La Versione di Banfi

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Conte alla rovescia

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Conte alla rovescia

L'ex premier si è dato ancora 24 ore. Poi parlerà, ma i 5 Stelle premono per un nuovo accordo con Grillo. Allarme Delta sulle vacanze e focolai agli Europei di calcio. Piazze per il lavoro e per Zan

Alessandro Banfi
Jun 27, 2021
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Conte alla rovescia

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La tentazione di Giuseppe Conte è quella di rompere definitivamente e domani annunciare di “fare parte per se stesso”. I suoi sostenitori (Travaglio in prima fila) ricordano che i sondaggi gli attribuiscono un teorico 15 per cento. Ma in politica i calcoli sui voti non danno certezze e la spinta a raggiungere comunque un compromesso con Beppe Grillo è prevalente. Insiste più di tutti Luigi Di Maio, che ben conosce il Movimento. Per la stabilità del governo Draghi, e probabilmente anche per l’evoluzione complessiva del sistema politico, un accordo sarebbe più conveniente. Ma cedere, anche dopo essere stati feriti nell’orgoglio, non è mai facile. 24 ore e si capirà meglio. Resta da ricordare che il compromesso è il vertice dell’arte della politica. Solo per i talebani e gli estremisti non lo è.

Notizie positive intanto sul fronte della pandemia. La settimana che si chiude oggi è stata la migliore della campagna vaccinale: dal 21 al 27 giugno la media di vaccinazioni è stata di 576 mila 300. Le somministrazioni nelle ultime 24 ore: 541 mila 431. Se non ci saranno flessioni nel ritmo, si potrebbe arrivare ai primi di agosto con una buona protezione raggiunta. Preoccupa la variante delta, però, che in alcuni Paesi dilaga. Clamoroso il contagio collettivo nel Girone B degli Europei di calcio. La Uefa ha una guida molto spregiudicata e si vede.  

Ieri giornata di piazze. A Torino, Bari e Firenze hanno manifestato i sindacati per il lavoro e la proroga del blocco dei licenziamenti: appello in extremis al Governo. Poi ci sono stati Gay Pride in tutta Italia: migliaia di manifestanti per i diritti omosessuali quest' anno hanno sfilato anche per l'approvazione del ddl Zan. Non sono mancate dure polemiche contro il Vaticano, dopo la richiesta di modificare il testo della legge e qualche manifestazione di cattivo gusto nel corteo romano.

A Milano emerge un candidato del centro destra, si chiama Andrea Farinet. Con la t finale. Ma non è ancora una decisione definitiva. Con i milanesi al mare, non c’è fretta. Berlusconi ribadisce il suo disegno del partito unico sul Giornale. Impressionanti le testimonianze dei medici italiani di Msf sul Tigray, stampate da Repubblica. Vediamo i titoli.  

LE PRIME PAGINE

Ultimo fine settimana di giugno all’insegna della voglia di riposo estivo. Ma per il Corriere della Sera pesa la mutazione del virus: Variante Delta sulle vacanze. Il Quotidiano nazionale nota che la voglia del ritorno alla vita normale provoca ingorghi continui e incidenti: Riesplode il traffico, strage nelle strade. La Repubblica intervista Brusaferro dell’Istituto superiore di Sanità: “Se risalgono i contagi, tornano le mascherine”.  Mentre Il Messaggero riporta il parere di Ciciliano del CTS: «Vaccino, due dosi per viaggiare». Il Fatto lancia l’allarme sul clamoroso focolaio ai campionati di calcio: Europei: il girone B l’ha vinto la variante. Il Mattino esalta una visita lampo del ministro Speranza a Napoli: «Sanità, gli investimenti al Sud». Il Sole 24 Ore ricorda un mese di obblighi fiscali: Fisco, scadenze da allarme rosso. Mentre La Stampa, intervistando Brunetta, commenta le piazze mobilitate per il lavoro: “No al conflitto, ora un patto sociale”. Di piazze si occupa anche il Manifesto, ma sono quelle del Gay pride: Gaia Italia. Sul Giornale Silvio Berlusconi torna a spiegare il suo disegno: «Nel partito unico tutelata ogni identità». La Verità entra nella diatriba dei 5 Stelle fra Grillo e l’ex premier: I sogni proibiti del Conte decaduto. Libero allude al mancato inginocchiarsi degli azzurri sul campo: La Nazionale elimina Letta. Avvenire apre sui 50 anni della Caritas, al servizio dei poveri: Ultimi, ma non per noi.

LA SPERANZA DEI 5 STELLE

Il tempo sembra giocare a favore di una riconciliazione fra Grillo e Conte. Almeno questa è la speranza diffusa nel Movimento. Luca De Carolis sul Fatto:

