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Comizi di guerra

alessandrobanfi.substack.com

Comizi di guerra

Putin a Mosca sospende il trattato nucleare. Biden a Varsavia raduna l'Occidente. L'Europa non c'è. Meloni a Kiev è solidale, Zelensky attacca il Cav. Zuppi dice: la pace è ancora possibile

Alessandro Banfi
Feb 22
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Comizi di guerra

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Lunedì sera, al Teatro Oscar a Milano, nella bella serata organizzata da Vita. it, ad un certo punto è arrivato un messaggio video di Alessandro Bergonzoni. Lo trovate qui nell’articolo di resoconto. “La parola pace è percepita più stancamente di quella di guerra”, ha detto fra l’altro l’attore. Mentre “il mestiere della guerra è riconosciuto, accettato e valorizzato”. Ieri, anti vigilia dell’anniversario dell’invasione russa, è stata proprio una giornata di guerra. Hanno parlato il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin e il presidente Usa Joe Biden, che gli ha risposto da Varsavia. Il capo del Cremlino ha annunciato la sospensione del trattato bilaterale sul disarmo fra Mosca e Washington “New Start”, che regola l’uso e la proliferazione delle armi nucleari. Il Presidente americano ha annunciato nuove sanzioni economiche e nuovo sostegno militare: “Gli autocrati capiscono solo una parola: no”, ha detto. Nella coreografia polacca, che ha fatto da contorno a Biden, ha notato giustamente un analista del Mean, non c’è stato il minimo riferimento all’Europa. Ed è così nella sostanza: ieri la guerra è apparsa sempre più come un terribile scontro fra Nato e Russia. Come titolo stamattina Il Corriere della Sera,  è stata una“sfida diretta”.  In cui, come scrive Paolo Valentino nell’editoriale, si sono manifestati “due uomini, due discorsi, due sistemi tra loro inconciliabili”. Uno scenario di scontro Est-Ovest dove l’Europa dei popoli e delle culture non c’è più. Il capo dei Vescovi italiani il cardinal Matteo Zuppi in una lectio magistralis all’Università di Roma tre ha giustamente detto: «Sono rimasto colpito dal fatto che a Bruxelles una risoluzione che sollecitava l’apertura di un negoziato sia stata bocciata a larga maggioranza. Non è questa l’Europa che ha vinto il Nobel per il suo “mai più”».

Il destino ha voluto che Giorgia Meloni visitasse Kiev, proprio nel giorno di completa marginalizzazione del nostro continente e della sua iniziativa politico-diplomatica. Non solo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur incassando fiducia e sostegno militare dell’Italia, ha colto l’occasione della conferenza stampa congiunta con la nostra premier, per affrontare frontalmente il suo alleato di governo Silvio Berlusconi. Creando imbarazzo e criticità. All’incontro stampa di Meloni e Zelensky non hanno avuto il permesso di partecipare Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, i due reporter italiani accusati ingiustamente di intelligenza col nemico. Sono in attesa da giorni di un colloquio con i servizi segreti dell’Ucraina. La solidarietà dell’Italia è comunque arrivata a Kiev, ma le criticità restano tutte.

Intanto a Mosca è arrivato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. È a lui che guardano i commentatori perché secondo fonti diplomatiche occidentali avrebbe da proporre al Cremlino un piano di pace in dodici punti che potrebbe portare quantomeno ad una tregua. Ne dovrebbe parlare nelle prossime ore con l’omologo russo Sergej Lavrov. Guido Santevecchi sul Corriere ipotizza alcuni punti di questo “piano di pace”. Vedremo nelle prossime ore.

In Italia si discute ancora tanto di Superbonus edilizio. Perché il decreto potrebbe subire modifiche, anche se i costi di qualsiasi manovra paiono sempre molto alti per le casse dello Stato o per il sistema bancario. Nel Pd, avvicinandosi le primarie di domenica, si pensa ad un tandem fra i due sfidanti Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, soprattutto per scongiurare altre divisioni future. Ne ha parlato per primo il governatore pugliese Michele Emiliano e l’idea sta raccogliendo consensi.  

Oggi inizia la Quaresima col mercoledì delle Ceneri (non per chi segue il rito ambrosiano, che festeggia il Carnevale fino a domenica). Ce lo ricorda Maurizio Belpietro sulla Verità, che attacca frontalmente L’Osservatore Romano. La colpa del giornale del Papa sarebbe quella di avere proposto un digiuno anche dai consumi energetici, un’astinenza “troppo green”. Il digiuno dalla lettura dei giornali è invece, ahimè, in atto da tempo. E non solo in Quaresima.  

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LA (DOPPIA) FOTO DEL GIORNO

Due immagini oggi. La prima ritrae il presidente Usa Joe Biden, che arriva tra migliaia di persone, al Castello di Varsavia. Nessun simbolo europeo nella coreografia che ha fatto da cornice al suo discorso.

Foto: ANSA/AFP

La seconda immortala il presidente della Federazione russa Vladimir Putin mentre parla all’Assemblea federale: ha annunciato la sospensione del trattato bilaterale con Washington sulle armi nucleari.

Foto: ANSA/EPA

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Un Ok Corral, un duello, una gara a due. Il Corriere della Sera non usa mezzi termini in uno scontro che oscura anche la visita di Meloni a Kiev: Putin-Biden, sfida diretta. La Repubblica fa la stessa scelta: Putin-Biden, parole armate. Il Quotidiano Nazionale sottolinea il discorso di Mosca: Putin minaccia l’escalation nucleare. Da parte sua il Manifesto trova il gioco di parole giusto: A testate. Gli altri titoli puntano invece sull’incontro di Kiev fra la nostra premier e il presidente ucraino. La Stampa sottolinea: Zelensky, schiaffo a Berlusconi. Il Fatto va sullo stesso concetto: Zelensky umilia Meloni insultando Berlusconi. O come dice il Domani: Zelensky gela la visita di Meloni attaccando l’alleato Berlusconi. Per Il Giornale infatti: Zelensky sbaglia bersaglio. Avvenire è critico ma in un’altra chiave: Meloni porta altre armi. Il Messaggero sottolinea la possibilità di nuovi cantieri: «La ricostruzione dopo gli orrori». Libero fa finta di niente e si rifugia nel patriottismo meloniano: L’Italia non scappa. Il Sole 24 Ore è ancora sul 110 %: Superbonus e villette: addio anticipato. Governo, compensazioni in due tempi. Mentre La Verità critica l’Osservatore: Il giornale del Papa fa verde la Quaresima.

PARLA PUTIN. IL COLPO DI SCENA È SUL TRATTATO NEW START

Il presidente russo Vladimir Putin durante il discorso all'Assemblea federale a Mosca ha raccolto 53 applausi e 4 ovazioni in piedi. Ma secondo l’analisi di Anna Zafesova per La Stampa, le uniche concessioni ai sovranisti sono stati gli attacchi al gender. La minaccia nucleare finale prelude ad una trattativa?

