Cop26, accordo ma con carbone
Compromesso finale a Glasgow dei 197 Paesi sul clima. L'India ottiene una deroga sul carbone. Sabato di proteste senza disagi. Mattarella premia il bene per gli altri. Ue e Putin: scontro sui migranti
La Conferenza internazionale sul clima di Glasgow si è interrotta con un risultato positivo, condizionato all’ultimo da un colpo di mano dell’India a favore del carbone, il cui uso sarà ancora permesso. Se non proprio avviata al successo, dopo l’accordo fra Usa, Cina e Ue, la Cop26 sembrava destinata a rappresentare una tappa positiva: una prosecuzione degli accordi di Parigi. Poi il delegato indiano ha ottenuto una deroga importante su una delle risorse energetiche più inquinanti, il carbone appunto. E tuttavia ci sono aspetti positivi nel documento finale approvato all’unanimità dei 197 Paesi attraverso un compromesso. Nei prossimi giorni ci sarà modo di studiarlo e analizzarne la portata. Greta è delusa, e con lei i giovani dei Fridays for future, “Flop26”, così come resta critica Greenpeace, più positivo il giudizio del Wwf. Prossima Cop in Egitto. Dopo il bla, bla, bla arriveranno i fatti? Papa Francesco lancia un’iniziativa via web per costruire, giorno per giorno, un itinerario diverso: la piattaforma Laudato si’.
Veniamo alla pandemia in Italia. C’è una corsa più convinta verso la terza dose, anche dopo i decisivi risultati delle ricerche israeliane sui quattro milioni di persone che l’hanno ricevuta. L’Iss ha fornito i numeri (lo trovate nei pdf) e spinge perché la terza dose venga somministrata a più persone possibili per arginare la quarta ondata. Intanto sul fronte delle proteste, ieri c’è stata una nuova giornata di mobilitazione contro il Green pass. La sequenza di «sabati neri» per negozi e commercio, nei centri delle città, si è finalmente interrotta. Soddisfatto il Viminale: sono state rispettate le nuove direttive da Roma minimizzando i disagi per i cittadini e per le attività economiche. Anche grazie alla scarsa adesione. Eppure alcuni manifestanti sono riusciti ad arrivare in piazza Duomo a Milano.
Anche quest’anno, per l’ultima volta, il presidente Sergio Mattarella premierà a fine mese più di trenta italiani per essersi spesi in favore degli altri, in campo civile e sociale. È forse una delle innovazioni più azzeccate che questo Capo dello Stato ha introdotto: la Repubblica riconosce il valore, non solo del lavoro o quello militare, ma il valore civico del bene. Ho personalmente dedicato la serie podcast Le Vite degli altri con Chora media, in collaborazione con Vita, e col sostegno della fondazione Cariplo a storie di persone tutte premiate al Quirinale, negli ultimi anni. Sono tanti i gesti di amore e di condivisione che ho scoperto, grazie alla selezione compiuta dal Quirinale. Ha scritto Simone Weil: “Dalla prima infanzia fino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”.
A proposito di Quirinale. Il Pd non ha ancora digerito la decisione di Mattarella di non accettare un altro mandato al Colle. Intervistato in una doppia paginata sulla Stampa, Letta non ha detto una parola sul tema. È ancora sotto choc. Intanto c’è grande pressione su Renzi e sul suo gruppo parlamentare, alla vigilia della Leopolda che inizia venerdì prossimo. Giovanna Vitale su Repubblica scrive, dopo aver detto che ci sono dieci parlamentari dell’Italia dei Valori che potrebbero uscire dal partito: “Avranno il coraggio di fare il grande passo?”. Una volta il cambio di casacca veniva stigmatizzato, qua si prepara una beatificazione per chi cambia idea.
Dall’estero angoscia ancora la crisi umanitaria al confine fra Polonia e Bielorussia. L’ultimo migrante che non ce l’ha fatta, per la fame e il freddo, aveva 20 anni. Lucidamente Prodi sul Messaggero analizza i due nodi che si intrecciano in questa crisi: la politica dell’Europa sui migranti e il rapporto con la Russia di Putin. Molinari su Repubblica vede la questione in termini di scontro (militare) fra Washington e Mosca. Un prete salesiano italiano è stato arrestato in Etiopia.
È ancora disponibile on line il quinto episodio della serie Podcast di cui vi parlavo. Il titolo è “Resistere a Scampia”. Protagonista è il 41enne Ciro Corona, prof di filosofia che si dedica ai ragazzi di strada, anche lui premiato dal Capo dello Stato. Ha creato un’associazione e una cooperativa che (r)esistono alla Camorra nella zona diventata famosa nel mondo come Gomorra, la cittadella della malavita. Ciro Corona lavora ogni giorno per costruire un futuro con i giovani del quartiere. Una storia bellissima di amore al proprio territorio e alla propria gente. E di sfida all’illegalità e al degrado. Cercate questa cover…
… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate il quinto episodio:
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LE PRIME PAGINE
Giornali della domenica concentrati soprattutto sulle conclusioni della Cop26 e ancora sulla pandemia. Avvenire: Clima, ora i fatti. Stesso tono del Domani: Primo accordo sulla crisi climatica. Adesso bisogna fare sul serio. Il Manifesto trova un gioco di parole per descrivere la delusione su Glasgow: Terra terra. La Repubblica sintetizza così: Clima, accordo dimezzato. Covid, il Corriere della Sera riparte dai fondamentali: Così i vaccini proteggono. Il Quotidiano Nazionale vede una: Corsa per garantire la terza dose. Il Mattino prevede una forma parziale di obbligo sul richiamo: Terza dose, il governo spinge. Obbligo per i sanitari e le Rsa. Stessa idea per il Messaggero: Terza dose, obbligo per i medici. La Verità continua nella sua campagna: Taroccano i dati sui contagi dei bimbi. Libero pure sull’altro versante. Dopo Feltri anche Sallusti è per il vaccino obbligatorio: Meglio l’obbligo del lockdown. A proposito di campagne di stampa senza fine, oggi Il Fatto dipinge un Renzi disperato: vuole l’immunità. La Stampa sottolinea un’intervista al segretario del Pd che però non contiene novità: Letta: patto sulla manovra poi scelta condivisa sul Colle. Due titoli di economia, ottimista quello del Sole 24 Ore: La grande corsa di Piazza Affari. Pessimista quello del Giornale: Strage di partite Iva.
COP26, ACCORDO CON DEROGA SUL CARBONE
Conclusa la Conferenza internazionale sul clima di Glasgow, la Cop26. L’accordo tra tutti i 197 Paesi accetta una deroga sul carbone per convincere l'India. Mediazione di Kerry e del nostro Cingolani con la Cina. La commozione finale del presidente della Conferenza Sharma che dice: «Scusateci». La cronaca di Sara Gandolfi per il Corriere.
«Alla fine Cop26 si è conclusa come una riunione di condominio, che dopo ore di recriminazioni ha chiuso l'assemblea all'unanimità. Tutti i 197 Paesi dovevano adottare il Patto climatico di Glasgow. Quelli dei superattici - Stati Uniti e Unione Europea - sono chiamati a pagare una quota più alta, però gli sguardi sono rivolti a loro quando si tratta di decidere, perché hanno più millesimi di tutti. E poi c'è il nuovo inquilino - la Cina - che sarà pure un parvenu ma la sua economia ora pesa e vuole essere protagonista. Alla fine, esce allo scoperto l'indiano - che pretende «la giusta quota di carbon budget» - e fa inserire un emendamento sul carbone dell'ultimo minuto che delude la stragrande maggioranza dei presenti, costretti ad ingoiare il rospo pur di chiudere. Così si è annacquato ancor di più il rivoluzionario paragrafo sul carbone, principale fonte di emissioni di gas serra, e i sussidi ai combustibili fossili: non si parla più di graduale «eliminazione», bensì di «riduzione». Cop26 si chiude con una mezza vittoria dei Paesi emergenti - India, Cina, Sudafrica, Nigeria - ma anche dei grandi produttori di combustili fossili, come Australia e Arabia Saudita. Nessuno se l'è sentita di mettere in discussione apertamente il punto chiave - non superare 1,5° di riscaldamento globale a fine secolo - ma sarà dura raggiungere l'obiettivo con queste premesse. Il risultato migliore del vertice è il segnale di accelerazione che costringe nel 2022 i Paesi a tornare al tavolo con piani più ambiziosi di tagli alle emissioni a medio termine e l'impegno a fare e dare di più, in termini di fondi e know how, ai Paesi vulnerabili. «Non si poteva fare di più», dice il presidente di Cop26 Alok Sharma, che si scusa più volte, con il groppo in gola e quasi in lacrime, esausto dopo tredici giorni di negoziati. Compreso ieri, trascorso quasi sempre in piedi, in frenetiche trattative bilaterali. Non s' era mai visto un «mercato» simile alle precedenti Cop, di distanziamento manco a parlarne. E meno male che c'era John Kerry. È stato lui il vero architetto dell'accordo finale, affiancato dal vice-presidente dell'Ue e dal ministro italiano della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Mentre nella sala plenaria dell'Exposition center gli altri delegati si radunavano in capannelli per scambiarsi opinioni o segni di stanchezza, Kerry sapeva a chi puntare: l'imperscrutabile capo della delegazione cinese. Hanno discusso per quasi un'ora, in piedi, scuotendo di tanto in tanto il capo. L'americano abbracciava tutti, il cinese rimaneva immobile. Il risultato? Aprendo la prima plenaria (informale), la Cina ha concesso: «L'attuale bozza non è perfetta ma la mia squadra non ha intenzione di riaprirla». Restava da convincere Bhupender Yadav, ministro dell'Ambiente dell'India, che per inciso ha in progetto di aprire 55 nuove miniere di carbone e di ampliare 193 già esistenti negli stati centrali del Paese, in maggioranza su un territorio che storicamente appartiene alle comunità indigene. Quindi è arrivato quell'emendamento, letto in extremis durante la Plenaria finale, con «grande disappunto» di molti Pesi minori - dalla Svizzera ad Antigua - che si sono lamentati per la «scarsa trasparenza» delle trattative. Ma alla fine hanno dato il via libera. Uno ad uno hanno detto «sì» tutti, compresi i piccoli Paesi insulari e il gruppo delle 77 nazioni più povere, guidate dal ministro della Guinea, che hanno ottenuto la promessa di un raddoppio della finanza per l'adattamento agli impatti del cambiamento climatico da qui al 2025. «C'è ancora molto da fare sul tema delle perdite e i danni e nei prossimi anni cercheremo soluzioni» ha detto la rappresentante delle isole Marshall, Tina Stege. «Ma non posso tornare anche questa volta a casa dai miei figli e dir loro che non siamo riusciti a combinare nulla». I riferimenti a figli e nipoti sono continui. È un tema su cui l'europeo Timmermans ama tornare spesso e lo ha fatto anche ieri sera: «Voglio che tutti voi qui pensiate solo per un minuto a una persona nella vostra vita che sarà ancora in circolazione nel 2030, a come vivrà se non ci atteniamo agli 1,5° oggi Non ci perdoneranno se li deludiamo oggi». Esausto, con la voce rotta, Sharma chiude senza allegria: «Abbiamo mantenuto 1.5° a portata di mano, ma l'impulso è debole».
