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“Concreto servizio al popolo”

alessandrobanfi.substack.com

“Concreto servizio al popolo”

Il Papa dal Kazakhstan lancia un appello ai politici. Contro estremismi e populismi. Dossier Usa sui soldi russi ai partiti occidentali. Sì al decreto aiuti, ma viene alzato lo stipendio dei boiardi

Alessandro Banfi
Sep 14, 2022
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“Concreto servizio al popolo”

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Il Papa arriva in Kazakhstan in una visita decisa prima dell’invasione russa dell’Ucraina ma che si rivela profetica. L’occasione è un incontro internazionale di leader religiosi a Nur Sultan. Ma per Francesco è anche l’occasione di rinnovare l’appello ai potenti della terra e a chiedere loro uno sforzo di “concreto servizio al popolo”. Ha detto infatti ieri tra l’altro: "La democrazia e la modernizzazione non siano relegati a proclami, ma confluiscano in un concreto servizio al popolo: una buona politica fatta di ascolto della gente e di risposte ai suoi legittimi bisogni, di costante coinvolgimento della società civile e delle organizzazioni non governative e umanitarie, di particolare attenzione nei riguardi dei lavoratori, dei giovani e delle fasce più deboli". Sono parole che anche i politici di casa nostra, impegnati in una surreale competizione elettorale, dovrebbero prendere molto sul serio.  Anche quando Bergolio ricorda che “estremismi, personalismi e populismi minacciano la stabilità e il benessere dei popoli”.

A proposito di campagna elettorale. Su di essa irrompe il ciclone di una rilvelazione che arriva da Washington: esiste un rapporto sui finanziamenti di Mosca ai partiti politici italiani. Preventivamente, Matteo Salvini annuncia querele per chi farà il suo nome o quello della Lega. Mentre Enrico Letta chiede l’intervento del Copasir, il comitato di controllo dei servizi, guidato dal meloniano Adolfo Urso. Dunque ancora una votla l’emergenza internazionale e i rapporti con l’estero appaiono decisivi. Influenzeranno davvero il voto?

Per ora influenzano le nostre tasche, visto che bollette e inflazione galoppano. Ieri finalmente i partiti hanno raggiunto un accordo sul decreto aiuti che dovrebbe portare altri 17 miliardi per contenere gli aumenti dei costi energetici. Ma l’accordo è stato raggiunto solo concedendo ai 5 Stelle un ulteriore finanziamento del Superbonus edilizio. Come se non bastasse i partiti hanno anche infilato una norma che abolisce il tetto massimo dei 240mila euro agli stipendi dei boiardi di Stato. Una specie di favore clientelare a quel “deep state” dell’alta burocrazia statale, da settimane in sordo conflitto con Mario Draghi. Una vergogna mentre l’inflazione si divora pensioni e retribuzioni di tutti.

L’Europa intanto non ha ancora deciso sul price cap e si avvia semplicemente ad imporre obblighi sui consumi energetici. Toccherà poi ad ogni esecutivo nazionale stabilire il come e il perché di questi risparmi forzati. Repubblica scrive che il governo Draghi però non ha intenzione di intervenire nel merito: la decisione spetterà al prossimo esecutivo.

È morto il regista cinematografico francese Jean-Luc Godard: a 91 anni è andato in Svizzera dove si è fatto assistere nel suicidio.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae papa Francesco in Kazakistan col presidente della Repubblica Kassym-Jomart Tokayev. Il Pontefice sarà nel Paese centro asiatico nei prossimi tre giorni.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il dossier arriva da Washington e conquista le prime pagine. Il Corriere della Sera annuncia: Soldi russi a partiti esteri. La Repubblica mette prudentemente dellle virgolette: “Partiti pagati da Mosca”. Lo fa anche La Stampa: “Soldi dalla Russia ai partiti”. Letta: intervenga il Copasir. Avvenire resta sulla crisi delle bollette: Energia, aiuti e tagli. Il Fatto cerca di attribuire a Draghi il favore fatto ieri dai partiti all’alta burocrazia: Migliori, l’ultima rapina: superstipendi ai boiardi. Il Quotidiano Nazionale lo chiama: Il delitto perfetto dei boiardi di Stato. Il Giornale si preoccupa dei tagli futuri: Europa senza tetto sul gas. E l’Italia deve arrangiarsi. Il Manifesto omaggia il regista Jean Luc Godard che si è fatto assistere nel suicidio: Il mio ultimo respiro. Il Mattino annuncia: Superbonus, fondi sbloccati. Così come Il Messaggero: Superbonus, sbloccati i fondi. Il Sole 24 Ore aggiunge che ci sono anche nuove regole: Superbonus e cessione dei crediti, nuovi limiti per le responsabilità. La Verità torna sul caso Genova-Benetton: Autostrade: «Non risarciamo le vittime del ponte». Ok dei Pm. Libero esalta una battuta di Michele Emiliano: Il Pd si arrende: «Votate Cinquestelle». Un’altra resa, secondo il Domani, è quella dei partiti piegati dal ricatto dei 5 Stelle: La politica si arrende di fronte alla truffe sui bonus edilizi.

RAPPORTO USA: I SOLDI DEI RUSSI PER CONDIZIONARE LE DEMOCRAZIE

Irrompe sulla campagna elettorale un rapporto dell'intelligence statunitense. Il rapporto rivela che dal 2014 Mosca avrebbe finanziato con 300 milioni di dollari forze politiche e candidati per accrescere la propria influenza e destabilizzare le democrazie. Paolo Mastrolilli su Repubblica.

«La Russia ha speso almeno trecento milioni di dollari, dal 2014 ad oggi, per finanziare partiti politici e candidati in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare i risultati elettorali e dirottare i sistemi democratici degli avversari. È la denuncia contenuta in uno straordinario démarche che il segretario di Stato Blinken ha inviato lunedì alle ambasciate Usa in oltre cento paesi, in cui descrive le operazioni condotte da Mosca per interferire nei processi politici delle altre nazioni, e come Washington può rispondere, con misure che vanno dalle sanzioni economiche al bando dei viaggi. I nomi dei paesi e dei politici coinvolti non sono stati rivelati, ma sono concentrati soprattutto in Europa, e non sfugge che tra una decina di giorni andrà alle urne proprio l'Italia, dove nel recente passato sono state scoperte operazioni lanciate dalla Russia per spionaggio, finanziamento almeno tentato di forze politiche, e attività di disinformazione. Una fonte dell'amministrazione, spiegando il motivo dell'iniziativa di Blinken, ha detto al Washington Post che lo scopo è contrastare le operazioni del Cremlino in Europa, Africa, e altri continenti presi di mira. «Facendo luce sul finanziamento politico segreto russo e sui tentativi di minare i processi democratici, stiamo avvisando questi partiti e candidati stranieri che se accettano segretamente denaro di Mosca, noi possiamo denunciarli e lo faremo ». Ad esempio, ha citato un paese asiatico dove l'ambasciatore russo avrebbe dato milioni di dollari in contanti a un candidato presidenziale. I funzionari - sempre secondo il Washington Post - hanno affermato che le forze legate al Cremlino hanno utilizzato società di comodo, think tank e altri mezzi per influenzare gli eventi politici, a volte a beneficio di gruppi di estrema destra. Il cable nomina gli oligarchi russi coinvolti negli "schemi di finanziamento", tra cui Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov. Negli ultimi anni, la lista delle ingerenze russe si è sempre più allungata: il referendum per la Brexit in Gran Bretagna; la vittoria di Trump nelle presidenziali del 2016, dopo il furto delle email personali di Hillary Clinton; le presidenziali francesi, per indirizzare la sfida fra Macron e le Pen; i disordini catalani in Spagna; le elezioni tedesche, a favore dell'estrema destra; il referendum costituzionale in Italia, per affondare il progetto di Renzi; il movimento No Vax, diffuso un po' ovunque in Europa. In Italia sono state rivelate le campagne di disinformazione, e l'utilizzo diffuso dei social media per diffondere notizie false che promuovevano gli interessi di Mosca. La Lega aveva firmato un accordo di collaborazione politica con il partito di Putin, e il suo leader Matteo Salvini ha spesso difeso pubblicamente le posizioni del Cremlino, inclusa la sua recente partecipazione al forum di Cernobbio, dove si è presentato con una serie di slide per spiegare perché le sanzioni imposte alla Russia dopo l'invasione illegale e non provocata dell'Ucraina non starebbero funzionando. Il leader della Lega ha anche frenato sulla prosecuzione degli invii di armi a Kiev, come peraltro quello del Movimento 5 Stelle Conte, proprio mentre la controffensiva lanciata da Zelensky ricacciava indietro le forze di occupazione di Mosca. In passato poi erano state pubblicate le registrazioni delle conversazioni avute nell'ottobre del 2018 da Gianluca Savoini, braccio destro di Salvini per la Russia, all'hotel Metropol. La magistratura aveva aperto un'inchiesta su questo episodio, sospettando che si discutesse di finanziamenti illeciti, ma l'indagine non è stata ancora conclusa.
Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia hanno ribadito in varie occasioni durante la campagna elettorale in corso che continueranno ad appoggiare l'Ucraina, ma resta da vedere se potranno mantenere la promessa
, una volta al governo con il sostengo decisivo dei parlamentari della Lega. Lo scetticismo verso la Ue è poi una posizione apprezzata a Mosca».

SALVINI QUERELA CHI FA IL SUO NOME

La polemica infiamma la campagna elettorale. Il leader della Lega Matteo Salvini si difende: mai chiesto o ricevuto soldi, basta falsità. Il M5S dice: serve chiarezza. Il Pd: "Adesso agisca il Copasir". L'ira di Crosetto che parla di "alto tradimento". Federico Capurso per La Stampa.

