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Confronto Meloni-Calenda

alessandrobanfi.substack.com

Confronto Meloni-Calenda

Un dialogo serio fra governo e opposizione. FI reagisce male. La Finanziaria farà lavorare i deputati anche a Natale. Zamagni rilancia la pace. D'Angelis su Ischia e Zagrebelsky sulla scuola

Alessandro Banfi
Nov 30, 2022
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Confronto Meloni-Calenda

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Il faccia a faccia fra Giorgia Meloni e Carlo Calenda a Palazzo Chigi è stato una cosa seria: discussione lunga di fronte a documenti e su proposte concrete, alla presenza dei ministri competenti. Fatto positivo per la democrazia in Italia, che pure ha suscitato una raffica di dichiarazioni quasi isteriche di diversi esponenti di Forza Italia: da Gasparri a Mulé. La sensazione è che il solo colloquio con una parte costruttiva delle opposizioni abbia rafforzato la leadership di Meloni, minacciata neanche troppo segretamente proprio dai parlamentari azzurri, che in Senato già avevano provato a sabotare l’elezione di Vincenzo La Russa. In più Sergio Mattarella, in visita in Svizzera, ha di nuovo posto la sua garanzia di fronte all’Europa per quanto riguarda la lotta all’evasione. Dunque non ci possono essere equivoci con Bruxelles sulla norma che riguarda l’obbligo del POS solo sopra i 60 euro. Intanto la nuova legge di Bilancio è da ieri un testo “bollinato” dalla Ragioneria centrale dello Stato. Ci sarà tempo per studiarlo per capirne tutte le conseguenze sulle nostre vite.

La vicenda tragica di Ischia ha fatto emergere un’amara realtà: il governo giallo verde non solo ha fatto approvare il condono, ma anche cancellato, da un giorno all’altro, “Italia sicura”, il gruppo di tecnici presso Palazzo Chigi specializzato nella cura del dissesto idro-geologico del Paese. Lo racconta bene oggi sulla Stampa Erasmo D’Angelis, che era a capo di quella squadra, e che sembra avere più cognizione di molti altri dei problemi strutturali del nostro Paese. L’indagine della Procura fra l’altro ha rivelato che era stata considerata zona sicura, zona “bianca”, proprio quella dove si è abbattuta la frana e dove ci sono state le vittime.  

Dal fronte bellico si moltiplicano le testimonianze di un nuovo massiccio esodo degli ucraini dalla loro terra, colpita da quello che è già stato ribattezzato il Kholomodor, espressione che richiama lo sterminio per fame provocato da Stalin negli anni ‘50, detto Holomodor. Kholomodor sarebbe il freddo e il buio di tutte le città, Kiev compresa, causato dai bombardamenti mirati dei russi. Un nuovo martirio della popolazione civile dell’Ucraina. Papa Francesco insiste per la mediazione mentre il professor Stefano Zamagni autore di una proposta articolata di pace, in una bella intervista al Fatto, chiarisce un concetto sacrosanto: “È chiaro che la giustizia sta tutta da una parte, che è la parte degli ucraini, quindi quelli che propendono per la soluzione del conflitto per via militare, sostanzialmente, applicano questa massima: noi vogliamo la pace giusta a costo di far perire tutti. Io non sono di quest' idea: sono con Aristotele ad affermare il primato del bene sul giusto”.

Un’altra intervista da non perdere assolutamente è quella col costituzionalista Gustavo Zagrebelsky a proposito dell’emergenza educativa nel nostro Paese. Zagrebelsky non è solo un esperto, è un vero insegnante che ama stare con i ragazzi. Cita una frase di Dostoievskij (sua grande passione) che val la pena riportare: «Un'ora sola, un'oretta d'amore che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto, può essere tenuto a mente e valere per tutta la vita che resta».

A proposito, sono ora disponibili in rete tutti gli episodi di Maestre e maestri d’Italia, la serie podcast ideata da Riccardo Bonacina e che ho realizzato con Chora Media, grazie al sostegno di Cariplo. Chi vuole può ascoltarsi tutto l’itinerario compiuto, alla ricerca del segreto della vera educazione. Sono tante le lezioni che ci vengono dai giganti del nostro passato, contenute in questa serie podcast, e che sarebbero ancora validissime. Ascoltate gli episodi e in ognuno di essi troverete di che stupirvi. Cercate questa cover:

Trovate Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker per ascoltare tutti gli episodi. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae tre giovani migranti africani che hanno rischiato la vita viaggiando per 11 giorni seduti sul timone di un'enorme petroliera partita dalla Nigeria alla volta delle isole Canarie, dove sono giunti disidratati e indeboliti ma vivi. In caso di mare agitato, sarebbero probabilmente naufragati. La foto dei tre seduti sul timone, scattata dai marinai di Salvamar Nunki e messa su twitter, ha fatto il giro del mondo.

Fonte: Twitter Salvamar Nunki

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Giornali stamattina in ordine sparso quanto ad argomenti di apertura. Il Corriere della Sera accompagna lo sprint del governo: Manovra, la corsa per il sì. Il Quotidiano Nazionale tematizza il confronto con Azione: Vertice Meloni-Calenda, FI non ci sta. Libero su foto di Calenda stampa un titolo isterico: Di questo qui non c’è da fidarsi. La Stampa è sul monito di Mattarella: Evasione fiscale, l’altolà del Colle. Avvenire è ancora sul conflitto, dopo il vertice Nato: Quanto pesano le armi. Il Domani sulla corsa interna nel Pd: Schlein vince la tentazione del ritiro e annuncia la corsa per guidare il Pd. Il Fatto del super granata e manettaro Travaglio: Juventus: Agnelli & C. rischiavano l’arresto. Il Giornale è critico sul Pnrr: Occhio, qui perdiamo i soldi. Il Manifesto dice che Piantedosi vuole mandare i percettori del Reddito a coltivare i pomodori nei campi: Vi facciamo neri. Il Mattino resta su Ischia: Casamicciola, lo spreco dei fondi. Il Messaggero nota: Scuola, il crollo degli alunni. Il Sole 24 Ore si concentra sulle pensioni: Previdenza, tagliate le rivalutazioni a tre milioni di pensionati (uno su cinque). La Repubblica denuncia: Costretti alla sanità privata. La Verità spera nella Corte costituzionale, che oggi decide sui No Vax: Sentenza sui vaccini inchioda la Consulta.

INCONTRO CALENDA-MELONI

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni incontra il leader di Azione Carlo Calenda. Lui invita i berlusconiani a non "sabotarla". Le preoccupazioni forziste, le critiche dei dem, le gelosie della Lega. Lorenzo Di Cicco per Repubblica.

«L'incontro, dicono da entrambi i lati, è andato bene. E lascia presagire che la collaborazione continuerà. Non solo sulla manovra. «Se questo è il clima possiamo fornire un contributo anche sull'autonomia. O sull'abuso d'ufficio», dice Carlo Calenda a sera, riunendo un drappello di parlamentari, mentre da Forza Italia gronda nervosismo: «Le sue proposte non ci riguardano», replica stizzita Licia Ronzulli. Ieri è stato il giorno del faccia a faccia: Meloni da un lato, Calenda dall'altro. Location istituzionale, Palazzo Chigi. Fuori dalla stanza, il retroscena che circola da settimane, sempre smentito dagli interessati: il Terzo Polo si muove per creare una gamba centrista, in grado di rimpiazzare il partito di Berlusconi. «No, non faremo la stampella. Nessuno ce lo ha chiesto e non lo accetteremmo », ribadisce l'ex ministro dopo un'ora e mezza di vertice, davanti a microfoni e taccuini. Punti di contatto però ce ne sono stati. Meloni si è detta disponibile ad «approfondimenti ». Sul reddito di cittadinanza, con Azione e Iv che hanno suggerito un ritorno al vecchio Rei, gestito dai Comuni. Sul tetto al prezzo del gas, al posto del credito d'imposta, per fronteggiare il caro bollette. Sul ritorno dell'unità di missione Italia Sicura, creata da Renzi e smantellata da Conte, per affrontare il dissesto idrogeologico, vedi Ischia. E su altri tre punti: il progetto Industria 4.0, borse di studio per i giovani, incentivi con i fondi del Pnrr al posto dei bandi lumaca. «Meloni non ci ha detto: sì, accogliamo tutto. Ma si è detta disponibile a ragionarci», racconta un parlamentare del Terzo Polo che ha partecipato all'incontro, a cui ha preso parte anche il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti. Mentre sull'aumento dei fondi per la sanità resta la distanza. L'atmosfera comunque è stata collaborativa. «La premier è molto preparata, apprezzo la sua linea draghiana », chiosa Calenda. «Con il Terzo Polo siamo vicini su Industria 4.0 e reddito», fa sapere il ministro meloniano Adolfo Urso. Il confronto continuerà. Prima con i ministeri, per capire quali proposte possono trasformarsi in emendamenti alla finanziaria. E poi sul resto: la revisione dell'abuso d'ufficio proposta dal ministro Carlo Nordio e l'autonomia a cui sta lavorando il collega Roberto Calderoli. FI è preoccupata. Anche perché Calenda, uscendo da Chigi con i capigruppo e Luigi Marattin, ha accusato il partito di Berlusconi di «sabotare» il governo. La replica arriva da una batteria di big azzurri. I capigruppo Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo: «Calenda è irrilevante». Maurizio Gasparri: «Non ci servono lezioncine ». Giorgio Mulè: «A Calenda va aperta la porta d'uscita, per prendere posto all'opposizione». Gongola l'ex forzista Mariastella Gelmini, passata al Terzo Polo: «Il nervosismo di alcuni esponenti della maggioranza sull'incontro dimostra che siamo nel giusto». Se Meloni accetta la sponda calendiana è anche perché la finanziaria va approvata in tempi record. Se si va oltre il 31 dicembre, scatta l'esercizio provvisorio di bilancio. Uno smacco, per la pr emier. Che riunendo i capigruppo di maggioranza nel pomeriggio non ha nascosto la sua preoccupazione, chiedendo a tutti di «limitare» gli emendamenti al minimo, per «non andare in ordine sparso» e «per non creare illusioni nei cittadini» con boutade elettorali. La maggioranza potrà spartirsi circa 400 milioni di modifiche alla manovra. I tempi sono strettissimi: il termine per la presentazione degli emendamenti alla Camera, che dovrebbero essere contingentati a quota 400, uno a deputato, sarà fissato per martedì prossimo o mercoledì. Il 7 Meloni incontrerà i sindacati, Cgil, Cisl, Uil e Ugl, per chiudere entro il 23 a Montecitorio, in modo che il Senato possa procedere all'esame entro capodanno. Calenda, anche qui, tende la mano: «Non faremo ostruzionismo per mandare sotto il governo». Ma Meloni sembra preoccupata soprattutto per i suoi: «Sia chiaro - ha avvertito ieri nel vertice di maggioranza - se servisse, vi voglio tutti in Aula anche a Natale e alla vigilia».

FINANZIARIA DA APPROVARE, “ANCHE A NATALE”

Nel retroscena di Monica Guerzoni per il Corriere la premier lancia un avvertimento ai suoi: se necessario dovremmo stare al lavoro anche a Natale.