Greta è delusa. Furiosa Greenpeace, più ottimista il Wwf. Le reazioni all’accordo sono raccontate da Giacomo Talignani su Repubblica.
«Non ci arrenderemo mai, mai». Per chi ancora non l'avesse capito, Greta Thunberg lo ribadisce ancora: il risultato della Cop26 è soltanto l'ennesimo «Bla, bla, bla» e i giovani che lottano per il loro futuro e quello del Pianeta continueranno a combattere e a farsi sentire contro chi dovrebbe tentare di frenare il declino della Terra, ma continua a rimandare questa opportunità. Ragazze e ragazzi dell'onda verde volevano un taglio drastico e senza precedenti all'uso dei combustibili fossili che non c'è stato. Senza quel decisivo impegno, l'accordo raggiunto alla Cop26 per loro resta dunque solo "parole". Pochi istanti dopo la decisione dell'intesa, la giovane svedese è chiarissima sui social: «Cop è finita, ecco un breve riassunto: bla, bla, bla. Ma il vero lavoro continua fuori da queste sale. E non ci arrenderemo mai, mai». Sono le stesse parole, quelle di Greta, che usa anche Vanessa Nakate, attivista ugandese oggi e portavoce di quell'Africa che ospiterà la prossima Cop in Egitto. «Non possiamo adattarci alla fame. Non possiamo adattarci all'estinzione. Non possiamo mangiare carbone. Non possiamo bere petrolio. Non ci arrenderemo». Entrambe, avvertono che tutti coloro che vedranno l'accordo come un «fare progressi» o «passi nella giusta direzione» o parleranno semplicemente di compromesso, staranno in realtà vedendo il bicchiere mezzo pieno rispetto a ciò che per loro è stato «un fallimento». «Compromesso», lo definisce anche il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, che appare per molte cose insoddisfatto: «Il risultato di Cop26 è un compromesso che riflette gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. È un passo importante, ma non basta. È ora di entrare in modalità di emergenza. La battaglia per il clima è la battaglia delle nostre vite e quella battaglia deve essere vinta». Provato, e con gli occhi lucidi, anche il presidente della Conferenza Alok Sharma che plaude agli sforzi fatti, ma chiede scusa per ciò che non si è riusciti ad ottenere. Il delegato di Antigua e Barbuda, parlando a nome di molti Paesi in via di sviluppo, ha chiesto che venisse messa a verbale la loro "delusione" per i troppi palliativi sui fondi destinati al "Loss and Damage" (perdite e danni). In generale, dalla maggior parte delle associazioni ambientaliste sino ai rappresentanti dei Paesi più poveri, delusi per il mancato impegno contro le fossili, sostengono che ancora una volta il vincitore della Cop sia stato il carbone. Proprio la salvaguardia del carbone e la mossa all'ultimo minuto dell'India hanno fatto arrabbiare i rappresentanti di decine di Paesi, dalla Svizzera al Messico sino alle Fiji. Alcuni, come le Isole Marshall, fra i più a rischio per l'innalzamento dei livelli del mare, parlano di «accordo imperfetto», ma riconoscono che intese sui finanziamenti possono essere «un'ancora di salvezza». Greenpeace parla di «delusione», mentre il Wwf internazionale è più morbido e plaude ai «progressi fatti» nell'intesa, ma ammonisce sul discorso decarbonizzazione. Rabbiosi Fridays for Future e il gruppo Extinction Rebellion, con quest' ultimo che aveva già anticipatamente celebrato il funerale della Cop tacciata di non aver risolto nulla. Un «nulla» che Martina Comparelli, attivista di Fridays for future, come molti altri ragazzi italiani sintetizza ribattezzandola "Flop26"».
NASCE LA PIATTAFORMA LAUDATO SI’
In concomitanza con la fine della Cop26 e in occasione della quinta Giornata mondiale per i poveri è stata lanciata la Piattaforma Laudato si’: tema la cura del Creato per essere accanto agli ultimi. L’ha presentata il salesiano indiano padre Kureethadam, coordinatore del settore ecologia del Dicastero vaticano per lo sviluppo. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Inizia il viaggio. Il percorso verso un presente nuovo e un futuro possibile, Quell'ecologia integrale che significa fraternità con le creature umane e il Creato intero. A indicare l'orizzonte - il cambiamento del cuore, la metanoia evangelica -, la bussola della Laudato si'. Con la sua intuizione profetica: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un'altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura». La Piattaforma di iniziative Laudato si', dunque, non poteva scegliere data più azzeccata per l'esordio: la Giornata mondiale dei poveri che si celebra oggi in tutta la Chiesa e che è giunta alla sua quinta edizione per volontà di Bergoglio che l'aveva istituita a conclusione del Giubileo della misericordia. Stavolta l'appuntamento ha per tema le parole pronunciate, come scrive Marco, da Gesù a Betania: "I poveri li avrete sempre con voi". E che papa Francesco ha voluto introdurre con una visita privata ad Assisi, la città del Poverello, capace di "riparare" le vite in frantumi degli ultimi quanto la casa comune, ferita dalla brama di possesso. Oggi il progetto annunciato dal dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale della Santa Sede lo scorso 24 maggio, sesto anniversario dell'enciclica e conclusione dell'Anno speciale dedicato ad essa, diventa ufficialmente realtà con l'apertura delle iscrizioni che andranno avanti fino al 22 aprile, un altro momento simbolico: la Giornata della terra. «Lavoriamo alla Piattaforma dal 2018 insieme a tanti partner, dal Movimento Laudato si' a Caritas Internationalis a Cidse, a Ecojesuit, le reti di giovani dei salesiani, la Chiesa filippina e tantissimi altri. Pensavamo di lanciarla il 4 ottobre ma alla fine abbiamo dovuto posticipare per mettere a punto gli ultimi dettagli. Un partner latinoamericano ha suggerito la Giornata dei poveri che, oltretutto, stavolta, coincide con la conclusione del summit Onu sul cambiamento climatico. Ci è sembrato un segno. Il Vangelo ci ricorda che il cambiamento non verrà dai grandi, dai potenti bensì dai piccoli, dagli ultimi, dagli scartati - spiega padre Joshtrom Isaac Kureethadam, coordinatore del settore Ecologia e Creato del dicastero vaticano -. Tra il 4 ottobre e il 14 novembre, poi, ci sono esattamente quaranta giorni. Un tempo di preparazione, nella preghiera, dal forte significato biblico». Il riferimento alla Scrittura accompagna, in realtà, la stessa strutturazione della Piattaforma. Tutto ruota intorno al numero sette. Sette sono i settori invitati a intraprendere un percorso di conversione ecologica: famiglie e individui, parrocchie e diocesi, istituzioni educative, ospedali e centri sanitari, imprese e lavoratori di ogni ambito, organizzazioni e gruppi, ordini religiosi. Sette sono anche gli obiettivi da raggiungere: risposta al grido della terra, risposta al grido dei poveri, economia ecologica; adozione di stili di vita sostenibili, istruzione ecologica, spiritualità ecologica, coinvolgimento della comunità e azione partecipativa. Sette sono, infine, gli anni di durata. «Ogni percorso autentico richiede tempo. Abbiamo concepito un intervallo ampio, a sua volta suddiviso in tre momenti. Un primo anno per informarsi e pianificare, i successivi cinque di azione, comprendendo in pratica come incarnare la Laudato si' nel proprio quotidiano. Uno, infine, conclusivo», racconta padre Josh. Il percorso è alla portata di tutti: una volta registrati sulla pagina (https://piattaformadiiniziativelaudatosi. org/ o attraverso il sito www.laudatosi.va), disponibile in nove lingue, i partecipanti verranno sostenuti con strumenti appositi per maturare nella pratica dell'ecologia integrale. Non si tratta di stravolgere la propria esistenza, ma di camminare, passo dopo passo, insieme, in un'ottica sinodale. Man mano che si avanzerà nel percorso, i "veterani" aiuteranno gli altri che si aggiungeranno nei prossimi 5-7 anni. «La trasformazione del mondo e delle nostre società comincerà dal basso e sarà guidata dagli uomini e dalle donne comuni», sottolinea il religioso salesiano indiano. Mentre le discussioni dei leader internazionali sembrano protrarsi all'infinito in uno sfibrante "gioco al rinvio", lo Spirito lavora nei piccoli. «La Bibbia ce lo insegna. Pensiamo a Davide, a Daniele. Al grido della terra e dei poveri, in questo tempo, si aggiunge e acquista sempre maggior forza quello dei bambini, degli ado-lescenti, dei giovani che ci chiedono di cambiare rotta per difendere il loro futuro. Non chiudiamo le nostre orecchie e il nostro cuore. La chiave è unirci, agire insieme. Tanti, da ogni parte del mondo, lo stanno già facendo. La Piattaforma ha già oltre 4.200 partecipanti, dai cinque continenti. Incluse 240 scuole scozzesi, luogo della Cop26 e una settantina di università, dalla Cattolica alla Georgetown. E speriamo di crescere ancora. Insieme».