«Durante il discorso di Vladimir Putin al parlamento la platea di ministri, deputati e generali lo ha interrotto con un applauso 53 volte, di cui quattro volte con una ovazione in piedi. Non tantissimo, per un discorso così atteso e così temuto, anche perché a lungo rinviato: nonostante fosse un preciso obbligo costituzionale del presidente russo, il suo appello alle camere riunite nel 2022 non è stato pronunciato. Anche la data scelta, due giorni prima della festa delle forze armate e tre giorni prima dell'anniversario dell'invasione russa dell'Ucraina, faceva pensare all'imminente annuncio di una strategia nuova, di una svolta cruciale nella guerra. Alla vigilia, i cremlinologi russi facevano scommesse su una serie di scenari uno più inquietante dell'altro: una nuova chiamata alle armi dei russi, la proclamazione della legge marziale, l'introduzione dell'economia di guerra o l'annuncio di una ennesima offensiva russa. Tra le ipotesi più gettonate c'era anche quella che Putin avrebbe promesso di annettere alla Russia la Bielorussia, l'Ossezia del Sud e l'Abkhazia (le ultime due sono territori della Georgia, sotto il controllo di Mosca dopo la guerra del 2008), per accontentare le aspettative imperialiste dei russi delusi dal fatto che l'Ucraina non sia ancora stata conquistata. E tutti erano concordi che avrebbe dato una linea chiara su quella che dopo un anno ormai è chiaramente non più una "operazione militare speciale", ma una guerra devastante. Nessuna di queste previsioni si è avverata. Per quasi due ore Putin ha ripetuto le ormai classiche accuse verso l'Occidente, in particolare gli Usa e la Nato, che avrebbero spinto l'Ucraina ad attaccare la Russia: «Sono stati loro ad aprire la guerra, noi usiamo la forza per ripristinare la pace». Come sempre, il presidente russo ha dedicato parecchio spazio a esporre la sua visione della storia, secondo la quale il progetto di staccare «le storiche terre russe» dell'Ucraina era nato «già nell'800 nell'impero Austro-Ungarico», e che «l'Occidente ha aperto le porte alla Germania nazista» sempre allo scopo di «distruggere la Russia». Putin si anche è dilungato sul «degrado e la depravazione» di un Occidente nel quale, almeno nel suo immaginario, «la pedofilia viene dichiarata normale», i bambini vengono «sottoposti a perversioni e sevizie», e mentre i sacerdoti «vengono costretti a celebrare i matrimoni omosessuali» le chiese europee stanno cercando «un dio gender-neutral», e altre rivelazioni più adatte a una pagina di cospirazionisti su Facebook che al leader di una delle potenze mondiali. La bomba, in senso letterale, è arrivata negli ultimi minuti del discorso, quando – dopo aver promesso aumenti di salario minimo, agevolazioni per le famiglie e un welfare speciale per i militari – il leader russo ha annunciato di sospendere il trattato New Start, l'ultimo chiodo sul quale era appeso il sistema di sicurezza strategica russo-americano dopo i colpi dati da Trump e Putin. Rinnovato in extremis pochi giorni prima della scadenza all'ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca, l'accordo prevede un tetto agli arsenali russo e americano di 1500 testate nucleari, e soprattutto controlli reciproci dei siti atomici. Controlli che Washington aveva già rivelato essere stati interrotti dai russi mesi fa, forse anche per impedire agli americani di stimare le reali potenzialità dell'arsenale del Cremlino. Putin ha anche minacciato di riprendere i test nucleari «se lo faranno gli Usa». Ma subito dopo il ministero degli Esteri russo ha chiarito che la sospensione del trattato è «totalmente reversibile» e che la Russia continuerà comunque a rispettare il tetto al suo arsenale nucleare almeno fino alla scadenza del documento nel 2026. In altre parole, è una minaccia – condannata subito da diversi governi e dall'Onu - che contiene un invito a negoziare, e si tratta anche di una minaccia piuttosto prudente, rispetto a quelle che normalmente lanciano i propagandisti russi. La decisione di Putin di non annunciare nuove iniziative militari potrebbe essere frutto della consapevolezza di non avere molte risorse – economiche, umane, politiche – a disposizione, ma potrebbe anche significare un passo indietro. I falchi non sembrano più di moda: ieri alla sontuosa cerimonia del discorso del presidente mancavano sia i generali Gerasimov e Surovikin, rispettivamente l'attuale e il precedente comandante dell'invasione in Ucraina, e soprattutto brillavano per la loro assenza il leader ceceno Ramzan Kadyrov e il capo del gruppo Wagner Evgheny Prigozhin. Quest'ultimo ha anche osato dichiarare al media di non aver guardato il discorso di Putin in televisione perché «impegnato nella zona dei combattimenti», dopo aver lanciato accuse violente al ministero della Difesa russo di non dare ai suoi mercenari le armi necessarie. Al Cremlino non sempra più l'ora dei falchi, e questo potrebbe essere dettato da scontri interni al regime come a condizionamenti esterni: ieri a Mosca è arrivato Wang Yi, il responsabile della politica estera del partito comunista cinese. È la prima visita di un alto funzionario di Pechino dopo l'inizio della guerra, e secondo il Wall Street Journal potrebbe essere finalizzata a preparare un viaggio a Mosca di Xi Jinping. Wang Yi avrebbe portato a Putin il piano di pace cinese di cui tanto si parla negli ultimi giorni, e ieri ha dichiarato che le relazioni russo-cinesi sono «solide come una roccia». Ma se Putin accettasse un piano di pace made in China, agli occhi del mondo – e dei suoi sostenitori – diventerebbe definitivamente un junior partner di Xi, e non più il leader della rivolta contro l'Occidente quale ha cercato di proporsi anche nel suo discorso di ieri».

A VARSAVIA BIDEN COMANDANTE IN CAPO DELL’OCCIDENTE

Joe Biden parla da Varsavia in diretta tv: «Difesi i nostri valori, le democrazie ora sono più forti». La promessa solenne è pronunciata fra i simboli e le bandierine Usa, polacche e ucraine: con Kiev finché servirà. L’Europa non c’è. Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera.

«È il giorno per riscuotere la posta, morale e politica, dell’impegno, che a molti era sembrata una scommessa rischiosa, che Joe Biden aveva preso solennemente il 26 marzo del 2022, nel Palazzo Reale di Varsavia. È il giorno anche del rilancio: «Gli Stati Uniti e i suoi alleati non cederanno alla stanchezza; l’Ucraina non sarà mai una vittoria per la Russia». Biden, ieri, è tornato nella capitale polacca dopo neanche un anno. La Polonia è diventata l’avanguardia dello schieramento pro Zelensky. Il presidente Andrzej Duda ha rivendicato il ruolo di alleato chiave, cresciuto a dismisura nell’ultimo anno, «grazie alla determinazione di Joe Biden». Il leader americano gliene ha dato atto: i polacchi hanno accolto più di un milione di profughi e sono tra i più assidui fornitori di armi per Volodymyr Zelensky. Biden ha parlato nei Giardini del Castello Reale, davanti a un migliaio di polacchi intabarrati e in diretta tv. Il presidente degli Stati Uniti comincia così: «In quest’anno l’Europa è stata messa alla prova; così come l’America, la Nato, tutte le democrazie: la domanda era tanto semplice quanto profonda. Come avremmo reagito, ci saremmo voltati dall’altra parte o saremmo stati forti?». Abbiamo già sentito la risposta diverse volte nell’ultima settimana: «Siamo stati forti, uniti e abbiamo difeso la sovranità, l’indipendenza dell’Ucraina. Ci siamo mobilitati per proteggere i nostri principi e la parola più dolce di tutte: la libertà». Biden si è presentato alle 17.30 sulla passerella montata in uno spiazzo erboso, con qualche striscia di fango, illuminato da fasci di luce azzurra. Sullo sfondo il profilo elegante dell’edificio. Molti polacchi si sono messi in fila per ore. Il presidente americano percorre la passarella sulle note di «You give me freedom», una canzone orecchiabile di Kygo e Zak Abel che però racconta di una storia d’amore. E dopo un discorso di venti minuti, Biden va incontro a un gruppo di bambini che agitano le bandierine della Polonia, dell’Ucraina e degli Stati Uniti. Li accoglie in un abbraccio, si inginocchia e posa con loro per le foto ricordo. In una serata carica di simboli e di proclami, questi due momenti sembrano studiati per cogliere la sostanza del primo anniversario di guerra. È Biden, il presidente degli Stati Uniti, il garante ultimo della libertà dei popoli europei qui e ora, ma anche per il futuro. Troppa retorica? Forse. Ma era difficile attendersi qualcosa di asettico, di analitico in una giornata come questa. Biden è appena tornato dal blitz a Kiev. Ha incontrato Zelensky e ora lo esalta, insieme con «la coraggiosa popolazione dell’Ucraina». Putin ha sbagliato tutti i calcoli: «Le democrazie adesso sono più forti; le autocrazie più deboli. La Nato si è allargata alla Finlandia, alla Svezia ed è più forte che mai. Nemmeno il ricatto delle forniture di gas e di petrolio sono bastate per dividere gli europei». Biden riconosce, implicitamente, che una certa «stanchezza» attraversa le opinioni pubbliche occidentali. Ma rilancia l’impegno: il sostegno all’Ucraina continuerà fino a quando sarà necessario, perché non ci sono alternative, perché «la posta in gioco» è cruciale. «Nei prossimi cinque anni saremo davanti a scelte che definiranno ciò che sarà il mondo nei decenni a venire». Ma come si andrà avanti? Biden annuncia solo che «questa settimana verranno varate altre sanzioni contro la Russia». Nello stesso tempo gli Usa cercheranno di alimentare l’isolamento internazionale di Mosca. Giovedì o venerdì prossimi l’Assemblea generale dell’Onu sarà chiamata a votare il «piano di pace» messo a punto da Zelensky. L’iniziativa era stata accolta con qualche perplessità dai diplomatici Usa. Biden, però, prova a spingere anche su questo fronte: «Negli ultimi mesi 143 Paesi hanno condannato l’invasione russa». Nel discorso non c’è traccia di un possibile negoziato. A meno che Putin non decida di far tacere le armi e di ritirarsi dal territorio ucraino. Difficile immaginarlo, dopo aver ascoltato, ieri mattina, il numero uno del Cremlino inneggiare alla «vittoria sicura». La prospettiva più probabile è quella di un conflitto ancora lungo: «Bisogna essere onesti e chiari. La difesa della libertà non è un’opera che dura un giorno o un anno. È sempre difficile. La battaglia degli ucraini continuerà a essere dura, ma gli Stati Uniti e i suoi alleati saranno al loro fianco». Biden dedica solo poche battute ai proclami di Putin: «È sua e solo sua la responsabilità della guerra. Può farla finire con una sola parola». Poi prova a incunearsi tra il «popolo russo» e il suo leader. L’Armata putiniana «ha commesso crimini atroci in Ucraina senza vergogna, senza pentimento»; distruzione delle case, attacchi ai civili; stupri; deportazione dei bambini. «Nessuno, nessuno può distogliere gli occhi da simili atrocità». Biden riprende ciò che aveva annunciato Kamala Harris, sabato scorso, nella Conferenza per la sicurezza a Monaco: «Noi chiederemo giustizia per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai russi». Ecco allora che il presidente Usa si rivolge direttamente ai «cittadini» della Federazione guidata da Putin: «Gli Usa e le nazioni europee non vogliono controllare o distruggere il vostro Paese. L’Occidente non sta progettando di attaccare la Russia. Voglio dirvi che i vostri vicini vogliono solo vivere in pace con voi».