«Disposta a tutto. Anche a restare «inchiodata» nell'Aula di Montecitorio, sui banchi del governo, per «tutto il tempo necessario» e quindi anche durante le festività natalizie, «il 25 dicembre, il 26 e anche l'ultimo dell'anno». Giorgia Meloni stringe i bulloni della maggioranza, invoca compattezza e «blinda» la manovra economica. «Io sono tranquilla, non temo l'esercizio provvisorio - ha rassicurato a porte chiuse la leader di Fratelli d'Italia -. Ma c'è solo un mese di tempo, dobbiamo scongiurare che un incidente di percorso ci porti a sforare i tempi». Il timore è l'ingorgo parlamentare che potrebbe crearsi con i decreti in arrivo, anche a causa dell'ostruzionismo delle minoranze. Ecco allora che, per spianare la strada al provvedimento che vale 37 miliardi ed è, anche a Bruxelles, un test decisivo per la credibilità della nuova destra, la premier gioca su due tavoli. Alla sua maggioranza lancia appelli alla compattezza e al senso di responsabilità e intanto dialoga senza imbarazzi con un pezzo delle opposizioni. Il «summit» con Carlo Calenda, accolto a Palazzo Chigi dai «big» di Fratelli d'Italia, è solo una parte della strategia. Lo conferma la reazione furibonda di Forza Italia, che punta a colpire l'esponente dell'opposizione, ma serve al tempo stesso ad avvisare Meloni che il disagio c'è ed è forte. Aprendo al leader del Terzo polo, che promette un'opposizione «responsabile» come fu quella della stessa Meloni al governo di Mario Draghi, la premier manda un avvertimento ai più recalcitranti tra i suoi alleati. Lei di certo non ha commesso l'azzardo e l'ingenuità di chiederglielo e Calenda smentisce di averlo anche solo pensato («non voteremo la manovra, né la fiducia»), ma il messaggio in bottiglia arrivato in Parlamento è che la maggioranza potrebbe un giorno allargarsi verso il centro. Come ha rivendicato il leader di Azione, Meloni poteva cavarsela con un incontro pro forma, una mezz' oretta e via. Invece ha accolto l'ospite con tutti gli onori, facendogli trovare in sala il ministro Giorgetti, i fidatissimi Fazzolari e Lollobrigida e il sottosegretario alla presidenza Mantovano, sempre presente nei momenti più importanti. Il vertice è durato un'ora e mezza ed è stato «molto operativo», come se davvero ai piani alti del governo ci sia l'intenzione di accogliere i suggerimenti di Calenda e compagni. A cominciare dal Reddito di cittadinanza, che potrebbe virare verso il reddito di inclusione. «Lei si è detta d'accordo», gongola Calenda eppure assicura che no, Meloni non le ha chiesto «Carlo dacci una mano». Non ce n'è stato bisogno. La mano l'ex ministro centrista l'ha data già salendo a Palazzo Chigi, una mossa che potrebbe neutralizzare qualche rivendicazione degli alleati. Calenda non ha solo promesso che il Terzo polo «non farà ostruzionismo», ma ha anche insinuato che Forza Italia stia al governo «per sabotarlo». Il resto del lavoro di sminamento, Meloni lo ha fatto dentro il perimetro della maggioranza. Ha ricordato che la manovra, per forza di cose, è stata scritta a tempo di record e a tempo di record deve essere approvata, ma ha promesso che rispetterà il Parlamento e lascerà ai partiti «la possibilità di migliorarla». Con i capigruppo la premier ha rimandato alla prossima settimana il merito delle norme più controverse e ha piantato qualche paletto sul metodo: «Non possiamo arrivare in Commissione con migliaia di emendamenti di maggioranza, dobbiamo sfoltirli prima». Le modifiche dunque saranno contingentate, con l'obiettivo di limitarle a 400 circa. Anche per questo si è deciso di istituire un coordinamento dei presidenti dei gruppi parlamentari, cui toccherà anche valutare come impiegare il tesoretto che Palazzo Chigi e via XX Settembre avrebbero messo da parte per rafforzare l'impianto della manovra. Meloni assicura di essere aperta anche ai suggerimenti delle opposizioni, purché non si pensi di «stravolgere» il lavoro che il governo ha fatto. E il monito è rivolto anche a Forza Italia e Lega. Nell'intervista al Corriere , la prima da quando è a Palazzo Chigi, Meloni lo ha detto con una formula che può apparire diplomatica, ma politicamente è piuttosto ruvida: in Consiglio dei ministri siedono sia il leader della Lega Matteo Salvini che il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani e «stravolgere la manovra significherebbe delegittimarli». E il 7 dicembre tocca ai sindacati. Alle 12,30 a Palazzo Chigi saliranno i leader di Cgil, Cisl, Uil e Ugl e ci saranno anche i ministri economici».

SALLUSTI SPERA CHE MELONI NON SI FACCIA ABBINDOLARE

Renzi e Calenda sono due imbroglioni, come il Gatto e la Volpe di Pinocchio. Editoriale sopra le righe di Alessandro Sallusti per Libero. Che rispecchia la grande preoccupazione all’interno di Forza Italia.

«Carlo Calenda ha incontrato, a nome anche di Matteo Renzi, Giorgia Meloni e ha dato disponibilità a collaborare con il governo, pur rimanendo all'opposizione, su alcuni temi per lo più di natura economica. I retroscenisti della politica vedono in questa mossa l'inizio di un possibile inciucio perché un domani chissà, se pezzi della maggioranza dovessero fare le bizze ecco pronta una alternativa di governo. Non so cosa pensi a proposito Giorgia Meloni, so di certo che non solo i numeri parlamentari rendono impossibile uno scenario del genere ma che parlare di funerale quando ancora il neonato governo non è stato battezzato è cosa più ridicola che inquietante. Ma semmai, dico semmai, qualcuno davvero ipotizzasse scenari del genere sarebbe meglio ricordare - cosa che su queste pagine abbiamo già fatto - che Calenda e Renzi sono simili al Gatto e alla Volpe della favola di Pinocchio, cioè due imbroglioni (politicamente parlando) che campano di inganni fingendosi il primo cieco e il secondo zoppo. Nella loro carriera Renzi e Calenda hanno tradito qualsiasi accordo, alleanza e amicizia messa in atto forse ad eccezione di Mario Draghi ma solo perché qualcuno è stato per una volta più svelto di loro. Quando i due si avvicinano a qualcuno c'è da chiedersi dove sta il trucco, la fregatura è certamente dietro l'angolo. Ora la domanda è: il Gatto e la Volpe vogliono scalare la sinistra o la destra? Mi correggo, la domanda è stupida: "destra e sinistra purché se magna" è infatti il loro motto. Ma volendo spaccare il capello in quattro direi più la destra, altrimenti non avrebbero nominato loro presidente Mara Carfagna né candidato alla Regione Lombardia Letizia Moratti, due ex star di Silvio Berlusconi. Tutto legittimo, ovviamente, ma non credo proprio che Giorgia Meloni si farà abbindolare dalle lusinghe dell'ex segretario del Pd che a sua volta ha abbindolato l'ex eurodeputato del Pd insieme al quale i due hanno fregato l'attuale segretario del Pd Enrico Letta. Ecco io spero che alla fine del cordiale colloquio di ieri a Palazzo Chigi la premier abbia congedato il suo ospite con la frase: "Grazie Carlo, grazie davvero, e mi raccomando: stai sereno". Così, tanto per segnalare che qui nessuno è fesso».

CALENDA SODDISFATTO: “BUONA CHIMICA CON MELONI”

Il leader di Azione all’uscita dall’incontro di Palazzo Chigi commenta: c'è una buona chimica con la premier ma non c’è in vista nessun appoggio al governo. Pd e 5 Stelle fanno a gara per andare in piazza, ma stare all'opposizione impone un confronto serio. L’intervista sulla Stampa è di Federico Capurso.

«Faldoni sotto braccio, delegazione del Terzo Polo al seguito, Carlo Calenda esce da palazzo Chigi, dopo l'incontro con Giorgia Meloni, con una piacevole sensazione addosso. E non è solo il gusto dei riflettori. C'è la convinzione di essere riuscito a farsi ascoltare sulle sue «proposte migliorative» per la manovra, di aver iniziato quindi a costruire il proprio ruolo all'opposizione, distinto da quello del Pd e del Movimento 5 stelle, «evitando i no pregiudiziali e proponendo invece delle alternative serie». Ma c'è anche qualcos' altro. Un lato psicologico, quasi emotivo, che rende straordinariamente vicini un leader dell'opposizione e il capo del governo: «La chiami "chimica", se vuole».

E questa chimica da dove nasce?
«Sento il fascino della storia di Giorgia Meloni. È quella che lei ha raccontato più volte: una donna che nasce in una famiglia non privilegiata, con una vita difficile e che ce la fa da sola. Questo mi predispone positivamente dal punto di vista della chimica. Dopodiché, abbiamo pensieri diametralmente opposti, ma sono in grado di fare questo apprezzamento rimanendo radicato nelle mie convinzioni».

Pensa male chi vede in questa sintonia uno strumento utile in vista della nomina dei presidenti delle commissioni di garanzia, dal Copasir alla Vigilanza Rai?
«Non abbiamo mai chiesto niente al governo, né provato delle forzature con la maggioranza. Stiamo facendo un lavoro mantenendo un'assoluta distanza, anche dai posti che spettano all'opposizione.
Tanto meno pensiamo di entrare in maggioranza».

Ci metterebbe la mano sul fuoco?
«Sì, assolutamente. Fiducia, appoggio esterno, stampella: sono tutte sciocchezze. Noi vogliamo ricostruire un centro riformista e abbiamo una visione del Paese agli antipodi rispetto a quella del governo».


Meloni vi ha riservato tempo e attenzione, e Forza Italia si è irritata. Vi accusa di aver montato un'operazione mediatica.
«Se è un'operazione mediatica perché abbiamo scritto 25 pagine di documento super dettagliato? Bastava una chiacchierata. Penso piuttosto che Forza Italia abbia un problema. Vuole sabotare il governo di cui fa parte. Non lo trovo lodevole come intento».

Che fa, difende Meloni?
«È una questione di serietà. Sono stati votati ed eletti per lavorare in coalizione. Non puoi fare finta e poi iniziare a segare le gambe della sedia. Questo è il motivo di fastidio dei vari Ronzulli, Gasparri e Mulè. Sono in un partito sgonfiato che vive di polemiche interne al governo».

Forza Italia chiede di non sgomitare alla ricerca di un ruolo.
«Abbiamo solo dato un contributo su alcuni pezzi della legge di bilancio. Il loro nervosismo tradisce il fatto che si stanno effettivamente distinguendo in questo ruolo di sabotatori».

E questo contributo che ha offerto a Meloni ha ottenuto un riscontro positivo?
«Sono rimasto piacevolmente sorpreso. L'ho trovata molto preparata».

La considera una presidente del Consiglio preparata?
«Non do giudizi su questo, non mi permetterei mai. Intendo dire che mi ha sorpreso che fosse così preparata sulle nostre proposte. Siamo entrati nel merito, parlando per più di un'ora e mezza, anche insieme ai ministri Giorgetti e Urso: un confronto serio di cui ringrazio il governo».

E ci sono delle aperture?
«Mi pare di sì, su molte proposte. A proposito degli interventi sull'energia, ho chiesto un tetto nazionale al prezzo dell'energia e del gas, con uno scontro del 50%, a saldi invariati. Impresa 4.0, poi, è da rifare aggiungendo i beni ambientali, e sulla riforma del reddito di cittadinanza abbiamo spiegato che si dovrebbe riportare a una gestione da parte dei Comuni, come era il Reddito di inclusione. Ha detto che valuterà l'idea di rimettere in piedi la struttura "Italia Sicura" (che al tempo prevedeva anche una spesa per la messa in sicurezza del comune di Casamicciola) che è stata stupidamente smantellata da Conte. Ho suggerito di mettere dentro Italia Sicura anche le reti idriche, per unificarle. Ultimo punto: serve un intervento di emergenza sulla sanità, perché sotto i 6 miliardi spesa il sistema non regge».

Vi rivedrete?
«Abbiamo deciso che seguiranno degli approfondimenti tecnici. Invieremo il nostro centro studi e il legislativo. Io sarò presente sul tema dell'energia. Mi diverte fare accadere una cosa».

Questa manovra quindi è migliorabile, ma tutto sommato le piace?
«No, è ancora la manovra di Salvini. Dal pos in poi, sono tutte bandierine elettorali della Lega».

Pd e M5S sostengono che con questa manovra si attaccano i poveri e si favoriscono gli evasori.

«Non attacca i poveri, ma sono d'accordo sul fatto che favorisca gli evasori».

Eppure sembra più distante da Pd e M5S che non dalla premier Meloni.

«Ho proposto al Pd di lavorare insieme sulla manovra, gli ho anche inviato la nostra proposta, ma non hanno mai risposto. Preferiscono fare a gara con i Cinque stelle a chi va in piazza per primo. Alla fine produrranno solo un sacco di blocchi del traffico per dire la stessa cosa, cioè niente, tranne che la manovra non gli piace, e lo fanno in tre giorni diversi: solo su Marte. Ma gli italiani non ci pagano per dire sempre di no su tutto, troppo facile così».

La vostra sarà un'opposizione dialogante?

«Stiamo cercando di normalizzare le relazioni nella politica italiana. Il fatto di stare all'opposizione, poi, impone eticamente un confronto».

Finora le hanno riconosciuto il ruolo di incendiario del confronto politico, più che di normalizzatore.

«Si scambia l'essere diretti con l'essere pregiudiziali. Sul salario minimo, ad esempio, sono favorevole e siamo disponibili a votare la risoluzione di M5S e Pd. Voglio solo usare un linguaggio comprensibile, a volte anche in modo troppo ruvido e diretto, ma non ho mai considerato il mio interlocutore come un nemico».

CHE COSA CONTIENE IL DDL BILANCIO

Ieri all’ora di pranzo è arrivato il testo del Ddl sul Bilancio, “bollinato” dalla Ragioneria generale dello Stato. Ma che cosa contiene? Il resoconto è di Andrea Ducci e Claudia Voltattorni per il Corriere.