COVID, TERZA DOSE NECESSARIA DOPO 6 MESI
Veniamo alla pandemia. È possibile una nuova stretta sul Green pass. Gli esperti dell’Iss forniscono i numeri e spiegano che il vaccino perde efficacia dopo 6 mesi. Il punto di Sarzanini e Ravizza sul Corriere.
«La stretta sul green pass potrebbe essere decisa la prima settimana di dicembre, fino ad allora «bisogna spingere sulla campagna per la terza dose e per chi ancora non ha deciso di immunizzarsi». I dati che l'Iss diffonde in mattinata, rendendo noti per la prima volta i numeri relativi all'efficacia dei vaccini, convincono il governo della necessità di attendere almeno altre due settimane prima di modificare le norme per il rilascio della certificazione verde. Se la risposta dei cittadini non sarà adeguata, bisognerà riflettere sulla possibilità di ridurre la validità del green pass. L'analisi degli scienziati parte infatti da una considerazione precisa: «Dopo 6 mesi dal completamento del ciclo vaccinale si osserva una forte diminuzione dell'efficacia vaccinale nel prevenire le diagnosi in corrispondenza di tutte le fasce di età». (…) Il messaggio dell'Istituto superiore di sanità è che «la terza dose va fatta, soprattutto per le categorie per cui è raccomandata ora, perché il waning (il calo d’efficacia ndr) già si vede, pur restando protetto chi è vaccinato in maniera determinante rispetto a chi non si è immunizzato». Martedì la Camera deve convertire in legge l'ultimo decreto sul green pass e il governo potrebbe decidere di farlo passare con il voto di fiducia. Un modo per evitare strappi nella maggioranza in vista di una revisione che potrebbe essere avviata a fine mese. Due sono i punti da esaminare riguardo alla certificazione verde: la durata di 12 mesi dall'ultima somministrazione e il rilascio a chi non è vaccinato e si sottopone al test antigenico. Bisogna infatti verificare se un anno non sia un tempo troppo lungo e valutare se ridurne la validità a sei mesi come chiedono gli scienziati o almeno a 9 mesi. E soprattutto se - di fronte a una nuova impennata di contagi giornalieri - i tamponi rapidi siano effettivamente attendibili o se l'alta percentuale di «falsi negativi» non rischi una diffusione incontrollata del virus. La scelta sarà fatta dopo aver consultato il Cts, ma soltanto dopo aver misurato l'andamento della campagna vaccinale in vista del via libera alla terza dose per chi ha più di 40 anni che scatta il primo dicembre».
Alessandro Sallusti su Libero torna con forza sull’obbligo vaccinale.
«Andiamo con ordine. L'articolo uno della Costituzione recita che "la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Poi c'è l'articolo tre che riconosce parità di dignità e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, religione e opinione politica. Infine, la faccio breve, ce ne sono altri - dal 13 al 28 - che garantiscono le libertà fondamentali le quali si specifica - possono essere modificate o limitate "per motivi di sanità e sicurezza". Questa premessa per dire che se un governo o un parlamento insediato "dal popolo sovrano" dovesse obbligare gli italiani "senza alcuna distinzione" a vaccinarsi per "motivi di sanità e sicurezza" la Costituzione sarebbe pienamente rispettata e con essa la democrazia. Chi sostiene che se questo dovesse avvenire ci troveremmo in una dittatura o è ingnorante o è in malafede. Anche perché una simile legge mai potrebbe prevedere trattamenti sanitari obbligatori- infermieri muniti di siringa a girare casa per casa scortati dalla polizia - bensì lascerebbe liberi i cittadini di decidere se vaccinarsi o rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Giustamente ieri su questa colonna Vittorio Feltri per sollecitare il governo ad uscire da una ambiguità che sta diventando pericolosa ha ricordato che in realtà da anni l'obbligo vaccinale è in vigore per molte malattie, si tratterebbe semplicemente di aggiungerne una alla legge già esistente. Dove starebbe il dramma, dove l'incostituzionalità? Il certificato vaccinale è come la patente, senza la quale non puoi guidare; come la carta di identità senza la quale, pur essendo uomo libero, non puoi espatriare né andare a dormire in un albergo. Se vogliamo, una volta per tutte e quindi per sempre, evitare il rischio di nuove chiusure forzate non c'è altra strada che imporre il vaccino per legge, pensare che chi ancora - nonostante l'evidenza dei risultati- non si è vaccinato lo faccia spontaneamente è pura illusione. Anche perché i tamponi non possono sostituire l'alto tasso di sicurezza personale e collettiva che garantisce il vaccino, al massimo la possono confermare in casi particolari. Come sempre siamo aperti al confronto ma le cose stanno così».
NO GREEN PASS, I DIVIETI FUNZIONANO
Nonostante le forzature dei manifestanti, che riescono comunque ad arrivare in piazza Duomo a Milano, i nuovi limiti imposti dal Viminale alle proteste No Green pass hanno funzionato. Interrotta nei centri città la sequenza di sabati paralizzati dai cortei. Anche per la scarsa adesione delle proteste. La cronaca del Corriere.
«Piazza Duomo doveva essere off limits. Ma il grido «no green pass» s’è alzato anche ai piedi della cattedrale di Milano. Il corteo non c'è stato, però. E questo è stato salutato con un sospiro di sollievo dal resto della città, e in particolare dal mondo del commercio ormai terrorizzato dal caos settimanale che si ripeteva ininterrotto da sedici sabati consecutivi. Il movimento di protesta contro il passaporto verde ai tempi della nuova direttiva del Viminale sceglie di sfidare i divieti aggirandoli con la tattica della «mimetizzazione». A piccoli gruppi, senza striscioni, hanno cercato di intrufolarsi in un centro mai così blindato mescolandosi a passanti e turisti. Alla fine saranno un migliaio, decisamente meno rispetto al recente passato. Con piazza Fontana (tradizionale punto di ritrovo) completamente sigillata, ai no green pass non resta che puntare sulla vicina piazza Duomo. Ma anche lì ci sono i blindati di polizia e carabinieri. La strategia d'infiltrarsi alla spicciolata finisce però di volta in volta nelle maglie degli agenti in tenuta anti sommossa. Il piano del prefetto Renato Saccone e del questore Giuseppe Petronzi riesce nell'obiettivo di disgregare i manifestanti in piccolissimi gruppi, isolati tra loro dai cordoni, senza incidenti né cariche. La protesta non raggiunge mai numeri sufficienti a imporre la sua disordinata sfilata numero diciassette per le vie di Milano. La sequenza di «sabati neri» è interrotta. Soddisfatta la questura: sono state rispettate le direttive da Roma minimizzando i disagi per la città e per le attività economiche. Il bilancio finale è di due arrestati, altrettanti denunciati, una trentina di identificati e un funzionario della Digos con una frattura a una mano riportata durante uno dei fermi. Sono numeri diversi quelli visti invece qualche ora prima al presidio autorizzato all'Arco della Pace, dove in oltre quattromila si sono accalcati (rigorosamente senza mascherine) per assistere al comizio del rampollo della casata Kennedy. Presenti sul palco anche Gian Marco Capitani, leader del movimento «Primum non nocere» che aveva insultato la senatrice Liliana Segre, e l'ex dirigente Rai Carlo Freccero. Robert Jr - terzogenito di Bob e nipote di JFK, avvocato, presidente della sua associazione Children's Health Defense - è l'idolo del variegato mondo no vax-no green pass. Viene accolto come una rockstar, tra raffiche di flash, ovazioni, strette di mano, corsa al selfie e sventolate di bandiere a stelle e strisce. «È comunque un Kennedy, che emozione», si lasciano sfuggire alcune signore dopo averlo avvicinato. Ma il suo invito a «resistere» e a propagandare il verbo di libertà per sventare i piani di «controllo totalitario» attraverso la paura della pandemia si ferma ai piedi del palco. Solo in poco più di un centinaio, infatti, faranno poi rotta verso il centro. «Noi siamo il popolo delle piazze d'Italia» è stato lo slogan scelto dai manifestanti di Roma al Circo Massimo: 400 contro i 1.500 previsti. Sul palco anche una «bambina simbolo» mentre i presenti gridavano «giù le mani dai bambini». Esponenti di Forza Nuova hanno esposto lo striscione: «Libertà per i nostri fratelli». A Gorizia erano attesi in mille ma solo 250 sono scesi in piazza. «Un flop» per il sindaco Rodolfo Ziberna: «La città ha risposto no all'invito a manifestare». Corteo c'è stato invece a Torino. Prima un presidio in piazza Castello poi in tremila (presente anche uno spezzone di no Tav) hanno sfilato per le strade della città. Corteo in centro anche a Genova con 500 militanti sotto la Regione. Trecento le persone che a Napoli si sono mosse in corteo verso piazza Dante ma restando lontane dalla «zona rossa». Un migliaio i manifestanti a Trento, mentre a Novara, infine, è tornata a parlare Giusy Pace, l'infermiera finita nella bufera per i manifestanti travestiti da deportati nei lager».