«Il fronte russo, di colpo, sembra più vicino. A meno di due settimane dal voto piomba sulla campagna elettorale italiana il timore che Mosca abbia finanziato, negli ultimi anni, anche partiti ed esponenti politici del nostro Paese. Così, le ombre del Cremlino si allungano su Roma, mandando in tilt il dibattito politico. Il centrosinistra chiede chiarezza e la batteria di dichiarazioni del Pd si abbatte rapidamente sul centrodestra che, di fronte al pericolo di vedere la Lega trascinata sul patibolo dei sospetti, si spacca. Da una parte, Forza Italia e Lega fanno quadrato, con Matteo Salvini impegnato a minacciare querele, dall'altra Fratelli d'Italia si unisce al coro di chi invoca massima trasparenza con un tweet durissimo del fondatore Guido Crosetto, «alto tradimento», poi cancellato nella notte. Il segretario del Pd Enrico Letta coglie al volo l'occasione per mettere in difficoltà gli avversari. Chiede che «il governo dia informazioni e che intervenga il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica». Per il leader del Pd è fondamentale fare luce sulla vicenda «prima del voto. Gli italiani - dice ospite di Cartabianca - devono sapere quali partiti politici del nostro Paese sono stati finanziati da una potenza nemica dell'Europa». E lancia la prima staffilata diretta a Salvini: «Il Parlamento europeo ha votato una risoluzione contro le ingerenze della Russia in Europa e sapete qual è l'unico partito italiano che a Bruxelles ha votato contro? La Lega». Gli fa eco il coordinatore dei sindaci del Pd Matteo Ricci: «Sono anni che la Russia cerca di influenzare le elezioni in Occidente e in Italia aveva scommesso particolarmente sulla Lega». Anche la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno, Pd, chiede di tenere alta la guardia: «Putin vuole destabilizzare le democrazie e il mondo libero, con il sostegno diretto ad alcuni partiti». Nel documento diffuso dall'intelligence americana non si cita mai in alcun modo il Carroccio o suoi esponenti, ma in via Bellerio vedono arrivare le prime reazioni del Pd e passano subito al contrattacco: «La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Salvini, come è già accaduto in alcuni contesti televisivi, con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta». Nella nota diffusa dal partito si aggiunge: «L'unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino sia stato prima il Partito comunista italiano e, in epoca recente, la Repubblica che per anni ha allegato la rivista Russia Oggi». Coincidenza vuole che esca dallo studio di Cartabianca il segretario del Pd ed entri Salvini a dargli il cambio. Il leader della Lega tenta di evitare il tema: «Mi occupo di Italia», dice, ma poi reagisce tirando in ballo gli avversari: «Non ho mai chiesto e preso soldi dalla Russia. Dicano nomi e cognomi di chi li ha presi. Se il Pd ha preso i soldi lo voglio sapere». È un nervo scoperto. «L'unico Paese straniero che nella mia attività politica mi offrì un viaggio pagato all'estero, con albergo, passaggi nelle università, incontri con esponenti di governo, tutto pagato e spesato, e che poi non feci, furono gli Usa», dice. Poi cambia discorso: «Letta parla di Russia, per questo non prende il voto degli operai, l'emergenza ora sono le bollette». E sull'ipotesi di uno scostamento di bilancio da 30 miliardi per azzerare i rincari, attacca: «Mi stupisce che Letta e Meloni siano entrambi contrari», mimando un abbraccio tra i due.
Ma le reazioni dure non arrivano soltanto da sinistra. Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, pretende chiarezza: «Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari - si legge in un tweet -. La cosa non mi stupisce perché c'era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento». Gli alleati leggono e saltano sulla sedia. Pochi minuti dopo, infatti, Crosetto cancella il tweet. In Forza Italia c'è il sentore di una polpetta avvelenata, o comunque di una rivelazione a orologeria, Giorgio Mulè, sottosegretario azzurro alla Difesa, lo dice apertamente: «Finora in Italia abbiamo conosciuto solo il Partito comunista intascare tanti soldi da Mosca.
A 12 giorni dalle elezioni si pretende di sapere ora e subito se e quali evidenze (non chiacchiere) esistono nei confronti di partiti o personalità italiane. Agitare sospetti equivale ad alimentare calunnie». Anche Giuseppe Conte, come Letta, chiede che il Copasir «indaghi con il pieno sostegno di tutte le forze parlamentari» e assicura che il M5S «come sempre agisce in piena trasparenza». Dall'altra parte, però, parlando con La Stampa, si mostra in sintonia con i timori espressi da Forza Italia, ammettendo «una certa preoccupazione per il fatto che la parte finale della campagna elettorale possa essere inquinata da fattori esterni. Ci auguriamo che nessuno pieghi una questione di sicurezza nazionale a biechi interessi politici».

CRISI ENERGIA, LE PROPOSTE DELLA UE

Oggi Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, proporrà la nascita di un fondo sovrano e del mercato comune dell'idrogeno. Beda Romano per il Sole 24 Ore.

«In un contesto economico e sociale molto incerto, il Parlamento europeo ha esortato ieri i Ventisette a trovare presto un accordo sulle misure da adottare per affrontare una drammatica crisi energetica. L'appello è giunto mentre oggi la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen pronuncerà l'atteso discorso sullo Stato dell'Unione in cui illustrerà misure di emergenza e presenterà il suo programma politico per la seconda metà della legislatura. In un dibattito ieri pomeriggio qui a Strasburgo, i gruppi politici si sono espressi con evidente preoccupazione sulla situazione economica. Il fortissimo aumento del prezzo del gas, sulla scia della guerra in Ucraina e le sue ricadute sul fronte dell'elettricità fanno temere non solo una recessione economica, ma anche tensioni sociali.
Ciò detto, anche tra i partiti come tra i governi l'ipotesi di un tetto al prezzo del gas è controversa.
La popolare olandese Esther de Lange ha messo l'accento sulla necessità di completare il mercato energetico. Ha chiesto quindi alla Francia di rendere operative le interconnessioni con la penisola iberica, e alla Germania di tenere aperte le sue centrali nucleari. La liberale francese Valérie Hayer ha esortato le imprese energetiche a essere solidali, ricordando gli elevati profitti di Eni, Total e Shell. La socialista spagnola Iratxe García si è detta favorevole a un tetto al prezzo del gas. Come detto, il dibattito è giunto alla vigilia del discorso sullo Stato dell'Unione, previsto oggi. Sarà l'occasione per la presidente della Commissione europea di presentare proposte concrete per affrontare la crisi energetica, sulla scia del mandato ricevuto dai ministri dell'Energia venerdì scorso. Più in generale, la signora von der Leyen vorrà presentare il suo programma da qui al 2024 (possibilmente in vista di una sua rielezione). Secondo le informazioni raccolte a Strasburgo, il discorso toccherà vari aspetti: dalla riforma del Patto di Stabilità alle trattative commerciali con il Sudamerica fino alla guerra in Ucraina. La presidente proporrà anche la nascita di un fondo sovrano per finanziare grandi progetti comunitari così come di un mercato europeo dell'idrogeno. Tornando alle misure energetiche, queste sono state illustrate ieri a grandi linee dalla commissaria all'Energia Kadri Simson in aula. Bruxelles vuole tassare gli extra profitti incamerati dalle società che producono elettricità senza l'uso di gas, approfittando del fatto che attualmente l'assetto di mercato prevede che il prezzo dell'elettricità sia legato al prezzo del gas. Secondo alcuni canovacci del provvedimento in lavorazione, un tetto potrebbe situarsi tra i 180 MWh e i 200 MWh. Il denaro verrebbe usato dagli Stati membri per calmierare le bollette delle imprese e delle famiglie. Nel contempo, le imprese oil, gas & coal verrebbero chiamate a un contributo di solidarietà temporaneo del 33% sugli utili superiori del 20% alla media degli ultimi tre anni. La Commissione proporrà obiettivi vincolanti di risparmio dell'elettricità così come una proroga nella flessibilità accordata sul fronte delle regole sugli aiuti di Stato. Proprio ieri la presidenza ceca dell'Unione ha annunciato che il 30 settembre i ministri dell'Energia torneranno a riunirsi a Bruxelles nella speranza di approvare le misure proposte dall'esecutivo comunitario. Come emerso già venerdì scorso, la questione del tetto al prezzo del gas rimane controversa tra i Ventisette e necessita di maggiore lavoro tecnico. Si discute se un limite non debba essere fissato a seconda del paese fornitore (Algeria, Norvegia, Regno Unito ecc). Ieri, nel frattempo, il governo ceco ha annunciato di voler limitare l'ammontare delle bollette energetiche a livello nazionale, seguendo l'esempio di altri paesi come la Francia, in attesa di una soluzione europea».

I TAGLI OBBLIGATORI SPETTANO AL PROSSIMO ESECUTIVO

L’Europa ci costringe ad un obbligo di risparmio energetico. Ma il governo attuale rinvia il razionamento al prossimo esecutivo. Serenella Mattera per Repubblica.

«Un piano italiano per razionare i consumi di elettricità ancora non c'è. E non solo perché la discussione in Europa è ancora aperta, ma anche perché finora Mario Draghi ha chiesto ai suoi ministri di lavorare per evitare risparmi obbligatori, agendo su misure concordate con le aziende e sulla moral suasion dei cittadini. Ma adesso che la proposta della Commissione sembra andare nella direzione dell'obbligatorietà, trapelano molte perplessità dall'esecutivo ancora in carica. Gli uffici ministeriali si sono messi al lavoro per capire in concreto come si possa modulare l'obbligo di tagliare del 5% per tre o quattro ore al giorno l'elettricità consumata da famiglie e imprese, minimizzando l'impatto. Con una priorità: evitare che l'esigenza di risparmio energetico impatti su una crescita sempre più fragile. E una consapevolezza: il piano si dovrà probabilmente definire nelle settimane post-elezioni, nel dialogo con la maggioranza che uscirà dalle urne. Spetterà al nuovo governo - a Giorgia Meloni se sarà lei, piaccia o no a FdI la decisione Ue - attuare la stretta. Draghi può impostare il lavoro, ma la grana sarà di chi verrà.
La proposta europea avrà impatto su due diversi piani. Il primo riguarda le famiglie. Attraverso i contatori elettrici - questo chiede Bruxelles - può infatti essere ridotta l'energia che arriva nelle case e così si può impedire ai cittadini di usare in contemporanea più elettrodomestici, il forno e il phon insieme
. Le fasce critiche sono quelle che vanno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 20, il governo dovrà valutare in concreto quando tagliare, anche se l'idea in partenza è ridurre al minimo l'impatto della misura. Il problema sarà come garantire i tagli nelle aree in cui i contatori di nuova generazione, controllabili dal gestore della rete, non sono ancora installati. Ma se il piano Ue entrerà in vigore, sarà difficile evitare di chiedere ai cittadini un contributo. E allora l'ipotesi è compensare il loro disagio con un bonus in bolletta, che si sommerebbe per le famiglie al risparmio generato dal razionamento obbligatorio. Il secondo piano è quello delle imprese ed è quello che desta più preoccupazione a Palazzo Chigi, perché rischia di impattare su una crescita già fragile. Da settimane il ministro Roberto Cingolani ha aperto un'interlocuzione con Confindustria sui risparmi di gas, con l'obiettivo di evitare i razionamenti. L'elettricità pone problemi aggiuntivi: non è possibile ad esempio chiedere agli alimentari di spegnere i frigoriferi o alle aziende agricole di rimodulare le coltivazioni di grano o pomodori, per non parlare dei trasporti, dell'energia per muovere ad esempio i treni. Quel che si può fare - ma anche in questo caso con incentivi e compensazioni - è rimodulare le produzioni laddove possibile e ad esempio farle funzionare negli orari di più bassi consumi, dalle 3 di notte alle 10 del mattino, o di domenica, riorganizzare i turni, riprogrammare manutenzioni. Sul fronte dei prezzi, in attesa che si muova l'Ue, il governo continua a lavorare per inserire già nel decreto Aiuti ter, atteso giovedì o venerdì in Consiglio dei ministri, un meccanismo nazionale di separazione dei prezzi di gas ed elettricità. Roberto Cingolani continua a incalzare l'Ue, perché fissi il tetto al metano «a un 60-65% delle quotazioni attuali o agganci il prezzo al gas naturale liquido ». Intanto il ministro è pronto a firmare oggi un decreto, atteso da tempo, per garantire 20 terawattora di elettricità da rinnovabili a prezzo calmieratoa una lista di imprese energivore condivisa con l'Europa. A seguire arriverà un decreto per distribuire 2 miliardi di metri cubi di gas di produzione italiana «a prezzo molto basso».