«Adesso c'è anche la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Con la verifica della compatibilità finanziaria dei provvedimenti, la legge di Bilancio assume la sua veste definitiva e inizia l'iter parlamentare alla Camera. Alla fine del prossimo mese è atteso il passaggio al Senato per l'approvazione entro il 31 dicembre e scongiurare l'esercizio provvisorio. Nel testo bollinato e firmato dal presidente Sergio Mattarella resta, intanto, la norma che fissa a 60 euro il tetto oltre il quale gli esercenti sono obbligati ad accettare carte di credito e bancomat. Ma su questo continuano le interlocuzioni con l'Ue che pur non disciplinando le soglie dei contanti, valuta però l'impegno preso dall'Italia nel Pnrr contro l'evasione: con la nuova norma potrebbe chiederne conto. Nel testo trasmesso a Montecitorio, aumenta rispetto alle bozze dei giorni scorsi il numero degli articoli, passati da 156 a 174. Le novità riguardano la strategia nazionale di cybersicurezza, con l'istituzione di due fondi. Il primo è destinato agli interventi per l'autonomia tecnologica e il potenziamento del livelli di cybersicurezza dei sistemi informativi, con 70 milioni nel 2023 e ulteriori 90 milioni nel 2024. Il secondo fondo riguarda la gestione della cybersecurity e prevede 10 milioni per il 2023, e altri 120 milioni nel biennio successivo. Con l'arrivo della legge di Bilancio alla Camera va anche definendosi la dote che il governo intende concedere ai parlamentari della maggioranza per finanziare provvedimenti di piccola e media entità che corredano le finanziarie. La cifra ammonta a 400 milioni di euro. Come ricordato dal sottosegretario all'Economia, Federico Freni, «è la prima volta che si affronta il bilancio dello Stato partendo da una posta vincolata che deve assorbirne quasi i tre quarti». Il riferimento di Freni è ai 21 miliardi di euro destinati alle misure contro il caro bollette di famiglie e imprese, ossia il principale stanziamento della manovra, che in totale vale circa 36 miliardi. Per i soggetti più fragili ci sono 2,5 miliardi attraverso il bonus sociale che prevede uno sconto automatico per le utenze di gas e luce dei nuclei familiari con Isee fino a 15 mila euro annui. Ulteriori risorse per l'azzeramento degli oneri di sistema in bolletta e il taglio dell'Iva sul gas al 5% assorbono 3,8 miliardi, mentre l'azzeramento degli oneri di sistema dell'energia elettrica vale 963 milioni. Previsto l'aumento al 35% dei crediti d'imposta per le bollette delle piccole attività commerciali, mentre per le imprese energivore e gasivore il beneficio fiscale sale al 45%.  C'è poi tutto il capitolo pensioni che pesa circa 700 milioni di euro. Viene prorogato anche per il 2023 l'Ape sociale, l'anticipo pensionistico per alcune categorie di lavoratori. Ma solo per il 2023 c'è la possibilità di uscire prima dal lavoro già a 62 anni con 41 di contributi. La cosiddetta Quota 103 o «pensione anticipata flessibile» prevede l'addio anticipato con un assegno massimo di 2.600 euro lordi e non cumulabile con altri redditi da lavoro. Per chi vuole restare c'è il «bonus Maroni»: riceverà in busta paga i contributi dovuti dal datore di lavoro, pari ad un aumento lordo del 30% (secondo alcuni calcoli), ma non influirà sul computo della pensione finale. Limiti strettissimi invece per Opzione donna: solo per lavoratrici dai 60 anni, - fino a due anni in meno se anche madri - ma solo se caregiver, o con invalidità dal 74% o licenziate. Massimo 8 mesi e con molte restrizioni il Reddito di cittadinanza che dal 2024 sparirà nell'ottica di una totale revisione del sostegno. Sarà cumulabile con i lavori stagionali o saltuari fino a 3 mila euro lordi. Per le pensioni c'è un meccanismo di indicizzazione, con le minime portate a 600 euro. Ma per quelle oltre i 2.100 euro lordi (la maggior parte), l'aumento sarà limitato. Un risparmio di 2,1 miliardi le casse statali, ma per molti pensionati non ci sarà il recupero dell'inflazione. Il capitolo fisco prevede l'estensione della flat tax al 15% per partite Iva e autonomi con ricavi fino a 85 mila euro (ora il tetto è a 65 mila). Tra le misure anche la riduzione della tassazione sui premi di produttività: fino a 3 mila euro scende al 5%. In manovra c'è anche il taglio del cuneo fiscale: due punti per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 35 mila euro e tre punti fino a 20 mila euro. La tregua fiscale prevede la cancellazione delle cartelle fino a mille euro dal 2000 al 2015. I contribuenti che hanno presentato dichiarazioni fedeli (l'ultima è quella del 2021), ma poi non sono riusciti a pagare possono sanare con una sanzione ridotta al 3% e rateizzazione in 5 anni. Per le famiglie dai 3 figli in su ma fino a 3 anni di età e un reddito Isee sotto i 40 mila euro, l'assegno unico viene rinforzato del 50%. Le neo mamme avranno un mese in più di congedo retribuito all'80%. Cala al 5% l'Iva sui prodotti per l'infanzia e quella sugli assorbenti igienici (tampon tax). E per i redditi fino a 15 mila euro ci sarà una carta spesa per i prodotti di prima necessità. La manovra riapre anche il cantiere del Ponte sullo Stretto di Messina. Viene riattivata la Stretto di Messina Spa per far partire al più presto il progetto. Arrivano poi in corsa 2,2 miliardi di euro (fino al 2032) per la metropolitana di Roma, dalle tratte T1 e T2 alla linea C. Tre miliardi (fino al 2037) sono per la Statale Jonica e riparte il terzo lotto dell'Alta velocità Torino-Lione.».

NUOVO ESODO DA ODESSA, MANCANO LUCE E GAS

Le ultime dal fronte bellico. Nello Scavo racconta su Avvenire il nuovo esodo del popolo ucraino che cerca di sfuggire all’assedio di freddo e gelo, provocato dalla nuova strategia militare russa.

«Le corse di bus da Odessa a Chisinau sono state raddoppiate. La fuga verso la Moldavia è una strada che migliaia di ucraini conoscono. Nessuno di loro avrebbe immaginato di doverla percorrere una seconda volta, da profugo. Che poi in questa guerra si declina quasi solo al femminile, a meno che non si sia minorenni. «Stavolta è ancora più difficile spiegargli di doversi allontanare dal papà», dice una giovane madre che era tornata nella città in riva al Mar Nero proprio dopo l'estate, quando le acque si erano calmate e la guerra sembrava soprattutto affare di Mykolaiv, di Kherson, dei villaggi sperduti in mezzo alla campagna. Invece Aniuta, che da noi si direbbe Annina, deve di nuovo mettersi in braccio alla mamma e lasciarsi alle spalle Igor, il padre trentenne che non sa che favola inventarsi per far smettere di piangere Aniuta. Quando lascia il terminal di Pryvoz, di fianco al gran bazar e a una di quelle stazioni che sarebbero piaciute ad Agatha Christie, dal finestrino vediamo Igor tornare alla solitudine mentre con un calcio scaraventa un sasso dall'altra parte del marciapiede. E si capisce che quel sasso allontanato in malo modo è la disgrazia di una guerra che nessuno qui voleva davvero cominciare e adesso non si sa quando finirà. Ci vogliono sei ore per percorrere meno di 200 chilometri le code alla frontiera sono chilometriche. Soprattutto tir merci incolonnati su entrambe le direzioni. E poi di nuovo centinaia di aiuto guidate da donne che si trascinano dietro coperte pesanti e l'occorrente per superare l'inverno da qualche parte di nuovo lontano dall'Ucraina. Era stato il presidente Zelensky nei giorni scorsi a suggerire di rifare i bagagli e andarsene per un po' dove elettricità e riscaldamento non sono un lusso. Tutti sapevano, del resto, che le riparazioni alle infrastrutture danneggiate sarebbero durate poco. Perché Mosca sarebbe tornata a devastare le pompe idriche, le condutture del gas e le centrali elettriche. Kiev è tornata al buio, di tornare alla normalità di una capitale in guerra non se ne parla. Anche per questo la gente di Odessa preferisce tornare verso la Moldavia e da lì raggiungere la Romania anziché spostarsi verso la capitale. Mentre l'autista moldavo impreca per le code, il traffico, il fango, la nebbia e il fatto che l'azienda gli dia solo bus tedeschi di quarta mano e milioni di chilometri, a bordo del "gran turismo" che una volta trasportava frontalieri e viaggiatori, ci si tiene aggiornati sulle cronache di guerra. «Stanno attaccando Kherson», dice una donna parlando inglese nella nostra direzione. E fa cenno con la mano come dire che bisogna prendere appunti. I maschi adulti sulla corriera delle mamme in fuga suscitano sempre curiosità: «Giornalisti stranieri che se vanno o politici che non torneranno più», esclama una studentessa universitaria. E spiega: «Certi politici maschi trovano sempre un modo e una scusa per farsi dare un permesso e lasciare il Paese. Promettono di tornare ma alcuni non li abbiamo visti più». Certo non deve essere facile tenere fede al giuramento alla bandiera quando in casa ti arrivano i fanti di Mosca. Ieri le autorità ucraine hanno arrestato il vice capo del consiglio comunale di Kherson, appena liberata, con il sospetto di favoreggiamento delle forze di occupazione russe che avevano preso il controllo della città a marzo. Il funzionario rischia fino a 12 anni di carcere. Al momento è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione imprecisata. La legislazione ucraina non riconosce molte attenuanti ai collaborazionisti, tuttavia il funzionario indagato è accusato di un reato differente: « Assistenza ad uno Stato aggressore». Pur non avendo sposato la causa del Cremlino non avrebbe ostacolato le autorità occupanti, una condizione che riguarda centinaia di funzionari pubblici costretti a mantenere attivi i servizi sotto la minaccia di ritorsioni per sé e per la propria famiglia. Ieri l'artiglieria russa posizionata al di là del fiume, lungo l'argine che si affaccia sulla città ha del Sud, ha aperto il fuoco a vasto raggio. Diversi proiettili sono caduti nel perimetro dell'ospedale regionale di Kherson, senza fare vittime. Cinque giorni fa il centro sanitario era stato colpito dai missili russi, così come altre strutture sanitarie, e i pazienti del reparto pediatrico e psichiatrico erano stati trasferiti a Mykolaiv e Odessa, dove però i frequenti blackout e il sovraffollamento nelle corsie rischiano di far collassare il già compromesso sistema di emergenza sanitaria. La riconquista della città meridionale di Kherson ha spinto l'Ucraina a mantenere l'iniziativa sul campo di battaglia anche se il deterioramento delle condizioni rende più difficile la ricacciata degli occupanti. Il clima invernale favorirà probabilmente le forze armate ucraine, ha scritto su Twitter Jack Watling, analista del Royal United Services Institute di Londra. I russi appena mobilitati, invece, non hanno l'esperienza o le capacità per operare per lunghi periodi. Se il ritiro russo da Kherson ha posto fine a più di otto mesi di occupazione nella città che prima della guerra ospitava quasi 300.000 persone e adesso ne conta meno di un terzo, per altro verso migliaia di residenti sono fuggiti, l'elettricità e i servizi di base non sono disponibili e le forze di sicurezza sono a caccia di possibili collaborazionisti. Una donna con anziana madre al seguito e due ragazzini in età da scuole medie e vestiti con tuta mimetica racconta proprio della loro vita a Kherson. Che non sarà mai più la stessa. « I russi perderanno la guerra, ma se volevano rovinarci la vita ci sono riusciti».

KIEV CHIEDE AIUTO AL VERTICE NATO DI BUCAREST

Washington promette aiuti per la rete energetica. La capitale ucraina resta al freddo e al buio. Il punto è di Sabato Angieri per il Manifesto.