«Il tempo della mediazione è quasi scaduto, ma dentro al Movimento Cinque Stelle sono tutti d'accordo: questa storia non può chiudersi così. La conferenza stampa con cui Giuseppe Conte risponderà alle accuse che Beppe Grillo gli ha rivolto di fronte all'assemblea dei parlamentari è confermata per il pomeriggio di domani. E fino a ieri sera, nulla era cambiato nelle posizioni di uno e dell'altro: l'ex premier sempre convinto che col nuovo Statuto debba nascere un M5s che parli con una voce sola, il garante fermo sull'idea che il movimento vada governato da una diarchia in cui lui, il fondatore, non può essere ridotto a un semplice "custode dei valori". Il punto che adesso tutti hanno chiaro, però, è che nella guerra dei due Beppe, quelli che rischiano di rimetterci davvero, sono tutti quelli che non hanno un passato - figuriamoci un futuro - né come showman né come avvocato. Perché la strada dell'ipotetico nuovo partito guidato dall'ex presidente del Consiglio è ancora tutta da scrivere, mentre quella eventualmente immaginata da Grillo per il "suo" Movimento è già segnata: oggi c'è e vuole fare il leader, domani chissà. L'unica garanzia di sopravvivenza è continuare a tenerli insieme, altrimenti, per dirla con il deputato M5S Francesco Silvestri, "è come avere un poker d'assi ad un tavolo da gioco e passare la mano". Per questo, ieri, è stata la giornata delle telefonate e degli appelli, dei tentativi di riavvicinare i due che da soli non riescono a parlarsi. Ci sono i mediatori in prima linea, a cominciare dal ministro Stefano Patuanelli e dalla vicepresidente del Senato Paola Taverna; quelli che lavorano dietro le quinte, come l'ex socio di Rousseau Pietro Dettori; c'è chi si prodiga in messaggi pubblici, come il ministro Luigi Di Maio, che ieri ha chiesto una tregua, perché le "decisioni" vanno prese in nome del "bene che tutti vogliamo al Movimento". È un appello, il suo come quello di molti altri, a non far precipitare le cose: convincere Conte, insomma, a fare una conferenza stampa dal finale aperto, senza tirare conclusioni affrettate. Il punto è che serve ancora tempo per convincere Grillo, per fargli capire che l'accordo con Conte va trovato. Raccontano che il fondatore abbia capito che i toni usati nell'assemblea di giovedì siano stati un filino esasperati. Ma raccontano pure che non siano gli sfottò e le imitazioni acchiappa -risata ad aver scoraggiato Conte. Nella telefonata di giovedì, quando Grillo gli ha chiesto di "non dare retta alle agenzie", l'ex premier lo ha gelato: "Il problema non sono le agenzie, il problema è che tu quelle cose le hai dette". Non vuole scuse, l'avvocato, non è una questione di offese. In ballo c'è la sua "agibilità politica" nei 5 Stelle, che può essere garantita solo da uno Statuto in cui i ruoli del capo e quelli del garante siano definiti e non sovrapponibili. È un fatto di norme, insiste l'ex premier. E non è un caso che gli emissari della mediazione, per provare a convincere il fondatore, l'abbiano presa alla larga: non chiamano direttamente a Genova -considerando inutile discutere con Grillo di codici e cavilli ma si rivolgono ai suoi legali, quelli che lo hanno aiutato a scrivere con la penna rossa i "rilievi" alla bozza di Statuto scritta da Conte. Persone di cui Grillo si fida e che quindi, ragionano i mediatori 5 Stelle, potrebbero convincerlo della bontà delle richieste dell'aspirante capo. Per questo serve tempo e per questo tutti chiedono a Conte di non chiudere subito la porta: nel discorso di domani, gli suggeriscono, vanno illustrate tutte le ragioni per cui non è possibile accettare le condizioni di Grillo, ma va lasciato aperto uno spiraglio per il "ravvedimento operoso". "Non si deve impuntare", è il succo di chi teme che Conte si presenti davanti ai giornalisti e pronunci il suo "non ci sto". Ma d'altro canto, per lui e per i suoi consiglieri, resta difficile immaginare che la convivenza con Grillo - anche se si dovesse superare lo stallo di questi giorni - non gli riservi altri colpi bassi in futuro. Fidarsi, dopo quello che è accaduto, ormai è praticamente impossibile».

Claudio Bozza racconta sul Corriere che ci sono in campo almeno tre mediatori per arrivare ad un cessate il fuoco fra Grillo e Conte. Il sociologo De Masi fra l’altro viene intervistato dal Fatto e più o meno conferma.  

 «Tre ambasciatori di peso in campo per tentare l'ultima, disperata, mediazione tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. La clessidra si sta esaurendo: la tensione è altissima, anche perché ai vertici del Movimento hanno capito che la guerra interna potrebbe trasformarsi in una frana politica insidiosa per gli equilibri della maggioranza che sostiene il governo Draghi. E così, oltre al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, già capo politico grillino, è sceso in campo anche il presidente della Camera Roberto Fico, leader degli «ortodossi». E il terzo «moschettiere grillino» intervenuto con l'estintore per raffreddare gli animi, secondo quanto racconta l'AdnKronos , sarebbe il sociologo Domenico De Masi, molto vicino a Grillo: «Bisogna aspettare un paio di giorni per capire», dice. Dopo 48 ore con colpi di artiglieria pesante, ieri è stata la giornata del silenzio. «È il segno che si è aperto uno spiraglio, seppure minuscolo, nella trattativa», è il messaggio che arriva da più parlamentari. Si lavora per cercare un equilibrio che consenta ai litiganti di trovare un compromesso che entrambi possano narrare come «nobile». «Insieme abbiamo affrontato diverse fasi, anche le più difficili e complicate, ma le abbiamo sempre superate usando testa e cuore: rimaniamo uniti», è il messaggio velato di ottimismo che arriva da Di Maio. Il ministro degli Esteri, rientrato dalla Slovenia, si è chiuso nel suo ufficio e da lì ha giocato le sue carte, tentando di sfruttare quel filo rimasto intatto con «Beppe». Ma è proprio dal garante, in una giornata di comunicazioni interrotte, che arriva un messaggio criptico. Grillo, infatti, ha scelto di pubblicare sul suo blog un articolo del New York Times firmato dal neuroscienziato José María Delgado García: una dotta dissertazione che nella sostanza dice che non esiste il libero arbitrio e che molte delle decisioni che prendiamo il più delle volte vengono prese inconsciamente. «Siamo liberi di decidere?», è appunto il titolo del post pubblicato su beppegrillo.it. Un messaggio all'ex premier? Ça va sans dire. Anche perché, adesso, la palla passa proprio a Conte, che ha fissato una conferenza stampa per domani a Roma. Un paletto, oltre al quale sarà difficile andare. Poi il bivio: scissione, con nascita di un partito di Conte, oppure arriverà a sorpresa una ricomposizione della profonda frattura con Grillo? Di sicuro, in uno scenario di pace ritrovata, per l'ex premier sarebbe essenziale un segnale, un riconoscimento da parte di Grillo della fiducia riposta nella possibilità di Conte di rilanciare il Movimento, senza mandare a gambe all'aria l'intero progetto di rifondazione».

Maurizio Belpietro nell’editoriale per La Verità mette in guardia sulla presunzione da sondaggi e ricorda l’esempio di Mario Monti. Il 15 per cento di oggi domani può svanire.