DECRETO AIUTI, I PARTITI SBLOCCANO 17 MILIARDI

Accordo fra i partiti. I 5 Stelle ottengono i fondi sul superbonus: in Aula venerdì l'ok al terzo decreto. Il Parlamento, su iniziativa di Forza Italia e con il consenso di tutti gli altri partiti, prova a togliere il tetto alle retribuzioni di dirigenti pubblici e vertici militari. Luca Monticelli per La Stampa.

«Dopo giorni di polemiche infuocate, l'ex maggioranza ha trovato l'accordo sul decreto Aiuti bis fermo al Senato, sbloccando i 17 miliardi di sostegni a famiglie e imprese che la campagna elettorale rischiava di cancellare. La soluzione è arrivata con la mediazione sul Superbonus: la responsabilità in solido nella cessione dei crediti scatterà solo a seguito di violazioni con dolo o colpa grave. I partiti fanno a gara per intestarsi il merito, ma tra gli emendamenti approvati spicca la deroga al tetto di 240 mila euro degli stipendi dei dirigenti pubblici. Una modifica che peraltro non prevede un'altra soglia massima. Irritato il premier Mario Draghi che prende le distanze dalla riformulazione accolta dal Tesoro: «Si tratta di una dinamica squisitamente parlamentare», fanno sapere da Palazzo Chigi. La formulazione finale dell'emendamento criticato dal premier, ad esempio, cancella il tetto dello stipendio al segretario generale di Palazzo Chigi, ai segretari generali e ai capi dipartimento dei ministeri. E poi al capo della Polizia, al comandante generale dei Carabinieri, a quello della Guardia di Finanza e ai capi di Stato maggiore. Quanto all'intesa sul Superbonus, Giuseppe Conte va all'attacco dopo essere stato accusato dal Partito democratico di ostruzionismo: «Enrico Letta chieda scusa e con lui tutti gli altri», sottolinea il capo politico del M5S. Dura la risposta di Simona Malpezzi, capogruppo dem a Palazzo Madama: «È Conte che deve chiedere scusa al Parlamento per avere fatto ritardare l'approvazione di un provvedimento importante per il Paese. Si poteva chiudere la settimana scorsa se avessero accettato il percorso che avevamo indicato, e che è quello che si è portato a casa con una riformulazione diversa dalle richieste dei 5 Stelle». Per Matteo Salvini è stata la Lega a «salvare le imprese inguaiate dalle criticità del Superbonus». Il Carroccio se la prende direttamente con Conte: «Esperto di Dpcm e di banchi a rotelle, non di aziende». Pure Fratelli d'Italia si prende parte del merito: «Abbiamo garantito che il decreto corresse spedito con la nostra presenza in aula e ritirando una parte degli emendamenti», spiega Giorgia Meloni che aggiunge: «Il provvedimento non lo condividiamo tutto ma contiene delle misure importanti». L'Ance, l'associazione dei costruttori, «plaude allo sforzo di tutti che ha permesso di vincere una grande battaglia». Più caute le banche: «E' un passo avanti - dice l'Abi - ma ora tocca all'Agenzia delle Entrate adeguare la circolare di giugno, in modo che si creino le condizioni più favorevoli per l'acquisto dei bonus edilizi». L'aula del Senato ha approvato il decreto aiuti bis con 182 voti favorevoli e nessun contrario, e la relazione del governo sull'aggiustamento di bilancio che autorizza l'utilizzo di 6,2 miliardi di extragettito fiscale come copertura del prossimo decreto aiuti, il terzo, probabilmente sul tavolo del Consiglio dei ministri di venerdì, prima della partenza di Draghi per gli Stati Uniti. Il provvedimento che il governo sta mettendo a punto supererà di poco i 13 miliardi di euro e dovrebbe recuperare la stretta sulle delocalizzazioni, saltata dal menu del decreto votato ieri, e in più è allo studio anche una possibile accelerazione rispetto all'Europa sul fronte dei prezzi energetici, agendo sul costo del gas e sulla separazione dall'elettricità».

MA CI INFILANO LA NORMA CLIENTELARE

Altro che tetto al gas, il tetto tolto è quello agli stipendi dei vertici della burocrazia. Favorite le alte figure militari e ministeriali, scambio di accuse tra i partiti e il Mef. L’articolo di Marco Mobili e Gianni Trovati per il Sole 24 Ore.

«Nel pieno della battaglia elettorale in vista del voto del 25 settembre i partiti trovano un momento di intesa; e lo fanno per cancellare il tetto dei 240mila euro lordi all'anno che fin qui ha limitato tutti gli stipendi riconosciuti dalla Pa. La novità arriva con un emendamento inserito all'ultima curva nella legge di conversione del decreto Aiuti-bis approvato ieri al Senato, e ora atteso domani alla ratifica a Montecitorio dove non ci sono i tempi per altre modifiche che imporrebbero un'impossibile terza lettura. Il correttivo, approvato nonostante il forte disappunto arrivato da Palazzo Chigi anche per il metodo del blitz all'ultimo minuto utile dell'ultimo intervento normativo parlamentare prima delle elezioni, ha superato anche la resistenza al ministero dell'Economia, dove la verifica delle coperture ha impedito lo stop per ragioni contabili. Perché le coperture ci sono. Resistenza flebile secondo più di una fonte: il Pd parla di emendamento di Forza Italia riformulato dal Mef, annunciando un ordine del giorno alla Camera per modificare la norma, il leader di Iv Matteo Renzi spiega che «purtroppo abbiamo dovuto votarlo per non far saltare tutti i 17 miliardi di aiuti», e anche i Cinque Stelle annunciano battaglia. Il Mef replica spiegando di aver dato solo un «contributo tecnico», ricordando che l'applicazione della norma richiede un provvedimento attuativo. Insomma: il correttivo è stato approvato da tutti in Commissione (Lega, M5S e Fdi si sono sfilati in Aula) ma non sembra piacere a nessuno. Al punto che, visto il caos, si può ipotizzare un'abrogazione a stretto giro nel nuovo decreto Aiuti Ter. Il limite dei 240mila euro scompare per un selezionatissimo gruppo di alti vertici della pubblica amministrazione. I fortunati che spuntano l'aumento sono in pratica i vertici delle Forze armate e dei ministeri. Rientrano nel gruppo il capo della polizia, i comandanti generali di Carabinieri e Guardia di Finanza, il capo dell'amministrazione penitenziaria, i capi di Stato maggiore di difesa e Forze armate, il comandante del Comando operativo di vertice interforze, e il comandante generale delle Capitanerie di Porto. Ma, soprattutto, accanto a loro ottengono la deroga tutti i capi dipartimento e i segretari generali di presidenza del Consiglio e ministeri. Per tutte queste figure il «trattamento accessorio», cioè le voci che si aggiungono allo stipendio di base e che negli scalini più alti della gerarchia sono le voci dominanti della retribuzione, potranno superare il tetto. Per arrivare a dove? Un nuovo limite generale ex ante non è fissato: a definire i confini entro i quali potranno muoversi le retribuzioni di questi alti vertici ministeriali e delle forze armate è la capienza di un fondo del ministero dell'Economia nato per le «esigenze indifferibili» e ora chiamato a finanziare la misura: giudicata, evidentemente, indifferibile a Palazzo Madama. In realtà, quello arrivato ieri è solo il colpo più duro a un tetto agli stipendi pubblici che è in discussione da tempo. Il limite era stato introdotto a fine 2011, quando il decreto Salva-Italia (Dl 201/2011, articolo 23-ter) rappresentò l'esordio del governo Monti nella battaglia contro il rischio default del Paese, per essere poi rivisto nel 2014 all'inizio del governo Renzi. Altri tempi».

SALLUSTI: IL CENTRODESTRA NON È DIVISO

Alessandro Sallusti vuole rassicurare chi ha visto, nelle ultime ore, il leader della Lega attaccare brutalmente l’alleata Giorgia Meloni, accusata di convergere col “nemico” Enrico Letta. Ammette: sì, ci possono essere divergenze, ma il Centrodestra è unito.