«In poche parole» ha detto il ministro degli esteri Dmytro Kuleba all'incontro dei ministri degli Esteri della Nato a Bucarest, «Patriots e trasformatori sono ciò di cui l'Ucraina ha più bisogno». Riassume così le necessità del suo Paese Kuleba, in una delle ore più buie dall'inizio della guerra. Se sul campo l'Ucraina è riuscita a ottenere successi importanti negli ultimi mesi, soprattutto nell'est, ora la situazione nelle retrovie sta rapidamente peggiorando. La strategia russa di colpire le centrali energetiche e le sottostazioni urbane sta diffondendo una crescente preoccupazione tra i politici ucraini che, a partire dal leader, si affannano in tutti i consessi a chiedere aiuti immediati e sistemi di difesa missilistica. Al vertice Nato di ieri, al quale era presente anche il segretario di Stato americano, Antony Blinken, gli Usa hanno annunciato un ingente piano di aiuti per la rete energetica ucraina che parte dai generatori, sia industriali sia di piccola taglia, e arriva alle coperte passando per i trasformatori, il carburante per l'alimentazione, le parti di ricambio per le infrastrutture civili. Una sorta di piccolo «piano Marshall» per l'energia ucraina che proceda in parallelo ai vari pacchetti di armi già decisi per Kiev. In uno di questi, tra l'altro, secondo Reuters il Pentagono starebbe valutando una proposta dell'azienda aeronautica Boeing per fornire piccole testate di precisione a basso costo all'Ucraina. Tali ordigni si potrebbero montare su razzi già disponibili alle forze armate ucraine che, nel complesso, potrebbero colpire a ben 150 km di distanza ovvero ben oltre le linee di difesa russe. L'armamento proposto dalla Boeing, chiamato Ground-Launched Small Diameter Bomb (Glsdb, ovvero Bomba di piccolo diametro lanciata dal suolo, ndr), sarebbe solo uno dei diversi piani: Reuters parla di almeno una mezza dozzina, per la produzione di nuovi armamenti destinati all'Ucraina e agli alleati americani nell'Europa orientale.
È noto che l'amministrazione Biden stia cercando soluzioni immediate alla crescente necessità di armamenti. Nei giorni scorsi abbiamo citato le preoccupazioni di una parte del Pentagono per il progressivo esaurimento delle scorte nei depositi militari e la Boeing non è la sola che si sta impegnando in questo campo. Del resto, gli Usa sono preoccupati anche per i propri interessi strategici nel Pacifico. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal Washington avrebbe accumulato un «arretrato» di quasi 19 miliardi di dollari in armamenti destinati a Taiwan in funzione anti-cinese. Tra questi ci sarebbero i sistemi di lanciarazzi multiplo Mlrs, i lanciamissili anticarro Javelin e missili terra-aria Stinger. Ora che anche in Cina sono iniziate le proteste contro il governo, il governo statunitense teme che l'instabilità di Xi Jinping possa influire negativamente sull'area. Intanto al vertice Nato di Bucarest i vari Paesi presenti hanno annunciato nuovi aiuti per Kiev. La Slovacchia, ad esempio, ha dichiarato di voler fornire 30 veicoli blindati per il trasporto di personale e più artiglieria. Il ministro degli esteri dell'Estonia, Urmas Reinsalu, si è spinto oltre chiedendo agli alleati di impegnare l'1% del loro Pil per il sostegno militare all'Ucraina, affermando che ciò farebbe «una differenza strategica». Come fa notare Associated Press, tuttavia, la maggior parte dei Paesi della Nato fatica a spendere il 2% del Pil per i propri bilanci di difesa e quindi la proposta di Reinsalu è irricevibile. A tale proposito, il governo italiano ieri ha ritirato l'emendamento al cosiddetto «Dl Nato» che prorogava l'invio di armi all'Ucraina fino alla fine del 2023. In Ucraina i civili continuano a scontare la mancanza di corrente elettrica che si aggiunge alle sofferenze già causate da mesi e mesi di bombardamenti. Nonostante i proclami di lunedì, ieri la principale azienda privata del settore elettrico ucraino, la Dtek, ha annunciato che le interruzioni di corrente nella capitale riprenderanno in maniera consistente. Al momento, i cittadini della capitale hanno forniture elettriche garantite per 2-3 ore, due volte al giorno e nel resto del Paese la situazione non è migliore con una fornitura garantita inferiore al 30% della capacità ordinaria».

GLI EUROPEI ACCUSANO GLI USA: FATE PROFITTI CON LA GUERRA

Emmanuel Macron in visita a Washington sottolinea che il prezzo del GNL venduto dagli Usa all’Europa è sempre più alto. Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera.

«Gli europei accusano gli Usa: state facendo profitti con la guerra, anche a spese nostre. A Bruxelles si lamentano, innanzitutto, per il gas liquefatto venduto dalle corporation americane a un prezzo 4-5 volte superiore rispetto a quello del mercato americano. Inoltre c'è grande irritazione per gli effetti della legge anti inflazione («Inflation reduction act») approvata dal Congresso in agosto. Il provvedimento, fortemente voluto da Joe Biden prevede, tra l'altro, sussidi per 369 miliardi di dollari, da spalmare in dieci anni, a favore delle imprese attive nel settore delle rinnovabili. I governi del Vecchio Continente temono che i fondi pubblici messi in campo dall'amministrazione possano assicurare un notevole vantaggio competitivo alle industrie americane. Diversi capi di Stato e di governo, compresa la premier italiana Giorgia Meloni, hanno sollevato le due questioni negli incontri bilaterali con Joe Biden, a margine del G20 a Bali, il 15 e 16 novembre. Gas e sussidi saranno anche nell'agenda dell'incontro tra il presidente americano ed Emmanuel Macron, da ieri a Washington. Una visita che culminerà nel faccia a faccia tra i due leader previsto per domani. I consiglieri della Casa Bianca hanno spiegato che Biden ha scelto di offrire la sua prima «cena di Stato» al presidente francese per «sottolineare lo stretto legame con l'alleato più antico». Gli americani considerano Macron «il leader più dinamico» sia all'interno dell'Unione europea che nel G7. Come dire: è l'interlocutore con cui discutere la nuova fase della guerra in Ucraina. Biden continua a chiedere compattezza al fronte occidentale su sanzioni e l'invio di armi a Kiev. Ieri, peraltro, ha convocato «un summit per la democrazia», il 29-30 marzo 2023. Macron, però, insiste sul negoziato. Il gas è già diventato un elemento di disturbo. Lo stesso presidente della Francia ha detto che le imprese statunitensi stanno vendendo gas liquido a «un prezzo non amichevole» alle società europee. La Casa Bianca si difende osservando come le corporation petrolifere abbiano raddoppiato in un anno l'export di gas liquido in Europa. Biden si sarebbe aspettato un cenno di gratitudine dagli europei visto che, come osservano i suoi advisor , «l'aumento delle forniture consentirà agli alleati di rimpolpare le scorte in vista dell'inverno». Ma come spiegare l'impennata dei prezzi? Il carico di una nave cargo in partenza dalla Louisiana che fino all'anno scorso valeva 20 milioni di dollari, oggi arriva a 100 milioni (l'estate scorsa anche 200 milioni). Il team di Biden si difende così: «È un fenomeno che non dipende dal governo Usa. Il gas viene consegnato dalle imprese americane a intermediari europei che manovrano i prezzi». In via informale a Washington citano il caso della francese TotalEnergies. Ma nella lista vanno inserite almeno altre tre società: le americane Cheniere ed ExxonMobil più l'anglo-olandese Shell, che hanno appena chiuso i conti del terzo trimestre con profitti faraonici. La Shell Integrated Gas business, il ramo d'azienda che comprende la gestione del gas liquefatto, nei primi nove mesi del 2022 ha totalizzato 10,1 miliardi di utile: il doppio dell'anno scorso».

SI VOTERÀ A GENNAIO L’INVIO DI NUOVE ARMI

Il sostegno all’Ucraina dell’Italia e l’invio di nuove armi approderà alle Camere il prossimo gennaio. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Il sesto decreto interministeriale per fornire armi all'Ucraina arriverà all'inizio del nuovo anno.
Quasi certamente i primi giorni di gennaio. E sarà preceduto da un decreto - che dovrebbe approdare già domani in Consiglio dei ministri - utile a dare cornice giuridica per l'intero 2023 al sostegno militare a Kiev. A sera, il governo fissa la tabella di marcia. Per decisione di Giorgia Meloni, non arretra sulla linea atlantista. Una scelta obbligata anche dalla necessità di rimediare a un pasticcio parlamentare del centrodestra. Quello che porta l'esecutivo a tentare prima un blitz e poi a ritirare l'emendamento che serviva a dare copertura giuridica all'invio di armi all'Ucraina per il prossimo anno. Una mossa pensata senza consultare le opposizioni. Che infatti fallisce, sconfitta dal muro alzato in particolare dal Pd. Ma che produce anche un fatto ulteriore, a sera: la premier fa ritirare proprio l'emendamento della discordia di fronte all'impegno formale dei dem di approvare il decreto entro la fine dell'anno, nonostante la sessione di bilancio.
Mettere in fila i fatti aiuta a comprendere la dinamica in corso. Per aggirare l'ostruzionismo del Movimento ed evitare di "bucare" - complice l'ingorgo causato dalla legge di bilancio - la proroga delle forniture militari a Kiev per tutto il 2023, il centrodestra prova ad affidare a una modifica del decreto sulle missioni Nato e sul commissariamento della Sanità calabrese l'impegno a proseguire le forniture militari. Senza alcun dibattito in Parlamento, senza un veicolo normativo adatto, senza dare solennità a un passaggio cruciale per la politica estera dell'Italia. È il ministero dei Rapporti con il Parlamento a gestire la partita tra lunedì pomeriggio e martedì mattina. Prende in prestito un'idea degli uffici legislativi dell'esecutivo e tenta la forzatura parlamentare. Il colpo di mano fa infuriare grillini e rossoverdi, ma soprattutto scatena la reazione del Partito democratico, la forza più collaborativa rispetto alla postura italiana nel conflitto che infiamma l'Est Europa. Il blitz, come detto, fallisce. L'altolà si consuma in mattinata. «Il Partito democratico ha sostenuto da subito il diritto dell'Ucraina a difendersi dall'invasione russa e continueremo a farlo nel 2023 - avvertono i dem Simona Malpezzi e Alessandro Alfieri - Riteniamo, tuttavia, che sia un errore presentare la proroga degli aiuti con un emendamento, oltretutto dei relatori e non del governo, a un decreto in conversione». Di più: «È del tutto evidente che servirebbe un provvedimento ad hoc assunto dall'esecutivo. Per questo chiediamo che l'emendamento venga ritirato e che si segua la linea che abbiamo sempre mantenuto dal marzo scorso: un decreto specifico con successivo passaggio alle Camere, almeno trimestrale, dei ministri competenti ». È un modo anche per far emergere le contraddizioni nel centrodestra, dove Lega e Forza Italia restano sensibili alle ragioni di Putin. Nel frattempo, però, va in scena un'intensa attività diplomatica sotterranea. La posizione dem, prima di essere affidata alle agenzie, viene illustrata direttamente al ministro della Difesa Guido Crosetto. Il quale condivide le ragioni del principale partito d'opposizione, strappando però l'impegno a valutare positivamente il decreto armi quando arriverà in Aula. Decreto che il Consiglio dei ministri si prepara ad approvare domani o, al più tardi, lunedì. Meloni, insomma, va avanti. E lo fa nonostante gli sgambetti di Lega e Forza Italia. Sono sempre loro ad annacquare la mozione di centrodestra, che sarà votata oggi in Parlamento. E che chiedono e ottengono un'inversione dei concetti contenuti nel testo, predisposto dall'azzurro Giorgio Mulè: prima la richiesta di sforzi diplomatici per la pace, solo dopo le forniture militari. Certo è che le forniture militari saranno inviate. E che l'asse atlantista, dopo la marcia indietro dell'esecutivo sull'emendamento, regge: il centrodestra si asterrà sulla mozione del Pd, i dem faranno lo stesso su quella di maggioranza. Resta da capire se il prossimo decreto interministeriale conterrà anche una batteria di Samp-T (Roma ne possiede in tutto 6, di cui due dislocate fuori dal territorio nazionale, una in Kuwait). L'idea era quella di cooperare con Parigi, che avrebbe fornito il radar che permette il funzionamento a questa difesa missilistica. Forse anche le recenti tensioni diplomatiche con la Francia, tuttavia, hanno rallentato l'operazione».

“SBAGLIATA UNA PACE GIUSTA, SE FA MORIRE TUTTI”

Alessia Grossi per Il Fatto intervista il professor Stefano Zamagni, accademico pontificio, che ha elaborato una proposta di pace per fermare il conflitto in Ucraina.

«Il professor Stefano Zamagni è tra gli ideatori e firmatari dell'appello per la pace in Ucraina che "ha alimentato un forte dibattito all'interno della Chiesa", ed è sempre più convinto della validità del suo approccio per fermare la guerra. "Bisogna fare come il Papa, abbandonare la via del giusto per arrivare al bene: cioè alla sopravvivenza di un intero popolo, quello ucraino. Soprattutto ora - aggiunge - che i russi attaccano i civili e le infrastrutture".

Professor Zamagni, il Cremlino sembrava ben disposto alla mediazione del Papa, poi Bergoglio ha accusato di crudeltà i ceceni e Putin si è risentito.
L'intervento dell'altro giorno del Papa è veramente straordinario: questo Papa non finisce di stupirmi. Ha avuto il coraggio di tirare fuori la questione Holodomor e qualcuno potrebbe storcere il naso e dire che la similitudine non è né perfetta né completa. Ma lui rileva che allora, nel 1932-33 venne deliberatamente provocata una carestia da parte di Stalin che portò alla morte di milioni di ucraini. Adesso sta avvenendo qualcosa di analogo, perché in effetti, come hanno notato diversi analisti, gli obiettivi perseguiti dall'esercito russo non sono più di natura militare, come in un conflitto ci si aspetterebbe. E questa è una novità.

Dice che si è entrati in una nuova fase della guerra?
Sì. L'obiettivo è terrorizzare per portare alla fuga. Anche perché milioni di ucraini che arrivano in Polonia o in Germania portano alla destabilizzazione interna di questi Paesi che si vedono arrivare bocche da sfamare, creando problemi di natura economica e sociale.

Qual è la soluzione?
La soluzione resta quella che dicevo più di un mese fa, in solitaria praticamente, anche se non sapevo cosa sarebbe successo. C'è una tesi legata al deontologismo kantiano che è una posizione di filosofia morale molto famosa: fiat justitia, pereat mundus, che vuole dire, 'sia fatta giustizia e perisca pure il mondo' seguita dai cosiddetti doveristi. Ora è chiaro che la giustizia sta tutta da una parte, che è la parte degli ucraini, quindi quelli che propendono per la soluzione del conflitto per via militare, sostanzialmente, applicano questa massima: noi vogliamo la pace giusta a costo di far perire tutti. Io non sono di quest' idea: sono con Aristotele ad affermare il primato del bene sul giusto. In questo caso, il primo bene è salvare la vita delle persone. E se si andasse avanti ancora così per un po' di mesi la popolazione ucraina tra morti di stenti, di freddo e chi scapperà, verrà decimata. Per questo bisogna andare al negoziato.