«A gonfiare l'ambizione dell'ex avvocato del popolo sono i molti sondaggi che vengono fatti circolare. Anche in questo caso si parla di risultati a doppia cifra. C'è chi dice il 15%, chi addirittura immagina il 20. Voti rubati ai 5 stelle e anche al Pd. L'ex premier avrebbe già pronto il simbolo e pure la squadra del nuovo Movimento e in prima fila, ovviamente, ci sarebbe il mitico Rocco Casalino, ovvero l'ex portavoce, l'uomo che si fece ritrarre seduto al tavolo con Angela Merkel quasi fosse egli stesso un capo di governo. La verità è che la politica è una brutta bestia, e per quanto uno si sforzi di dire che è un semplice cittadino prestato alle istituzioni o, come disse Conte, che non è un uomo per tutte le stagioni, una volta assaporato il potere non si è più disposti a rinunciarvi. Si può essere stati per quasi tutta la vita rettore della Bocconi o professore universitario apprezzato, ma quando si depositano le terga sulla poltrona di capo dell'esecutivo e ci si accomoda accanto ai potenti della terra durante i vertici internazionali, ci si monta facilmente la testa ed è poi difficile, se non impossibile, smontarsela, cioè ritornare alla vita di prima, tranquilla, gratificante, ma grigia e senza le telecamere e le strette di mano. Succede a tutti, in particolare a chi non ha fatto la gavetta politica, ha cioè ricevuto la nomina dall'alto, quasi per caso. Soprattutto succede se non si è conquistato il consenso popolare, ma lo si è ottenuto in dono insieme con il ruolo istituzionale. Può darsi che mi sbagli, ma presto Conte potrebbe scoprire che i milioni di italiani che immagina pronti a seguirlo e a riportarlo a furor di popolo alla guida del Paese, sono solo nella sua testa e in quella dei cortigiani che fino a ieri lo hanno blandito, alcuni dei quali, per ideologia o miopia, non smettono di blandirlo neppure ora. Insomma, nel suo caso, più che parlare di Conticidio, parlerei di suicidio. Consumato dall'alto di troppa presunzione».

Antonio Padellaro, rispondendo ad un lettore del Fatto, offre un consiglio all’ex premier Conte: aspettare. Che “Giuseppi” vada in vacanza e attenda che le cose si chiariscano.

«Accettare la convivenza con Grillo? Oppure scappare a gambe levate e fondare un partito? E se invece la soluzione per Giuseppe Conte fosse soltanto: saper aspettare? Il grande giornalista Ryszard Kapuscinski, dopo aver girato il mondo e raccontato guerre, rivoluzioni, colpi di stato, condensò in una frase la sua esperienza: “L’essenziale, in politica, è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. La scoperta dell’acqua calda? Non tanto visto che viviamo nell’età dell’immediato, dove ogni giorno, ogni ora, ha la sua pena e il suo tweet, altrimenti si dimenticano che esisti. Questo dice la vulgata social, ma non è (più) vero. Dopo un lungo, insopportabile frastuono oggi il silenzio, proprio perché rarissimo come l’iridio, è la merce più quotata al mercato della comunicazione. Un apparente ossimoro di cui Mario Draghi è il campione indiscusso. Non dice mai (quasi) niente ma lo dice benissimo. Prendiamo le presenze televisive: i cosiddetti leader continuano a pensare che l’occupazione dei talk sia il concime del consenso. Ma non è (più) così da molto tempo, come dimostra la mediocrità degli ascolti. La pandemia ha falciato vite umane e vecchie abitudini. Oggi la rissa tv, il darsi sulla voce, il partito del partito preso producono nel pubblico imbarazzo e tristezza. Stravincono la capacità di argomentare, l’equilibrio, la pacatezza, l’ironia, che quando è autoironia spacca. Certo che la virtù dell’attesa è antica come il potere: Giulio Andreotti ne fu il campione quando si assentava per anni sicuro che prima o poi lo avrebbero richiamato. Allora c’era la Dc dei veleni e dei pugnali. Oggi c’è la marmellata M5S. Dia retta professor Conte, si goda una meritata vacanza. Ne approfitti per girare l’Italia e per ascoltare gli italiani. Non per raccogliere voti ma per conoscere. Già a settembre potrebbe essere cambiato molto. Machiavelli: “Non c’è nulla di più difficile da gestire, di esito incerto e così pericoloso da realizzare dell’inizio di un cambiamento”. Ecco, visto che il cambiamento non l’hanno voluto da lei, che se la sbrighi l’Elevato». 

VACCINI, BUONA LA SECONDA

Contro la variante Delta, c’è per ora un solo rimedio: fare quanto prima anche la seconda dose del vaccino. Siamo a 17 milioni e mezzo di italiani, il 32 per cento, vaccinati con le due dosi. Fabrizio Caccia per il Corriere:

«È importante che si parta per le vacanze con la seconda dose di vaccino effettuata. Noi dobbiamo convincere gli italiani a non rinviare il vaccino per andare in ferie. È tempo di agire, dobbiamo vaccinare tutti e metterci in sicurezza». Il messaggio del professor Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani di Roma, è chiaro. Anzi, il suo suona quasi come un appello. La preoccupazione degli scienziati è evidente: si chiama variante Delta del Covid. (…) Gli strumenti ci sono: fonti di governo assicurano che a luglio arriveranno in Italia oltre 14 milioni di dosi (12 di Pfizer e 2 di Moderna), abbastanza per mettere in sicurezza un numero consistente di italiani. Anche perché l'Istituto superiore di sanità ha fatto sapere che la maggior parte delle nuove infezioni riguarda «soggetti non vaccinati» o «che sono stati vaccinati con la prima dose o con il vaccino monodose entro 14 giorni dalla diagnosi» ovvero ancora «prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria completa». Ecco perché gli scienziati raccomandano di sbrigarsi a completare il ciclo. Tanto più che, secondo l'ultimo report settimanale del governo, in Italia ci sono ancora 2,7 milioni di over 60 che non hanno fatto neanche la prima dose di vaccino anti Covid-19. E intanto la variante Delta non sta a guardare. Da Nord a Sud: a Maleo, nel Lodigiano, si è sviluppato un mini-focolaio con 10 persone positive. Le analisi tuttora in corso hanno già stabilito che almeno 3 di loro hanno contratto la nuova variante. E così in Piemonte, dai primi di maggio a fine giugno, sono stati identificati 8 casi di Delta, tra Cuneo, Torino, Novara e Biella: 6 italiani e 2 stranieri. Per fortuna si tratta di casi asintomatici o con sintomi non di particolare gravità; sono già tutti guariti o in via di guarigione. A Biella tre persone, di cui una già vaccinata con le due dosi, sono risultate positive dopo una cena al santuario di San Giovanni d'Andorno. Ma anche il capodelegazione dell'Indonesia al G20 di Catania, che si è tenuto il 22 e 23 giugno, si è rivelato positivo alla Delta e ora è sottoposto a terapia monoclonale all'ospedale Cannizzaro. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, dati alla mano, esprime comunque fiducia: «Avevamo 30 mila persone ricoverate per Covid, adesso sono 2 mila (1.771 secondo l'ultimo bollettino ndr). E 4 mila erano in terapia intensiva, ora sono 300 (298 ndr)». Per il settimo giorno consecutivo i nuovi contagi in Italia ieri sono stati meno di mille (838), mentre le vittime sono state 40, ma la metà riferibili a un ricalcolo della Campania nel periodo aprile-giugno. «Per seguire l'evoluzione della variante Delta - conclude Speranza - l'Italia sta investendo il più possibile sul sequenziamento, sul tracciamento e continuerà a farlo». 