«Dicono che Giorgia Meloni e Matteo Salvini siano ai ferri corti sulle misure urgenti, tipo scostamento di bilancio per arginare il caro bollette (Meloni è scettica, Salvini lo vuole) e che Berlusconi a sua volta abbia una ricetta diversa. Può essere, anzi diciamo che è così e quindi dicono che gli alleati di Centrodestra sono divisi e per loro governare sarà un problema. Il ragionamento ha una sua logica, ma è una logica di breve respiro che poco ha a che fare con ciò che saremo chiamati a decidere il 25 settembre. Mettiamo un punto fermo: i tre alleati sul caro energia pensano esattamente la stessa cosa, cioè la necessità di arginare con le buone o con le cattive il caro bollette, le divergenze riguardano il come farlo; i tre sono d'accordo che le tasse vanno abbassate e ognuno ha la sua ricetta; non c'è divisione neppure sull'obiettivo di portare sotto controllo i flussi migratori, il "come" andrà deciso e così via. Detto in sintesi, i soci del Centrodestra - al netto delle legittime tattiche di propaganda elettorale per contendersi i votanti - hanno obiettivi comuni e condivisi mentre la coalizione di centrosinistra è divisa non sul "come" fare ma sul "cosa" fare: dalle sanzioni alla Russia agli aiuti militari all'Ucraina, dalle tasse al futuro energetico del paese fino alla collocazione dell'Italia nello scacchiere internazionale non c'è un solo tema sul quale abbiano lo stesso obiettivo, anzi spesso i loro programmi sono uno all'opposto dell'altro. Mi pare che la differenza non sia da poco: di qui c'è una visione di paese con un progetto chiaro, di là regnano caos e contraddizioni. Io non saprei dire se nel caso di vittoria la prima cosa che dovrebbe fare il governo è lo scostamento di bilancio o qualche altra diavoleria. E onestamente neppure mi interessa, a noi interessa solo che le bollette calino. Ma soprattutto ci interessa che il paese imbocchi una strada nuova sulle libertà delle persone e delle imprese in un contesto di equità e solidarietà sociale. Non è una cosa che si potrà fare il 26 settembre e neppure immagino a ottobre. Noi si andrà a votare non sullo "scostamento sì" o "scostamento no" ma sulle cose da fare e gli obiettivi da raggiungere da qui a cinque anni. L'occasione è adesso o, temo, mai più».

APPELLO DI AMATO CHE LASCIA LA CONSULTA

Appello del presidente della Consulta Giuliano Amato nel suo ultimo intervento: chiede sia alla politica che ai giudici di non uscire dai confini. Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera.

«L'esordio non ispira ottimismo: «Il mondo è cambiato, e non è cambiato in meglio. Sono aumentati i conflitti fra Stati, dentro e fuori l'Unione europea, e sono aumentati i conflitti nelle nostre società statuali». Né le prospettive sono meno preoccupanti, perse i poteri in campo «profittano delle difficoltà altrui per fare ciò che gli pare giusto e tuttavia tocca all'altro, quella è la strada che dalle situazioni difficili porta al caos istituzionale». Dopo nove anni trascorsi al palazzo della Consulta, Giuliano Amato lascia la Corte Costituzionale e l'incarico di presidente ricoperto negli ultimi otto mesi. E il saluto ai colleghi diventa l'occasione per uno sguardo sulle difficoltà che la massima istituzione di garanzia si trova ad affrontare nella società mutata e che si prepara ad altri mutamenti. Dentro e fuori i confini italiani. «In campo europeo - scandisce Amato indossando la toga per l'ultima volta - la tentazione di affermare il primato del diritto nazionale su quello comune europeo non è solo di Polonia, Romania e Ungheria». Il pensiero va a certe recenti «tentazioni», così le definisce, dei giudici francesi e tedeschi. E ancora: «In campo nazionale, le difficoltà decisionali del Parlamento su temi nei quali premono con forza esigenze non adeguatamente riconosciute di tutela, cominciano a dar fiato a tesi che ritenevo ormai sepolte sulla giurisprudenza come fonte del diritto al pari della legislazioni». Cioè le decisioni dei giudici parificate alle leggi, e ciò sulla base del principio secondo cui «la giustizia è amministrata in nome del popolo», com' è scritto nella Costituzione. È questa la strada che porta al caos, ammonisce Amato: la prevaricazione di un potere su un altro. «L'esercizio responsabile e certo non timido del proprio potere - dice - è un dovere istituzionale, ma con il rispetto del suo limite che è parte non rinunciabile della rule of law (la supremazia della legge che preserva dall'arbitrio, ndr ), chiunque sia a non rispettarlo, l'esecutivo come il giudiziario». Il richiamo al governo e ai giudici e al non uscire dai propri confini sembra estendersi anche alle Camere che con la loro inerzia di fronte alle esortazioni della Corte ad occuparsi di alcuni temi (soprattutto nel campo dei valori etici e dei cosiddetti nuovi diritti), si espongono proprio alle invasioni altrui. La Corte ne è sempre stata consapevole: «I casi ci portano spesso sul crinale che separa la nostra giurisdizione dalle scelte che competono al Parlamento», e il presidente uscente si rammarica che «ci capita più volte di incontrare il silenzio del Parlamento o voci in esso discordi, che ne prevengono le scelte». O le paralizzano. In queste acque poco tranquille la Corte ha navigato cercando sempre «la collaborazione istituzionale per consentire a ciascuno di esercitare le proprie responsabilità tenendo conto delle ragioni e degli stessi vincoli dell'altro»; e poi esercitando «l'equilibrio nella ricerca delle soluzioni di nostra competenza, con bilanciamenti mai unilaterali fra i valori costituzionali di volta in volta in campo», senza trascendere nell'«apprezzamento etico-sociale riservato al Parlamento». Come nel caso della «maternità surrogata», chiarisce Amato, «di cui mai abbiamo messo in dubbio il disvalore, sollecitando però il Parlamento a trovare soluzioni migliori di quelle oggi esistenti per la tutela dell'interesse del bambino». Che non sono arrivate. Dalla prossima settimana «cambierà il timoniere ma non la rotta né la guida collegiale che la determina», conclude il presidente che prima ha ascoltato il saluto - e i ripetuti «grazie» - della vice-presidente Silvana Sciarra e degli avvocati Giandomenico Falcon e Gabriella Palmieri Sandulli, a nome del Foro e dell'Avvocatura dello Stato. «Parlare di Amato significa attraversare la storia recente dell'Italia repubblicana», ha detto Sciarra ricordando le cinque legislature da parlamentare, gli incarichi di ministro del Tesoro e dell'Interno, nonché la carica di presidente del Consiglio in due bienni non meno traumatici dei tempi attuali: il 1992-93 e il 2000-2001. Senza mai abbandonare l'insegnamento universitario. Circa mezzo secolo di vita pubblica che, a 84 anni, sembra interrompersi. Per adesso Amato tornerà a dare una mano all'Istituto dell'Enciclopedia Treccani, di cui è stato presidente prima di entrare alla Corte. Ora spetta a Mattarella nominare un nuovo giudice costituzionale, e martedì prossimo ci sarà l'elezione del nuovo presidente, stavolta non scontata. La regola non scritta del più anziano di nomina vede sulla stessa linea di partenza i tre vice-presidenti: Sciarra, Daria De Petris e Nicolò Zanon».

LE TERRE RICONQUISTATE SONO SCENA DEL CRIMINE

A Balakliya, appena riconquistata dagli ucraini, la Procura raccoglie le prove delle illegalità compiute dai russi. Ci sono state sparizioni, uccisioni e casi di stupro. Parla una delle vittime. Daniele Raineri per Repubblica.

«Artom, 32 anni, smilzo, capelli appiccicati sulla fronte, ha passato 45 giorni dentro alla stazione di polizia di Balakliya quando era occupata dai soldati russi. Gli occupanti cercavano uomini che in questi anni hanno combattuto nel Donbass, è una pratica standard da quando è cominciata l'invasione dell'Ucraina: ovunque prendono il controllo setacciano la popolazione per cercare i veterani dell'Est, considerati il tipo di ucraino più difficile da sottomettere. «Sono entrati in casa, hanno visto delle foto con mio fratello, lui ha combattuto nel Donbass, sul telefono hanno scoperto che ci parliamo, mi hanno portato alla stazione. Lì mi hanno torturato, mi hanno attaccato dei cavi elettrici alla testa e alle mani. Quando mi hanno lasciato libero mi hanno preso il passaporto e mi hanno detto di presentarmi alla stazione una volta alla settimana», dice a Repubblica . Balakliya è la città liberata una settimana fa all'inizio della controffensiva che ha travolto le forze russe nell'Est dell'Ucraina. La stazione di polizia è un edificio basso con una gabbia di inferriate robuste aggiunta davanti all'ingresso e dentro tre piccole celle che erano destinate a tenere per poche ore le persone arrestate. I russi l'hanno trasformata in un centro per occuparsi degli elementi che consideravano sospetti. All'interno ci sono quattro agenti della divisione della Procura di Kharkiv che indaga sui crimini di guerra, hanno giubbotti con la scritta in inglese "War Crimes Prosecutor", spiegano che «in ogni cella i russi tenevano sette ucraini. I testimoni ci hanno raccontato di torture con metodi diversi: stupri, sigarette spente sulla pelle, elettrodi». È il repertorio della tortura a basso costo. Due agenti in guanti di lattice spennellano con la polvere una bottiglia di vodka lasciata su un davanzale per recuperare le impronte digitali. Conserveranno le impronte sconosciute anche se forse appartengono a un militare già scappato per sempre in Russia, non si sa mai, o a qualche collaborazionista locale. La Procura di Kharkiv tratta le città appena liberate dalla controffensiva come una gigantesca scena del crimine e un po' sembra irrealizzabile, perché attorno c'è un panorama di rovine e case ridotte in macerie e si vedono anche buchi di cannonate e veicoli rovesciati, un po' è il segno della tigna ucraina per rimettere le cose al loro posto e non dimenticare nulla di quello che è successo. Quanti morti avete contato? «Ancora non lo sappiamo, è il nostro secondo giorno qui. Possiamo dire che ci sono state sparizioni, uccisioni e casi di stupro». Gli investigatori nelle aree liberate sono arrivati in massa per capire cosa è successo e non è come a Bucha o Irpin: i russi questa volta non hanno abbandonato i cadaveri per strada con le mani legate dietro alla schiena. Nelle celle e nei corridoi il pavimento è coperto da rifiuti e vetri rotti, le luci non funzionano, è tutto buttato all'aria. Alla parete di un ufficio ci sono schemi con molte figure colorate stampati dalla propaganda russa che spiegano il nazismo ucraino, carrellate di foto di gruppi neonazi, bandiere con svastiche, immagini dell'esercito di Kiev e materiale sulla divisione Galizia, che fu la divisione delle SS formata da volontari nell'Ucraina occupata dalla Wehrmacht. Un ufficiale di polizia ucraina li vede e li strappa dalla parete. Per un viottolo che scende verso i prati ad appena mezzo chilometro dalla stazione di polizia si arriva a un campo con due cadaveri appena disseppelliti, li hanno uccisi i soldati russi il 6 settembre, l'ultimo giorno prima di scappare via, erano in macchina a un posto di blocco. Gli abitanti li hanno sepolti nel prato perché portarli al cimitero era troppo pericoloso in quei giorni, in attesa di giorni migliori. Anche qui ci sono gli investigatori, contano i fori di proiettili nei corpi gonfi, li chiudono in due body bag nere. Arriva anche la madre di uno dei due, dentro un impermeabile: «Nessuno ha chiesto a Putin di venire in Ucraina, ma lui è venuto lo stesso. Io prego tutte le madri del mondo, che vedano quello che succede qui, ha ucciso i nostri figli, ha distrutto le nostre famiglie, vorrei che Dio lo punisse». Per le strade di Balakliya in questi giorni passano le macchine di comandanti e pezzi del governo, c'è da riprendere il controllo di un territorio enorme che fino a ieri non era nemmeno più connesso a internet. La vice ministra della Difesa, Hanna Malyar, dice a Repubblica che «gli aiuti militari dei nostri alleati sono stati indispensabili e straordinari, abbiamo una gratitudine immensa per quello che è stato fatto». Ma non teme che in Italia il nuovo governo cambi idea? «È una questione di politica italiana, non tocca a me parlarne ». E sempre a proposito delle armi donate dagli alleati, avete intenzione di chiedere all'Amministrazione Biden gli Atacms, la versione dei missili Himars che può arrivare a trecento chilometri? «Non citerò armi specifiche, ma questi sistemi d'arma fanno parte anche loro del possibile negoziato con i russi». È una rivelazione interessante. L'arrivo di armi più potenti è un fattore usato sul tavolo di un potenziale negoziato con Mosca».