Che tipo di negoziato è ancora possibile?
Il negoziato possibile è quello che ovviamente non conceda tutto alla Russia come vorrebbe, e deve essere partorito dai due Paesi belligeranti, ma con alle spalle gli Stati Uniti con l'Europa e dall'altro la Cina. Perché se la Cina preme ancora un po' su Putin, questo per ovvie ragioni non può dire di no. Stessa cosa vale per Zelensky con la Nato, vale a dire con gli Usa.

Quali sono le concessioni che bisogna essere pronti a fare alla Russia?
Intanto la Crimea, che già da otto anni è russa, ma nessuno in questi otto anni si è stracciato le vesti. Mentre non bisogna concedere il Donbass.
La Russia è costretta ad accettare. Perciò bisogna spingere Biden da un lato e Xi Jinping dall'altro, perché incarnino il ruolo di supermediatori.

A proposito di mediatori, il Papa può incarnare ancora questa figura?
Il Papa è una persona saggia, che ha la funzione di dignitario di Cristo e se la deve vedere con l'Altissimo se chiude gli occhi sul bene del popolo ucraino a favore della giustizia. Ma a sedersi al tavolo non può essere lui. Lui può insistere sulla via di un negoziato e richiamare tutti, questa è la mia opinione, al primato della vita agendo su Biden e Xi per indurli ad assumere il ruolo di garanti.

Zelensky anche è per la giustizia a costo del bene?
Certo. Anche lui non può insistere a non volersi sedere se l'altro si siede al tavolo dei negoziati, in nome del martirio del popolo ucraino, non è accettabile moralmente. Non può sacrificare la vita di un popolo.
Perché oltretutto sacrifica la vita degli altri, non la propria.

Il decreto del governo italiano prevede l'invio di armi a Kiev fino al 2023. Ma c'è chi come i 5 Stelle si oppone.
È una 'baruffa chiozzotta', direbbe Goldoni, perché quando uno dice 'no alle armi all'Ucraina', deve aggiungere 'sì al ritiro delle armi russe dall'Ucraina', altrimenti è come dire 'Russia continua pure a sterminare quel popolo'».

IL PAPA INSISTE PER LA MEDIAZIONE

Nessuna reazione ufficiale da parte del Vaticano, dopo la forte irritazione del governo di Putin per alcune affermazioni sulla crudeltà dei combattenti, contenute nell'intervista a papa Francesco pubblicata lunedì scorso sul mensile dei gesuiti «America». Luca Geronico per Avvenire.

«Dopo la chiara volontà, manifestata da papa Francesco alla rivista dei gesuiti America, di svolgere una attiva mediazione nel conflitto in Ucraina, nessuna replica ufficiale ieri dal Vaticano alle proteste presentate dall'ambasciatore russo presso il Vaticano, Alexander Avdeev. Un silenzio che lascerebbe intendere una immutata volontà della diplomazia vaticana a cercare una soluzione negoziale al conflitto in Ucraina, nonostante le forti frizioni degli ultimi giorni. Il Vaticano, ha precisato ieri una fonte diplomatica della Santa Sede all'agenzia russa Tass, «dà grande valore alle sue buone relazioni con la Russia e spera di potere continuare a svilupparle». La fonte Vaticana ha sottolineato che il Pontefice «non intendeva in alcun modo offendere i popoli della Russia». L'agenzia russa ha poi ricordato le parole di stima per il popolo russo pronunciate da Francesco il 6 novembre scorso mentre tornava dal viaggio in Bahrein. La crudeltà, aveva sottolineato in quella occasione il Papa «non è del popolo russo forse, perché il popolo russo è un popolo grande: è dei mercenari, è dei soldati che vanno a fare la guerra come una avventura». Come noto, ad irritare la Russia, sono state alcune affermazioni di Francesco nell'intervista resa nota lunedì. Secondo il Papa è chiaro come nella guerra in corso vi sia «un popolo martirizzato » e «qualcuno che lo martirizza ». Jorge Bergoglio ha parlato esplicitamente di «crudeltà delle truppe che entrano. In genere, i più crudeli sono forse quelli che sono della Russia ma non sono della tradizione russa, come i ceceni, i buriati e così via». In questo conflitto, ha aggiunto papa Bergoglio, «chi invade è lo stato russo. Questo è molto chiaro. A volte cerco di non specificare per non offendere e piuttosto di condannare in generale, anche se è risaputo chi sto condannando».
Parole molto sgradite a Mosca con l'ambasciatore russo Alexander Avdeev che ieri ha dichiarato di avere subito espresso alla Santa Sede «l'indignazione» di Mosca «per l'insinuazione di presunte atrocità commesse dai militari russi nel corso dell'operazione militare speciale in Ucraina. L'unità del popolo russo multietnico è incrollabile e nessuno la metterà mai in discussione».
Già lunedì, immediata, era stata la replica della portavoce del ministro degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova: «Non si tratta neppure più di russofobia, ma di perversione della verità». Ancora più risentita, ieri, la reazione del vice-speaker del senato russo, Konstantin Kosachev: le parole del Papa sono «inaccettabili », «non tocca al leader della Chiesa cattolica di commentare una situazione con il quale né lo stato (il Vaticano) né la Chiesa hanno nulla a che fare». Tali affermazioni, ha aggiunto Kosachev, sono «completamente false » ed è «sorprendente che arrivino da uno dei leader della cristianità », ha proseguito Kosachev, accusando il Pontefice di tracciare «una linea di divisione fra popoli e religioni». Secondo il senatore russo l'episodio «può solo aver un impatto negativo sul conflitto e non aiuterà in alcun modo le parti a trovare un terreno comune e un'uscita della crisi tramite la riconciliazione». Per avviare negoziati in vista di una soluzione del conflitto, ha affermato ieri il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, è necessaria la volontà politica di Kiev: «Al momento è impossibile qualsiasi dialogo» tra Mosca e Kiev perché i colloqui «vengono rifiutati del tutto dal lato ucraino».

LA JUVENTUS È ANCHE UN AFFARE DI FAMIGLIA

Torniamo all’Italia. Oltre all’inchiesta della Procura di Torino, ci sono anche gli equilibri nella famiglia ad influenzare le vicende della Juventus, che ha visto le dimissioni di Andrea Agnelli e dei membri del CdA. Il commento sul Corriere della Sera è di Massimiliano Nerozzi.

«A un certo punto, Andrea Agnelli non ha più avuto alternative: «Se portate in assemblea questo bilancio, dobbiamo andare in Procura», hanno detto nella sostanza i sindaci della Juve, entrati in carica da poco più di un anno, davanti all'insistenza del management. Professionisti (tre) di un certo livello, come Maria Cristina Zoppo, equity partner di Bdo-Tax e componente del comitato per il controllo sulla gestione nel cda di Intesa Sanpaolo. Poco prima, lunedì a pranzo e già nel weekend, il presidente bianconero si era confrontato, sinceramente e ruvidamente, con il cugino, John Elkann, ad di Exor, la holding di famiglia che controlla il club. Morale: la situazione, contabile e giudiziaria, non era più sostenibile. Non siamo agli Agnelli Coltelli di un libro appena uscito, ma business is business. Difatti, ieri pomeriggio, sono arrivate le parole dell'azionista di maggioranza: «Le dimissioni dei consiglieri di amministrazione rappresentano un atto di responsabilità, che mette al primo posto l'interesse della società». Ogni cosa ha il suo tempo, dalla giustizia (incombente) agli affari (pure di più): oggi è in menu una conference call con analisti e investitori istituzionali di Exor, e le faccende juventine, ultimamente, stavano turbando l'impero. Nonostante il club (quotato) valga sui 700 milioni di euro, il 2 per cento del valore patrimoniale netto di Exor, sui 31 miliardi. Ma come sibilò un dirigente sotto la tempesta di Calciopoli, «la Juve è l'insegna del locale»: la conoscono tutti, in tutto il mondo. E da un ciclo prodigioso, la gestione Agnelli aveva imboccato un vicolo disastroso, tra campo e, soprattutto, bilancio, con un rosso arrivato a 254 milioni. Nonostante aumenti di capitale per 700 milioni in tre anni. Così, Elkann ha detto stop, lasciando all'ormai presidente dimissionario tre righe del comunicato: «Voglio ringraziare mio cugino Andrea per averci dato emozioni straordinarie, che non dimenticheremo mai. In questi 12 anni abbiamo vinto tanto. Il merito è soprattutto suo, oltre che delle donne e degli uomini che sotto la sua guida hanno raggiunto obiettivi memorabili». Che si fossero scontrate due linee d'azione non l'ha nascosto Agnelli, nella mail a dipendenti e giocatori, colti di sorpresa, chi al Mondiale chi alle Maldive: «La compattezza è venuta meno». Dopodiché, sarebbe sbagliato ridurre il tutto a rarefatte affinità elettive, o a Duellanti alla Ridley Scott (non da ieri), se il punto è anche un altro: dove sta la ragione tra quel che sostengono Consob e Procura, e ciò che ha combinato la Juve. Nel dubbio, la proprietà si prepara alla battaglia, pur con diverso approccio del muro contro muro invocato da Agnelli e messo nero su bianco, solo una settimana prima: «Il nuovo consiglio sarà di figure di grande professionalità sotto il profilo tecnico e giuridico - spiega Elkann - e avrà il compito di affrontare e risolvere i temi legali e societari che sono sul tavolo oggi. Confido che la società riuscirà a dimostrare di aver agito sempre correttamente». Oltre alla forma, c'è la sostanza di certe cose: il lancio della Superlega, l'esame di Suarez, le plusvalenze prima agognate e ora sospettate. Colpi all'immagine, mica solo al salvadanaio. Resta chi governa sul prato: «Allegri rimane il punto di riferimento dell'area sportiva: contiamo su di lui e su tutta la squadra per continuare a vincere, come hanno dimostrato di saper fare nelle ultime giornate, mantenendo alti i nostri obiettivi sul campo». Ciò che, per la proprietà, non riusciva più a fare questa società. E ora, chiude Elkann, «abbiamo l'occasione di costruire un futuro straordinario». Con un Agnelli in meno».

ISCHIA, L’AREA DEL DISASTRO FU DEFINITA “BIANCA”

Dopo il terremoto del 2017 molte persone, fra cui alcune vittime, rientrarono in casa nel luogo della tragedia perché quell’area fu definita “bianca”. Dodici demolizioni invece, già stabilite dai giudici, furono bloccate dai Sindaci. Dario Del Porto e Giuliano Foschini per Repubblica