Tornare alla vita, in zona bianca e senza coprifuoco, questo vogliono gli italiani. Che però si concedono molti eccessi. “La voglia matta” la chiama Michele Brambilla, direttore del Quotidiano Nazionale, nel suo commento di prima pagina.

«La frenesia di questi giorni, la pazza voglia di rivivere che si vede nelle piazze e nelle strade delle nostre città in queste ultime ore con la mascherina, o nelle spiagge e sui laghi in queste prime sere d'estate, insomma tutto questo ricorda altri momenti della nostra storia, altre smanie, altri sabati del villaggio. Ricorda l'esplosione popolare alla fine della guerra, con il boogie-woogie dei soldati americani; o il matto ritmo dei primi anni del boom. C'è un indimenticabile film del 1962 di Luciano Salce che si chiama proprio «La voglia matta», con Ugo Tognazzi e una sedicenne, meravigliosa Catherine Spaak. Oppure ricorda gli anni Ottanta, quelli poi banalizzati come anni del riflusso o della Milano da bere, declassati a tempo segnato da una gioventù un po' vuota e fighetta, quella dei paninari: e invece erano anche, e soprattutto, pure quelli anni in cui si voleva tornare a vivere dopo un interminabile decennio di piombo. Saranno stati anche affascinanti i quadri grigi le luci gialle e i cortei cantati da Alberto Fortis, ma noi che andavamo a scuola non ne potevamo più dell'occupazione della politica di ogni nostro spazio di vita, e soprattutto non ne potevamo più della violenza, delle spranghe dei coltelli e delle P38: avevamo voglia di essere spensierati e un po' stupidi come si ha diritto di essere a vent' anni, perdio. Voglia di vivere, come quella di questi nostri giorni che speriamo siano i primi davvero liberi dopo l'incubo del virus e delle mani igienizzate. La voglia di vivere è però tale che può farla anche perdere, la vita: troppe imprudenze, troppi incidenti sulle strade e sui laghi. Non si va in undici su un motoscafo lanciato a bomba contro un lockdown che non c'è più. Ci eravamo detti, nei giorni cupi in cui eravamo chiusi in casa, che questa disgrazia ci avrebbe almeno insegnato a capire che non siamo padroni della nostra vita, perché basta un virus a mandare in tilt il mondo intero con tutta la sua portentosa tecnologia. Ora non vorrei che avessimo già dimenticato la lezione, e che invece di ringraziare per quello che ci è dato da vivere ci sentissimo di nuovo arbitri del presente e del futuro. Domani ci togliamo la mascherina, ma già arrivano notizie di nuovi contagi e di nuove chiusure. Questo non lo dico per guastar la voglia matta, anzi. È che non sappiamo ancora tutto della nostra vita».

Repubblica intervista Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di Sanità. Il quale dice: se la situazione peggiora, torneremo alle mascherine, anche all’aperto.

«Qual è la situazione dell'epidemia in Italia, è giusto togliere le mascherine? «I sistemi di monitoraggio guardano incidenza, trasmissibilità e cioè l'Rt e circolazione delle varianti. I primi due soprattutto sono indicatori di come si muove l'epidemia. Il report di venerdì scorso ci ha detto che per ora la situazione permette di toglierle. Abbiamo solo 11 casi per 100mila abitanti in 7 giorni a livello nazionale». L'allentamento sulle mascherine è destinato a restare? «Il monitoraggio ci consente di capire come evolve la situazione e semmai intervenire, anche reintroducendo misure». Si metterà la mascherina nelle scuole a settembre? «L'importante è riprendere la scuola in presenza. Le modalità si vedranno in base al quadro epidemiologico. Il punto di partenza è che il distanziamento è importante. La mascherina dipenderà dalla circolazione». Cosa rende temibile la variante? «La sua maggiore trasmissibilità, che ne facilita la diffusione soprattutto laddove ci sono fasce di popolazione non immunizzate; anche da noi sta provocando focolai. Per queste caratteristiche i modelli europei dicono che diventerà dominante durante l'estate». Ma da noi i casi totali stanno scendendo. «Decrescono in assoluto ma quelli sostenuti dalla variante Delta stanno salendo». Se è ineluttabile l'arrivo della variante, perché si pone tanta attenzione al sequenziamento? «Per conoscere l'andamento delle varianti già note ma anche per intercettarne di nuove. Il virus muta continuamente per sua natura ed è importante individuare tra tutte le mutazioni quelle che destano preoccupazione per la loro potenzialità di trasmettersi più efficacemente o di evadere parzialmente l'immunità. Per questo è importare disporre di una mappa delle varianti». 

VARIANTE NEL MONDO, ALLARME EUROPEI DI CALCIO

Ma il mondo come sta reagendo alla variante Delta? Il Corriere della Sera propone alcuni scenari esteri, come in Usa e in Israele.

«La variante Delta accelera negli Stati Uniti: la sua prevalenza è raddoppiata nelle ultime due settimane e rappresenta ormai il 20 per cento dei nuovi casi Covid. «È attualmente la più grande minaccia rispetto al nostro tentativo di eliminare il Covid-19», ha affermato Anthony Fauci, il virologo capo consigliere medico della Casa Bianca. Delta sembra prosperare soprattutto dove i vaccini non attecchiscono, pronta a spaccare il Paese in due: da una parte le zone avviate a godersi la vagheggiata libertà post pandemica, dall'altra le regioni a bassa concentrazione vaccinale come il Missouri alle prese con il ripristino delle restrizioni e gli ospedali di nuovi pieni. I ricoveri stanno aumentando anche in Arkansas, Nevada e Utah, dove meno di un abitante su due ha ricevuto la prima dose, emerge da uno studio del Washington Post. (…) Nel Paese che per primo aveva cantato vittoria contro il virus, grazie a una rapidissima campagna di vaccinazione di massa, è tornato il tempo della preoccupazione. I contagi sono in risalita: oltre 700 i nuovi casi in Israele, la media settimanale è passata da poche decine a un centinaio. Una ripresa che ha convinto il governo a fare dietrofront e reintrodurre l'obbligo di mascherina al chiuso, abolito soltanto 10 giorni prima. E a raccomandarne l'uso anche all'aperto in raduni pubblici. Il 50% delle nuove infezioni riguarda i minori, moltissimi non ancora vaccinati (Israele ha approvato da poco l'immunizzazione anche per i 12-15enni). Dell'altro 50%, la metà sono stati contagiati benché vaccinati. Ma si tratta di casi non gravi: il tasso di ospedalizzazione qui non è aumentato, per questo l'efficacia dei vaccini non è in discussione per ora».