21 FEBBRAIO, MOMENTO FATALE

Stefan Zweig avrebbe chiamato la giornata di ieri, quella dei due comizi contrapposti, “momento fatale”. In certo senso è ricominciata la storia, che non era finita davvero col crollo del Muro di Berlino. Editoriale di Paolo Valentino per il Corriere della Sera.

«Se trent’anni fa avessimo dato ragione a Francis Fukuyama, quando annunciò «la fine della Storia», allora oggi dovremmo dire che la Storia è ricominciata. Non è così, naturalmente, perché non si è mai conclusa. Ma quanto è successo ieri, 21 febbraio 2023, nel triangolo Kiev-Varsavia-Mosca, il nuovo epicentro dei destini europei, appartiene sicuramente a quelli che Stefan Zweig definiva «momenti fatali». Due uomini, due discorsi, due sistemi tra loro inconciliabili. Per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino, una diversità antitetica e priva di aperture si consolida plasticamente tra i due campi, in cui la barbara guerra di aggressione russa contro l’Ucraina ha nuovamente diviso il Continente: quello dei Paesi democratici a guida americana, in lotta per la difesa della libertà e il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo. E quello di una Russia neo-imperiale, che il suo autocrate chiama a un lungo conflitto diventato esistenziale, chiudendo ogni residuo canale di comunicazione men che mai di dialogo verso l’esterno e alzando i ponti levatoi contro ogni influenza dell’Occidente ostile e degenerato. Forse bisogna risalire a prima della morte di Stalin, nel 1953, per ritrovare al Cremlino le tracce di un paradigma così dominato da volontà di definitiva rottura e paranoia strategica, come quello delineato ieri da Vladimir Putin al Gostiny Dvor. Dove la verità rovesciata della guerra scatenata dall’«Occidente collettivo» e dalle sue élite, decisi una volta per tutte a «liquidare la Russia usando l’Ucraina come burattino», fa da premessa alla riaffermazione di un antico stilema: «Nella causa della difesa della Russia dobbiamo essere tutti uniti per difendere il nostro storico e più alto diritto: il diritto a essere forti», ha detto il presidente russo citando Pyotr Stolypin, il primo ministro di Nicola II dopo la Rivoluzione del 1905. Non c’è spazio per dubbi o mollezze, in questo teorema putiniano: soprattutto, «nessun dispiacere» anzi disprezzo per gli oligarchi, che hanno perso i loro capitali miliardari nelle banche internazionali e che solo tornando a investire in patria potranno redimersi. Il coup de théâtre, la sospensione della partecipazione russa al Trattato New Start, che limita a 1.500 per parte i vettori nucleari di Mosca e Washington, è giunto al termine dei 100 minuti del discorso di Putin. Non cambia veramente lo status quo, con le ispezioni in situ di fatto sospese da più due anni, prima a causa della pandemia e poi dalle reciproche accuse di Usa e Russia di non rispettare gli impegni. Ma è fin qui la più forte indicazione che l’era del controllo degli armamenti, iniziata nell’era Breznev, sia al lumicino. È quasi impossibile, infatti, pensare al negoziato per un nuovo trattato, il New Start, spirando definitivamente nel 2026, nell’assoluto vuoto di comunicazione e fiducia tra i due Paesi. A distanza di poche ore, davanti al castello di Varsavia, Joseph Biden, ha delineato un’altra visione del mondo, fondata sulla difesa della libertà e della democrazia. Reduce da Kiev, ha citato Putin una sola volta, negando con forza che l’Occidente stia cercando di attaccare o distruggere la Russia, ricordando che è stato il capo del Cremlino a scegliere la guerra. Il presidente americano questa volta non lo ha definito criminale di guerra, ha però detto chiaramente che «procederemo contro coloro che sono responsabili per la guerra». Soprattutto, Biden ha voluto giocare la partita della leadership, offrendo l’immagine di un nuovo Zeitgeist a Occidente, quasi a voler rassicurare gli alleati occidentali, preoccupati quanto alla sostenibilità nel tempo dell’appoggio militare, economico e politico all’Ucraina, com’è emerso dietro le quinte della Conferenza di Monaco. Nel déjà-vu della Storia europea, di nuovo segnata da una profonda e al momento insanabile frattura Est-Ovest, il viaggio a Kiev e il discorso a Varsavia di Joseph Biden sottolineano tuttavia anche nuovi equilibri geostrategici. Dove il focus della politica europea degli Stati Uniti si è ormai spostato verso Oriente e i partner mitteleuropei e nordici della Nato hanno acquisito un peso maggiore di quanto non abbiano nella visione del mondo dei Paesi dell’Europa carolingia. Non è casuale che ieri, nella capitale polacca, Biden abbia anche incontrato i leader dei cosiddetti «Nove di Bucarest», cioè Bulgaria, Estonia, Romania, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria. Sono questi ora gli Stati della nuova frontiera occidentale, così come la Germania lo era durante la Guerra Fredda. Mentre l’Ucraina libera in lotta per la libertà e l’indipendenza ha ora l’aura che Berlino Ovest aveva durante la Guerra Fredda. Nel buio a mezzogiorno di un quadrante europeo di nuovo preda del passato che ritorna, oltre a fermezza e coesione, l’Occidente non deve però dimenticare di alzare lo sguardo sulle sfide del futuro, dove non si staglia la Russia arretrata e blindata di Vladimir Putin ma la nuova Superpotenza cinese. E cercare il giusto equilibrio tra l’imprescindibile sostegno a Kiev e la necessità di evitare che Pechino identifichi nell’alleanza con Mosca la sua nuova priorità strategica».

WANG A MOSCA CON UN PIANO DI PACE

Il Ministro degli esteri cinese Wang Yi è a Mosca per proporre al Cremlino dodici punti per arrivare ad una “soluzione politica” della crisi ucraina. Guido Santevecchi per il Corriere della Sera.

«Il rapporto tra Cina e Russia resta «solido come la roccia». Sono le prime parole che Wang Yi ha detto ieri a Mosca. La risposta russa è stata più che lusinghiera: «Voglio confermare al compagno Wang il nostro sostegno sulle questioni di Taiwan, Xinjiang, Tibet e Hong Kong», ha detto alla tv statale Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza del Cremlino. Chiaro che Mosca è disposta a concedere il massimo appoggio strategico a Pechino sui dossier più scottanti, per essere spalleggiata ora che è isolata. Frasi già pronunciate in passato dai due partner che si sono promessi «cooperazione senza limiti» nel febbraio 2022. Ma Pechino sparge anche indizi su una sua proposta per arrivare a «una soluzione politica» della crisi ucraina. Wang ne parlerà oggi con Lavrov. «Soluzione politica», nel linguaggio cinese ha un rilievo nuovo da quando Wang Yi la settimana scorsa ha annunciato l’imminente presentazione di una proposta di Xi Jinping per fermare il conflitto. Il presidente cinese potrebbe lanciarla in un discorso o in un documento nel primo anniversario dell’invasione russa (che Xi non ha mai chiamato invasione). Sono ripartite anche le indiscrezioni su una visita imminente di Xi a Mosca: Putin lo ha invitato già a fine dicembre. Un vertice dei due amici al Cremlino potrebbe annunciare svolte. Si può immaginare che se il piano cinese è concreto lo abbia nella sua valigetta diplomatica Wang, che è il capo della politica internazionale del Partito comunista. Finora, la Cina non ha mostrato un reale interesse a fermare subito la guerra (sempre ammettendo che Putin si lascerebbe convincere): l’interscambio commerciale cinese con l’Occidente prosegue florido, ha segnato un record con gli Stati Uniti nel 2022, il suo surplus cresce; il petrolio russo arriva alle industrie cinesi a prezzo di favore. Qualcosa si è capito, sia dalle parole dell’inviato cinese durante il suo tour europeo, sia da indiscrezioni di diplomatici della Ue e commenti di politici. Il piano dovrebbe essere in una dozzina di punti. 1) «Bisogna attenersi ai principi dell’integrità territoriale e della sovranità», ha detto Wang. 2) «Bisogna garantire le istanze di sicurezza di tutte le parti», ha subito aggiunto aprendo un grosso punto interrogativo, perché la Cina ha sempre sostenuto che la Russia ha dovuto attaccare perché la Nato si è allargata a Est e l’Ucraina non è neutrale. 3) Cessate il fuoco e stop alle forniture di armi (è noto che l’Occidente sostiene massicciamente la resistenza ucraina; mentre Pechino nega di voler fornire «armi letali» ai russi). 4) «Garantire che non ci siano attacchi nucleari o su impianti nucleari civili». 5) Impegno a non usare armi biochimiche. Dice il ministro di Kiev Dmytro Kuleba: «Wang mi ha parlato del piano, aspettiamo di avere in mano il testo per studiarlo». Prima viene Mosca».