QUIRINALE 1. LETTA ANCORA IN ATTESA
Non è del tutto assorbito lo choc della decisa presa di posizione di Mattarella, che non accetta il bis al Quirinale. Il Pd non parla della vicenda. Lo conferma l’intervista di Annalisa Cuzzocrea per La Stampa ad Enrico Letta.
«Le mobilitazioni dei no Green Pass sono un catalizzatore di rabbia, paura, scontento. I sindacati saranno a Palazzo Chigi martedì per parlare di pensioni, ma sono arrivati a minacciare lo sciopero generale. Non teme che queste tensioni possano deflagrare e che il governo non ne stia tenendo abbastanza conto? «La mia principale paura riguarda i dati della pandemia, che in alcuni Paesi europei stanno ridiventando preoccupanti. Quando vedo i numeri della Germania, dell'Austria che è ai nostri confini, temo che con il clima che ha descritto una quarta ondata troverebbe una fatica sociale difficilmente contenibile, semmai si dovesse affrontare in maniera dura». Come si evita uno scenario simile? «Bisogna evitare che arrivi con l'accelerazione delle terze dosi. E bisogna essere netti e irreprensibili sui Green Pass. La decisione di vietare i cortei no Vax nei centri storici è giustissima». Cosa pensa della vaccinazione dei bambini sotto i 12 anni? «Non mi crea nessun problema. Penso invece sia preoccupante che in nome del folclore si dia spazio alle posizioni antiscientifiche di qualcuno perché si chiama Kennedy. Non possiamo permetterci che le trasmissioni tv pensino a fare audience invitando personaggi come questi». La Lega intende presentare un emendamento per spostare finanziamenti dal reddito di cittadinanza alla flat tax. Il gioco delle bandiere porta instabilità. Come si arriva così fino al 2023? «Anch' io vedo uno sfilacciamento in corso che temo moltissimo, perché in questo momento c'è bisogno dell'opposto. Un'assunzione di responsabilità delle forze politiche a sostegno di Draghi. Un patto tra i partiti che sostengono questo governo. Propongo un incontro di tutti i leader della maggioranza con il premier perché questo accordo sia formalizzato: blindiamo la manovra e gli aggiustamenti necessari che concorderemo insieme in Parlamento. Ognuno rinunci alla sua bandiera per un risultato condiviso da tutti». Teme che nel gioco al rialzo tutto possa crollare? «Immaginare che sulla prima manovra di questo governo ci possa essere un Vietnam parlamentare non è accettabile». Un patto che serve anche in chiave Quirinale? «Quello è il secondo tempo. Se non si spostano a dopo l'approvazione della manovra le giuste e legittime discussioni che dobbiamo fare sulla migliore soluzione per il Colle ne andrà di mezzo la legge di bilancio e saliranno le tensioni nel Paese. Le strategie sul prossimo presidente non possono interferire su decisioni che milioni di cittadini attendono, come quelle sulle pensioni. Altrimenti finiremo per alimentare l'idea che la politica è diventata l'ostacolo. E poi alle elezioni dovremo andarci noi».
QUIRINALE 2. NEL MIRINO I PARLAMENTARI DI RENZI
Sarebbero in «dieci pronti a mollare». C’è grande pressione su deputati e senatori di Italia Viva. L'obiettivo è disarmare i renziani per la partita del Colle. Il retroscena di Paolo Bracalini per il Giornale.
«Come leader di un partito dato al 2% Matteo Renzi gode di attenzioni mediatiche eccezionali rispetto al suo attuale peso politico. «Siete ossessionati da me» ha detto l'altra sera a Travaglio, Gruber e Giannini su La7. Soprattutto il Fatto, che da oltre una settimana apre con le intercettazioni dell'inchiesta sulla Fondazione Open. Per quanto però nei sondaggi Italia Viva sia al momento un partitino, in Parlamento può contare su numeri (nati dalla scissione del Pd) che un peso ce l'hanno. E lo avranno soprattutto nel pallottoliere per la partita del Quirinale, dove dalla quarta votazione in poi non serve più il voto dei due terzi del Parlamento ma basta la maggioranza assoluta. In quel frangente, se ci si arriverà, i 43 parlamentari di Iv potranno diventare decisivi. Con il rischio, per l'ex mondo antiberlusconiano ora antirenziano, che quei voti possano andare proprio al Cavaliere, uno dei nomi per il totoColle. I renziani non hanno dubbi che l'obiettivo politico, oltre a distruggere Renzi colpevole di «Conticidio», sia quello di spaccare il gruppo parlamentare. Non a caso ieri sempre sul Fatto un articolo montava il caso dei «peones» di Iv stanchi del loro leader che «fa solo i suoi interessi» e decisi ad essere «liberi sul Colle», mentre Repubblica parlava di «10 pronti a lasciare Renzi». Dentro Italia Viva gira voce che siano veline fatte girare dal Pd. «Ricorderete durante la crisi del governo Conte 2, Italia Viva era in disfacimento. 10, 20, 30 parlamentari che avrebbero lasciato. Una slavina. Siamo tutti esattamente dove ci avete lasciati, al nostro posto. Adesso la storia si ripete. Non è più in gioco Conte, per fortuna sostituito da Draghi, ma il Quirinale, l'elezione del Presidente della Repubblica. E siccome saremo un'altra volta decisivi riprende la giostra, ormai siamo abituati, altro giro altra corsa. Prima la caccia all'uomo, denigrazione e delegittimazione di Matteo, ora la conta dei fuggiaschi. Ma non vi stancate mai?», scrive in un post sul suo blog Davide Faraone, capo dei senatori di Iv. Il succo lo riassume più prosaicamente un deputato: «Se non ha funzionato allora, quando Conte prometteva veramente di tutto, dai ministeri alle ricandidature, non funzionerà certo adesso che non c'è niente da promettere». Non posti di governo, ma neppure posti in lista alle prossime elezioni, drasticamente ridotti con il taglio dei parlamentari. Il martellamento sulla vicenda Open, sfociato nel ring televisivo a Otto e mezzo, non sembra aver sfaldato il gruppo, anzi il contrario. «L'altra sera mentre lui era in quella trasmissione da ultras, la nostra chat interna era un delirio di complimenti a Matteo. Se li è ripresi tutti. A forza di attaccare lui, e quindi di riflesso anche noi, hanno avuto l'effetto opposto a quello voluto, hanno ricompattato il gruppo» racconta un deputato renziano. Che conferma: «Ai parlamentari delle mail di Rondolino non interessa niente, semmai quello che interessa sono le prospettive che si possono avere restando in Italia Viva. Renzi non promette niente, dice sempre chi vuole resta chi vuole se ne va. Lo zoccolo duro di Iv non ha ceduto alle promesse di Conte, per convincerli ora dovresti fargli veramente i ponti d'oro e nessuno è in grado di farli». In tv dalla Gruber c'era stato uno scontro tra Renzi e il direttore della Stampa Massimo Giannini. «Hai dato dei soldi a Carrai (amico di Renzi, ndr) per il risarcimento danni di una causa». «Si sbaglia di grosso. Non ho pagato un solo centesimo a Carrai. Non diciamo falsità». Subito dopo l'ex premier ha pubblicato sui social una lettera di Giannini a Carrai con allegato un assegno da 3mila euro. Controreplica di Giannini: «É una vergognosa manipolazione dei fatti. Non ho perso nessuna causa con Carrai, quell'assegno, che non porta la mia firma e di cui non conoscevo l'esistenza, è un semplice concorso alle spese legali, che le parti condividono quando una causa viene ritirata».
MATTARELLA PREMIA L’ITALIA DEGLI ALTRI
Il Presidente Sergio Mattarella ha conferito le onorificenze al Merito della Repubblica per meriti civili e sociali. Emergono tante storie diverse, in ogni parte d'Italia. Impegno nel volontariato e gesti di coraggio per salvare vite, invenzioni benefiche e buone azioni, tutte nel segno della solidarietà e del bene comune. Angelo Picariello per Avvenire.