Il Fatto dedica l’apertura del giornale al maxi contagio degli Europei di calcio, con un focolaio nel Girone B. E non solo. L’arroganza di Cerefin, capo della Uefa, dopo le allarmate dichiarazioni di Merkel e Draghi, fa riflettere. Per ora è confermata e prevista una finale a Londra con 60 mila presenze.

«Uefa, abbiamo un problema, qualcosa nel Gruppo B è andato storto. È infatti ormai certo che gli Europei di calcio - come esplicitamente temuto alla vigilia dal Centro europeo per la prevenzione delle malattie (Ecdc) e dall'Oms - siano all'origine, per ora, di almeno due focolai di Covid, variante Delta compresa. Tutta colpa della formula itinerante - affascinante ma clamorosamente inopportuna in tempi di pandemia - e soprattutto degli stadi (ri)aperti, in particolare quelli di San Pietroburgo e Copenaghen, impianti in cui Russia e Danimarca (a differenza di altri Paesi più rigorosi come Italia e Germania) hanno consentito un accesso pari al 50 e al 73,5% della capienza (ossia rispettivamente circa 32 e 28 mila spettatori). Il primo allarme è suonato giovedì, quando le autorità danesi hanno comunicato tre casi di variante Delta (poi saliti a oltre dieci) tra i tifosi che hanno assistito al match del Gruppo B Danimarca -Belgio, giocato a Copenaghen il17 giugno. Il cluster è scoppiato nella Tribuna B del Parken Stadion, dove avevano trovato posto circa 4 mila persone, tutte invitate a sottoporsi a test molecolare. Ventiquattr' ore prima di Danimarca-Belgio, a San Pietroburgo si era giocato Finlandia-Russia, sempre Gruppo B. Questa partita, stando a quanto comunicato dalle autorità di Helsinki, ha provocato 120 contagi tra i circa 2 mila tifosi che si erano recati in Russia. Il cluster, questa volta, sembra essere scoppiato in un ristorante nei dintorni dello stadio. Ma i positivi potrebbero essere molti di più. Essendo infatti la Russia (insieme alla Gran Bretagna) il Paese europeo con il più alto tasso di incidenza Covid nelle ultime settimane, la Finlandia si era premurata di testare chiunque rientrasse da Est. Ma, a quanto pare, a causa dell'ingorgo creatosi al confine, circa 800 persone (invitate dal governo a sottoporsi a test) sono state lasciate andare. A San Pietroburgo - dove ieri si è registrato il triste record di 107 morti a causa del Covid in 24 ore - la Finlandia ha giocato (con tifosi al seguito) anche il 21 giugno contro il Belgio (5 giorni dopo il match con la Russia) mentre i tifosi russi incrociavano i danesi a Copenaghen. Non solo, l'ex Leningrado ha ospitato anche tre partite del Gruppo E tra Polonia, Slovacchia e Svezia e ospiterà un quarto di finale il 2 luglio. Il Belgio poi (con tifosi al seguito) giocherà oggi il suo ottavo di finale a Siviglia contro il Portogallo, nazionale che (con tifosi al seguito) ha disputato due dei tre incontri del Gruppo F (contro l'Ungheria il 19 e contro la Francia il 23 giugno) nella bolgia della Puskas Arena di Budapest, l'unico impianto aperto al 100%. Per la cronaca, il Portogallo è attualmente il terzo Paese europeo per incidenza ogni 100 mila abitanti dopo Gran Bretagna e Russia.».

PIAZZE D’ITALIA 1. “PATTO CONTRO IL BLOCCO”

Tre piazze, a Torino, Firenze e Bari, hanno visto i lavoratori scendere in piazza. La cronaca di Enrico Marro per il Corriere:

 «Sindacati di nuovo in piazza, con migliaia di lavoratori. A Torino, a Firenze e a Bari, per tre manifestazioni, collegate tra loro grazie ai maxischermi, chiuse dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil con un ultimo appello al governo affinché proroghi il blocco dei licenziamenti per tutti i lavoratori fino alla fine di ottobre. Un appello in extremis, visto che, secondo il decreto Sostegni bis, il blocco in vigore dal marzo 2020 scadrà mercoledì, 30 giugno, per le aziende dell'industria e dell'edilizia (per le piccole e il terziario scadrà invece alla fine di ottobre), col rischio, secondo i sindacati, di aprire la porta a una escalation di licenziamenti. Per questo Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri hanno riproposto l'apertura immediata di un confronto con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, per trovare una soluzione. Perché quella cui sta pensando il governo - una proroga limitata a pochi settori, quelli più in crisi, come tessile, abbigliamento e calzature - è del tutto insufficiente, sostengono i sindacati. Per il leader della Cgil Landini, «i tempi per prorogare il blocco ci sono, è il momento di unire, non di dividere». Il segretario della Cisl Sbarra invoca «un nuovo Patto sociale», come fa anche il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, mentre il numero uno della Uil Bombardieri boccia come «inattuabile» l'ipotesi di una «divisione per settori».

La Stampa con Alessandro Di Matteo intervista il ministro Renato Brunetta. Che insiste: ci vuole un “patto sociale” per fare le riforme necessarie e ottenere i finanziamenti all’Europa.