MELONI SOLIDALE, ZELENSKY CONTRO BERLUSCONI

Giorgia Meloni attacca Mosca, Volodymyr Zelensky il suo alleato Silvio Berlusconi. La premier: «Qui è come per il nostro Risorgimento». Il presidente ucraino contro il Cav: «Abbiamo gli stessi valori. Al capo di FI non hanno mai bombardato la casa». Monica Guerzoni per il Corriere.

«Giorgia Meloni sta parlando quando di colpo va via la luce. Blackout. Un brivido attraversa la sala stampa del palazzo presidenziale gremita di giornalisti, la premier italiana ride e, mentre i grandi lampadari in cristallo di Boemia tornano ad accendersi, Volodymyr Zelensky sdrammatizza l’attimo di tensione con una battuta: «Sono i russi!». Ma pochi minuti dopo il viso del presidente ucraino assume un’espressione dura e drammatica, per scandire parole che metteranno in imbarazzo la leader della destra: «Mi sembra che la casa del signor Berlusconi non sia mai stata bombardata dai missili, come sono soliti fare i suoi fraterni amici russi». È la risposta a una domanda destinata a suscitare reazioni forti, a Roma e non solo. Il caso internazionale aperto dalle critiche di Silvio Berlusconi è ormai chiuso o a Kiev c’è ancora il timore che il governo italiano possa cambiare linea, spinto dalle pressioni dell’ex premier, della Lega salviniana o di parte dell’opinione pubblica? L’interprete non capisce ed è la premier a tradurre in inglese la domanda del Corriere per Zelensky, dopo una battuta autoironica che è una citazione del fondatore di FI: «Sono un presidente operaio». Il capo della resistenza ucraina resta serio e riprende il filo del suo attacco verbale: «Mai i carri armati sono entrati nel giardino della sua casa, nessun parente del signor Berlusconi è mai stato ammazzato, mai ha dovuto prendere le valigie alle tre di notte per scappare, né sua moglie ha dovuto affannarsi per cercare cibo per la sua famiglia». E questo, prende fiato Zelensky, «grazie all’amore fraterno della Russia». La premier Meloni è spiazzata — mentre Berlusconi, in Italia, è irritato — da parole così gelide dopo un incontro lungo e intenso, che ha suggellato il patto tra Roma e Kiev. Ma l’uomo simbolo della resilienza del popolo aggredito non ha digerito le accuse con cui Berlusconi addossava in sostanza all’Ucraina la responsabilità di una guerra che non finisce. Tocca a Meloni replicare e la premier, rispondendo a una giornalista ucraina sul governo, non fa giri di parole. Non è d’accordo, e non ce l’ha con Zelensky: «È un punto di vista sbagliato. Valgono i fatti. I partiti della maggioranza hanno sempre votato tutto quel che c’era da votare. La coalizione è stata sempre compatta. Il sostegno all’Ucraina è nel programma, firmato da tutti». E, alludendo al M5S di Conte, ricorda che «non sono in maggioranza quelli che non votano». Era stata una giornata perfetta. Nel lungo incontro tra gli stucchi e gli specchi Zelensky aveva detto alla sua ospite di essere «molto riconoscente» per il sincero e forte impegno a sostegno dell’Ucraina. E quasi l’aveva stupita, dicendosi «consapevole che l’opinione pubblica italiana è preoccupata per un conflitto alle porte dell’Europa». Arrendersi sarebbe folle. E Meloni rilancia: «Girarsi dall’altra parte sarebbe molto stupido. Le sorti dell’Ucraina coincidono con le sorti dell’Occidente». E se Putin pensa che l’Italia sia «ingrata» con la Russia, dopo gli aiuti per il Covid, Meloni risponde che «era un altro mondo»: «Il mondo è cambiato dopo il 24 febbraio e non è una scelta nostra». Nelle sue prime parole davanti ai giornalisti la premier aveva paragonato la lotta del popolo ucraino alla nascita dello Stato italiano: «C’era un tempo in cui si diceva che l’Italia fosse solo un’espressione geografica. Ma con il Risorgimento ha dimostrato di essere una nazione. Qualcuno — continua alludendo a Putin — diceva che era facile piegare l’Ucraina perché non era una nazione, ma con la vostra capacità di combattere avete dimostrato di essere una nazione straordinaria».

I REPORTER IN ATTESA DEI SERVIZI SEGRETI UCRAINI

Alfredo Bosco è uno dei due giornalisti italiani bloccati a Kiev dalle autorità locali perché sospettati di intelligence col nemico. Oggi Il Fatto pubblica un breve resoconto della giornata di ieri, nella quale non è stato permesso ai due reporter di presenziare alla conferenza stampa di Giorgia Meloni. 

«La presidente del Consiglio Meloni è arrivata per visitare Bucha e Irpin: nel pomeriggio si teneva poi la conferenza stampa nel palazzo presidenziale, per confermare la vicinanza dell’Italia con il popolo ucraino.  Il collega Andrea Sceresini e io abbiamo seguito la prima parte, ma non ritenevamo necessario andare alla conferenza sapendo che il nostro caso era nell’agenda del dialogo tra i due governi. Abbiamo scoperto che comunque ci sarebbe stato negato l’accesso: ennesima evidenza che ci viene impedito di fare il nostro lavoro. Sono due settimane che non riceviamo aggiornamenti sulle motivazioni del nostro fermo professionale in attesa d’esser convocati dai servizi di sicurezza ucraini (Sbu), non ci sono passi avanti e nessuno sa dirci più di “Stiamo facendo il possibile”. Per almeno cinque volte ci è stato detto che avremmo avuto appuntamento coi servizi di sicurezza, ma poi non succede nulla. Ringraziamo ancora la FNSI, la Federazione nazionale stampa italiana, l’interrogazione parlamentare del segretario di Sinistra italiana Fratoianni, nonché l’appoggio delle testate giornalistiche con le quali collaboriamo; ma chiediamo passi avanti concreti, che ci venga detto quando e dove, ma soprattutto cosa dobbiamo fare per tornare a lavorare in Ucraina. Siamo al teatrino dell’assurdo: continuiamo a ricevere messaggi di persone inferocite perché ci considerano “filo-russi”. Inutile spiegare che abbiamo fatto inchieste che ci avevano messo nei guai in quelle aree: se tu sei stato lì allora sei uno di loro. Ci difendiamo e tentiamo di portare avanti un messaggio che dovrebbe essere ovvio: se mi blocchi come reporter è perché ho violato la sicurezza del Paese? No? Allora dimmi il motivo, sennò ho il diritto di continuare. Una volta una persona saggia disse a un giovane fotografo sul fronte di guerra: “Devi fare la notizia, non essere la notizia”. Chiediamo una soluzione, anche perché almeno altri 7-8 colleghi sono coinvolti: chi sceglie chi è buono e chi no? Sarebbe bello domandarlo, ma chi è libero di farlo non lo sta facendo».

ZUPPI:  LA PACE È SEMPRE POSSIBILE

«Sono rimasto colpito dal fatto che a Bruxelles una risoluzione che sollecitava l’apertura di un negoziato sia stata bocciata a larga maggioranza. Non è questa l’Europa che ha vinto il Nobel per il suo “mai più”». Il cardinale Matteo Zuppi ieri durante la “Lectio Magistralis” all’Università di Roma Tre. Mimmo Muolo per Avvenire.