LE CRITICHE INTERNE AL REGIME RUSSO

Torna la critica dura a Vladimir Putin da parte del conservatore Igor Girkin, che aveva previsto la controffensiva ucraina. Luigi De Biase per il Manifesto.

«Ai canali russi di Telegram sarebbe meglio accostarsi con cautela, soprattutto quando promettono un filo diretto con le stanze del potere. Si tratta, nel migliore dei casi, di informazioni che nessuno sarà mai in grado di confermare o di smentire; nel peggiore, dei desideri oppure dei piani di chi quei canali li gestisce. C'è, però, una cosa che questo strumento, sicuramente il più usato in Russia per commentare la guerra nonostante il blocco imposto dalle autorità nel 2020, permette di registrare con efficacia: lo stato d'animo nei confronti di quella che il presidente, Vladimir Putin, continua a definire «operazione speciale». Da giorni i canali più seguiti rilanciano con insistenza i commenti di Igor Girkin, l'uomo che nel 2014 prima ha guidato l'annessione della Crimea, e poi ha organizzato una forza militare a Donetsk e Lugansk. Colpito da sanzioni e inseguito da mandati di cattura, Girkin è scomparso dalla scena pubblica dopo la strage del volo MH17, in cui persero la vita a 298 civili innocenti, di cui ha ammesso la «responsabilità morale». Che il suo nome torni oggi in voga negli ambienti conservatori dipende da un dato singolare. Girkin, 52 anni, oltre la metà passati nei servizi segreti, conosciuto con il nome di battaglia Strelkov, ovvero «tiratore», per il periodo in servizio in Cecenia, è un enorme pessimista, al punto da essere chiamato ironicamente «il signore dell'Apocalisse». Da settimane metteva in guardia sulla possibilità di una offensiva nel settore di Kharkiv, a ridosso del confine russo, e quell'offensiva è puntualmente avvenuta. In cinque giorni gli ucraini hanno ripreso cinquecento chilometri quadrati di territorio, compreso il centro strategico di Izyum. Con Girkin/Strelkov al comando delle truppe, si legge sempre più spesso, probabilmente l'attacco sarebbe stato respinto. Il che mette in evidenza anche la profonda sfiducia che circonda in questa fase la catena di comando delle forze armate.
Putin ha rimandato ufficialmente ieri l'annuncio che un numero elevato di osservatori attendeva, ovvero la mobilitazione generale attraverso lo stato di guerra. Per il momento sembra deciso a evitare cambiamenti troppo forti. Bisogna, però, ricordare che dal 24 febbraio è diventato ogni giorno più difficile individuare un nesso fra la realtà dei fatti e le azioni che il Cremlino ha intrapreso.
La crisi, fanno sapere da Mosca, sarà al centro di colloqui ««dettagliati» con il presidente cinese, Xi Jinping. I due si vedranno domani e dopodomani a Samarcanda, in Uzbekistan.
È possibile che Putin sia frenato da un fattore sempre più significativo negli equilibri di guerra: la presenza crescente sul terreno degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in termini di intelligence. Il New York Times ha dedicato due lunghi pezzi in tre giorni al ruolo che gli strateghi americani e britannici hanno avuto nella conquista di Izyum e nella conseguente rotta dell'esercito russo. Nel secondo, pubblicato ieri, citano il nuovo attaché militare dell'ambasciata Usa a Kiev, il generale Garrick Harmon, che prima di assumere l'incarico era responsabile al Pentagono delle forniture militari ai paesi stranieri. Sulla carta non esiste uomo migliore per gestire i quattordici miliardi e mezzo di dollari in aiuti all'esercito ucraino che la Casa Bianca ha approvato dallo scorso febbraio. Harmon e altri specialisti hanno convinto gli ucraini a mettere da parte il piano di un attacco a sud, nella regione di Kherson, e hanno offerto elementi decisivi per pianificare l'attacco a nord, fra Kherson e Lugansk. Del loro ruolo gli americani accettano a questo punto di parlare apertamente. Il confronto con la Nato di cui i propagandisti russi parlano da mesi ora è realistico. Per Putin non è una buona notizia. Occorre notare che a partire proprio dallo scorso fine settimana sono ripresi i colloqui con i leader europei, in particolare con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il cancelliere Tedesco, Olaf Scholz. I confini della Russia bruciano. Non c'è soltanto il conflitto in Ucraina, in cui Putin è direttamente coinvolto, ma anche quello nel Caucaso fra Armenia e Azerbaigian, che Putin deve cercare di spegnere il prima possibile per non rimanere coinvolto».

SI ACCENDE IL FRONTE ARMENO

Le altre notizie dall’estero sono spesso condizionate dalla guerra in Ucraina. Soprattutto se riguardano altre ex repubbliche socialiste sovietiche, come l’Azerbaijan.

«Faville dell'incendio ucraino hanno improvvisamente acceso un nuovo, pericoloso fronte di fuoco a Est del mar Nero: a mezzanotte tra lunedì e martedì la linea di confine tra Armenia e Azerbaijan si è illuminata di traccianti seguiti dal boato delle esplosioni. Ci sono decine di morti: 50 armeni e un numero imprecisato di azeri, secondo i relativi governi. Erevan e Baku, le due capitali, si accusano reciprocamente sostenendo di avere risposto a provocazioni. Gli azeri hanno attaccato «con bombardamenti intensivi contro obiettivi militari delle città di Goris, Sotk e Jermuk», dice la Difesa armena. Hanno usato anche i micidiali droni turchi Bayraktar, ed Erevan denuncia: «Tentano di avanzare sul nostro territorio». «Postazioni azere nelle regioni di Dashkasan, Lachin e Kalbajar », replica Baku, sono state duramente attaccate dagli armeni. Non sono attriti di confine, è qualcosa di molto grave e profondo. La tensione è alle stelle, e i precedenti tra le due ex repubbliche sovietiche - radicalmente distanti per cultura, religione e alleati - sono drammatici. Un cessate il fuoco concordato dopo una notte di battaglia è stato più volte violato, ed è altissimo il rischio che la guerra riesploda anche se il governo azero dice di avere già «conseguito tutti gli obiettivi in risposta alle provocazioni armene».
Lo storico contenzioso è un vulcano che minaccia di allargare il conflitto internazionale, soprattutto ora che la crisi ucraina polarizza due mondi presenti nell'area con notevoli interessi. Da ultimo il mercato energetico, con le avance europee al governo azero come fornitore alternativo alla Russia. Il rischio non è "solo" la riedizione del conflitto costato 40mila morti dal 1992, ma la micidiale escalation che può scatenare: dopo aver parlato con Putin, il premier armeno Nikol Pashinyan ha chiesto formalmente a Mosca il soccorso militare previsto dall'Otsc, la "Nato" dei Paesi in orbita russa, e ha chiesto l'intervento dell'Onu. L'Iran, vicino di casa di entrambi, avverte che non consentirà «alcun cambiamento dei confini». E la Turchia ribadisce con il ministro della Difesa Akar che «è sempre stata e resterà dalla parte dei fratelli azeri», mentre il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu accusa l'Armenia di boicottare la pace. Mosca chiede di «dare prova di moderazione e rispettare il cessate il fuoco», ma non è un caso che la violenza sia riesplosa mentre l'Armata russa è in difficoltà sul fronte ucraino. Dietro le scene di quest' altro storico pasticcio irrisolto ci sono ancora una volta Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan: la Russia, che ha legami economici con entrambe le ex repubbliche sovietiche, dopo l'ultimo conflitto si è fatta garante di pace schierando un contingente, usandolo cioè per legittimare una presenza armata. E la Turchia è sponsor, armeria e suggeritore del governo azero che nel 2020 attaccò riconquistando il terreno perso nella prima guerra del Nagorno Karabak, l'enclave armena in territorio azero devastata da guerra e pulizia etnica. Il segretario di Stato Usa Blinken ci vede un tentativo russo «di rimestare », di «spostare l'attenzione» dalle sconfitte in Ucraina. Difficile, in ogni caso, che un attacco azero sia avvenuto senza l'avallo di Ankara, che mentre modera in Ucraina accresce la propria influenza sull'area caucasica a discapito di quella russa. Nelle ultime settimane si erano moltiplicate scaramucce e accuse tra azeri e armeni, ma Baku ha colpito in territori non contesi. Ha acceso una miccia nella polveriera, e Putin ed Erdogan proveranno a spegnerla incontrandosi, a Samarcanda, a margine del vertice Sco».

DOMANI A SAMARCANDA IL VERTICE ANTI OCCIDENTE

Inizia domani il vertice “anti Occidente”. Mosca, in difficoltà sul campo bellico, cerca il sostegno di Pechino sull'Ucraina. Rita Fatiguso per il Sole 24 Ore.