«Avviso ai naviganti: no reform, no money!». Renato Brunetta inizia così l'intervista. Il ministro per la Pubblica amministrazione è ottimista per il futuro, vede all'orizzonte una opportunità epocale per il Paese e sottolinea che già è in atto un «rimbalzo», innescato anche dal clima di fiducia che il governo Draghi ha saputo creare. Ma proprio per questo, chiarisce, ora non bisogna commettere errori. C'è da capire che viviamo una fase assolutamente eccezionale che va affrontata con un «approccio di politica economica capace di tenere insieme crescita ed efficienza - da un lato - e giustizia sociale e lotta alla disoccupazione dall'altro». Un «patto sociale», insomma, come quello di Ciampi nel 1993. Un messaggio anche ai sindacati che manifestano contro la fine del blocco dei licenziamenti: «Non ha senso il conflitto sociale in una fase di boom economico». A chi lo manda l'avviso? «A tutti: partiti, istituzioni, opinione pubblica, ministri, maggioranza, opposizione. I soldi arrivano solo se si fanno le riforme, quelle individuate sono circa quaranta. In cambio di queste riforme vengono erogate risorse attraverso puntuali Sal, stati di avanzamento lavori. Ecco perché "no reform, no money"». Gli euroscettici diranno: l'Europa ci ricatta. «Ma quando si sottoscrive un libero contratto parliamo di ricatto? Quello che abbiamo sottoscritto è stato un contratto voluto dal governo e dal Parlamento sovrano a grandissima maggioranza. Altro che ricatto, è e sarà la nostra salvezza. Noi non abbiamo mai avuto la forza e il coraggio di fare quelle riforme, le riforme necessarie. E quindi dovremo solo dire grazie all'Europa, ad Angela Merkel e a Mario Draghi che ci hanno portato a questo risultato. Chiunque volesse stracciare questo contratto è liberissimo di farlo, oggi, domani e dopodomani, sapendo a cosa si va incontro: la bancarotta del Paese. Che sia chiaro a tutti». 

PIAZZE D’ITALIA 2. GAY PRIDE PER IL DDL ZAN

Piazze dell’orgoglio gay galvanizzate dalla battaglia sul Ddl Zan. Paola Di Caro per il Corriere della Sera:

«Nella giornata che vede la celebrazione finale del Pride Month , con manifestazioni a Milano, Roma, Ancona, L'Aquila, Faenza e Martina Franca della comunità Lgbti, sul ddl Zan continua la contrapposizione fra i partiti. Il Pd insiste per portare in Senato la legge senza cambiamenti: «I numeri per approvarla ci sono - dice il segretario Enrico Letta -. Ci sono stati per approvarlo nel primo passaggio e anche nel secondo. Dopodiché, andiamo in Parlamento e lì vedremo». Nessun tavolo insomma: «Salvini mi ha mandato un messaggio, io risponderò perché non mi sottraggo. Dobbiamo essere molto seri e molto franchi: la Lega ha tenuto comportamenti finalizzati non al miglioramento del ddl Zan, ma per affossarlo». «Il ddl va approvato così com' è - conferma il ministro del Lavoro Andrea Orlando -. Bisogna ascoltare tutti, confrontarsi e se c'è un elemento di riflessione che va introdotto occorre dialogare». Dall'Arco della Pace di Milano, dove si tiene il Gay Pride (e dove un ragazzo minorenne è stato aggredito), insistono perché si vada avanti senza più perdere tempo sia il relatore della legge Alessandro Zan, sia il sindaco Beppe Sala: «Il tempo è scaduto, approviamolo». Dalle piazze insomma - a Roma c'erano i candidati sindaci Gualtieri e Calenda, ma anche esponenti del centrodestra come l'azzurro Elio Vito - la richiesta è chiara. Ma mentre il presidente del Parlamento europeo David Sassoli (ieri in udienza privata da papa Francesco ndr) afferma che «l'Italia è un Paese laico» però «non bisogna sottrarsi al dibattito», dal centrodestra si continua a chiedere una riscrittura della legge. «Mi auguro che la sinistra voglia trovare un accordo, sennò vuol dire che vuole dividere gli italiani su un tema che non è prioritario. Se non vogliono cambiare la loro posizione, si andrà in Aula e non credo ci sia una maggioranza», avverte Antonio Tajani, coordinatore di FI. La Lega conferma il no e Giorgia Meloni rimprovera i manifestanti di Roma: «Leggo che il corteo del Pride è stato aperto da un ragazzo travestito da "Cristo Lgbt": che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi? E come si concilia la lotta alle discriminazioni con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo col ddl Zan?». In questo clima bollente, è Matteo Renzi ad invitare al dialogo, premettendo che «le leggi le fanno i parlamentari, non i cardinali», ma aggiungendo che proprio perché si tratta di una «legge necessaria» bisogna «fare uno sforzo per trovare tutti assieme gli elementi che uniscono, non che dividono».

Avvenire racconta le piazze del gay pride e si chiede se fosse proprio necessario aprire il corteo romano con un Cristo “arcobaleno”. Ma non è l’unico episodio, anche a Verona sono stati messi alla berlina Vescovo e Sindaco.   

«L'intento sarà pure goliardico, ma certo mettere foto segnaletiche nei manifesti online e pubblicare gli indirizzi e-mail dei bersagli individuati non sembra una brillante idea da parte di chi scende in piazza per chiedere una società più inclusiva e aperta. Ma gli organizzatori del Verona Pride di sabato prossimo pensano che il «Vaccino Giuliett* contro l'omo-bi-transfobia» sia solo una «iniziativa ironica», e sulla pagina Facebook della manifestazione indicano cinque «testimonial» che «si sono resi disponibili a testarlo in diretta in piazza». Naturalmente non è così: i personaggi pubblici di cui si parla sono scelti tra quelli che «negli anni non hanno certo brillato per le loro posizioni 'tolleranti' nei confronti delle soggettività antirazziste, antifasciste e antisessiste». Un giudizio che sarebbe così evidente da rendere «inutile sottoporvi nuovamente i loro curriculum». I nomi? Il vescovo di Verona Giuseppe Zenti, il sindaco di centro- destra Federico Sboarina, i consiglieri comunali leghisti Andrea Bacciga e Alberto Zegler, e Carla Padovani, già capogruppo Pd in Comune e ora al gruppo misto dopo essere stata costretta alle dimissioni dal partito per la sua posizione a sostegno di chi aiuta le donne che scelgono di non abortire. Se la Curia preferisce non commentare, Carla Padovani dichiara di aver «appreso con stupore» dell'iniziativa del Verona Pride: «Penso che al di là del fatto personale di pormi delle etichette che non mi appartengono e di sentirsi condizionati nel potersi esprimere - aggiunge -, non si capisce come questo linguaggio possa essere classificato come tollerante». Intanto a Roma ieri il corteo del Pride è stato aperto da un Cristo lgbt con corona di spine, stimmate colorate e lenzuolo arcobaleno. Era proprio necessario?».

FARINET, CANDIDATO SINDACO PER MILANO

Si chiama Andrea Farinet. Secondo Cremonesi e Attanasio del Corriere sarebbe lui l’uomo destinato a combattere contro Beppe Sala nella corsa a Sindaco di Milano.