«Promotori di valori costituzionali ed eroi del quotidiano. Anche quest' anno, verosimilmente per l'ultima volta, Sergio Mattarella ha conferito motu proprio 33 onorificenze a cittadine e cittadini che hanno reso un po' migliore una realtà gravata dalla pandemia. La cerimonia di consegna si terrà al Quirinale il 29 novembre. Tante storie diverse. Stefano Caccavari si è inventato un ingegnoso progetto che ha salvato l'ultimo mulino a pietra in Calabria. Enrico Capo è un 92enne impegnato con i minori a rischio. Raffaele Capperi, vittima di una grave malattia invalidante, lotta contro emarginazione e bullismo, mali che ha conosciuto sulla sua pelle. Marina Cianfarini è una giovane 'volontaria-fatina' che scrive favole per i piccoli lungodegenti . Giancarlo Dell'Amico, 91 anni, rinunciò alla sua dose di vaccino dando priorità a una madre che ne aveva bisogno più impellente. Daniela Di Fiore insegna al reparto di oncologia del Gemelli. Maria Teresa D'Oronzio e Michele Lupo sono una coppia impegnata con i malati oncoematologici in Basilicata, dopo aver perso il figlio Gian Franco a 11 anni per una leucemia linfoblastica acuta. Michele Farina è invece un giornalista impegnato in favore dei dei malati di Alzheimer. Non solo italiani. Mamadou Fall è un senegalese-eroe contro la violenza sulle donne. Mohamed Ali Hassan, 39 anni, è un somalo padre di sei figli che ha restituito un'ingente somma ritrovata, che sicuramente gli avrebbe fatto comodo. Giuseppe Lavalle, 78 anni, ('zio Peppe') cucina per i ragazzi del carcere minorile di Nisida, dove Mattarella si era recato in visita lo scorso settembre. Anche ex atleti. Walter Rista, ex nazionale di rugby, è impegnato a tempo pieno nel recupero dei detenuti. Astutillo Malgioglio è l'ex portiere dal cuore buono. Poi Mauro Mascetti e Giovanni Lo Dato hanno messo in salvo dei ragazzi minacciati da un incendio. Mentre Matteo Mazzarotto e Ivana Perri sono impegnati nel sostegno al 'dopo di noi' dei disabili. Gaspare Morgante e Laura Terdossi sono librai solidali a Trieste. Andrea Mucci è uno studente disabile impegnato a Firenze nell'abbattimento delle barriere architettoniche. Maria Teresa Nardello, pensionata di Schio, opera in Sierra Leone, nell'istruzione dei bambini. Valeria e Federica Pace sono due gemelle che hanno fatto della malattia rara di cui sono affette un'occasione di impegno, in Sicilia. Mentre Martina Pigliapoco è una 26enne carabiniera che, dopo un lungo colloquio, riuscì a dissuadere una donna, nel Bellunese, che voleva togliersi la vita. Gabriele Salvadori è invece un vigile del fuoco che trasse in salvo una ciclista caduta in un dirupo durante una gara. Giandonato Salvia è un economista dell'Economy of Francesco che si è inventato una 'app' per aiutare le persone sole. Maria Vittoria Sebastiani insegna l'italiano agli immigrati della Garbatella. Carmelo Sella, muratore in pensione, lavora per i bambini in Senegal. Mariangela Tarì è invece un'insegnante di sostegno, madre di una bimba disabile e di un bambino colpito da un tumore al cervello, eppure promotrice di speranza attraverso l'opera dei caregiver. Stefano Tavilla è padre di una ragazza morta di bulimia, impegnato nella lotta dei disturbi del comportamento alimentare. Annamaria Valzasina è una maestra che, malata di cancro, nascose la sua condizione ai suoi allievi per non arrecare loro turbamento. Cristina Zambonini, infine, ha subito due trapianti di cuore e ora è impegnata nella cultura della donazione di organi».
Il commento di Davide Rondoni per il Quotidiano Nazionale.
«Il Presidente ha nominato 33 «Eroi della Repubblica», pescando tra tanti esempi. Gente di ogni età, impegnata in tanti campi, eroi per un atto (un salvataggio, la restituzione di un patrimonio o cose simili) o persone da tutta la vita dedicata a iniziative per gli altri. Può sembrare un paradosso. Mai come in questa epoca c'è un largo uso della parola "eroi". Eppure uno degli intellettuali più ascoltati del Novecento (perché comunista oltre che un bravo scrittore) magnificava le sorti del popolo che non ha «bisogno di eroi». Bisogno? Qui sembra che ne abbiamo stra-bisogno. Con buona pace di chi, con Brecht, ritiene che la protagonista della Storia sia la Storia stessa e il suo spirito incarnato dal popolo, o meglio da una classe del popolo di tutti bravi cittadini. Mentre la storia collettiva, la res-publica, è creata e ricreata dalla scelta libera di individui, dal protagonismo di persone, che appartengono a un popolo ma se ne distinguono e perciò stesso lo rafforzano, offrendo un esempio. La parola eroe può essere abusata e banalizzata, affogata nella retorica, ma resta necessaria. E così appena la pandemia è entrata nella narrazione appassionata e spesso spettacolarizzata dei media, subito si sono identificati degli eroi nei medici e paramedici che hanno affrontato il morbo rimettendoci la vita. Poi è venuta la stagione degli "eroi" sportivi, vincitori estivi del pallone e di olimpiadi. Ora abbiamo anche gli Eroi della Repubblica, che sono eroi della porta accanto. E a ben guardare la parola eroe ritorna quasi ossessiva nella topografia del nostro Paese: eroi della prima guerra mondiale, poi della Seconda, della Resistenza. Senza contare gli eroi della lotta alla mafia, 'ndragheta, camorra. Un largo uso che, come si vede in certi monumenti e cippi nelle piazze e in certe strade, non salva dalla inevitabile usura del tempo, che insieme alla distrazione degli uomini esercita la sua forza di oblio. Anche per questo abbiamo bisogno di usare questa parola. Da dove nasce questo bisogno? Da una semplice attenzione alla nostra natura. E che riguarda, a ben vedere, lo stesso motivo per cui si indicano taluni addirittura come Santi. Dobbiamo infatti riconoscere che la nostra natura umana ha bisogno di punti di ripresa, di riscossa, ha bisogno di esempi per lottare contro la tendenza alla chiusura, alla pigrizia, all'egoismo. Non bastano i discorsi, non bastano le lezioni per riscuoterci. Non basta il fatto di essere tutti d'accordo sul fatto che «bisognerebbe che», non basta vedere o sapere la cosa giusta. «Occorre un uomo» scriveva il poeta Berocchi. Occorre un uomo, una persona, uno come te che però fa un certo passo, prende una certa iniziativa, compie un sacrificio. E se oggi abbiamo bisogno di eroi è perché siamo più sinceri con noi stessi e con la storia».
LA CRISI UMANITARIA NEL CUORE DELL’EUROPA
Ancora racconti strazianti della crisi umanitaria al confine tra Polonia e Bielorussia. Quanti sono i morti di freddo e di fame? L’ultimo aveva 20 anni. La cronaca di Avvenire.
«Ancora una tragedia della disperazione e una giovane vita spezzata sulla strada della salvezza, che c'è chi vorrebbe sbarrare con nuovi muri nel cuore dell'Europa. Un migrante siriano di circa 20 anni è stato trovato senza vita in una foresta in territorio polacco nei pressi del confine della Bielorussia. Il corpo è stato rinvenuto venerdì dalla polizia polacca su segnalazione di un lavoratore forestale nei pressi del villaggio Wolka Terechowska, secondo quanto riferisce il Guardian. Le cause del decesso non sono ancora state accertate. Si tratta della prima vittima nota dalla drammatica escalation nei tentativi di attraversamento verso l'Unione europea registrata negli ultimi giorni, con centinaia di persone principalmente curdi provenienti da Siria, Iraq e altri Paesi del Medio Oriente accampate con temperature gelide. Nelle settimane precedenti, secondo i media polacchi, almeno altri nove migranti erano stati trovati morti sui due lati della frontiera. L'Occidente ha accusato il regime di Alexander Lukashenko di aver orchestrato il flusso di migranti come rappresaglia contro le sanzioni Ue. I migranti hanno raccontato di essere stati spinti oltre il confine dalle forze bielorusse e ricacciati indietro da quelle polacche. Intanto, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che Lukashenko e la cancelliera uscente Angela Merkel «sono pronti a parlarsi l'uno con l'altra», auspicando che l'incontro «accada presto» e che sia così possibile «stabilire un contatto diretto» con l'Unione Europea e i suoi principali Paesi».
Romano Prodi sul Messaggero spiega bene come sulla crisi umanitaria al confine fra Bielorussia e Polonia pesino due questioni internazionali di prima grandezza: la politica della Ue nei confronti dei migranti (con l’ “assurda regola di Dublino”) e i rapporti con la Russia di Putin, che si intrecciano con le necessità energetiche del nostro Continente.