«La pace «è sempre possibile, difficile ma possibile». Il tono con cui il cardinale Matteo Maria Zuppi pronuncia queste parole nell’Aula Magna dell’Università Roma Tre è pacato come al solito. Ma il significato è perentorio. E il presidente della Cei non si ferma certo qui. «Molti - aggiunge - sono convinti della ineluttabilità della guerra». Ma di fronte a un simile modo di pensare le domande sorgono spontanee: «Perché dovrebbe essere un destino risolvere le controversie con le armi? Si è sempre fatto così? Restiamo gli stessi? Se c’è un progresso su tutto, tanto che abbiamo realtà impensabili solo pochi anni or sono, possibile che non ci sia un progresso che permetta di dotarsi di organizzazioni internazionali capaci di evitare che le controversie diventino guerre?». In sostanza, è la risposta del porporato, la costruzione della pace dipende da ognuno di noi. E quindi la politica, così come il mondo della cultura e dell’educazione hanno un ruolo insostituibile in questo campo. L’arcivescovo di Bologna è intervenuto con una lectio magistralis dal titolo “Educazione ai diritti e alla pace” all’inaugurazione dell’Anno accademico dell’ateneo romano (che festeggia il suo trentennale di fondazione), presenti tra gli altri il ministro dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini, il rettore Massimiliano Fiorucci e, in rappresentanza del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, l’assessore comunale alla cultura Miguel Gotor. Naturale il suo riferimento al conflitto in Ucraina, ma inserito in uno sguardo più ampio, che chiede una educazione alla pace e l’uso di parole che interrompano la logica della guerra. Una necessità tanto più impellente oggi «che la questione della pace - ha fatto notare Zuppi - si pone in termini più allarmanti e con conseguenze globali, fino al rischio, mai così vicino dalla crisi di Cuba di 60 anni fa, di un Armageddon nucleare, possibile frutto degli automatismi delle reazioni incrociate, mai interrotta da parole diverse». Ecco allora che la guerra si può superare con il dialogo, con la fiducia reciproca, con il riconoscersi “fratelli tutti”, secondo l’espressione che dà il titolo all’enciclica di papa Francesco, non a caso citata dal porporato. Perciò «l’alternativa alla guerra è la politica, non la soppressione dei contrasti schiacciando l’altro. È la loro composizione attraverso il dialogo. Non c’è pace senza politica - ha aggiunto il presidente della Cei -. Solo la politica crea un quadro comune, allontana ciò che divide e trova ciò che unisce. E la politica sa e può usare la diplomazia e anche i tanti modi per preparare il terreno, creare l’ambiente favorevole, maturare le convergenze che permettono la pace». La guerra invece ragiona in modo opposto. «Si nutre di pregiudizi, di ignoranza, di semplificazione, è prodotta e produce una monocultura, radicata in una scia senza fine di dolori e di torti subiti, da tutti ». Per giungere dunque alla pace, «si tratta sempre di liberare coscienze imprigionate dai torti subiti e dalle ragioni di questi, dal rancore e dall’odio, incapaci di immaginare e fare pace, convinte dell’impossibilità del dialogo e del negoziato». Quando si crede «che la vittoria militare» sia «l’unica unica via d’uscita» («è quello che accade anche oggi e sempre, con ogni guerra, anche oggi in Ucraina, in Yemen, in Sud Sudan e ovunque »), serve passare «dal linguaggio della violenza, della propaganda, della criminalizzazione, della giustizia di parte, della deformazione dell’altro, al linguaggio del dialogo, della politica». Per questo il cardinale ha detto di essere rimasto «colpito» dal fatto che «al Parlamento Europeo una Risoluzione che sollecitava l’apertura di un negoziato sia stata rigettata da 470 voti su 630. Mi è sembrato - ha fatto notare - come un segnale della rinuncia della politica e la negazione di una pace che non sia solo la vittoria di una parte». Tuttavia Zuppi ha precisato: «Attenzione, dire questo non significa ovviamente misconoscere il diritto, omologare le responsabilità, negarle. Affatto. Sono due piani diversi e il dialogo richiede sempre la giustizia e la chiarezza perché funzioni, perché raggiunga il risultato. Ma, appunto, anche la giustizia richiede il dialogo. Questo è il tempo - ha ricordato - in cui un premier europeo, nella luterana Danimarca, intende abolire il plurisecolare “Grande giorno della preghiera” – che esiste dal 1686 – per potere incrementare il budget per gli armamenti con un giorno di lavoro in più». Una logica inaccettabile. «Non è questa l’Europa, che nel 2012 ha vinto il premio Nobel per la Pace per il suo proposito di mai più fare ricorso all’opzione militare». Non bisogna dimenticare la lezione del dopoguerra, con la costruzione dell’Ue. Oggi, invece, «il ripudio della guerra e l’esercizio di una cultura della pace, sembrano essersi sbiaditi». Dunque occorre essere tutti artigiani di pace e da questi nasceranno anche gli architetti di pace. Concludendo, il presidente della Cei ha ricordato: «Educare alla pace è quindi aprire le menti e i cuori all’incontro con l’altro, al dialogo, alla relazione che è fatta di comprensione».

SUPERBONUS, DESTINO SEGNATO

Per il pasticcio del Superbonus edilizio, avanza l’ipotesi F24. Bankitalia sostiene: impatto significativo, ma gli oneri sono ingenti. Abi e Ance dicono: è necessario compensare i crediti. Il punto è di Andrea Ducci per il Corriere.

«L’allerta sul destino dei bonus edili resta elevata. Dopo l’incontro del governo con banche e imprese, a intervenire nelle ultime ore è il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. «Lascia perplessi e non convince che il governo assuma decisioni così affrettate, gettando nel panico imprese e famiglie e poi convoca le parti», è il rimprovero del presidente degli industriali. Secondo Bonomi sarebbe stato meglio interpellare le imprese prima di varare il decreto che ha stoppato i bonus, eliminando la cessione dei crediti di imposta e la possibilità di scontarli in fattura. L’altro grande tema è quello dei 19 miliardi di euro di crediti bloccati nei cassetti fiscali delle imprese, che non riescono a cederli al sistema bancario ormai «saturo», dopo avere assunto nel periodo 2020-2022 impegni per crediti fiscali pari a 77 miliardi. Una soluzione la prospetta Bonomi e dice: «Anche noi come industria dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Se il governo creasse le condizioni affinché si possano fare cessioni di primo grado tra privati, si potrebbe individuare una classe di imprese in grado di acquistare i crediti che ora sono fermi». Sul tappeto resta l’urgenza di garantire liquidità alle imprese. La soluzione ribadita da Abi e Ance è quella già illustrata al governo: «Una misura tempestiva che consenta alle banche di ampliare le capacità di acquisto, utilizzando anche una parte dei debiti fiscali raccolti con gli F24». In una nota congiunta le associazioni di banche e imprese edili rivendicano: «La proposta dell’F24, ha il vantaggio di essere applicabile in tempi molto rapidi senza impatti aggiuntivi sulla finanza pubblica». Il pressing delle banche per questo tipo di meccanismo è dettato anche dall’esigenza di rimarcare che la capienza fiscale del settore creditizio è ormai esaurita. Sebbene l’Agenzia delle Entrate abbia indicato che i crediti assorbiti dalle banche nel 2022 sono pari a 7 miliardi, a fronte di una capienza di 32 miliardi, l’Abi osserva che nei dati del fisco non figurano tutti gli impegni assunti dalle banche. Le cifre scritte nelle procedure degli istituti, insomma, indicherebbero che gli spazi di manovra sono ormai esauriti. La giornata registra anche l’audizione in Senato di Bankitalia nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui crediti di imposta. «Il Superbonus ha avuto un impatto significativo sul settore delle costruzioni, circa la metà degli investimenti che hanno beneficiato del Superbonus non si sarebbero cioè verificati in assenza dell’incentivo», spiega Giacomo Ricotti di Bankitalia, che aggiunge: «Gli oneri della misura per il bilancio pubblico restano comunque ingenti». Tanto da sottolineare: «Nel disegno degli incentivi fiscali l’attenzione agli equilibri della finanza pubblica dovrà essere affiancata dalla capacità di aumentare il potenziale di crescita dell’economia». Sul fronte governativo l’esecutivo oggi si appresta a chiedere il voto di fiducia alla Camera sul dl milleproroghe. Il via libera definitivo del provvedimento è atteso per domani».

PD, UN TANDEM BONACCINI-SCHLEIN?

Dopo le primarie del Partito democratico,  potrebbe farsi strada un “dream ticket” di leadership a due, che comprenda entrambi gli sfidanti. Giovanna Vitale per Repubblica.