«Gli abitanti di via Celario, la strada della morte di Ischia, avrebbero potuto salvarsi. Sarebbero ancora vivi se due anni fa non fosse stato stabilito che quella strada era sicura: il terremoto del 2017 aveva infatti reso inagibili alcune di quelle abitazioni, tanto da farle sgombrare. Ma nel giugno del 2020 le ordinanze sono state annullate: "Cessato il pericolo, potete rientrare". Il punto è che quella valutazione era stata fatta tenendo presente soltanto le condizioni statiche delle case, come se il rischio idrogeologico non esistesse. «Perché sulle carte incredibilmente non esisteva», fa notare l'avvocato Bruno Molinaro, tra i maggiori esperti di abusivismo edilizio sull'isola dal momento che se ne occupa da decenni. «Non esisteva perché proprio la zona interessata dall'alluvione era indicata come "bianca", cioè a rischio zero, nei documenti ufficiali. Come questo sia stato possibile è veramente un mistero». Effettivamente dalle carte gli interrogativi che emergono sono diversi e apparentemente inspiegabili. Per esempio: nel piano preliminare di ricostruzione della Regione, proprio la zona invasa dal fango era stata individuata come sicura. Tanto da aver previsto nuove case. Chi ha preparato quelle cartine? E su quali basi lo ha fatto? Tutti questi aspetti saranno valutati attentamente dalla procura di Napoli che indaga per accertare eventuali responsabilità sul disastro che ha provocato otto vittime accertate, mentre si cercano ancora quattro dispersi. Ieri si è tenuto un primo vertice fra i carabinieri forestali, la pm Stella Castaldo, titolare del fascicolo, e la procuratrice aggiunta Simona Di Monte. I magistrati non hanno alcuna intenzione di limitarsi a una semplice "indagine conoscitiva". L'obiettivo, al contrario, è approfondire tutti gli aspetti della vicenda: dagli allarmi lanciati in 23 Pec da un ex sindaco di Casamicciola, Peppino Conte, ai profili di natura urbanistica ed edilizia, fino al nodo dell'impiego e della destinazione delle risorse stanziate per mettere in sicurezza il territorio. «La dichiarazione di stato d'emergenza è partita subito. È stato diramato immediatamente lo stato d'allerta», ha replicato il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, a chi gli chiedeva delle segnalazioni dell'ex sindaco. Il Comune di Casamicciola, ha detto la dirigente della Protezione civile, Claudia Campobasso, «non aveva un piano straordinario di emergenza aggiornato». Abbastanza incredibile visto che negli ultimi dodici anni ci sono stati almeno tre alluvioni e un terremoto con vittime. In ogni caso, dopo la tragedia, ha detto il prefetto, si elaborerà un primo piano «speditivo» che comporterà, probabilmente, laddove ci fossero altre allerte, una evacuazione temporanea della popolazione. Tra le mancanze, nell'inchiesta della procura di Napoli si affronterà anche il capitolo dei fondi non spesi: 13 almeno i milioni stanziati per Casamicciola, la manutenzione e le opere di sicurezza degli alvei e del costone. In alcuni casi erano già stati aggiudicati gli appalti ma, incredibilmente, le opere non sono mai state realizzate. Com' è stato possibile?
E ancora: perché non si è mai proceduto agli abbattimenti degli immobili abusivi? A Ischia ci sono 12 costruzioni, edificate in quattro dei sei Comuni dell'isola (Barano, Casamicciola, Forio, Porto) per le quali il procedimento si è fermato proprio all'ultimo miglio: una sentenza passata in giudicato li ha ritenuti abusivi e devono essere abbattuti, perché destinatari di un ordine di demolizione firmato dalla procura generale di Napoli. Eppure sono ancora in piedi.
«I sindaci non si decidono a mettere a disposizione i fondi», sottolinea l'avvocato generale Antonio Gialanella, che coordina il pool di quattro magistrati dell'ufficio impegnato nel contrasto all'abusivismo edilizio. Senza risorse, si blocca tutto. Con effetti non solo paradossali, ma addirittura rischiosi. In località La Rita a Casamicciola, a circa un chilometro e mezzo di distanza dall'area travolta dalla frana di sabato scorso, e proprio nell'epicentro del terremoto del 2017, dovrebbe essere abbattuto un manufatto risultato privo dei «requisiti minimi di sicurezza », classificato a rischio elevato sia sismico, sia idrogeologico. La procura generale ha ingaggiato un braccio di ferro con il Comune che si trascina dal 2020 ed è culminato anche in una diffida di denuncia alla corte dei Conti. Adesso qualcosa si sta muovendo: la commissione straordinaria che guida l'amministrazione ha messo in bilancio le risorse e presto la situazione potrebbe sbloccarsi. «Noi non ci fermiamo, andiamo avanti», assicura l'avvocato generale Gialanella. Dal 2018 a oggi sull'isola d'Ischia sono state demolite per ordine della procura generale di Napoli venti costruzioni abusive. Nei ventuno anni precedenti, tra il 1996 e il 2017, erano state dodici».

INTERVISTA A D’ANGELIS: RIPARTIAMO OGNI VOLTA DA ZERO

Erasmo D'Angelis ex direttore dell'unità anti dissesto geologico nel governo Renzi, poi smantellata dal governo giallo-verde, dice fra l’altro alla Stampa: “Solo Palazzo Chigi può garantire l'autorevolezza per sciogliere i nodi burocratici che bloccano tutto”.

«Erasmo D'Angelis è uno che ci ha provato sul serio. Ai tempi del governo Renzi ha diretto a palazzo Chigi una Unità di missione contro il dissesto idrogeologico, “Italia Sicura”. Erano una quarantina di tecnici che facevano da regia agli interventi su tutto il territorio nazionale. Arrivò poi il governo gialloverde e tutti a casa. «Fummo sostituiti dal nulla. Un errore colossale e incomprensibile. In questa Italia, se si vogliono fare le cose, il governo ci deve mettere la faccia e non si può ripartire da zero ogni volta». E invece immancabilmente si cambia tutto. Stavolta tocca a Giorgia Meloni, che ha creato un gruppo di lavoro interministeriale affidato al ministro Nello Musumeci.
«Mi permetto di dire che è un errore. Solo palazzo Chigi può garantire l'autorevolezza che serve per sciogliere l'infinità di nodi che blocca tutto. Ci sono migliaia di problemi. Noi ci avevamo provato a mettere in rete tutti i soggetti. Se mi metto ad elencarli, non si finisce più: ministeri, regioni, ex province, città metropolitane, comuni, e poi soggetti vari, società di servizi, concessionarie. .. Chi più ne ha, più ne metta. Sapete, in Italia le istituzioni non si parlano. Sono come separati in casa. E ne esce uno scaricabarile impressionante. Li vediamo pure in questi giorni di Ischia: colpa tua, colpa di quell'altro, colpa di quell'altro ancora. Problema che si sta riproponendo per il Pnrr. È un errore avere pensato una filiera ministeri-comuni perché poi lì si ferma tutto».

Colpa dei Comuni?
«Un tempo funzionavano ancora gli uffici tecnici comunali. Ora è tanto se hanno un geometra a mezzo servizio. Altro problema che è assurdo non considerare: fino a quindici anni fa, i tecnici comunali ricevevano una maggiorazione sullo stipendio per progettazione e direzione lavori. Era una piccola percentuale sul complesso dei lavori. Quell'incentivo è stato tolto e da allora è cominciato il disimpegno dalla progettazione. Insomma, i Comuni li devi supportare dal centro altrimenti vince l'immobilismo».

Dicono: le procedure sono lente e farraginose.
«Ed è un eufemismo. Per avviare i cantieri contro il dissesto avevamo contato oltre 20 mila uffici con titolarità diffuse. Un elenco sterminato. Aggiungiamo che si devono rispettare almeno 1500 tra leggi, leggine, atti, regolamenti, circolari, condoni, accordi-quadro e di settore, conferenze di servizi, più la giurisprudenza vecchia e nuova. Un labirinto».

Si può vincere la sfida?
«Certo. L'Italia può comunque fare affidamento su agenzie nazionali molto strutturate, bravi sindaci, dirigenti capaci. Se un governo gli sta vicino, i lavori si fanno. Faccio un solo esempio: nel 2015 da Genova, che è una città martire, soggetta continuamente ad alluvioni, l'allora sindaco Marco Doria e l'allora governatore Claudio Burlando, di centrosinistra, ci proposero otto progetti pronti più uno da sbloccare. Investimmo mezzo miliardo di euro. Nel frattempo sono arrivati un nuovo sindaco, Marco Bucci, e un nuovo governatore, Giovanni Toti, di centrodestra, che non hanno perso un minuto e i lavori stanno andando avanti bene. Tra un anno dovrebbero aver finito. Non c'era molto da discutere: i torrenti Bisagno e Fereggiano arrivano alla città con una sezione di 100 metri e finiscono in canali tombati con diametro di 15 metri. Ovviamente quando ci sono temporali forti, i canali tombati esplodono. Ora si stanno facendo le casse di espansione per trattenere l'acqua. Lo stesso sta accadendo con l'Arno a nord di Firenze, oppure con il Seveso per Milano».

Insegnamento?

«Serve assolutamente una struttura tecnica a palazzo Chigi e una programmazione di medio periodo. Non si può ricominciare tutto a ogni governo. Va bene se il presidente del Consiglio cambia il coordinatore, ma i tecnici devono restare e la materia va tolta alle beghe della politica».

Qual è, secondo lei, l'emergenza più impellente?

«Non saprei dove mettere prima le mani. Nelle città ci sono 20 mila chilometri di fiumi tombati. Poi ci sono 11 mila punti di rischio idrogeologico. Siamo un Paese dalla geologia giovane, con terreni sabbiosi e argillosi, dove si è costruito contro le leggi dello Stato e contro le leggi della natura, ma siamo anche un Paese paradossale che ha dimenticato che siamo fatti di montagne, colline, calanchi, terreni che erano paludi. Abbiamo inventato noi il termine "condono edilizio" che non esiste in nessun altro Paese europeo».

Ecco, i condoni.

«Tre sanatorie, nel 1985, nel 1994 e nel 2003, per un totale di 15 milioni 430 mila domande di regolarizzazione. Di queste, dopo quarant' anni, 5 milioni non sono state nemmeno esaminate e chissà se ci sono ancora gli incartamenti. Fantasmi che scopriamo solo dopo le tragedie».

EMERGENZA EDUCATIVA, PARLA ZAGREBELSKY

Splendida intervista di Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa (l’integrale è nei pdf) a Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista ma anche appassionato insegnante universitario. Dice: “A me le riforme della scuola sono sempre interessate poco, ci sono tante energie che andrebbero scoperte e sollecitate”.

«Nel mezzo di questa intervista, Gustavo Zagrebelsky va verso una delle molte librerie di casa, prende una copia sgualcita dei Fratelli Karamazov e cerca avidamente il passaggio in cui Grushen'ka manda il suo ultimo messaggio a Dmitrij. E' mutuato dalle parole di Dostoevskij, il finale de La lezione: «Un'ora sola, un'oretta d'amore che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto, può essere tenuto a mente e valere per tutta la vita che resta». Prima di essere un giurista, uno studioso, un costituzionalista, Zagrebelsky è un insegnante. Lo è stato all'università, tuttora va nelle scuole a parlare di Costituzione e diritti. Con un'idea di lezione, di aula, di scuola, che - com' è evidente in questo libro appena uscito per Einaudi - è un pensiero puro sulla democrazia. E confligge con le parole d'ordine che piovono dal governo: il merito che diventa esclusione, l'umiliazione scambiata per umiltà, le scelte scolastiche da compiere in base alle necessità del mercato. «Chi dice cose di questo genere - sostiene il professore prendendo spunto da certe ultime dichiarazioni di chi sta al vertice del delicatissimo Ministero che una volta si chiamava della Pubblica Istruzione - è o è stato probabilmente uno di quei professori che quando entrano in aula si sentono a disagio. Sono quelli che non amano stare con i ragazzi, guardarli, scoprirli. A differenza di chi, quando entra in classe, dice: "Che bello!"». E magari quando suona la campanella esclama: «Oh noo». E sente esclamare lo stesso dall'altro lato della cattedra, come scrive quando lei parla delle lezioni riuscite. «Credo che nei concorsi pubblici per l'insegnamento, piuttosto che chiedere quanti elefanti aveva Annibale nella battaglia di Canne o quante sconfitte abbia subito Napoleone Bonaparte, bisognerebbe domandare: ma tu, coi ragazzi, ti trovi bene? Perché se non è così, la scuola, l'università, non sono il posto giusto per te».

Qual è la ricetta della lezione perfetta?

«Devi avere in testa l'oggetto della tua spiegazione e poi, per tutto il tempo, girarci intorno. Ma non da solo. Chi ascolta deve compiere con te questa passeggiata, come la chiamava Pavel Florenskij. Si cammina insieme, uno vede qualcosa, un altro un'altra, si torna indietro, si guarda da una prospettiva diversa, si scava. Il bello dello scavare nelle cose del pensiero è che non c'è un fondo, un punto d'arrivo. Puoi sempre spostare lo sguardo, andare oltre. E' un lavoro entusiasmante. La produzione di idee è una grande gioia cui non può attingere chi sa troppo».

Il rischio dell'erudizione?
«Non sapere troppo è la premessa della creatività. Chi sa tutto, lo dicevano sia Nietzsche che Thomas Mann, non ha più curiosità per niente. Il compito di chi insegna è suscitare interesse prima ancora che comunicare conoscenza. Invece, quanti sono i professori che piacciono al Ministero i quali, davanti allo studente che in classe, durante la lezione, bofonchia o parla col compagno, dicono "Stai zitto", se non anche "Vai fuori!"? E invece, quel che bisognerebbe fare è chiedere: qual è il problema? Dillo anche a noi. Perché la lezione è di tutti e, tantomeno, di "uno contro tutti"».

L'idea dei lavori socialmente utili da imporre ai bulli la lascia perplesso?
«Se nella scuola entra la violenza, fisica o psicologica che sia, siamo davanti a un fallimento radicale della sua missione. Non si tratta di pensare a singole punizioni quanto di creare le condizioni perché non accada mai più. E questo non si realizza con l'umiliazione né tanto meno mandando il bullo da solo quattro ore in biblioteca come, incredibilmente, ho sentito proporre. Non è alimentando la rabbia di un ragazzo, che si risolve il problema: al contrario».

Lei scrive che negli anni abbiamo fatto dei passi avanti rispetto a quando si vedeva «la scuola come costrizione, il maestro come sorvegliante e talora vessatore».

«E invece, le idee che ho sentito in questi giorni riportano proprio a quel modello antico, superato, inutile».

E' un rischio anche il mito dell'eccellenza? Quando accenna al film L'onda, dopo aver demolito L'attimo fuggente perché vede nel professore incantatore un esercizio di narcisismo e manipolazione, parla del «rischio della scuola quando si ripromette di allevare i propri studenti nel mito dell'eccellenza che isola, insuperbisce, ma alla fine conduce al disastro».
«Se è vista come virtù singolare, individuale, l'eccellenza può essere l'inizio di molte cose brutte.
Nelle facoltà di giurisprudenza c'è molta competitività, ma io dicevo ai miei studenti: non dovete puntare al 30 e lode, che significa sapere anche le note a pie' di pagina. Puntate al 27. Diciamo la verità, gli studenti che fanno a gara per farsi notare, quelli che vengono all'orario di ricevimento senza aver niente da dire ma solo per apparire più presenti, più studiosi, sono insopportabili».

