferma di preferire lo ius culturae. Idee chiare anche sul ddl Zan. «È giusto che in Parlamento si discuta. Noi siamo convinti che sull'omofobia ci fossero già delle leggi sufficienti e dunque che non ci fosse bisogno di questo decreto. Ma siccome chi deve legiferare è il Parlamento, auspichiamo che ci sia un confronto sincero e sereno». In altri termini «viene sempre prima la persona», dunque no alla violenza. Tuttavia va trovata «una soluzione priva di ambiguità e di forzature legislative, che coniughi il rifiuto di ogni discriminazione con la libertà di espressione».

ADDIO A CARLA FRACCI, STELLA DELLA SCALA

Stamattina camera ardente nel foyer della Scala di Milano per Carla Fracci, scomparsa ieri. La più famosa e popolare icona della danza classica dal dopo guerra in Italia. Maurizio Porro ne tratteggia un ritratto affettuoso sul Corriere della Sera:

«La Fracci, Carla, Carlina o Fraccina, come la chiamarono tutti, è stata un simbolo della Scala, tra le figlie speciali di Milano la cui fama si è sparsa per il mondo che l'ha accolta nei suoi migliori teatri. È morta ieri mattina a Milano, da anni lottava contro un tumore. Nel foyer del Piermarini, oggi dalle 12 alle 18 sarà allestita la camera ardente. « Prendee anca questa questa, la ghà un bel faccin » disse nel 1946 la direttrice della scuola di danza scaligera, rendendo felice Fracci Luigi, il tranviere della linea 1 che ogni giorno passava davanti alla Scala. Sperava per la figlia Carla, nata il 20 agosto 1936, che riesce a far entrare nella scuola di ballo, dove inizia la vera fatica. Ore, giorni, anni di dedizione assoluta. Tanta sbarra, ma anche un po' di aritmetica e latino e alcune apparizioni indimenticabili, come Margot Fonteyn, che diventa il suo idolo. Diplomata nel '54, l'anno dopo è chiamata a far parte del corpo di ballo, danza «Le spectre de la rose» con Mario Pistoni, mentre la Callas debutta in «Sonnambula». E, come accade nelle migliori occasioni avviene il colpo di fortuna. Alla Scala è in scena «Cenerentola» ma Violette Verdy, étoile dell'Opera di Parigi, rinuncia ad alcune recite e Carla Fracci la sostituisce trionfando il 31 dicembre '55. E poco dopo Massine le affida «Mario e il mago» di Mannino-Visconti. Inizia così una luminosissima carriera che la vede al fianco dei migliori talenti: nel '57 al Festival di Nervi, nel '58 diventa prima ballerina della Scala, incontra Cranko il coreografo che la sceglie per il suo «Romeo e Giulietta» nel verde dell'Isola di San Giorgio a Venezia. La prima volta di Giselle è invece a Londra nel '59, con repliche in tutto il mondo. Eroina del balletto, la Carlina non rimpiange più, come dicevano, i prati della periferia milanese alla Testori, ma insegue i fasti della divina, nel luccichio dorato di teatri meravigliosi dal cui cielo senza nuvole piovono fiori. Balla in aeree serate, con Nureyev, partner d'eccezione, Miskovich, Vassiliev. La sua immagine è di firmata, estrema semplicità: pizzi, veli, abiti, scarpe e calze bianchi, capelli raccolti da preziosi pettinini e collo ornato da collane ambrate e di corallo. Intanto debutta anche la sua vita privata: l'11 luglio 1964 a Firenze sposa Beppe Menegatti, aiuto regista di Visconti e sei anni dopo ecco Francesco. La Fracci apre la porta al mito dei veli che la rendono invisibile e impalpabile, «più leggera dell'aria e più lieve di un sospiro». La collaborazione con l'American Ballet Theatre è del '74, mentre diventerà direttrice del corpo di ballo di Napoli, dell'Arena di Verona, della Scala, poi Roma e ancora la Scala, sempre con contorno di polemiche. Le sfide della Fracci sono molte, in collaborazione col marito che le fa da global manager, intuendone e sfruttandone ogni possibilità: nel 2002 la Carlina diventa Amleto all'Opera di Roma in un ensemble di soli uomini. La carriera di una grande étoile è la somma di indimenticabili serate d'onore in luoghi privilegiati del mondo, un lungo filo di equilibrio sotto le luci dei riflettori. Carla è ufficialmente un mito, nato semplicemente, dalla fatica quotidiana. Il poeta Montale commentava: «Carla Fracci è Giulietta Carla, eterna fanciulla danzante».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana   https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. E non perdetevi la Versione del Venerdì.

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"Colpa dei mancati ristori"

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