«Lo chiamano già il “dream ticket” Bonaccini-Schlein, da mettere su dopo le primarie. Nei capannelli dem in Transatlantico non si parla d’altro. Il futuro segretario, se davvero dovesse spuntarla il governatore emiliano, chiamerà al suo fianco la ex vice in Regione? Cercherà di governare così il dissenso dell’ala sinistra del partito? O al contrario preferirà costruire una segreteria a sua immagine e somiglianza? E se invece vincesse lei, cosa accadrebbe? Insomma, nel Partito democratico si pensa già al day after. A gettare il sasso nello stagno era stato Michele Emiliano. Un paio di sere fa, nel corso di una iniziativa a Taranto, il governatore pugliese si era abbandonato a una battuta: «Scegliamo Bonaccini come segretario e poi avrà come vice la sua attuale numero due in Regione. Potrebbe essere una buona soluzione». E poco importa se sono mesi che Elly Schlein ha lasciato la Torre del Fiera District per candidarsi alla Camera, da dove ha lanciato l’assalto al Nazareno. Il dream ticket è tornato di stretta attualità dopo il faccia a faccia tv, che ha certificato la volontà di stringere un patto per nulla scontato alla vigilia del congresso. «Se perdi, dal giorno dopo mi sosterrai?» ha chiesto a bruciapelo Bonaccini a Schlein. «Assolutamente sì, senza ombra di dubbio. Abbiamo già dimostrato di saper lavorare bene insieme ed è la migliore promessa che possiamo fare», la risposta decisa della rivale. Certo poi, a precisa domanda — se cioè sono pronti a guidare il partito in tandem — entrambi si son tenuti sul vago. «Le forme di collaborazione le stabiliremo dopo», s’è affrettata a puntualizzare Schlein. Mentre Bonaccini ha garantito che imbarcherà tutti gli sfidanti, «non solo Elly, anche Gianni e Paola», ovvero Cuperlo e De Micheli tagliati fuori dai gazebo. Fatto sta che nelle segrete stanze di ruoli se ne sta discutendo, eccome. A dispetto di una linea ufficiale che esclude qualunque subordinata: «Stefano corre per vincere, non farà l’ancella di nessuno», la replica piccata dell’entourage del governatore. Uguale e contraria a quella dei fedelissimi della deputata. Bonaccini ha chiuso in testa il “girone” dei circoli. Anche se i 18 punti di distacco equivalgono a circa 27mila voti, non una soglia insormontabile alla prova dei gazebo, è il tam tam tra i sostenitori della sua avversaria. Sta di fatto che, stando alle previsioni della vigilia, chiunque avrà la meglio difficilmente potrà superare il 60 per cento dei consensi. Da qui l’obbligo per entrambi di pensare a cosa concedere al miglior perdente. Schlein scorge davanti a sé uno scenario da “win-win”. Otterrà comunque un buon risultato e, anche da sconfitta, potrebbe puntare a un “riscatto” sulla scia di quel che fece Renzi, il quale perse con Bersani ma da lì diede la scalata al partito. Bonaccini ha la necessità di coinvolgerla, se dovesse diventare segretario. Ma non con il posto da vice (ci sarebbe già Pina Picierno). L’ipotesi allora è quella di un ruolo da capogruppo alla Camera. Nell’ottica del governatore verrebbe neutralizzata così l’organizzazione di un’ agguerrita opposizione interna, in cui da tempo scalpita l’intera ala sinistra: da Orlando a Provenzano, senza contare Franceschini. E se vincerà Schlein. «Bonaccini potrebbe fare il presidente del partito, come Cuperlo quando fu battuto da Renzi », sibila perfido Francesco Boccia. Comunque vada, su una cosa sembrano tutti d’accordo. Occorre preservare l’unità e scongiurare nuove scissioni. «È un lusso che non ci possiamo permettere, perciò il ticket è necessario», conclude Walter Verini. «Bonaccini e Schlein sono complementari, il partito ha bisogno di tutt’e due. In Emilia hanno dimostrato di saper lavorare bene insieme. Quindi mi auguro che, dopo, non si diano soltanto una mano, ma costruiscano una sorta di doppia segreteria, frutto di un patto vero in grado di rinnovare il Pd». Le premesse non lasciano presagire un finale all’insegna della concordia».

LA RUSSA CRITICATO PERCHÉ “OMOFOBO”

Coro di critiche contro l'intervista del presidente del Senato Ignazio La Russa, concessa alla trasmissione tv Belve: sarebbe “omofobo e sessista inadeguato al ruolo”. Niccolò Carratelli per La Stampa.

«Omofobo, sessista, inadeguato. Non è passata inosservata l'intervista rilasciata da Ignazio La Russa alla trasmissione di Rai2 "Belve". Registrata lunedì e andata in onda ieri sera, quando due frasi del presidente del Senato avevano già scatenato una bufera politica. La prima: «Avere un figlio gay sarebbe un dispiacere, come se fosse del Milan». La seconda: «Il livello estetico delle donne di destra è calato, ma è aumentato quello della capacità». Dai partiti di opposizione, come dalla comunità Lgbt, parte fin dalla mattina una raffica di critiche. Dalla maggioranza, in particolare dalle donne di centrodestra, solo silenzio imbarazzato: La Stampa ha provato invano a chiedere un commento ad almeno dieci parlamentari di Fratelli d'Italia, Lega o Forza Italia e anche a qualche ex. L'unica a mettere a verbale una reazione è Stefania Craxi, senatrice di FI: «Non sono d'accordo sul fatto che siamo meno belle, quello lo dice lui – spiega – Ma sulle capacità sono d'accordissimo con La Russa». Molto meno tenera la capogruppo del Pd a palazzo Madama, Simona Malpezzi, che definisce le parole di La Russa «inaccettabili: offensive, divisive, stereotipate, sessiste. Non si tratta di essere o meno politically correct – avverte – si tratta di rispettare le istituzioni che si rappresentano». Sulla stessa linea la candidata alla segreteria dem Elly Schlein, convinta che «l'unica sciagura per le famiglie italiane è avere la seconda carica dello Stato che fa dichiarazioni omofobe, sessiste e nostalgiche, dimostrando la totale inadeguatezza al ruolo istituzionale che ricopre». Per l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, quelle di La Russa sono «affermazioni indecorose, che offendono migliaia di persone». Ancora più diretto il deputato Alessandro Zan, noto per aver dato il nome al disegno di legge contro l'omotransfobia: «La Russa parla ancora dell'orientamento sessuale come di una scelta, quando una scelta non è, paragonandolo addirittura al tifo calcistico – sottolinea – A tutta la comunità Lgbt dico: siate fieri di quello che siete, non recate dispiacere a nessuno. Semmai quello sbagliato è La Russa». Visto l'andazzo, già prima di mezzogiorno il presidente del Senato prova a spiegare meglio il suo punto di vista, senza riuscirci: «Le critiche vengono da chi non ha capito il contesto. A una domanda specifica ho risposto che avere un figlio gay sarebbe un piccolo dispiacere, ma non un problema – precisa – Poi mi è capitato sul serio: uno dei miei figli andava allo stadio a vedere il Milan e per me è stato un piccolo dispiacere». Confermato, quindi: essere omosessuale e tifare Milan, per La Russa, sono sullo stesso piano. Inevitabilmente gli attacchi continuano. La vicecapogruppo al Senato del Movimento 5 stelle, Alessandra Maiorino, ricorda che «per molti genitori avere un figlio gay non è un dispiacere, ma è certo una preoccupazione, proprio perché esistono persone come La Russa». Ed evidenzia «il rischio di legittimare linguaggi e comportamenti omotransfobici, dovrebbe avere un sussulto di lucidità e come minimo chiedere scusa». Il leader del Terzo polo, Carlo Calenda, si limita una domanda provocatoria, rivolta via Twitter alla premier Giorgia Meloni: «Ma uno un pelo più istituzionale e meno fascio non lo avevate a disposizione?». Per Angelo Bonelli, deputato di Verdi e Sinistra, «La Russa si deve dimettere da presidente del Senato», perché «le sue esternazioni sono deplorevoli e gravissime». Ma la bacchettata che forse farà più male al cuore interista di La Russa è quella che gli riserva Sandro Mazzola, storica icona nerazzurra, che liquida quella sul figlio gay come «una battutaccia, poteva farne a meno. Se la poteva risparmiare, era meglio». E su questo, anche se non lo ammetterà mai, anche il presidente del Senato si troverà d'accordo».