«Mosca enfatizza l'opportunità di un dialogo diretto, in presenza, tra i presidenti Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping al Summit della Shanghai cooperation initiative (Sco) in calendario domani e venerdì a Samarcanda, in Uzbekistan. Sarebbe il secondo incontro tra i due nel 2022, dopo le Olimpiadi di Pechino a febbraio. Di certo è quello al quale Putin, invischiato com' è nel conflitto ucraino, tiene di più. Yuri Ushakov, consigliere del Cremlino, ha dichiarato all'agenzia Tass che il presidente russo discuterà «nei dettagli» la situazione con il presidente Xi Jinping già domani. «La Cina - ha aggiunto - ha un approccio equilibrato alla crisi ucraina e manifesta la sua comprensione delle ragioni che hanno costretto la Russia ad avviare l'operazione militare speciale». Sull'altro versante Yang Jiechi, il gran capo della diplomazia cinese, ha ribadito all'ambasciatore russo a Pechino Andrey Denisov che la Cina è disposta a lavorare con la Russia a un ordine internazionale verso una «direzione più giusta e razionale. Sotto la guida strategica del presidente Xi Jinping e del presidente Vladimir Putin, le relazioni tra i due Paesi sono sempre andate avanti sulla strada giusta». Ma Pechino glissa sulla bilaterale, il ministero degli Esteri ha confermato la visita di Stato di Xi Jinping in Kazakstan e, a ruota, da domani, quella uzbeka.
«Al momento non ho informazioni da dare - ha detto la portavoce Mao Ning - le daremo in modo tempestivo, se ci saranno», in risposta a chi le chiedeva anche della possibilità di un incontro con il primo ministro indiano Narendra Modi, la cui partecipazione al Summit acquista smalto dopo il ritiro delle truppe cinesi e indiane dal controverso confine del Ladakh. A sottolineare lo spessore economico-finanziario del Summit, invece, è il debuttante Iran, sarà la prima partecipazione di Teheran a pieno titolo in qualità di nono membro della Sco. Mehdi Safari, vice ministro degli esteri per la diplomazia economica è pronto a rilanciare l'idea di una moneta unica, lo yuan cinese, per favorire gli scambi finanziari nell'area nonché la creazione di un corridoio alternativo per le merci in Europa dalla Cina, via Bandar Abbas, Azerbaijan, Georgia e dal Mar Nero, Romania e Serbia. Lo yuan è già ampiamente accettato negli scambi multilaterali dei Paesi della Shanghai cooperation, anche perché in certi casi, vedi la Russia e l'Iran colpiti dalle sanzioni occidentali, è diventata l'unica via praticabile per le transazioni nell'area. C'è voglia di sostegno economico, l'alleanza anti-terrorismo che portò alla creazione della Sco è un pallido ricordo, il network è cresciuto, tocca il 60% dell'Eurasia e il 30% del Pil mondiale. Del resto Cina, Russia, India, Uzbekistan, Tajikistan, Kazakstan, Kirghistan, Pakistan hanno già firmato lo scorso 23 agosto a Tashkent un piano a medio termine 2022-27 per la cooperazione finanziaria bancaria e degli investimenti che secondo il segretario generale della Sco il cinese Zhang Ming, ex ambasciatore a Bruxelles, «sono le tre priorità chiave».

PER XI È IL PRIMO VIAGGIO ALL’ESTERO DOPO IL COVID

Per un Vladimir Putin sempre più “asiatico”, quello col presidente cinese a Samarcanda sarà un vertice dell'«altro mondo». Per Xi Jinping è il primo viaggio all’estero dopo la pandemia. Per il Manifesto il commento di Alberto Negri.

«Sotto lo sguardo dei leoni delle madrasse del Registan di Samarcanda, storico passaggio della via della Seta e oggi della Tav, si svolge domani, per due giorni, un vertice dell'«altro mondo» con i leader di Russia, Cina, India, Pakistan e Turchia. Il leader cinese Xi Jinping era già ieri era in Kazakhistan. Proprio mentre arrivava anche papa Bergoglio. Per Xi si tratta del primo viaggio all'estero in due anni di era Covid e del primo incontro in presenza con Putin dal 4 febbraio scorso. Ma ovviamente è la guerra (anzi le guerre) con le conseguenze sia strategiche che economiche al centro degli incontri a margine di questo vertice dall'Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco). L'indiano Narendra Modi a Samarcanda si trova per la prima volta faccia a faccia con il cinese Xi Jinping dall'inizio dello scontro sul confine himalayano del luglio del 2020, (quando 20 soldati indiani e 4 cinesi persero la vita), mentre qui il leader turco Erdogan deve parlare con Putin di tutto o quasi, dal grano ucraino, alla Siria, alle ostilità riesplose in queste ore tra Armenia e Azerbaijan, altra linea di conflitto tra Mosca e Ankara.
Mentre l'Uzbekistan, per ovvi motivi geopolitici e di confine, si pone sempre più come «piattaforma per negoziati e discussioni» sull'Afghanistan, dopo la conferenza internazionale "Afghanistan Security and Ecomic Development" tenutasi a luglio a Tashkent e alla quale hanno partecipato delegazioni di oltre venti paesi e istituzioni internazionali. Anche l'Iran qui a Samarcanda - dove si parla per lo più tagiko, ovvero farsi muoverà le sue pedine diplomatiche nel momento in cui il segretario di stato Usa Blinken esclude un accordo con Teheran sul nucleare. Nata nel 2001 come meccanismo per favorire la risoluzione di dispute territoriali tra i sei paesi aderenti - Cina, Russia, Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan (membri osservatori Mongolia, India, Iran, Pakistan, Turchia), l'organizzazione è andata progressivamente istituzionalizzandosi, intensificando la cooperazione tra i suoi membri tanto su questioni di sicurezza quanto in ambiti come quello economico, energetico e culturale. Il piano militare e di sicurezza è senz' altro quello più rilevante, all'insegna della comune volontà degli aderenti di contrastare tre fenomeni che sono identificati come le principali minacce alla sicurezza regionale: il terrorismo, l'estremismo e il separatismo. La rivolta di gennaio in Kazakhistan, con l'intervento russo, e le recenti proteste di luglio in Karakalpakstan (Uzbekistan) ne sono un esempio. In concreto questa è un'area di competizione militare tra Est e Ovest e la Sco riunisce, come tiene a sottolineare nel suo discorso di inaugurazione il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev, una vastissima area geografica con circa la metà della popolazione del pianeta e un Pil complessivo degli stati membri che è circa un quarto del valore totale globale. Quello militare, insieme ai programmi infrastrutturali cinesi della Belt and Road Initiative, è l'aspetto più rilevante. Pochi giorni prima della controffensiva ucraina e della disordinata ritira russa da Karkhiv, Putin a Vladivostok aveva presenziato alle esercitazioni militari Vostok-2022 con i paesi membri dello Sco e la Cina, che aveva inviato un'imponente delegazione militare con oltre duemila soldati e 300 mezzi, aerei da combattimento e tre navi da guerra, a sottolineare il rapporto che intercorre tra Mosca e Pechino. Alle manovre, che si svolgono ogni quattro anni, avrebbero preso parte 5mila militari da diversi Paesi ex sovietici e in totale nelle esercitazioni sono stati coinvolti 50mila soldati. Ma attenzione a non sopravvalutare in una sola direzione la situazione militare e politica: la Vostok 2022 è stata una risposta alle esercitazioni congiunte della "Regional Cooperation 2022" che si sono tenute dal 10 al 20 agosto a Dushambé tra le forze armate degli Stati Uniti e quelle delle ex repubbliche post sovietiche di Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan (dove per altro i russi hanno la base militare 201), oltre a Mongolia e Pakistan. Senza contare che qui in Asia centrale Kazakhistan e Uzbekistan si sono dichiarate neutrali nei confronti della guerra in Ucraina mentre Tagikistan e Turkmenistan non hanno mai preso ufficialmente posizione sul conflitto.
È stato comunque proprio a Vladivostok che il numero tre della gerarchia cinese Li Zhanshu, ha dichiarato che «la Cina è felice di vedere che sotto la guida del presidente Valdimir Putin l'economia russa non è stata sconfitta dalla dure sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi occidentali».
Qui a Samarcanda Putin e Xi Jinping sono chiamati in qualche modo a confermare quella «amicizia senza limiti» proclamata a Pechino alla vigilia della guerra in Ucraina.
In realtà tra Mosca e Pechino intercorre un rapporto ambiguo portato avanti dalla Cina in questi mesi: una «neutralità pro-russa», come l'hanno definita diversi analisti. Molta retorica anti-Usa e anti-Nato - musica per le orecchie del Cremlino - anche se Pechino non ha oltrepassato la linea rossa violando le sanzioni né ha fornito aiuti militari a Mosca. In cambio, però, gli affari tra l'Orso e il Dragone sono cresciuti: su tutti, il gas russo che Pechino continua a comprare e il nuovo gasdotto che passerà attraverso la Mongolia e che comunque non sarà operativo prima di un paio d'anni. Ma c'è anche, e soprattutto, l'export cinese verso il vicino come macchine, televisori e telefonini, che hanno aiutato Mosca a colmare il vuoto lasciato dalle aziende straniere: nel secondo trimestre, l'81% delle importazioni di auto nuove in Russia sono state made in China, mentre Xiaomi è salito al primo posto tra i produttori di smartphone nella Federazione russa. Fattori che non si ignorano dal centro dell'Asia all'Estremo Oriente: l'Indonesia, per esempio, ha confermato che Xi Jinping e Putin saranno presenti al vertice di Bali del G20 a novembre. La contrapposizione tra "West and the Rest", presentata come a una sfida tra democrazie e autoritarismi, esiste ma offre anche più sfumature di quanto non si pensi».

RE CARLO IN IRLANDA DEL NORD

Mentre la salma della Regina Elisabetta è arrivata a Londra, Re Carlo III visita l’Irlanda del Nord. Luigi Ippolito per il Corriere.