«Tutti gli indizi sembrano ormai convergere. Il Mister X di Matteo Salvini, l'uomo che gli ha fatto «una gran impressione» e che vorrebbe sindaco «anche domani mattina» si chiama Andrea Farinet. Non ha una fama pop o di quelle che si conquistano sui social, anche se di nuovi media capisce parecchio: non solo da decenni è professore universitario anche sui temi dei New media, ma è tra i fondatori di «Socialing», «neologismo composito che nasce dalla fusione di "social" e "marketing"». Sul sito si legge che l'organizzazione «si occupa di ricerca, consulenza strategica e manageriale da più di dieci anni». Il suo libro sull'argomento è uscito nel 2015 con la prefazione dell'ormai leggendario Carlo Petrini, il fondatore di Slow food. Mentre due anni prima aveva pubblicato, insieme con Giancarlo Roversi, la Carta Universale dei Diritti della Terra Coltivata. Che era stata presentata, guarda il caso, all'Expo 2015 guidato da Giuseppe Sala. Se, come sembra, il professore ha già incontrato - oltre a Matteo Salvini - anche Silvio Berlusconi che ne avrebbe apprezzato la fisionomia, non è detto che il resto della strada verso la designazione sia una discesa per prati. Ad esempio, Antonio Tajani sottolinea che «l'accordo non è ancora chiuso». E poi Farinet dovrà incontrare anche Giorgia Meloni, i cui rapporti con gli alleati specie leghisti sono, come minimo, altalenanti. Come sbuffa un leghista di livello, «se non le andasse bene, sarebbe però difficile anche per lei non passare per la regista del boicottaggio su Milano». D'altronde, lo stesso Salvini lo ha detto venerdì: «Su Roma io avevo le mie idee ma ho accettato il giudizio di altri. Sono certo che sarà così anche per Milano». E cioè che quel candidato che tutti riconoscono debba essere di designazione leghista possa, sia pure iniziando la campagna elettorale a luglio, far partire la sua gara con Giuseppe Sala. Difficile in ogni caso che la candidatura ufficiale possa avvenire prima della metà della settimana prossima».

MR B SPIEGA IL PARTITO UNICO

Silvio Berlusconi, con una lettera pubblicata dal Giornale, torna sul tema a lui caro del partito unico di centro destra:

«Ho riproposto il tema del Partito Unico del centrodestra, il centrodestra italiano, sul modello del Partito Repubblicano Usa, che è la prospettiva politica che ho nel cuore dal 1994 e che è nel cuore di molti dei nostri elettori. Credo che abbiamo una finestra di opportunità irripetibile per realizzarla da qui al 2023, quando presumibilmente l'emergenza sarà finita e gli italiani potranno tornare a scegliere da chi essere governati. Qualcuno mi ha chiesto se le due cose non sono in contraddizione: la domanda è legittima, mi rendo conto anch' io che rilanciare Forza Italia e parlare di un partito unico possano sembrare due opzioni diverse, se non addirittura contraddittorie. Vorrei spiegare perché non è così. Perché le nostre riflessioni sul Centro-destra Unito non significano affatto un «rompete le righe» per gli azzurri di Forza Italia, ma anzi portano all'esatto contrario, ad un impegno ancora più forte per rilanciare e fare crescere il nostro movimento. C'è una prima ragione, a ben vedere scontata: i modi, le forme e i tempi in cui questo processo si compirà non dipendono naturalmente solo da noi. Sono convinto che quella del Partito Unico sia la strada e che ci arriveremo, ma io stesso non ho mai pensato a una «fusione fredda» fra apparati di partiti. Si tratta piuttosto di mettere in moto un grande processo politico di riflessione, di studio, di discussione, di elaborazione di contenuti ed anche di regole. Tutto questo non si improvvisa e naturalmente dipende dal grado di disponibilità dei partner leader politici e non solo - che vorremmo in questo progetto. Nel frattempo, la quotidianità della politica va avanti e noi stiamo svolgendo una funzione essenziale a sostegno del Governo Draghi. (…) Per il futuro questa è la seconda e più importante considerazione non dobbiamo mai dimenticare che Forza Italia è l'unica forza politica da sempre liberale, cristiana, europeista, garantista. È l'unica espressione in Italia del Partito Popolare europeo, la grande famiglia dei cattolici liberali, che nelle ultime settimane ha dimostrato in tutt' Europa, in Spagna, in Germania, in Francia, di essere di nuovo in crescita e di stare recuperando i suoi elettori tradizionali. Non soltanto l'Italia non può fare a meno di una componente liberale europeista di questo tipo, ma un centro-destra unito e di governo dovrà avere proprio questa caratterizzazione, un forte legame con i Popolari Europei, per essere credibile e autorevole sul piano internazionale. Questo legame inscindibile possiamo garantirlo soltanto noi. Dunque per gli azzurri questo è il momento dell'orgoglio e insieme dell'umiltà. Orgoglio non solo della nostra storia, ma del ruolo che giochiamo e che continueremo a giocare. Umiltà di metterci in discussione in nome di un progetto più grande che porti a compimento il nostro percorso politico». 

50 ANNI DELLA CARITAS, IL PAPA RINGRAZIA

Il Papa ringrazia la Caritas per i 50 anni a favore dei poveri. Ieri c’erano 1500 persone in udienza nell’aula Paolo VI per festeggiare la ricorrenza. La cronaca di Avvenire.