«Le drammatiche scene che i media ci presentano sugli emigranti che dalla Bielorussia cercano di passare in Polonia e Lituania sono, da un lato, crudelmente simili a quelle che vediamo da anni sulle nostre coste ma, dall'altro, si colorano di contenuti politici del tutto particolari. (…) L'Unione Europea non è in grado di trovare una soluzione, soprattutto per l'impossibilità di collaborare con gli Stati che spingono gli emigranti verso di noi, sia che si tratti della Libia che della Bielorussia. Solo la Germania ha avuto la possibilità e la forza politica di trovare nella Turchia una barriera che, fondata sul discutibile versamento di cospicue somme di denaro, ha arrestato la marea degli emigranti che si dirigevano verso i suoi confini. Sono a questo punto costretto a constatare che, nei lunghi anni nei quali l'Italia e gli altri Paesi mediterranei chiedevano l'adozione di una politica europea in grado di cancellare l'assurda regola di Dublino, per cui l'obbligo di accoglimento grava unicamente sul Paese in cui gli emigranti arrivano, erano proprio gli Stati del nord che insistevano per mantenerla. Proprio i Paesi che, a partire dalla Polonia, si trovano ora ad affrontare lo stesso problema e chiedono con insistenza l'aiuto all'Unione Europea. Pressati dall'emergenza, essi pretendono una solidarietà alla quale erano fino ad oggi contrari. Non sarebbe quindi ora di arrivare finalmente ad una politica comune partendo proprio dalla constatazione che il fenomeno dell'emigrazione è comune? Non sarebbe interesse dell'Italia riportare con estrema determinazione questo problema sui tavoli di Bruxelles? Penso che quanto sta avvenendo tra Polonia e Bielorussia aiuti una comune presa di coscienza su un problema da anni di importanza assolutamente dominante. Nel caso oggi in questione si aggiungono tuttavia aspetti politici particolari. Anzi molto particolari: gli emigranti sono diventati uno strumento del grande gioco energetico e delle crescenti tensioni fra Europa e Russia. E' risaputo infatti che, nella complessa ma necessaria transizione verso un nuovo equilibrio ambientale, il metano è chiamato a sostenere un ruolo insostituibile nel lungo e difficile processo di eliminazione dell'uso del carbone. E' altrettanto noto che il metano ci arriva principalmente dalla Russia. E' invece meno noto che siamo stati noi europei, forse pensando di liberarci da una troppo stretta dipendenza dalla Russia e ipotizzando di conseguenza un andamento decrescente dei prezzi del metano, a liberarci dei contratti di acquisto a lungo termine con Gazprom. Per tutta una serie di motivi, a partire dal crollo degli investimenti nell'estrazione del petrolio e del gas, i prezzi spot del metano sono invece più che decuplicati dalla metà dello scorso anno. Si è quindi ulteriormente accresciuto il potere di mercato della Russia che usa ovviamente l'arma del metano come strumento di pressione politica nei confronti di tutti i Paesi dipendenti dalle sue forniture. Non dimentichiamo inoltre come l'attuale crisi venga utilizzata dalla Russia in modo da ottenere le autorizzazioni da Bruxelles per l'esercizio del gasdotto Nordstream2, che raddoppia la portata del gigantesco gasdotto che già lega la Germania e la Russia. Un raddoppio che ha provocato tante divisioni anche all'interno dell'Unione Europea, proprio perché permette alla Germania di esercitare un ruolo dominante nel rapporto col potente vicino. Giustamente la Commissione Europea si è indignata con il leader bielorusso Lukashenko, ma le sanzioni minacciate o messe in atto nei suoi confronti servono a ben poco, mentre vi è il fondato rischio che Minsk dia seguito alla minaccia di bloccare le consistenti forniture di metano (20 miliardi di metri cubi) che transitano dalla Russia verso l'Europa, provocando ulteriori aumenti dei prezzi. Se questo accadesse, la situazione dell'Europa diverrebbe ancora più critica. Nonostante il doveroso e scontato consiglio del ministro degli Esteri russo, di risolvere il problema in un rapporto diretto fra Unione Europea e Bielorussia, sappiamo benissimo che la Bielorussia dipende dalla Russia in ogni campo, e non solo nel settore energetico. Si ritorna quindi all'eterno problema dei rapporti fra Europa e Russia, rapporti che sono andati progressivamente peggiorando nel tempo, mentre rimane estremamente elevata la nostra dipendenza energetica. Le alternative a questo stato di cose richiedono un lunghissimo periodo di tempo e si dovrebbero fondare su una comune politica energetica europea che, per essere messa in atto, richiederebbe forse un periodo di tempo ancora più lungo. Nel rapporto di ostilità fra Europa e Russia il manico del coltello è ora in mano russa, ma se il nostro potente vicino vuole avere una prospettiva di uno sviluppo equilibrato e coerente con la sua storia e le sue tradizioni, non può che costruire rapporti più cooperativi con l'Europa. A loro volta la Polonia e i Paesi baltici debbono comprendere che la loro sicurezza viene garantita soltanto dall'appartenenza a un'Unione Europea così forte e coesa da essere in grado di stabilire con la Russia rapporti di collaborazione paritari e quindi utili ad entrambi».
Maurizio Molinari direttore di Repubblica analizza proprio il ruolo della Russia, ma dal punto di vista occidentale. A differenza di Prodi, Molinari vede Putin come un avversario militare, che vuole creare scompiglio nei singoli Paesi per indebolire Nato e Ue e affermare gli interessi russi.
«Ammassando contingenti militari ai confini con l'Ucraina e consentendo a migliaia di migranti di premere sui confini bielorussi della Polonia il presidente russo Vladimir Putin si è ritagliato nell'arco di poche settimane il ruolo di regista di una doppia crisi in Europa dell'Est, che ha per evidente obiettivo generare instabilità nell'Unione europea e mettere sotto pressione la Nato. Le mosse del Cremlino contro Ucraina e Polonia sono maturate in rapida successione. Prima abbiamo assistito all'arrivo dei reparti militari russi ai confini con l'Ucraina: si tratta di almeno 90 mila uomini, con relativi mezzi blindati ed artiglieria, posizionati - secondo fonti di Kiev - sul lato opposto del confine oppure dentro i territori orientali occupati dal 2014 dai ribelli filorussi. Il 41° corpo d'armata russa ha creato la propria base a Yelnya, 260 km a Nord del confine ucraino, ripetendo la situazione tattica che nel 2014 degenerò nell'annessione della Crimea e nel conflitto del Donbass che ha finora causato oltre 14 mila vittime. Allora la Russia intervenne dopo la sconfitta nelle presidenziali ucraine del candidato che sosteneva come «affidabile», al doppio fine di impedire l'entrata di Kiev nelle alleanze occidentali e di controllare i porti della Crimea sul Mar Nero. Ora la minaccia di invasione punta a tenere sotto scacco il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ribadendo a Ue e Nato che Mosca è pronta a tutto pur di impedire che l'Ucraina coroni l'aspirazione di aderire alle alleanze occidentali. Il presidente americano Biden ha inviato a Mosca il capo della Cia, Bill Burns, e l'Assistente Segretario di Stato per l'Europa, Karen Donfried, recapitando al Cremlino un messaggio di allarme sull'escalation militare in Ucraina ma le truppe russe restano lì, schierate lungo i confini, paventando il rischio di un'invasione simile a quella che dal 2008 ha paralizzato l'altra Repubblica ex Urss che Mosca vuole ad ogni costo tenere legata a sé: la Georgia. Con la crisi ucraina in pieno svolgimento, Putin ne ha costruita un'altra parallela poche centinaia di km più a Nord, sostenendo il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko nella decisione di far arrivare migliaia di migranti da Asia e Medio Oriente fino alla frontiera polacca per creare un nuovo, esplosivo, fronte di attrito con l'Unione europea. Le forze di sicurezza polacche accusano la Bielorussa di aiutare i migranti a superare illegalmente la frontiera, arrivando a minacciare l'uso di armi contro i reparti polacchi, e la Lituania si schiera a sostegno di Varsavia ma Lukashenko rilancia minacciando di interrompere il flusso delle forniture di gas verso l'Unione europea, lasciando intendere che persegue un braccio di ferro di lungo termine. Se Bruxelles gli rimprovera una rielezione viziata dai brogli, la repressione degli oppositori e gravi violazioni dei diritti umani, lui ribatte giocando in maniera spregiudicata la pedina dei migranti. È un confronto aspro nel quale Putin ostenta il sostegno a Minsk: fa volare i propri bombardieri strategici nello spazio aereo bielorusso, chiede all'Europa di pagare Lukashenko per bloccare il flusso dei migranti ed imputa gli stessi profughi agli «errori compiuti dalle potenze occidentali» in Medio Oriente. L'intento del Cremlino sembra essere dunque quello di generare crisi parallele per stringere in una morsa l'Unione europea: da una parte il rischio di invasione militare in Ucraina contro un governo che vuole rapporti più stretti con Bruxelles, dall'altra il rischio di una invasione di profughi in Polonia per far esplodere le tensioni interne all'Ue proprio sul tema dei migranti. La delicata transizione dei poteri a Berlino nel dopo-Merkel, le incertezze a Parigi legate alle presidenziali di primavera e il possibile ritorno dell'instabilità in Italia in coincidenza con la scelta del nuovo Capo dello Stato in gennaio, offrono al Cremlino una finestra di opportunità per rilanciare l'offensiva ibrida contro l'Europa il cui unico obiettivo resta creare scompiglio nei singoli Paesi al fine di indebolire le alleanze Nato e Ue, creando le condizioni per affermare in maniera più efficace gli interessi russi. È interessante notare come tutto ciò coincida con l'imminente inaugurazione del Nord Stream 2, che aumenterà la dipendenza dell'Europa dalle importazioni di gas russo, e con l'ostilità di Mosca a raggiungere sulla protezione del clima accordi favorevoli ad accelerare la transizione ecologica verso le energie rinnovabili. Ovvero, anche sul fronte dell'ambiente le mosse del Cremlino dimostrano di avere come priorità l'interesse strategico russo di riuscire a tenere sotto scacco l'intero Vecchio Continente. Ma non è tutto perché nella tela europea del presidente Putin c'è anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan: non solo per la dipendenza di Ankara dal gas russo o per gli aerei di linea turchi usati dai migranti mediorientali per raggiungere la Bielorussia ma soprattutto per la convergenza di interessi in Libia nel riuscire a scongiurare le elezioni in programma il 24 dicembre per eleggere un governo capace di unire il Paese e porre fine alla guerra civile iniziata nel 2011. Se da Parigi, venerdì, l'Ue ha parlato all'unisono con il governo libico a favore delle elezioni ed anche del ritiro dei «mercenari stranieri», Mosca e Ankara sono de facto sul fronte opposto perché questi «mercenari» sono soprattutto loro, ipotecando con le rispettive basi in Cirenaica e Tripolitania la possibilità di una riunificazione nazionale. Resta da vedere come reagirà l'Ue di Macron, Scholz e Draghi alla sfida ibrida russa in pieno svolgimento ovvero se l'unità registrata sulla Libia li porterà ad avere una forte posizione comune anche su Bielorussia e Ucraina. La difesa comune europea può nascere anche da simili scelte».