Se continua così le diranno che vuole mortificare il merito. Infrange le linee guida del tempo nuovo.
«Mi hanno raccontato che alla Normale di Pisa la competitività è arrivata al punto che quando si ha un collega di corso rivale cui viene affidata una particolare ricerca, si va in biblioteca a sottrarre i libri che potrebbero servirgli. E' questa, l'eccellenza? Io credo che non lo sia, che eccellere significhi puntare alla crescita della classe, non del singolo».

LA CORTE ESAMINA I RICORSI SUI NO VAX

La Corte costituzionale oggi affronta il nodo dell’obbligo vaccinale per medici e infermieri, esaminando alcuni casi. Alessandro Mantovani per Il Fatto.

«Era legittimo l'obbligo vaccinale? Anche quando gli operatori sanitari, intesi in un'accezione assai larga, non avevano contatti con i pazienti? Anche se il vaccino, per quanto protegga tuttora molto da malattia grave e decesso, abbia avuto un'efficacia transitoria e decrescente, di variante in variante, nel prevenire il contagio? E ai lavoratori sospesi era legittimo negare l'assegno alimentare, pari a metà stipendio, che il datore di lavoro invece paga in caso di sospensione disciplinare per fatti gravi, persino di rilievo penale? La pandemia e l'emergenza, gli effetti avversi e la loro sottostima, la libertà di disporre del proprio corpo e il diritto "fondamentale" alla salute anche come "interesse della collettività" secondo l'articolo 32 della Costituzione. Sono i temi dell'udienza che terrà oggi la Corte costituzionale, presieduta dalla giuslavorista Silvana Sciarra dopo la conclusione a settembre del mandato di Giuliano Amato, per discutere le prime otto ordinanze dei giudici sull'articolo 4 comma 4 del decreto legge 1 aprile 2021 n° 44, con cui il governo Draghi impose l'obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, e altre norme collegate, anche sulla scuola. Altri quattro casi saranno discussi in Camera di consiglio. Sarà trattata in udienza pubblica la vicenda dello studente di Scienze infermieristiche di Palermo che non voleva vaccinarsi anche perché aveva avuto il Covid e fu bloccato nel corso di studi, su cui il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano fece un'ampia istruttoria incaricando scienziati e mettendoli a confronto con i dirigenti del ministero della Salute, specie sugli effetti avversi. Scriveva il Cga: "L'esame dei dati pubblicati nel sito EudraVigilance disaggregati per Stato segnalatore evidenzia una certa omogeneità nella tipologia di effetti avversi segnalati, il che lascia poco spazio all'opzione caso fortuito/reazione imprevedibile". E ancora: "Non solo il numero di eventi avversi è superiore alla media degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie da anni, ma lo è di diversi ordini di grandezza". C'è il caso della psicologa lombarda che faceva sedute online ma fu ugualmente sospesa. Ci sono operatori sanitari e sociosanitari di ospedali, da Catania al Veneto e alla Lombardia, e una di un centro anziani di Brescia. Cinque delle otto ordinanze all'esame della Corte hanno la firma della giudice Mariarosa Pipponzi, presidente della sezione lavoro al tribunale di Brescia, compresa l'unica sulla scuola. Si legge nella sua ordinanza circa la sospensione senza stipendio di una decina di docenti: "Le conseguenze che implica nella sfera del dipendente non vaccinato appaiono eccessivamente sproporzionate e sbilanciate nell'ottica della necessaria considerazione degli altri valori costituzionali coinvolti tra cui la dignità della persona umana". Alla Consulta interverranno ad adiuvandum anche gli avvocati del sindacato della scuola Anief, che tempo fa ha ottenuto a Padova la remissione di un altro caso alla Corte di Giustizia dell'Ue per la presunta violazione di alcune norme comunitarie. Alcuni giudici di merito avevano direttamente reintegrato i non vaccinati. Le ordinanze ipotizzano la violazione dell'art. 32, in base al quale la Corte ha già più volte riconosciuto la legittimità di altri obblighi vaccinali imponendo però la riparazione degli effetti avversi gravi poi regolata dalla legge 210 del 1992 anche per le vaccinazioni solo raccomandate, nonché di altre norme costituzionali, dalla dignità della persona umana (art. 2) al principio di uguaglianza (art. 3) al diritto al lavoro (art. 4) e ad altre ancora. Relatore sarà Stefano Petitti, già presidente di sezione in Cassazione e autore di un interessante podcast sulla giurisprudenza costituzionale in tema di vaccini. Alcuni avvocati hanno ventilato l'ipotesi di sollevare questioni sul giudice Marco D'Alberti, docente emerito di Diritto amministrativo alla Sapienza di Roma, nominato alla Corte a settembre dal presidente Sergio Mattarella, vicino a Sabino Cassese e soprattutto ex consigliere di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Non si parla, per ora, dei lavoratori delle forze di polizia e delle forze armate, pure assoggettati all'obbligo, ma le ordinanze che li riguardano sono in calendario. Né si parla delle limitazioni imposte alla popolazione generale dal green pass rafforzato. Ci sono di mezzo gli stipendi arretrati di migliaia di persone, a spanne non meno di 30 mila: erano poco meno di 7.000 solo i medici e gli infermieri (non tutti dipendenti però) reintegrati dal governo Meloni qualche settimana fa e molti altri (gli Ordini non sanno quanti) erano stati sospesi e riammessi nei mesi scorsi per avvenuta vaccinazione o guarigione dal Covid; ottomila, per l'Anief, sono i lavoratori della scuola; circa 10 mila, secondo stime sindacali, quelli dei corpi armati. La Corte, anche in considerazione delle mutate condizioni di fatto e delle maggiori conoscenze su efficacia e sicurezza dei vaccini, potrebbe sottrarsi all'alternativa costituzionalità/incostituzionalità suggerendo ai giudici un'interpretazione delle norme capace di bilanciare i delicati interessi in gioco. Peraltro, solo qualche giorno fa, il Consiglio di Stato greco ha cancellato l'obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, con motivazioni però che attengono al mutato contesto pandemico, suscitando comunque una certa irritazione nel governo di Atene».

LA DOPPIA RISPOSTA DI XI

Le altre notizie dall’estero. Il presidente cinese Xi Jinping risponde in due modi alle proteste: aumenta la censura e la repressione contro i manifestanti con i fogli bianchi ma intanto allenta le restrizioni anti-Covid. Lorenzo Lamperti per La Stampa.

«Bastone e bavaglio da una parte, un po' di carota dall'altra. Il governo cinese prova a ristabilire l'ordine stringendo ulteriormente le già fitte maglie del controllo fisico e virtuale, mentre inizia a far intravedere la luce in fondo al tunnel delle restrizioni anti-Covid, motivo scatenante (ma non unico) delle proteste. La commissione centrale per gli affari politici e legali del Partito comunista ha scelto la linea dura disponendo di «reprimere con decisione gli atti illegali e criminali che turbano l'ordine sociale e mantenere efficacemente la stabilità». Sono state rafforzate le misure di sicurezza per prevenire le manifestazioni e la polizia si è attivata in maniera proattiva per controllare il territorio (a partire dalle università) e individuare chi supporta le proteste. Diversi video girati sui social mostrano agenti controllare foto e video sugli smartphone dei cittadini. Nel mirino anche le app e le vpn utilizzate per aggirare la grande muraglia digitale. La Tsinghua University di Pechino ha chiesto agli studenti di non parlare coi giornalisti stranieri la cui identità non può essere verificata. In tanti segnalano di aver ricevuto telefonate della polizia con la richiesta di smettere di condividere materiale sulle proteste nelle chat. C'è chi racconta che sono stati «avvertiti» anche i propri genitori. L'obiettivo è duplice: bloccare la diffusione di informazioni giudicate pericolose per la sicurezza nazionale e disconnettere i cittadini scoraggiando nuove azioni di gruppo. Il risultato è che si diffonde un senso di paranoia nel quale diventa difficile fidarsi degli interlocutori, reali o virtuali. Con la paura diffusa di finire nel mirino delle autorità. Il tutto mentre si prova a spingere la retorica delle interferenze esterne. In un video girato durante una delle proteste, si vede un giovane prendere il megafono e chiedere di fare attenzione perché «siamo circondati da forze estere anti-cinesi». Qualcuno ha replicato: «Intendi Marx ed Engels? Qui siamo tutti patrioti». Allo stesso tempo, si prova a mostrare di voler aggiustare almeno parzialmente le politiche anti Covid. La commissione nazione per la sanità ha chiesto ieri di revocare «in maniera tempestiva» le misure di controllo qualora possibile e promette di «gestire» le misure considerate «eccessive». I cittadini sperano non sia solo una promessa fatta per calmare gli animi. Già in passato avevano sperato in allentamenti mai davvero avvenuti. In ogni caso non si parla di una riapertura, ma un'applicazione meno estensiva delle regole da parte delle autorità locali. «Alcune aree hanno ampliato arbitrariamente la portata delle zone e delle persone poste sotto controllo, mentre altre hanno attuato restrizioni per periodi eccessivamente lunghi», ha dichiarato Chenq Youquan del centro di prevenzione e controllo in una conferenza stampa, annunciando la creazione di task force speciali per «rettificare le restrizioni superflue». Un modo anche per spostare l'attenzione sui funzionari provinciali. Intanto si cerca di dare impulso alla campagna vaccinale dei più anziani. Solo il 65,8 per cento degli over 80 ha ricevuto almeno due dosi. Qualche segnale dai media. Il Beijing News ha pubblicato delle interviste con dei pazienti guariti: interessante shift narrativo per ridurre preoccupazioni e stigma sociale. Ma sull'agenzia di stampa statale Xinhua resta la rivendicazione dell'efficacia della strategia generale, promossa d'altronde da Xi Jinping in persona, e la richiesta di continuare a combattere la «guerra» contro il virus: «La tenacia è vittoria». Tanti cinesi sanno però di non essere inclusi nella lista dei vincitori».

Gianluca Modolo per Repubblica racconta la vita difficile dei raider cinesi durante il lockdown:

«Zhang ha dovuto fare una scelta: avere un letto su cui dormire e smettere di lavorare, o continuare a racimolare qualche soldo per sopravvivere accampandosi dove capita. Sovraccarichi di richieste e sottopagati, 40 gradi d'estate o 15 sottozero d'inverno non fa differenza: in sella ai loro motorini elettrici, spesso truccati, fanno lo slalom tra macchine e ciclisti, se il semaforo è rosso poco importa, bisogna consegnare, in fretta. Più consegne, più soldi. È l'esercito di fattorini che popola le strade di Pechino e delle altre metropoli cinesi portando cibo a domicilio nelle case: un esercito essenziale. Che fare però se il condominio dove vivi finisce in lockdown e tornare a casa la sera significa rimanere intrappolato tra quattro mura chissà per quanto tempo senza guadagnare uno yuan? Zhang non ci ha pensato due volte: meglio la strada. Anche se lì fuori ora si gela. Ventinove anni, accento del sud uno delle migliaia di migranti interni che arrivano nella capitale dalle altre province, quelle più rurali e povere - nei giorni scorsi aveva scritto sul suo account WeChat un disperato appello affinché qualcuno aiutasse lui e altri suoi quindici compagni a trovare alloggi a prezzi accessibili. Lo abbiamo contattato, lui ci ha concesso subito l'amicizia sul social. Dopo qualche giorno risponde. «Lavoro nella zona del terzo anello, qui a Pechino. Ho vagato per giorni, dormendo dove capitava: nelle stazioni di consegna della società per cui lavoro, dentro gli uffici, nei ristoranti vuoti. Ma sempre più posti hanno iniziato a chiudere e l'hotel non me lo posso permettere», ci racconta al telefono. «La mia società, Meituan, mi ha offerto delle sistemazioni temporanee. Prima per tre giorni, poi per altri quattro», continua. «Ora basta. Mi hanno detto di non parlare con i giornalisti», abbassa la voce prima di riattaccare in fretta, bruscamente. Con la gente sempre più confinata in casa, le richieste di consegne nelle ultime settimane sono aumentate. E dunque il lavoro per Zhang e colleghi. Corrieri sottopagati, 250 yuan (35 euro) al giorno se va bene. «Molti fattorini non hanno un posto dove vivere al momento», ha confessato alla France Presse un altro di questi dannati del lockdown. Si chiama Wang, anche lui lavora a Pechino ma è originario della provincia dello Shanxi. «Non ho scelta. Se non guadagno, non posso pagare l'affitto». La sua camera da letto in questi giorni è stata la macchina. «Spendere 30 yuan per tenere il motore acceso tutta la notte per riscaldarmi è comunque più economico che prendere una stanza in un albergo. Alcuni dei miei amici invece vivono fuori, non osano tornare a casa». Sono scene che si erano viste anche la scorsa primavera durante l'eterno lockdown di Shanghai, durato più di due mesi. Anche allora, temendo di non riuscire più a lavorare se avessero fatto ritorno nelle loro case che nel frattempo erano state sigillate, molti si erano accampati per strada, con delle tende, sotto un ponte nel distretto centrale di Putuo. Questa armata delle consegne è composta per lo più da giovani lavoratori immigrati, maschi. Secondo i dati di Meituan, la maggior parte degli autisti dell'azienda è nata negli anni '80 o '90, il 77% proviene dalla campagna. Sulle strade delle città cinesi - e pure sui marciapiedi - sono una presenza fissa. In media, un fattorino può riuscire a fare tra le 20 e le 30 consegne al giorno. Solo quelli più esperti e che se ne fregano del codice della strada arrivano a guadagnarsi da vivere in modo decente, riuscendo a portare a termine anche 50 ordini, andando su e giù per le strade per quindici ore al giorno. Se finiscono in lockdown, però, come fanno a sopravvivere? Meglio la strada. Anche se ora, lì fuori, si gela».