TERREMOTO, DRAMMA SENZA FINE

Le altre notizie dall’estero. Senza fine il dramma al confine fra Turchia e Siria: l’ultimo bilancio del terremoto è di quasi 47mila le vittime. Non si ferma lo sciame sismico: più di 100 scosse in 24 ore. Crolli e panico: morti nella calca ad Aleppo per il sisma di magnitudo 6.4 di lunedì. Luca Geronico per Avvenire

«È stata una seconda “mazzata”, di quelle capaci di fiaccare le gambe e annientare il morale, al milione e oltre di sfollati che da due settimane ormai in Turchia vivono nelle tendopoli. Ieri mattina si contavano ancora le vittime per le due forti scosse di assestamento di lunedì sera verso le 20: la principale di magnitudo 6.4 – con epicentro tra Samandag e Defne – l’altra di magnitudo 5.8 che hanno colpito nella provincia di Hatay. Almeno 6 morti in Turchia e 300 feriti in Turchia, mentre in Siria le vittime erano almeno 5 e 500 i feriti con nuovi crolli e scene di panico con alcuni morti ad Aleppo e Tartus dovuti alla calca. «Ho pensato che la terra si stesse aprendo sotto i miei piedi », ha dichiarato alla Reuters Muna Al Omar, con in braccio il figlio di sette anni. La donna dal 6 febbraio vive in tenda in un parco di Antiochia. Uno sciame sismico, destinato a durare per mesi: sono state 116 le scosse di assestamento registrate dopo i due terremoti di lunedì sera, mentre dal 6 febbraio sono state 7.242. Intanto continua a cresce il bilancio delle vittime: sono 42.310 quelle accertate dalla protezione civile in Turchia, a cui si devono sommare gli almeno 6mila morti che il sisma che causato in Siria. Il terremoto che ha colpito lunedì sera nuovamente Hatay è arrivato poche ore dopo la visita alla città del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che aveva annunciato l’inizio della ricostruzione «da zero» di tutte le città distrutte dal sisma. Il governo turco sta però affrontando molte critiche per la lentezza nella risposta all’emergenza e per le precedenti politiche edilizie che hanno causato i numerosissimi crolli di palazzi. Una polemica che sicuramente inciderà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari e presidenziali. Prima del sisma Erdogan era già sotto pressione per la crisi economica e l’alto costo della vita che, a causa dei danni all’agricoltura, ora potrebbe peggiorare. Per la prima volta, ieri, il ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha affermato che 20mila rifugiati siriani sono tornati nelle loro regioni di origine nel nord della Siria dopo il terremoto. Ha intanto trovato una famiglia la piccola Aya – «miracolo» in arabo – la neonata unica sopravvissuta della famiglia e recuperata fra le macerie macerie del palazzo a Jindayris ancora attacca al cordone ombelicale. Le sue foto avevano fatto il giro del mondo e tantissimi si erano offerti di adottarla. Ora la neonata, ribattezzata Afraa come la madre è stata accolta dagli zii. La coppia, insieme ai figli, è ospitata da dei cugini perché la loro casa è andata distrutta. «È una dei miei figli ora, non farò alcuna differenza tra lei e loro», ha affermato lo zio Khalil al-Sawadi, molto felice di accogliere una nuova vita nonostante la situazione molto difficile che si trovano ad affrontare. È intanto arrivata al porto di Iskenderun la nave Msc Aurelia che ha consegnato un carico di beni di prima necessità, tra cui materiale medico per le emergenze, farmaci, giocattoli e pennarelli per i bambini. A bordo, c’erano anche 10mila magliette termiche donate dalla Santa Sede tramite il Dicastero per il servizio della carità, e destinate al campo profughi di Kilis, in Turchia. La nave sarà ora utilizzata come alloggio di emergenza mettendo a disposizione delle autorità locali oltre 1.000 posti letto in cabina e spazi attrezzati tra cui un ristorante. Il terremoto non ferma la guerra civile in Siria. L'artiglieria governativa siriana ha aperto ieri il fuoco contro postazioni di miliziani anti-governativi nel Nord-Ovest del Paese. Lo riferisce l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria».

IRAN, CONDANNATO A MORTE UN TEDESCO

Ricominciano le condanne a morte pronunciate a Teheran per chi dissente. Monica Ricci Sargentini per il Corriere della Sera.

«L’Iran tira dritto sulle condanne a morte per chi dissente. Questa volta tocca a Jamshid Sharmahd, di nazionalità iraniana-tedesca e residente negli Stati Uniti. La magistratura lo accusa di essere il leader dell’ala armata di un gruppo monarchico, noto come Tondar, e di aver collaborato con l’intelligence degli Stati Uniti fornendo informazioni sul programma di missili balistici dell’Iran. A suo carico c’è anche l'imputazione di aver pianificato una serie di attentati, tra cui quello alla moschea nel 2008, in cui sono state uccise 14 persone e ferite più di 200, e l’esplosione al santuario del padre della rivoluzione islamica iraniana, Rohollah Khomeini. Secondo l’accusa l’uomo si apprestava a condurre altri 23 attacchi terroristici. Tondar, fondata nel 2002 e con sede a Los Angeles, punta a restaurare la monarchia iraniana, rovesciata dalla rivoluzione del 1979. Per la famiglia, però, Sharmahd era solo il portavoce del gruppo di opposizione ed è stato rapito dai servizi segreti iraniani a Dubai nel 2020. «La verità è che la Repubblica Islamica minaccia semplicemente di uccidere un ostaggio prelevato illegalmente» è l’osservazione di Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore di Iran Human Rights (IHR). Mentre per Amnesty International Teheran «disprezza i diritti umani fondamentali». Ora l’unica opportunità di evitare la pena di morte per Sharmahd è quella di appellarsi alla Corte Suprema. Intanto in sua difesa si muove la Germania. Ieri la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha definito «inaccettabile» la sentenza. «L’imposizione della pena di morte provocherà una forte reazione» tedesca, ha aggiunto. Berlino sostiene di aver compiuto «ripetuti sforzi ad alto livello» per liberare Sharmahd, il cui arresto è avvenuto in «circostanze molto discutibili». Tentativi che «sono stati ignorati dall’Iran». Di sicuro Jamshid Sharmahd, 67 anni, non ha avuto la possibilità di un processo equo dato che Teheran «ha ripetutamente negato alla Germania i contatti con il consolato e l’accesso alle date del processo». Berlino chiede agli ayatollah «di porre rimedio a queste carenze in appello, di correggere la sentenza e di evitare la pena di morte». La condanna arriva il giorno dopo che il Consiglio dell’Ue ha inserito altre 32 persone e due entità nella lista delle persone colpite da misure restrittive. Tra queste il ministro iraniano della Cultura e della Guida islamica, Mohammad Mehdi Esmaeili e quello dell’Istruzione Yousef Nouri. Dall’inizio della violenta mobilitazione innescata dall’uccisione di Mahsa Amini, sono state condannate a morte 17 persone. A metà gennaio l’esecuzione del cittadino britannico-iraniano Alireza Akbari aveva mandato su tutte le furie Londra. Sono almeno 16 gli stranieri detenuti nel Paese di cui 8 con doppia nazionalità».

“UCCISA PER COLPA DI GOOGLE”. CASO STORICO ALLA CORTE SUPREMA USA

La Big Tech è chiamata in giudizio in Usa. La famiglia di una vittima degli attentati di Parigi accusa: Google amplificò i contenuti dell’Isis sulla rete. Marina Catucci per il Manifesto.

«La Corte suprema ha sentito ieri gli argomenti relativi a un caso incentrato sulla Sezione 23 del Communications Decency Act del 1996, che protegge le piattaforme online da azioni legali relative ai contenuti pubblicati dagli utenti. Questa protezione potrebbe finire: nel 2016, la famiglia di una studentessa universitaria americana di 23 anni, Nohemi Gonzalez, uccisa durante l’attacco terroristico di Parigi del 2015, ha fatto causa a Google, sostenendo che l’algoritmo di YouTube ha promosso dei contenuti dell’Isis che hanno indirettamente causato morte della figlia. Secondo la sezione 230 i colossi del web non possono essere considerati degli editori, ma dei «diffusori» di notizie, ed è proprio questo l’aspetto contestato dai legali della famiglia della studentessa secondo i quali il sostegno ottenuto dall’Isis arrivava proprio dalla piattaforma di Google. Per anni i tribunali di grado inferiore hanno sostenuto che Google, essendo protetta dalla Sezione 230, non può essere portata in tribunale, ma ora i giudici costituzionali dovranno esprimersi proprio su questo punto: cancellare o meno tale protezione. Il giudice conservatore Clarence Thomas ha già affermato che la Corte Suprema dovrebbe ridimensionare le protezioni della legge per le piattaforme tech, e che questo caso potrebbe aiutare a decidere se le aziende tecnologiche, da Reddit a Tinder, sono responsabili per i contenuti o il modo in cui vengono diffusi dai loro algoritmi. Mentre i critici della legge sostengono che gli algoritmi devono essere tenuti sotto controllo, Google e i suoi sostenitori temono che le modifiche alla Sezione 230 possano indurre le piattaforme a rimuovere dei contenuti per paura di essere citate in giudizio, soffocando la libertà di parola. Il caso Gonzalez vs. Google ha quindi il potenziale di rimodellare il modo in cui le piattaforme gestiscono la moderazione dei contenuti. I giudici, sia le tre liberal che i sei conservatori, al momento sembrano scettici riguardo all’argomentazione secondo la quale YouTube dovrebbe essere ritenuta responsabile per il modo in cui il suo algoritmo ha "gestito" i contenuti dell’Isis. Durante le argomentazioni del caso, che si sono protratte per più di 2 ore, i giudici hanno espresso sia confusione che preoccupazione per la potenziale esposizione delle aziende a un diluvio di azioni legali. I giudici hanno anche esaminato la possibilità di introdurre una distinzione legale tra hosting (il semplice atto di "ospitare" post o video) e amplificazione dei contenuti, e l’eventualità di lasciare che sia il Congresso a dirimere la controversia. Gli autori della Sezione 230, il senatore democratico Ron Wyden e il repubblicano Chris Cox, hanno spiegato il pensiero alla base della legge in una dichiarazione letta in corte, dove hanno descritto quel passaggio della legge del ’96 come «tecnologicamente neutrale». (…) La decisione definitiva su questo caso non è prevista fino a giugno.».