I LIMITI DEL VERTICE MACRON-DRAGHI SULLA LIBIA
A proposito di interessi russi e turchi in Libia, il Manifesto pubblica un’interessante requisitoria di Alberto Negri sul vertice di Parigi fra Macron, Draghi e Merkel con il premier libico Dbeibah.
«Con dichiarazioni di apparente buon senso, a Parigi Macron e Draghi hanno invitato i libici ad andare a elezioni il 24 dicembre. Minacciano pure sanzioni a chi si oppone. Ma dov' erano Italia e Francia? Dov' erano quando nel novembre 2019 il generale Khalifa Haftar stava per conquistare Tripoli e venne poi fermato dall'intervento della Turchia su richiesta di Sarraj? Haftar stava prendendosi la Libia con la forza e il sangue e noi siamo stati zitti a guardare, altro che elezioni. L'Italia si rifiutò con Usa e Gran Bretagna di aiutare Sarraj, ovvero il governo riconosciuto dall'Onu, mentre la Francia, con Russia, Emirati ed Egitto, sosteneva Haftar. Cosa che Parigi fa ancora oggi mostrando in pubblico una facciata di finta neutralità che non inganna nessuno, tanto meno i libici. È tutto da dimostrare che la Turchia in Tripolitania e la Russia in Cirenaica siano disposte ad accettare l'esito di elezioni, che li costringerebbe a lasciare la Libia: oltre tutto quando in corsa per le presidenziali c'è un personaggio controverso e inaffidabile come Haftar. Elezioni affrettate e poco trasparenti rischiano di dividere ancora di più il Paese. Ma di che parla questa formidabile coppia al limite dell'ipocrisia? Il nostro presidente del consiglio pensa che la Libia sia il Draghistan, dove la «fiera popolazione locale» deve accodarsi al suo verbo pieno di buon senso. Ma nel contesto libico la sua pacata ragionevolezza si ammanta di toni neo-coloniali ambiziosi e fuori tempo massimo. Nella conferenza stampa conclusiva, ha raggiunto vette degne di una parodia di Crozza. «I libici - ha dichiarato con fare paternalistico - devono fare subito una legge elettorale, nel giro di pochi giorni, non di settimane». Ma lo sa Draghi che dopo anni neppure l'Italia ha ancora una legge elettorale? Bacchetta i libici senza capire quel che accade in casa nostra. Anzi fa finta di non capire, che è pure peggio. Cosa può accadere dalle parti della Libia se lo può far raccontare da Conte e Di Maio che nel dicembre 2020 sono andati a Bengasi per portarsi a casa i pescatori di Mazara del Vallo. Ai nostri governanti piace prendere delle veloci abbronzature libiche, per tornare a casa così soddisfatti che pensano di avere compreso ogni cosa della nostra ex colonia. Ma i libici sanno benissimo che qui non ci sono più i Moro, gli Andreotti e i Craxi che salvavano la pelle a Gheddafi dai complotti britannici e dai raid americani. Ce lo ricorda un documentario Rai che va in onda la prossima settimana, "C'era un volta Gheddafi", dove il generale dei servizi Iucci queste cose le ha fatte e le racconta per filo e per segno. I libici guardano i governi italiani di questo nuovo millennio come i vassalli della Nato e della Ue, da corteggiare soltanto per controbilanciare la presenza dei turchi in Tripolitania, dei russi in Cirenaica e ammansire le pretese della Francia. È doveroso ricordare a Draghi che in Libia l'Italia ha subito la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale, dopo che il 30 agosto 2010 avevamo ricevuto Gheddafi a Roma in pompa magna. Con i raid francesi, inglesi e americani del 2011, diventati poi Nato, l'Italia perse allora 55 miliardi di euro di commesse e giro d'affari con Tripoli - l'ultima finanziaria di Draghi è di soli 23 miliardi. Ma peggio ancora fu quando il nostro Paese, spinto dal presidente Napolitano e nel vuoto pneumatico di iniziativa del governo Berlusconi, si adeguò ai ricatti dei nostri alleati per aderire ai bombardamenti sulla Libia sotto l'egida dell'Alleanza Atlantica. Adesso, nel mezzo della lotteria per sostituire Mattarella, sembra che Draghi sia il più accreditato: cosa farà se dovesse salire al Quirinale e i libici non andassero alle urne come lui desidera, muniti di una nuova legge elettorale e magari pure di green pass? Li bombarda? Ne dubitiamo: al massimo faremmo un'altra figuraccia magari da spartire con il biforcuto Macron. Con lui siamo d'accordo, con tante belle parole sui «diritti umani da rispettare"» soprattutto su un punto: appaltare la questione dei migranti a quella banda di criminali della guardia costiera libica che l'Italia continua a finanziare. A proposito di diritti umani, a Parigi c'era l'adulato generale Al-Sisi. Ci sono domande che in questo Paese dei balocchi nessuno si fa mai, neppure guardando al recente passato quando colpendo Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, l'Italia perse ogni credibilità sulla Sponda Sud. Fortunatamente il democristiano Mattarella è appena andato in visita di Stato in Algeria, rimasto l'unico nostro Paese amico nel Nordafrica, per tentare di restituire un po' di smalto a una politica estera assai opaca e priva di ogni seria autonomia rispetto all'atlantismo e al manuale di Bruxelles. Alla conferenza, presieduta congiuntamente da Macron, Draghi, Merkel e dal premier libico Dbeibah, non era presente Erdogan. Un vero peccato: era una bella occasione per una rimpatriata tra amici. Macron e lui di sono dati reciprocamente dei dementi, Draghi (che però lo ha visto al G-20 di Roma) lo aveva definito un «dittatore che ci torna utile». In questo vertice libico anche il Sultano atlantico si sarebbe fatto qualche bella risata, soprattutto quando sul ritiro delle milizie straniere dalla Libia la diplomazia italiana ha messo a segno un colpo magistrale sostituendo nel documento finale la richiesta di partenza «immediata» con la dicitura «rapida». È cosi che si lavora... ».
REPORTAGE DA CALAIS
Il dramma dei migranti non è solo in centro Europa o sulle nostre coste. C’è un altro punto del mondo dove asiatici e africani ogni notte tentano il passaggio. Reportage per Avvenire da Calais di Daniele Zappalà:
«Per le strade e i moli cittadini, attorno al porto dei traghetti per l'Inghilterra cinto di filo spinato o lungo i canali, si aggirano con i loro zaini in gruppi di quattro, cinque, talora d'una decina. Camminano piano, sostando sotto le pensiline e scrutando l'enorme torre campanaria del Municipio che pare una cugina francese del mitico Big Ben. Sono arrivati a Calais per il game e dunque le ore diurne contano meno. Lo sanno bene i poliziotti e gendarmi di pattuglia, in bici o a piedi. Per questo, quando incrociano un gruppo di esuli asiatici o africani in centro, gli agenti ostentano talora indifferenza. Hanno soprattutto l'ordine di disperdere ogni potenziale accampamento. Perché in città, la linea del prefetto è chiara: con le buone o le cattive, cancellare il ricordo della Jungle, come i candidati al game chiamavano la baraccopoli fra la sterpaia a ridosso del porto che si era ingrossata come una bolgia fino ad accogliere 10mila persone, prima d'essere smantellata nel febbraio 2016. Ad appena una trentina di chilometri dalle abbaglianti scogliere di Dover, Calais è il teatro d'infiniti traffici. Per questo, la calma che vi regna in certe ore del giorno pare un capolavoro di dissimulazione. O 'd'ipocrisia', secondo le associazioni umanitarie. Tanto più in questo mese di novembre, con picchi storici di traversate: fino a un migliaio a notte. Ma nel tardo pomeriggio, attorno al camion della Refugee community kitchen, dove i volontari d'ogni Paese europeo distribuiscono centinaia di pasti caldi di riso, pollo e verdure, l'incantesimo si spezza, consentendo scambi più veri. «Guerra e poi guerra, sempre. Non l'hai vista in tv? Per questo, ho lasciato i miei per andare in Inghilterra, dove ho conoscenti e c'è lavoro», ci dice Pyz, trentenne uzbeko d'etnia pashtun in fuga dall'Afghanistan settentrionale: «Non mi spiace dormire con gli altri nelle 'giungle' attorno alla città. Ho già provato con i camion, ma è pericoloso. Controlli dappertutto. Comunque, sono pronto, ci riuscirò, anche se ho paura del mare». Scherza con due bottigliette d'acqua che ha recuperato, una per mano, mimando le parabole di razzi che scavalcano la Manica. Forse non sa che attorno a Calais, durante l'ultima guerra mondiale, gli occupanti tedeschi costruirono le basi di lancio dei V1 e V2, puntati su Londra. Ma i gesti lenti di Pyz profumano di speranza, ricordando quasi gli arcobaleni di Calais, considerati qui i più belli di Francia, capaci persino di far accostare certi automobilisti sulle autostrade verso il vicino Belgio. Di notte, fra le dune sabbiose di tutta la Costa d'Opale, i bunker di quello che fu il 'Muro dell'Atlantico' nazista restano minacciosi. Tanto più se brillano di colpo nella foschia, sotto il fascio rapido irradiato dal faro sopra il Capo del Naso Grigio. Verso le 4, ci appostiamo all'imbocco dello spiaggione di Wissant, da cui sono già partiti pure valenti nuotatori pronti a coprire i 28 km nella massima strettoia del Channel. Qui, si segnalano di continuo nuovi aspiranti al game, davanti a un mare scuro su cui scivola un muto carillon luminoso di petroliere. All'improvviso, sopraggiunge