GRAZIE ALLE PROTESTE L’IRAN HA VINTO IL MONDIALE

Sconfitta dagli Usa, la nazionale di calcio iraniana esce dal Mondiale del Qatar. Eppure la protesta dei calciatori che non hanno cantato l’inno, in solidarietà con le donne e i giovani che manifestano nelle piazze, resta un evento importante. Ne ha scritto sul New York Times in un articolo, oggi tradotto e pubblicato dalla Stampa, Gonar Nikpour, professoressa di Storia al Dartmouth College nel New Hampshire, Usa.  

«Per i tifosi di calcio dell'Iran, me compresa, i mondiali di calcio di solito rappresentano il massimo della passione sportiva. Quest' anno, in Qatar, le cose sono diverse. Team Melli gioca in piena sollevazione popolare innescata dall'uccisione a metà settembre di una giovane donna curdo-iraniana, Mahsa Amini, per mano della polizia iraniana che vigila sulla moralità pubblica. Da allora, per settimane, le proteste - guidate da donne, giovani e minoranze etniche - si sono estese a ogni provincia del Paese al grido di «donna, vita, libertà». Il governo ha reagito con brutale violenza, arrestando migliaia di persone e uccidendone centinaia. Sullo sfondo di uno scenario così cruento, molti iraniani hanno detto che non sosterranno la squadra. Alcuni hanno chiesto alla Fifa di revocare la partecipazione degli iraniani ai mondiali, sostenendo che permettere a Team Melli di giocare sotto i riflettori di tutta la comunità internazionale offre alla Repubblica islamica l'occasione per offuscare la repressione in Iran.
Altri ritengono semplicemente impossibile occuparsi di calcio mentre i manifestanti continuano a essere uccisi. I tentativi del governo di dare a Team Melli la sua identità, sommati all'apparente volontà di alcuni giocatori di partecipare ai mondiali hanno rattristato ancora di più i tifosi iraniani. Quando alcuni giocatori hanno posato per qualche foto con il presidente Ebrahim Raisi prima di partire alla volta del Qatar, molti l'hanno considerato un tradimento. L'insoddisfazione si è palesata più che mai nei filmati che circolano sui social media in cui si vedono gli striscioni di Team Melli dati alle fiamme in Iran, gesto inimmaginabile finora in un Paese che impazzisce per il calcio. Questa non è la prima volta che Team Melli partecipa ai campionati mondiali di calcio in un clima di insurrezione nazionale. Infatti, nel 1978 la squadra iraniana fece la sua comparsa in una situazione che ricorda da vicino quello che sta accadendo oggi. All'epoca ci furono controversie legate alla nazione ospitante, l'Argentina, governata da una giunta militare efferata che fece scomparire decine di migliaia di sostenitori di sinistra, nazione considerata quindi inadatta a ospitare un torneo mondiale di calcio, proprio come il Qatar oggi per come tratta i migranti e nega i diritti alla comunità Lgbtq. In Iran all'epoca era in divenire una rivoluzione. Per tutto il 1978, gli iraniani erano scesi in piazza per protestare contro la dittatura di Mohammed Reza Pahlavi appoggiata dagli Stati Uniti. A giugno, quando la formazione giocò in Argentina, le proteste di massa si erano temporaneamente fermate, e questo spinse il Primo ministro a dichiarare chiusa la crisi. Invece, nel corso dell'estate, le manifestazioni e gli scioperi dei lavoratori scoppiarono ovunque nel Paese e milioni di persone si unirono al più grande movimento di protesta della storia iraniana. All'inizio dell'anno seguente il regime dello scià sarebbe caduto. Quell'anno Team Melli scese in campo senza il suo capitano, Parviz Ghelichkhani. Fervente militante di sinistra, in passato imprigionato per breve tempo per il suo attivismo politico e costretto a esprimere il suo rimorso pubblicamente in una confessione mandata in onda in televisione, Ghelichkhani annunciò che non avrebbe giocato con la nazionale in segno di protesta contro la repressione in Iran. In sua assenza, la squadra non riuscì a vincere nessuna partita in Argentina. Occorsero vent' anni prima che l'Iran tornasse a giocare ai Mondiali, ma l'attesa valse la pena: nel 1998, in una calda serata estiva, Team Melli vinse la sua prima partita in Coppa del mondo in Francia sconfiggendo, ancora meglio, gli Stati Uniti con il risultato di 2 a 1. Qualificarsi ai Mondiali era stato molto complesso: le preoccupazioni della diplomazia e quelle legate alla sicurezza avevano intralciato i vari programmi e l'operatività negli stadi. Ma la partita, in sé e per sé, fu un successo enorme. Team Melli offrì rose bianche agli avversari prima della partita e prima del calcio d'inizio le due squadre si fecero immortalare insieme nelle foto. Gli iraniani di ogni estrazione sociale gioirono e trascorsero l'intera notte ballando e festeggiando per strada, uniti nella celebrazione del trionfo nazionale. L'esultanza si estese alla diaspora iraniana. Io ero adolescente, vivevo a New York e impazzii di gioia. Dopo i Mondiali, supplicai mia madre di trovarmi una maglia di Team Melli, impresa non semplice: quella che lei riuscì a procurarsi era di parecchie taglie più grandi della mia, ma per anni l'indossai piena di orgoglio. Per quanto si siano sforzate in ogni modo possibile, le autorità iraniane non sono mai state capaci di esercitare un controllo assoluto sul calcio. Seguendo l'esempio di campioni particolarmente coraggiosi, alcuni calciatori hanno iniziato a mostrarsi solidali nei confronti dei manifestanti. Dopo aver vinto la Supercoppa iraniana, questo mese, per esempio, i calciatori della squadra dell'Esteghlal FC di Teheran sono rimasti sobriamente fermi in piedi durante la cerimonia della premiazione, senza abbandonarsi alla gioia. Pochi giorni dopo, Saeed Piramoun, giocatore di beach soccer, ha espresso il suo entusiasmo per il gol vittorioso appena segnato simulando di tagliarsi i capelli, in omaggio alle donne che si tolgono il velo e si tagliano i capelli nelle proteste in corso. La recente immagine di Team Melli in ginocchio davanti al presidente è stata molto meno attraente. Eppure, pochi giorni prima, quando la squadra aveva giocato a Teheran, tutti i giocatori tranne due avevano scelto di non cantare l'inno nazionale. E, prima dell'incontro di lunedì, il capitano Ehsan Hajsafi ha espresso le sue condoglianze alle famiglia iraniane in lutto. Le sue prime parole sono state «nel nome del Dio degli arcobaleni», espressione usata dal bambino di nove anni ucciso la settimana scorsa. Hajsafi ha poi detto ai manifestanti: «Noi siamo al vostro fianco». Schierandosi solidali con i manifestanti, ed esponendosi personalmente a un rischio considerevole, i calciatori iraniani ai Mondiali hanno già vinto».

IN GALLES E GB I CRISTIANI SONO UNA MINORANZA

Un nuovo censimento, 11 anni dopo, conferma la tendenza: i cristiani sono diventati il 46 per cento, meno della metà della popolazione. Angela Napoletano per Avvenire.

«In Galles e Inghilterra i cristiani sono ormai minoranza. Per l'esattezza oggi rappresentano il 46,2% della popolazione, circa 27,5 milioni di persone; dieci anni fa, nel 2011, erano 33,3 milioni, il 59,3% del totale. Numeri certificati dall'ufficio statistico nazionale sulla base del censimento realizzato nel 2021. Le rilevazioni parlano chiaro: la decrescita dei cristiani (il questionario non specificava cattolici o anglicani) fa il paio con l'aumento dei cittadini che si professano atei (22,2 milioni, il 37,2%). Crescono anche, nell'ordine, le comunità di musulmani, induisti, sikh e buddisti. Il "declassamento" dei cristiani a categoria di minoranza è storico. Ma, come ha osservato l'arcivescovo anglicano di York, Stephen Cottrell, «non è una grande sorpresa». Le autorità religiose sono da tempo consapevoli degli effetti della secolarizzazione. In città come Bristol, Hastings e Ashfield, nel Nottinghamshire, più della metà della popolazione ha dichiarato di non essere religiosa. A incidere sulle statistiche è anche la composizione sempre più multiculturale e multietnica della società. Gli inglesi e i gallesi che si sono dichiarati musulmani, per esempio, sono saliti dal 4,9% del 2011 al 6,5% del 2021, e in misura particolarmente alta nelle realtà, come Leicester, Luton e Birmingham, dove i cittadini di origine non britannica sono più della metà. A Londra, ancora, coloro che affermano di praticare fedi diverse dalle confessioni cristiane superano ormai il 25%. A ottobre, va ricordato, a Downing Street si è insediato il primo premier di origine indiana, Rishi Sunak, entrato in Parlamento nel 2015 dopo aver prestato giuramento sul Bhagavad Gita, libro sacro indù. Secondo l'associazione Humanists UK il cambiamento degli ultimi anni ha fatto del Regno Unito «uno dei Paesi meno religiosi al mondo». Prospettiva che il vescovo Cottrell interpreta come una «sfida»: «Oggi più che mai dobbiamo fare la nostra parte per far conoscere Cristo».

IL PRESEPE DI PIAZZA SAN PIETRO VIENE DAL FRIULI

Il presepe di piazza San Pietro a Roma, che sarà inaugurato il 3 dicembre, è stato realizzato da un team di artisti ed artigiani del legno che da decenni sono attivi sul territorio della Carnia. Nessun albero è stato abbattuto per fornire la materia prima. Francesco Dal Mas per Avvenire.

«Viene dal paese di Sutrio, in Carnia, 1.200 anime sulle ultime montagne al confine con l'Austria, il presepe che sarà allestito in piazza San Pietro. Ieri è stato presentato a Trieste, alla sede della Regione Friuli Venezia Giulia. «La scelta di usare le radici degli alberi spezzati dalla tempesta Vaia (che si abbatté sul Nord Est a fine ottobre 2018 provocando ingenti danni, ndr) per realizzare la culla dove sarà deposto Gesù Bambino - ha detto il governatore Massimiliano Fedriga - stabilisce un importante collegamento spirituale tra la natività e la nostra regione. Questa scelta racchiude un messaggio di rinascita che, oltre a impreziosire la qualità dell'opera, trasmette i valori fondanti del Friuli Venezia Giulia». Il presepe, che sarà inaugurato il 3 dicembre, è stato realizzato da un team di artisti ed artigiani del legno che da decenni sono attivi sul territorio. Rappresenta la Natività a grandezza naturale, ha una superficie di 116 metri quadrati ed è stato concepito con grande attenzione ai valori della sostenibilità.
La culla che ospiterà il bambino è stata creata dal direttore artistico del progetto Stefano Comelli assieme a Martha Muser e ricavata dall'intreccio delle radici di alberi abbattuti dalla tempesta Vaia.
Diciotto le statue, che rappresentano le figure più tipiche della montagna carnica, a cominciare dal cramar, colui che si portava il negozio in spalla, condensato in un piccolo armadio a cassetti, camminando di paese in paese. Nessun albero è stato abbattuto per fornire la materia prima: la struttura complessiva è stata realizzata con 24 metri cubi di legno di larice che proviene dalle risorse dei vivaisti del comprensorio. Il peso complessivo è di 16,8 tonnellate. Il progetto è stato sostenuto dalla Regione e PromoTurismo, d'intesa con l'arcidiocesi di Udine. Il presepe resterà in Piazza San Pietro fino all'Epifania, poi ritornerà in Carnia. Ogni personaggio dell'opera brillerà, inoltre, grazie al progetto di illuminazione donato dalla ditta croata Skirà. A fare da sottofondo musicale saranno le melodie e le canzoni di alcuni artisti del Friuli Venezia Giulia. Il sindaco di Sutrio Manlio Mattia ha spiegato come l'impegno per questo progetto risalga al 2020. Monsignor Guido Genero, vicario generale dell'arcidiocesi di Udine, ha sottolineato come il presepe sia una professione di fede realizzata con le immagini».

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