«Tre vie per la Caritas italiana che festeggia i 50 anni dalla sua istituzione. «Partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività». Specie «nell'attuale cambiamento d'epoca in cui le sfide e le difficoltà sono tante, sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio». Papa Francesco non usa giri di parole e con le parole di San Paolo esorta: «Vi auguro di lasciarvi possedere da questa carità». Poi, al culmine dell'udienza nell'Aula Paolo VI affollata da oltre 1.500 persone, tra cardinali, vescovi, operatori e volontari, pronuncia un grande «grazie» per quanto è stato compiuto durante la pandemia al fine di alleviare «la solitudine, la sofferenza e i bisogni di molti» e offrire «ascolto e risposte concrete a chi è nel disagio». Un discorso, quello di Francesco, giunto al termine di una mattinata di testimonianze e di festa. Prima di tutto la via degli ultimi. «È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi», ha detto il Pontefice, ricordando di averne parlato qualche giorno fa con il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo emerito di Agrigento e già presidente della Caritas italiana. «La carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e renderle protagoniste della propria vita», ha spiegato Francesco. Molto è stato fatto in questo mezzo secolo. «Obiezione di coscienza, volontariato, cooperazione con il Sud del pianeta, emergenze in Italia e nel mondo, migrazioni, corridoi umanitari, centri di ascolto e osservatori delle povertà e delle risorse». È bello - ha proseguito papa Bergoglio - allargare i sentieri della carità». Perché la storia non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, ma da quella dei poveri, la prospettiva di Gesù». Quanto alla via del Vangelo, essa consiste nell'avere «uno stile evangelico». «Lo stile dell'amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone. Lo stile dell'amore gratuito, che non cerca ricompense. Lo stile della disponibilità e del servizio, a imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo». La carità «è inclusiva - ha quindi sottolineato il Papa -, non si occupa solo dell'aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l'uomo intero. Una carità spirituale, materiale, intellettuale». «Abbiamo bisogno - ha quindi proseguito - che le Caritas e le comunità cristiane siano sempre in ricerca per servire tutto l'uomo, perché "l'uomo è la via della Chiesa", secondo l'espressione sintetica di San Giovanni Paolo II».

INFERNO TIGRAY, PARLANO I MEDICI ITALIANI

Impressionante la situazione nel Tigray raccontata a Raffaella Scuderi di Repubblica da due medici italiani di MSF, Medici senza frontiere. Una guerra completamente censurata dal Governo etiope, cui nessun reporter ha accesso.

«L'esercito etiope è entrato nel Tigray distruggendo tutto: infrastrutture, fabbriche e ospedali. Mai nella mia vita ho visto strutture sanitarie e cliniche così distrutte e saccheggiate. I nostri colleghi hanno visto quattro ragazzi uccisi a un check point militare». Marco Sandrone è il coordinatore dei progetti di Medici senza Frontiere ad Axum e Adua, in Etiopia, nel Tigray. Al suo rientro dal Corno d'Africa ci ha raccontato quello che nessuno finora è riuscito a vedere a causa del veto di entrata di Addis Abeba ai giornalisti: lo scenario cupo e tetro della regione etiopica sotto bombardamenti dal 4 novembre, il giorno dell'offensiva di Abiy Ahmed, il premier etiope, premio Nobel della Pace. Più dell'80% delle strutture mediche sono state saccheggiate o parzialmente distrutte. «Ho lavorato per tre mesi ad Axum e Adua, a 6 ore di macchina da Makallé. Sei ore di posti di blocco etiopi, eritrei, tigrini e amarici. L'ospedale di Adua era in uno stato devastante, l'unico della città. Il personale medico non c'era: sfollato, in fuga o non operativo per mancanza di salario». Era tutto da fare. E la popolazione sofferente, in balía di se stessa. «Il nostro obiettivo principale è stato ristabilire un minimo di livello di funzionalità in modo che si potesse accedere alle cure mediche. Abbiamo organizzato l'aspetto logistico: bombole d'ossigeno, cibo per i pazienti, medicine». La maggior parte della popolazione tigrina vive in zone rurali, dove i centri sanitari sono stati rasi al suolo. Strade bombardate, mezzi non funzionanti. «Le ambulanze inservibili - racconta Sandrone -Distrutte o usate come mezzi militari. Abbiamo subito attivato le cliniche mobili. Con un focus sui minori, spesso feriti da granate usate come giocattoli, e sui pazienti psichiatrici». L'operatività di Msf è stata messa a dura prova: ogni 30 chilometri un posto di blocco governativo o eritreo. Hanno trascorso più tempo a negoziare con i militari che a curare pazienti. «Oltre all'aspetto medico abbiamo cercato di ristabilire le esigenze primarie della popolazione, privata dell'energia elettrica e del sistema idrico. Hanno bombardato anche i pozzi. Ci siamo occupati dell'emergenza sfollati: almeno un milione sono scappati in Sudan e centinaia di migliaia si stanno spostando da una zona all'altra della regione in fuga dai bombardamenti. Le scuole sono servite da rifugi: 200 in una stanza. Abbiamo strutturato i servizi di base: bagni, docce cucine, coperte e materassi». I bambini non accompagnati sono la categoria più vulnerabile, non presi ancora in carico dal sistema amministrativo. Il conflitto è lontano dalla fine. Il governo etiope ha preso il controllo della regione e l'élite tigrina, che ha governato per decenni, è diventata guerriglia. Tommaso Santo è il responsabile dell'intervento di emergenza nella regione. È rientrato a maggio: «Immediatamente abbiamo messo mano alle strutture mediche, cercando di fornire medicine e acqua. Non c'è la banca del sangue perché non c'è elettricità per alimentare i frigoriferi negli ospedali per conservare il sangue». Tommaso e Marco parlano di solitudine e abbandono: «L'accesso delle Ong è limitato dai responsabili del conflitto. Una strategia del potere per affamare la popolazione». La preoccupazione più grande, espressa pochi giorni fa dall'Onu, è la carestia. «Il problema c'era già prima. L'Etiopia è vulnerabile al cambio climatico: inondazione, siccità, invasione di locuste. Tutti elementi con un forte impatto sulla salute delle persone. Tra marzo e maggio avrebbero dovuto coltivare i campi. La raccolta era prevista tra agosto e settembre. Tutto a monte». La paura di essere attaccati: «I medici locali hanno paura di lavorare. Abbiamo ricevuto visite di soldati armati con azioni intimidatori e verso lo staff medico e i pazienti. Però siamo riusciti a far rientrare qualche membro dello staff. Ad Axum siamo partiti con 50 letti e ora ce ne sono 180 con 220 pazienti». La guerra in Etiopia si sta svolgendo senza testimoni esterni. Uno scenario drammatico che neanche i social riescono a raccontare. Nessun video virale, nessuna foto simbolo. Addis Abeba ha chiuso le porte al mondo il 4 novembre. Ai giornalisti è stato vietato il visto, e chi è riuscito a entrare, l'inviato del New York Times è stato rispedito a casa. I Medici senza Frontiere sono stati i primi a intervenire. Anche a loro Addis Abeba ha riservato un'accoglienza difficile. Ieri, i corpi privi di vita di tre giovani operatori umanitari di Msf sono stati trovati a qualche chilometro da Adua, a un centinaio di metri dal veicolo su cui viaggiavano: «Li conoscevamo molto bene».

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Conte alla rovescia

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