in auto una pattuglia di gendarmi. Scendono puntando per qualche secondo grosse lanterne sulla spiaggia. Poi, ripartono fra i tornanti dietro le dune, per continuare le perlustrazioni. Attendiamo ancora, scrutando con un binocolo, fin quando delle esili luci si staccano veloci oltre il capo. Dei gommoni del game? Difficile dirlo, per via della foschia, ma è una delle ore privilegiate dai passeur per trasportare gli esuli proprio in mezzo al canale, appena oltre la frontiera marittima inglese, dove potranno chiedere aiuto ai soccorritori britannici. Riprendiamo la provinciale litoranea 940, dove quasi a ogni ora del giorno e della notte incroci gruppetti di esuli in marcia, spesso con una o due grosse sporte da supermercato in spalla, oltre all'immancabile zaino. Ci fermiamo a discutere con un gruppo giunto dal Sud dell'India. Il più loquace è Krish, sulla quarantina, capace ancora di ridere nonostante un probabile game appena fallito: «Faccio il tecnico meccanico, ho due figlie e dalle mie parti stentavo a vivere. In Europa, ci sono opportunità e resto ottimista. Incontro gente gentile. La comunità indiana mi ha dato una mano in Francia, ma dall'altra parte è un'altra cosa. Puoi lavorare davvero. Ce la farò, lo so, sono un essere umano che vuol sopravvivere come gli altri». Giungiamo all'alba sulla vasta Baia di Slack, impressionante labirinto di dune colonizzate dai passeur. «Guardi là, un clandestino», ci dice un poliziotto, puntando il dito sulle cime, dove compaiono a intermittenza profili sfuggenti: vedette ingaggiate dai passeur per studiare di continuo i movimenti delle pattuglie. Sulla spiaggia, giacciono i resti degli ultimi tentativi di traversata: carcasse di gommoni, motori ad elica, pompe di gonfiaggio, berretti di lana, gilet di salvataggio, incarti di cioccolato. I passeur di varie nazionalità hanno 'lottizzato' la costa, mettendo su un ingegnoso sistema: i gommoni comprati in Belgio e Germania vengono seppelliti fra le dune e gonfiati all'ultimo momento. Occorre un minuto per far traversare la spiaggia agli aspiranti del game, che pagano anche 2.000 euro. Di questi scatti degni d'una partita di rugby, le ronde di agenti sono spesso spettatori impotenti, ritrovandosi sotto fitte sassaiole dei 'servizi di scorta' avversi. «L'immigrazione deve adattarsi ai bisogni francesi», martella il presidente della regione di Calais, il neogollista Xavier Bertrand, considerato un serio rivale per scalzare il presidente Emmanuel Macron, il prossimo aprile. Ma sulla Costa d'Opale, tanti ridono di simili proclami. Così come della furia esibita dai britannici, sempre più inclini ad accusare la Francia di non far molto per ostruire il "collo di bottiglia" di Calais, sullo sfondo delle tensioni bilaterali sui nodi post-Brexit come la concessione delle licenze di pesca ai bastimenti francesi».
ETIOPIA, ARRESTATO UN PRETE SALESIANO
Nuovo arresto di un prete italiano ad Addis Abeba. Floriana Bulfon per Repubblica.
«Non si ferma la repressione del governo etiope contro chiunque venga sospettato di sostenere la popolazione ribelle del Tigray. Ieri è stato arrestato un sacerdote italiano, don Cesare Bullo. È il secondo connazionale finito nelle retate della polizia federale: il primo era stato Alberto Livoni, operatore umanitario del Vis, che ieri è stato rilasciato. Don Cesare è il direttore del Centro Don Bosco in Etiopia, dove i missionari salesiani da decenni si occupano dell'assistenza e della formazione di bambini e ragazzi. Un'attività condotta anche nella regione del Tigray e per questo finita da tempo nel mirino del governo guidato dal premier Abiy, paradossalmente premiato due anni fa con il Nobel per la Pace. La struttura salesiana di Mekelle, l'antica Macallé dell'occupazione italiana, sarebbe stata colpita due settimane fa durante i bombardamenti degli aerei governativi. Poi il 5 novembre c'è stata l'irruzione nella casa madre del quartiere Gotera di Addis Abeba, in cui decine di religiosi e volontari sono stati arrestati: quasi tutti erano di origine tigrina o eritrea. Anche don Bullo era stato perquisito in quell'occasione, senza altri provvedimenti. Il giorno dopo però gli agenti sono tornati nel centro e vi hanno arrestato Livoni. Infine ieri è stata la volta del sacerdote. Don Bullo, 80 anni e una vaga somiglianza a Bud Spencer che lo rende popolare tra i più piccoli, ha passato la vita in missione: è stato tredici anni in Vietnam prima di arrivare in Etiopia nel lontano 1976. È stato lui a creare l'istituto tecnico di Mekelle: «Si può operare per il bene degli altri, soprattutto i giovani, solo se il tuo cuore non pone limiti alle tue azioni, alla realizzazione dei sogni che hai in mente». Tre anni fa l'allora premier Giuseppe Conte aveva visitato le realizzazioni dei salesiani ad Addis Abeba. La Farnesina si è attivata per risolvere la situazione. Ieri i nostri diplomatici sono riusciti a far rilasciare Livoni, che è apparso in buone condizioni, ora cercheranno di incontrare anche il salesiano. Il clima di assedio ad Addis Abeba diventa ogni giorno più teso. Le milizie tigrine, dopo avere subito un anno fa l'offensiva governativa, hanno rovesciato il fronte e marciano sulla capitale. Lo stato di emergenza proclamato dal premier Abiy permette di compiere arresti senza dare spiegazioni e senza limiti di tempo alla detenzione. Vengono prese di mira anche le ong che aiutano la popolazione del Tigray, ridotta alla fame da un anno di combattimenti, e persino i dipendenti dell'Onu. In cella sono finiti pure cittadini britannici e statunitensi, mentre i sostenitori di Abiy protestano nelle piazze contro gli Usa e l'Occidente».
TUNISIA, CONDANNA PER IL #METOO
In Tunisia prima vittoria del #metoo: condannato per molestie un deputato, che aveva aggredito sessualmente una diciassettenne. Giordano Stabile per La Stampa:
«Una prima condanna, certo limitata, quasi simbolica, ma destinata a restare nella storia della Tunisia. L'ha ottenuta il movimento globale, #MeToo in un Paese arabo, fra i più evoluti, ma dove maschilismo e patriarcato dominano ancora. Un deputato condannato a un anno di carcere per «aggressione sessuale», la vittima, studentessa liceale, che l'ha spuntata sui pregiudizi, in una causa che la vedeva opposta a un uomo, potente. Il parlamentare è Zouhair Makhlouf, del partito Qalb Tunis, cioè «Cuore della Tunisia». Ha cominciato a seguire e molestare una giovane donna, allora diciasettenne nel 2019. Una persecuzione che è culminata con l'esibizione di un atto sessuale davanti alla vittima, all'interno della sua auto. Ma la ragazza non si è limitata a subire. Ha tirato fuori il suo telefonino e ha fotografato il molestatore, poi l'ha denunciato. In questi due anni il caso è diventato la bandiera del movimento #MeToo. Makhluouf si è prima schermato dietro l'immunità parlamentare. Il presidente Kais Saied ha però «congelato» le immunità dei deputati e il processo ha potuto cominciare. In un primo tempo l'accusa è stata derubricata ad «atti indecenti» ma la sollevazione delle tunisine, con manifestazioni massicce davanti al tribunale e al Parlamento, ha convinto i giudici a ripristinare «l'aggressione sessuale», che nel nuovo codice approvato nel 2017 prevede fino a un anno di carcere. La difesa ha allora obiettato che l'imputato soffriva di diabete e in quel momento doveva urinare in una bottiglia e per questo si era sbottonato i pantaloni. Una linea che non ha convinto i giudici. Le attiviste del #MeToo, riunite davanti alla corte di Nabeul, a Sud di Tunisi, hanno festeggiato al canto «il mio corpo non è uno spazio pubblico». Una vittoria. Che segue quella della riforma del codice della famiglia, ora il più avanzato nel mondo arabo e che ha stabilito la parità fra donne e uomini per quanto riguarda divorzio, affidamento dei figli ed eredità. Sono forse questi i frutti migliori del processo di apertura cominciato con la rivoluzione dei gelsomini del 2011. Il presidente Saied ha anche nominato per la prima volta una donna come primo ministro, Najla Bouden Ramadhane. Non tutti i gelsomini però sono fioriti. Il colpo di mano di Saied, che a luglio ha sospeso il parlamento e ha arrogato a sé anche il potere legislativo e giudiziario, è una ferita alla nascente democrazia. Anche la condanna a Makhluouf, per quanto inappuntabile, va a colpire uno dei suoi avversari, il fondatore del partito Qalb Tunis, il miliardario e mogul dei media Nabil Karoui, avversario di Saied alle presidenziali e adesso in fuga all'estero. L'alto oppositore principale, il leader del partito islamista Ennahda, Rached Ghannochi, è sotto tiro e forse sarà costretto a dimettersi. Anche i sindacati, bastione della Tunisia laica e protagonisti assieme a Ennahda della cacciata dell'ex raiss Ben Ali, sono sul piede di guerra contro Saied e hanno annunciato uno sciopero generale dopo l'uccisione di un manifestante a Sfax. In un clima cupo per la crisi economica e istituzionale, le vittorie delle donne sono l'unico raggio di sole».
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