LA CACCIA ALLE STREGHE NON È INIZIATA CON DAHL

Maurizio Crippa sulla prima pagina del Foglio interviene nella polemica sulle favole “corrette” di Roald Dahl. Sporcelli e streghe sono poco inclusivi.

«Grande indignazione e contrarietà ha provocato, e non saremo certo noi a dolercene, l’ideona di un editore inglese di risciacquare, non in Arno ma nel Fiume della stupidità, i romanzi per ragazzi di Roald Dahl, laddove compaiono parole che potrebbero essere lesive per i ciccioni, tipo “grasso”. Ognuno pensi come vuole (in seconda pagina pareri discordanti), qui si dirà solo che peggio della censura del linguaggio c’è solo l’aggiornamento. Ma c’è altro. Per Dahl si sono finalmente svegliati in molti, certo non tutti, dai giornali anglosassoni agli eccelsi corsivisti del Corriere e Repubblica. Bene. Ma la domanda è: dove erano, i nuovi paladini della libertà, quando quasi ammazzavano, letteralmente, J. K. Rowling? Quando vietavano Omero o Shakespeare nelle scuole, quando in Belgio affettavano come un sushi la Divina commedia e l’intellettuale collettivo aveva sempre una giustificazione pronta nel taschino? Ora, poiché il GGG, il Grande Gigante Gentile, in fondo è un buon autore progressista, “one of us”, si sono svegliati. Il bravo Pigi Battista ne è contento: finalmente, dice. Finalmente, sì. Ma davvero hanno compreso cosa ci sia in gioco, a parte il giocoso Dahl? Non lo so, ma non credo».

QUARESIMA, BELPIETRO CONTRO L’OSSERVATORE

Con l’eccezione dei fedeli che seguono il rito ambrosiano oggi è il Mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima. Della circostanza non c’è quasi traccia sui giornali, se si eccettua una polemica di Maurizio Belpietro sulla Verità. Belpietro attacca l’Osservatore Romano per aver invitato a ridurre il consumo di energia fossile. Ecco un passaggio del suo editoriale.

«Ieri mi è capitato di leggere una pagina dell’Osservatore Romano, ovvero il giornale della Santa sede, in cui era riportato un ampio articolo dal titolo curioso: «Quaresima: un tempo per disinvestire dai fossili». Mi sono subito chiesto che cosa avesse a che fare il periodo che precede la Pasqua con il petrolio. Pur non essendo un teologo, posso comprendere che sulla base delle prescrizioni del codice di diritto canonico, che si rifanno all’Antico testamento, i cattolici siano invitati a fare qualche rinuncia ai piaceri della tavola, ma che cosa c’entrano i carburanti? A quanto pare, nella nuova dottrina della Chiesa, quella aggiornata da Papa Francesco, la bistecca è sostituita dal combustibile. Infatti, come ho scoperto poi, il 20 febbraio un tweet della testata vaticana annunciava che i cattolici erano «chiamati a osservare il digiuno del gas per non alimentare la guerra». Confesso, ero completamente all’oscuro della giornata senza metano per aiutare l’Ucraina e non so dire quanti abbiano aderito all’appello della testata di Santa romana Chiesa. Tuttavia, mi permetto di avanzare qualche obiezione sull’iniziativa e pure sulle sue finalità. È vero che qualche anno fa Bergoglio ha licenziato un’enciclica dal titolo «Laudato si’», dedicata all’ecologia e alla difesa della natura, ma un giorno con i termosifoni freddi non credo che abbassi di molto il tasso di CO2 nell’aria. Anni fa, dopo lo shock petrolifero, la tv di Stato ci subissò di spot che ci invitavano a cambiare la nostra vecchia caldaia a gasolio, optando per quella a gas. «Il metano ti dà una mano» era lo slogan con cui ci martellarono. Secondo la campagna televisiva, il tubo che arrivava direttamente in casa evitava di riempire la cisterna e garantiva emissioni leggere e profumate, che riducevano lo smog cittadino. Quarant’anni dopo, ci vorrebbero convincere che quello stesso tubo si è trasformato in serpente, una specie di strumento del demonio di cui dovremmo disfarci prima possibile. Laudato si’, Frate Sole, che ogni giorno ci illumini. Così, col Cantico delle creature siamo passati dall’astinenza dalla carne a quella dal riscaldamento. Ma se il senso dev’essere quello di privarci di qualche cosa che ci piace, si potrebbe trovare di meglio».

DON GIUSSANI NEL RICORDO DI ZUPPI

In questi giorni in tutta Italia, a Roma stasera, si celebrano Messe in ricordo di don Luigi Giussani. Qui i vari appuntamenti dal sito di Cl. Lunedì sera la celebrazione è stata presieduta dal cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. Ne ha riferito Avvenire, l’articolo è di Chiara Unguendoli.

«All’inizio della “avventura” di don Giussani c’era il non volere accettare che tanti ragazzi non conoscessero Cristo vivo e che questo incontro li rendesse se stessi. E non si accontentava di una fede che non cambia la vita. Gesù risponde spiegando che il potere lo abbiamo noi, perché tutto è possibile a chi crede». È la «compagnia», l’unità dei credenti in ogni momento e aspetto della vita, la caratteristica della missione di don Luigi Giussani, fondatore del movimento che non per caso si chiama «Comunione e Liberazione». Lo ha affermato il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, nella Messa che ha presieduto lunedì sera nella Cattedrale di San Pietro a Bologna: la liturgia che ogni anno l’arcivescovo celebra in occasione dell’anniversario della morte di don Giussani (quest’anno era il diciottesimo) e del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. «Il dono della fraternità, che ha cambiato la nostra vita, ci ha fatto scoprire l’altro, capirlo, ci ha reso capaci di parole nuove – ha ricordato Zuppi . Giussani usava l’espressione “compagnia”. Erano per lui persone concrete, che lo sono state fino alla fine». E qui ha inserito una lunga citazione di papa Benedetto XVI, grande amico di don Giussani e che del fondatore di Cl presiedette il rito funebre nel Duomo di Milano. «Il cristiano – diceva Benedetto XVI – viene inserito in una compagnia di amici che non lo abbandonerà mai nella vita e nella morte, perché è la famiglia di Dio, che porta in sé la promessa dell’eternità. Lo accompagnerà anche nei giorni della sofferenza, nelle notti oscure della vita; gli darà consolazione, conforto, luce. Gli darà parole di vita eterna». «Questa compagnia – ha aggiunto il cardinale Zuppi, pastore della Chiesa di Bologna - è aperta, perché di Cristo, e per questo non può diventare una setta. È vera, fisica, non idealizzata. Guai alle compagnie che diventano virtuali, che non si misurano con le contraddizioni dell’umano e finiscono facilmente per rassomigliare ai farisei che giudicano e non amano. Gesù è la compagnia che supera il peccato. Compagnia non di puri, ma di innamorati di Cristo e quindi attenti a tutto ciò che è umano. Ci amiamo per quello che siamo, con le nostre imperfezioni, come fa Gesù ed è questo amore che ci accetta e ci cambia». «È questa la “prima Galilea della chiamata” – ha insistito l’arcivescovo di Bologna Zuppi nell’omelia della Messa celebrata in ricordo del fondatore di Cl - dove papa Francesco vi ha chiesto di tornare; ma non per rinvangare il passato, ma per capire la grazia che viviamo oggi, che ci ha protetto qualche volta contro noi stessi, per scegliere il futuro, per ritrovare l’amore dell’inizio e non fare vincere la mediocrità e la tiepidezza dell’adulto o la rassegnazione amara e disillusa del vecchio, insomma per non smettere di sorprenderci di tanto amore». «Per questo – ha concluso il cardinale, che è anche il presidente della Conferenza episcopale italiana - la compagnia diventa servizio al mondo e per questo si rinnova continuamente, crescendo, nella fedeltà. La caritativa non è una buona azione, un volontariato, ma è parte di questa compagnia e diventa amicizia, relazione, condivisione come ha fatto Cristo che, cito Giussani: “per amarci non ci ha mandato le sue ricchezze, ma si è fatto misero come noi”».

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