«La nostra famiglia ha sentito le vostre pene», ha esclamato il nuovo re a Belfast rivolto ai nordirlandesi: e la memoria di tutti è andata all'uccisione di Lord Mountbatten, lo zio di Filippo e mentore amatissimo di Carlo, assassinato dai terroristi dell'Ira nel 1979. Un modo per ricordare che anche la monarchia è stata direttamente coinvolta nei drammi e nelle sofferenze della tormentata provincia britannica. Era la prima visita di un re in Irlanda del Nord da quasi 80 anni, anche se Carlo da principe vi aveva messo piede ben 40 volte; ed Elisabetta c'era stata l'ultima volta nel 2016, la sua 25esima visita. Ma adesso, dopo la Brexit, il fragile equilibrio tra cattolici e protestanti è stato rimesso in questione: e dunque le parole del re erano gravate di un peso particolare. Così, Carlo ha ricordato che la regina non aveva mai smesso di pregare «per tempi migliori»: «Mia madre sentiva profondamente - ha detto - il significato del ruolo che lei stessa ha svolto nell'avvicinare coloro che la storia aveva separato e nel tendere la mano per rendere possibile la guarigione di antiche ferite». Di qui, la sua promessa: «Con quel brillante esempio davanti, assumo i miei nuovi doveri risoluto a perseguire il benessere di tutti gli abitanti dell'Irlanda del Nord». Perché non va dimenticato che Elisabetta aveva avuto un ruolo cruciale nella riappacificazione tra la Gran Bretagna e l'Irlanda e nella normalizzazione della provincia del Nord. La sovrana compì una storica visita a Dublino nel 2011, la prima di un monarca dall'indipendenza della Repubblica: e a sorpresa cominciò il suo discorso in gaelico, strappando un triplo «wow» all'esterrefatta presidente irlandese. Ma ancora più storica, un anno dopo, fu la stretta di mano con Martin McGuinness, l'ex capo militare dell'Ira che nel frattempo era diventato vice premier dell'Irlanda del Nord. Perché anche il Sinn Fein, il partito nazionalista cattolico erede dell'Ira, ha compiuto una lunga marcia di riavvicinamento: e ieri ad accogliere il re nella cattedrale di Belfast c'era anche Michelle O' Neill, la leader del partito in Irlanda del Nord, che ha pure stretto la mano alla premier britannica Liz Truss: la regina, ha riconosciuto la leader nazionalista, «ha guidato con l'esempio nel promuovere la pace e la riconciliazione e nel costruire relazioni con quanti di noi sono irlandesi e che condividono diverse fedeltà politiche e aspirazioni rispetto alle sue e a l suo governo». Non un riconoscimento di Sua Maestà, ma un omaggio alla persona. Nel frattempo, in Scozia, il feretro di Elisabetta era stato portato dalla cattedrale di St Giles, dove era rimasto esposto per 24, all'aeroporto della capitale scozzese, da dove è stato condotto in volo a Londra, accompagnato dalla principessa Anna. Dalla base della Raf a Northolt la bara è stata portata con un lento corteo a Buckingham Palace, dove ad attenderlo c'erano Carlo e Camilla, rientrato da Belfast, assieme ad altri membri della famiglia reale. Oggi il feretro sarà trasportato alla Westminster Hall, la grande e più antica sala del palazzo del Parlamento, dove resterà esposto all'omaggio del pubblico per quattro giorni, fino a lunedì, quando si svolgeranno i funerali nell'abbazia di Westminster».

MORIRE NEL MEDITERRANEO: LE NUOVE ROTTE DEI MIGRANTI

Sono già 1200 gli innocenti morti in mare quest' anno. Il crollo economico del Libano e la crisi del grano cambiano la mappa delle partenze. Cipro, Malta, Grecia sono adesso i Paesi che respingono un'umanità in fuga dalla fame. Francesca Mannocchi per La Stampa.

«Loujin è morta a causa delle politiche europee. Morta tra le braccia della madre mentre diceva: ho sete». Così pochi giorni fa l'attivista Nawal Soufi ha denunciato la morte di Loujin, siriana, quattro anni. Morta di sete mentre con la sua famiglia cercava di raggiungere un porto sicuro. Era partita dal Libano con la madre e la sorella. Ma a dividere le loro speranze e la destinazione Europa ci sono stati dieci giorni senza cibo né acqua. Dieci giorni di richieste d'aiuto a Malta prima, alla Grecia poi e da ultimo ai mercantili di passaggio. Dieci giorni di Sos ad Alarm Phone e di indifferenza europea. Finché le autorità greche non hanno spedito un mercantile a soccorrerli ma per la bambina non c'era più niente da fare. Corpi simili, sfiniti dal sole e dalla fame, bambini disidratati e assetati, sono arrivati due giorni fa a Pozzallo. Almeno i sopravvissuti, al recupero condotto dalla motovedetta Cp 325 della Guardia Costiera. Un altro barcone alla deriva, salpato dalla Turchia senza abbastanza cibo né acqua. Due settimane in mare, i naufraghi alla deriva che gridano, un mercantile che si avvicina e non li salva. L'equipaggio getta una cassa d'acqua che però i naufraghi non riescono a recuperare. Altre grida, altri Sos inascoltati. Trenta vite disperate le cui sorti sono state note per giorni, senza che partissero tuttavia, gli aiuti tempestivi che avrebbero salvato loro la vita. Poi il gruppo di ventisei naufraghi - afghani e siriani - è stato soccorso 70 chilometri a Sud di Portopalo e trasferito a Pozzallo. Ma per sette persone, tra cui due bambini di uno e due anni, era troppo tardi. Anche loro, come Loujin, sono morti di fame, di sete e di indifferenza. Le morti oscurate «Tutto questo è inaccettabile - ha detto la rappresentante dell'Unhcr Chiara Cardoletti a seguito delle due tragedie. Rafforzare il soccorso in mare è l'unico modo per evitare che accada di nuovo». Secondo l'agenzia Onu sono già 1.200 le persone morte o disperse nel 2022 nel tentativo di attraversare il Mediterraneo ma tanti, troppi di loro, giacciono in fondo al mare, non visti, non soccorsi, non contabilizzati nella ragioneria barbara dei costi umani delle frontiere chiuse e delle crisi aperte. Le due tragedie degli ultimi giorni, i bambini morti di sete, ricordano all'Europa due cose. La prima è che chiudere - o immaginare di farlo - una rotta migratoria, porta sempre ad aprirne un'altra spesso più pericolosa e comunque illegale. Perché nel tempo in cui la politica mette in atto strategie di contenimento ed esternalizzazione dei confini, le crisi che erano irrisolte anni fa, sono precipitate.
Crisi da cui l'Occidente si è distratto, pensando che bastasse pagare Paesi terzi per sollevarsi dalla responsabilità di gestire l'inclusione di rifugiati in fuga da guerre e povertà. Ma mentre l'Occidente volgeva lo sguardo dall'altra parte, continuando a pagare le cambiali del consenso alla Turchia e alla Libia, la crisi economica, gli effetti della pandemia e l'onda lunga della guerra ucraina, hanno colpito Paesi che, già fragili, sono precipitati. È il caso del Libano. Paese che da anni, manda segnali - una volta ancora inascoltati - di una rotta migratoria che non poteva che diventare mortale. Libano, primavera e estate 2022 Lo scorso aprile una barca, progettata per contenere una dozzina di persone e che ne trasportava 84, si è capovolta al largo delle coste libanesi vicino a Tripoli dopo essere stata intercettata dalla guardia costiera. Solo quaranta i sopravvissuti. Gli altri, tra cui almeno sei bambini, sono morti annegati. Solo una decina i corpi recuperati quando erano già in stato di avanzata decomposizione. Un membro dell'equipaggio di Aus Relief, sottomarino di ricerca e soccorso di una missione australiana, ha raccontato di aver visto in fondo al mare «una donna bloccata a metà di una finestra con in braccio il suo bambino... nel tentativo di proteggerlo». All'inizio di giugno, l'esercito libanese ha arrestato 64 persone nel Nord del Paese che stavano tentando di salire a bordo di una nave di contrabbando diretta a Cipro. Tra loro c'erano diversi cittadini libanesi, spinti alla disperazione da gravi difficoltà economiche. A fine agosto un barcone con a bordo un centinaio di rifugiati siriani è stato bloccato all'ingresso delle acque cipriote e riportato indietro in Libano sulla base di un controverso accordo tra Nicosia e Beirut che prevede che i profughi siriani siano respinti indietro se intercettati in mare. Più volte i funzionari delle organizzazioni umanitarie europee hanno accusato Cipro di respingimenti illegali e li hanno accusati di negare e chi è in fuga dalla guerra del diritto di presentare richiesta d'asilo. Nicosia non ci sta. E risponde che il governo non rifiuta richiedenti asilo ma migranti economici. Nella guerra dei distinguo terminologici, uomini donne e bambini continuano a partire sempre più numerosi dal porto di Tripoli, a Nord del Libano. Scappano dall'inflazione, dalla disoccupazione, dall'assenza di cibo e carburante e medicine, da un sistema sanitario in rovina e da governo corrotti che in pochi anni hanno creato una tempesta perfetta di povertà e disperazione. Rivolte di piazza, crisi finanziaria, esplosione del porto e Covid19: crisi simultanee che hanno spinto all'esilio migliaia di giovani libanesi, professionisti, medici, insegnanti. Un Paese che, in pochi anni si è svuotato della sua classe media. A dare il colpo di grazia è stata la guerra in Ucraina che, in un Paese come il Libano totalmente dipendente dalle importazioni, ha portato metà della popolazione a vivere al di sotto della soglia di povertà. Così chi resta deve sopravvivere con la valuta che ha perso in tre anni il 95% del suo valore. A luglio il salario minimo mensile aveva un valore di 23 dollari. Prima del crollo finanziario ne valeva 500. Significa non avere soldi per sfamare i propri figli, significa sentire di non avere più nulla da perdere, significa convincersi che se l'alternativa è morire di fame, tanto vale pagare un trafficante per essere traghettati verso il Paese Ue più vicino, quello a 160 chilometri dalle coste di Tripoli: Cipro. I segnali inascoltati, le lezioni non imparate Secondo l'Unhcr, il numero di persone che ha lasciato il Libano via mare è quasi raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020 ed è nuovamente aumentato del 70% nel 2022 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La domanda da farsi è: c'erano segnali? Era possibile prevederlo? La risposta è due volte sì. Non solo c'erano segnali, ma c'erano numeri, statistiche e denunce. Dopo il collasso economico del 2019-2020, le coste libanesi sono diventate punto di partenza di gommoni e barche dirette verso Cipro. Ma se prima a partire da Tripoli, la città portuale a Nord del Paese, erano per lo più rifugiati siriani o palestinesi sfiniti da anni di vita nelle tendopoli, frustrati dalla disoccupazione, dall'assenza di prospettiva di un ritorno a casa, a partire dall'estate del 2020, si sono uniti alla rotta anche i cittadini libanesi senza più prospettive. I numeri erano chiari già due estati fa, dati indicativi ma troppo bassi per fare notizia in un'Europa interessata solo a tamponare gli arrivi nel Mediterraneo centrale. Numeri non solo chiari ma in crescita in una rotta erroneamente considerata distante, come distante pareva la guerra siriana ormai al suo decimo anno. I flussi migratori, però, non nascono mai come emergenze, ma come conseguenze di situazioni diventate croniche, abbandonate dall'attenzione (e dal denaro) internazionale e poi precipitate. Così è stato in Libano, dove nel 2020 i segni dei nuovi flussi che avrebbero attraversato tutte le sponde del Mediterraneo c'erano già. Bastava leggerli. In due settimane a cavallo tra agosto e settembre venti barche avevano lasciato le coste libanesi dirette a Cipro. Venti in 15 giorni. Più di quante ne fossero partite complessivamente nei dodici mesi precedenti. Nello stesso periodo la guardia costiera cipriota aveva respinto e espulso trecento persone senza dare loro la possibilità di presentare richiesta d'asilo. A ottobre di quell'anno, dopo decine di respingimenti e morti in mare, Human Rights Watch pubblicò un lungo e dettagliato rapporto dando conto delle modalità di respingimento di Cipro I ricercatori dopo mesi di raccolta di prove e testimonianze, sostennero che le autorità cipriote avessero più volte ignorato le richieste di asilo delle persone intercettate in mare e lo stesso fece la Kisa, un'organizzazione non governativa dell'isola che, sulla base delle statistiche della polizia locale, rese noto che le autorità cipriote avessero intercettato e respinto indietro mille persone su imbarcazioni irregolari in pochi mesi. Per i fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungere l'isola, si sono aperte le porte del campo di Pournara a Kokkinotrimithia, un campo all'aperto, sporco, infestato di insetti, in cui l'acqua scarseggia, non c'è abbastanza cibo, ci sono quattro bagni ogni cento persone, le tende sono prive di elettricità e le quattro sezioni del campo invase da rifiuti. Un'immagine che ricorda il nostro hotspot di Lampedusa, le orribili condizioni dell'ormai chiuso campo di Moria a Lesbos. Esempi di una politica che di fronte a flussi prevedibili continua a mostrarsi impaurita e impreparata. E domani? Passata l'ondata di indignazione per Loujin e i suoi coetanei morti di sete e indifferenza nel Mediterraneo, resta da chiedersi cosa sarà domani. Una volta ancora è possibile prevederlo. Una volta ancora l'Europa potrebbe scegliere di essere lungimirante invece di lasciar morire in mare bambini vittime di inazione e colpevole paura di un nemico inesistente. Due giorni fa la Banca centrale libanese ha annunciato di aver interrotto la fornitura di dollari per le importazioni di benzina. Per un Paese la cui economia è sussidiata nei beni di prima necessità significa indebolire ancora una moneta che è già carta straccia. E se questo piega le famiglie libanesi, è facile immaginare cosa produca nelle famiglie dei due milioni di rifugiati siriani nel Paese. Gli ultimi tra gli ultimi, a cui è stato negato l'accesso al lavoro, all'assistenza sociale, all'istruzione. Gli ultimi tra gli ultimi in fuga da una guerra dimenticata, bambini come Loujin, profuga a quattro anni, quindi nata in esilio. Siriana che non ha mai visto la Siria. Siriana che mai la vedrà. Portata via dalla seconda guerra, quella contro la fame in Libano, dai suoi genitori che avevano voluto immaginare per lei un futuro come i bambini degli altri. I bambini che vivono in pace nei Paesi governati da chi respinge le loro barche e ignora le loro richieste d'aiuto».

IL VIAGGIO DEL PAPA CONTRO I POPULISMI

Il Papa in Kazakhstan rilancia l'appello contro estremismi e populismi. Francesco ribadisce di essere «sempre pronto» a recarsi in visita in Cina. Carlo Marroni per il Sole 24 Ore.

«Arriva in Kazakhstan, e rilancia il suo appello contro il populismo. Papa Francesco, nel primo di tre giorni di viaggio al centro dell'Asia ex sovietica è netto: «La democrazia e la modernizzazione non siano relegati a proclami, ma confluiscano in un concreto servizio al popolo: una buona politica fatta di ascolto della gente e di risposte ai suoi legittimi bisogni, di costante coinvolgimento della società civile e delle organizzazioni non governative e umanitarie, di particolare attenzione nei riguardi dei lavoratori, dei giovani e delle fasce più deboli. E anche di misure di contrasto alla corruzione». Per il Papa «questo stile politico realmente democratico è la risposta più efficace a possibili estremismi, personalismi e populismi, che minacciano la stabilità e il benessere dei popoli». Il viaggio era stato progettato, all'inizio dell'estate, anche in vista di un possibile incontro con il patriarca di Mosca Kirill, che della guerra di invasione russa in Ucraina è un grande sostenitore, ma poi tutto è saltato. Ma Bergoglio prosegue sulla sua strada: «È sempre più pressante la necessità di allargare l'impegno diplomatico a favore del dialogo e dell'incontro», perché «chi al mondo detiene più potere ha più responsabilità nei riguardi degli altri, specialmente dei Paesi messi maggiormente in crisi da logiche conflittuali».Quindi «è l'ora di evitare l'accentuarsi di rivalità e il rafforzamento di blocchi contrapposti. Abbiamo bisogno di leader che, a livello internazionale, permettano ai popoli di comprendersi e dialogare, e generino un nuovo "spirito di Helsinki", la volontà di rafforzare il multilateralismo, di costruire un mondo più stabile e pacifico». Sulla guerra non usa giri di parole: «Qui Giovanni Paolo II venne a seminare speranza subito dopo i tragici attentati del 2001. Io vi giungo nel corso della folle e tragica guerra originata dall'invasione dell'Ucraina, mentre altri scontri e minacce di conflitti mettono a repentaglio i nostri tempi. Vengo per amplificare il grido di tanti che implorano la pace, via di sviluppo essenziale per il nostro mondo globalizzato». Tra l'altro in queste ore nella capitale Nur-Sultan c'è anche il presidente cinese Xi Jinping per il summit della Shanghai cooperation organisation, e questa coincidenza in un non-luogo come la capitale kazaka aveva fatto pensare ad un ipotetico incontro tra i due. Ma in aereo, a domande dei giornalisti, taglia corto: «Di questo non so niente. Ma sono sempre pronto ad andare in Cina». In queste settimane tra l'altro deve essere rinnovato l'accordo biennale tra Pechino e Santa Sede sulla nomina dei vescovi e tutto lascia pensare che l'intesa arrivi presto, ma certo le condizioni per un incontro al vertice sono date per premature, anche per l'imminente avvio del congresso del Pcc che manterrà al potere Xi. Nel tradizionale telegramma di saluto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Francesco ha inviato un messaggio di «serenità e concordia» per l'Italia».

IL REGISTA GODARD RICORRE AL SUICIDIO ASSISTITO

Morto in Svizzera il padre della Nouvelle Vague francese. Aveva 91 anni e ha ricorso al sucidio assistito. Macron annuncia una grande consultazione sul fine vita: "Nuova legge entro il 2023". Anais Ginori per Repubblica.

«Non ho l'ansia di andare avanti ad ogni costo. Se sarò troppo malato, non ho alcuna voglia di venire trascinato su una carriola...». Così aveva detto nel 2014 Jean-Luc Godard affidando a una tv svizzera una delle rare confidenze sulla sua vita privata. Il regista francese se n'è andato a 91 anni ricorrendo al suicidio assistito, possibile in Svizzera, paese dove viveva da recluso nel piccolo comune di Rolle, sui bordi del lago Lemano, in un isolamento quasi completo. «È morto serenamente a casa sua, circondato dalla sua famiglia e dai suoi amici» hanno annunciato la moglie Anne-Marie Miéville e i suoi produttori. È stato il quotidiano Libération a rivelare che il pioniere della Nouvelle Vague aveva fatto ricorso al suicidio assistito. Nel rapporto medico fornito alle autorità svizzere per attivare la procedura, dettagliato dal consulente legale e famigliare, è specificato che Godard era affetto da «molteplici patologie invalidanti ». «Non era malato, era semplicemente esausto. Così ha deciso di farla finita» ha precisato poi l'entourage del regista al quotidiano, aggiungendo: «È stata una sua decisione ed era importante che la rendesse nota». Fino alla fine, Godard riesce a provocare dibattito. La notizia arriva nel giorno in cui Emmanuel Macron ha annunciato l'avvio in Francia di una consultazione con i cittadini sul tema del fine vita, nella prospettiva di un possibile nuovo "quadro normativo" entro fine 2023 che potrebbe aprire la strada proprio all'introduzione del suicidio assistito come in Svizzera o in Belgio. Il capo dello Stato non esclude una nuova riforma attraverso il Parlamento o tramite un referendum. Sempre sul tema, nei giorni scorsi aveva dichiarato: «Ci dobbiamo attivare per una maggiore umanità». Il presidente francese ha avviato questo percorso dopo che il Comitato etico francese ha emesso un parere favorevole su quello che viene definito «aiuto attivo a morire» ma ad «alcune rigide condizioni». Finora il comitato si era opposto a una modifica della legge Claeys-Leonetti, che regola il fine vita dei malati terminali in Francia. Adottata nel 2016, dopo una prima versione del 2005, proibisce l'eutanasia e il suicidio assistito, ma consente una «sedazione profonda e continua fino alla morte » per i malati terminali in grande sofferenza, con una prognosi vitale a breve termine. L'emozione per la scomparsa di Godard è accompagnata da una discussione che il regista rivoluzionario alimenta con la sua scelta estrema. «Era il più iconoclasta fra i registi della Nouvelle Vague» ricorda Macron. «È entrato nel firmamento degli ultimi grandi creatori di stelle » commenta Brigitte Bardot, indimenticabile ne "Il disprezzo" tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia. «Grazie Jean-Luc per i bei ricordi che ci hai lasciato» è il messaggio di Alain Delon. Che aggiunge: «Sarò sempre fiero di avere "Nouvelle Vague" nella mia filmografia». Se ne va «un Picasso del cinema» secondo Gilles Jacob, ex presidente del Festival di Cannes. «Godard era affacinato dal suicidio » dice Jean-Luc Douin, critico cinematografico e biografo. «Da giovane, conservava una lametta da barba nel portafogli» mentre il regista Eric Rohmer «lo trovò un giorno nel suo studio, grondante di sangue, per un idillio finito brutalmente». Una sera - è scritto nella biografia di Douin - durante le riprese di "Une femme est une femme" litigò così violentemente con Anna Karina fino a tagliarsi le vene. Il tema è anche presente nella sua cinematografia. In "Notre Musique" del 2004 aveva inserito una citazione di Albert Camus: «C'è un solo problema filosofico veramente serio: il sucidio».

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