La Versione di Banfi

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Covid, due milioni di morti

alessandrobanfi.substack.com

Covid, due milioni di morti

L'Oms prevede per l'Europa due milioni di vittime entro la primavera. Come in una guerra. Oggi i dettagli del nuovo decreto. Tim, i francesi trattano? Draghi cerca la strada. 100 giorni coi Talebani

Alessandro Banfi
Nov 24, 2021
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Covid, due milioni di morti

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Ore decisive per i nuovi divieti allo studio del governo e delle Regioni sul Green pass. Davvero si impedirà ai non vaccinati di frequentare bar, ristoranti, cinema, teatri, stadi e palazzetti sportivi, piscine e palestre, impianti sciistici, discoteche e sale gioco? Sul lavoro le regole dovrebbero restare immutate, anche se forze dell’ordine e personale scolastico potrebbero essere oggetto di un obbligo vaccinale specifico. Capiremo tutto nelle prossime ore. I Vescovi sono preoccupati delle divisioni sul tema. Le nuove norme dovrebbero scattare dal prossimo lunedì oppure dal 6 dicembre. Le notizie drammatiche arrivano dal resto d’Europa, dove la pandemia galoppa. I numeri dei contagi non hanno precedenti e fanno prevedere all’Organizzazione mondiale della Sanità due milioni di morti nel nostro continente (Russia compresa) entro la prossima primavera. L’Olanda non ha più posti in terapia intensiva e anche la Germania è in grande difficoltà. Per non parlare dei Paesi dell’Est, come Bulgaria, Romania ed  Ungheria che hanno il record di vittime.

Vicenda Tim. È ancora presto per capire se il no della francese Vivendi all’offerta americana di Krk è una legittima trattativa sul prezzo o è una vera opposizione di principio. Intanto al nostro governo interessa mettere in sicurezza la rete italiana, che è strategica. Domani al Quirinale, fatalità degli intrecci di calendario, si firma il Trattato Italia-Francia, sulla cui vigilia scrive Repubblica. I rispettivi Parlamenti, a Parigi e Roma, ne discuteranno dopo la sottoscrizione dei Presidenti. A proposito di Quirinale. Ieri Draghi, incontrando i giovani volontari di Save the children, ha detto che deve ancora trovare la sua strada. Il bivio è fra Colle e Chigi. Mentre Il Fatto insinua che la candidatura di Gentiloni lanciata da Renzi sia in realtà un modo per “bruciarlo”.

Contrordine grillini. Ci vorrebbe il rapper torinese Willie Peyote, quello che a Sanremo sfotteva l’Italia col ritornello “Mai dire mai”, per commentare l’espressione di Giuseppe Conte a proposito della partecipazione dei 5 Stelle alle trasmissioni della Rai: ieri ha detto che il suo era uno “stop non irreversibile”. Dunque via libera alle video aspirazioni del Movimento. E via libera agli sfottò di Grillo sui “penultimatum” di “Giuseppi”. Polito sul Corriere si chiede se Salvini e Conte si rendano conto di essere “Re travicelli”.

Dall’estero molte notizie, anche economiche. Interessante intervista di Klaus Schwab, a Roma in questi giorni, che analizza i tormenti del commercio internazionale. Biden ha scelto una strada “repubblicana” per uscire dall’angolo dell’inflazione riaccesa dalla ripresa. Il Presidente Usa si gioca tutto e lo fa con gli uomini scelti da Trump. Bilancio, da non perdere, dei 100 giorni dei talebani a Kabul scritto da Quirico per La Stampa.  

È ancora disponibile on line il sesto episodio della serie Podcast Le Vite degli altri da me realizzata con Chora media, in collaborazione con Vita.it e con Fondazione Cariplo. Il titolo è: La Torre più bella. Protagonista è la 50enne Tiziana Ronzio che a Roma, nel quartiere di Tor Bella Monaca, guida un gruppo di donne dei palazzoni popolari che lotta ogni giorno per il rispetto della legalità. Ha cominciato, quasi per caso, ribellandosi all’ennesimo disagio dovuto al degrado e allo spaccio nell’androne della torre, dove lei vive. Hanno fondato un’associazione che ha un nome azzeccato: “Tor più bella”. È una storia fantastica che val la pena conoscere. Da domani sarà disponibile un nuovo episodio molto interessante e attuale. Vi anticipo il titolo: LA CUOCA COMBATTENTE. Esce, non a caso, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate il sesto episodio:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-tiziana-ronzio-v2

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Incubo contagi in Europa e nuove misure in Italia. Il Corriere della Sera prevede: No vax fuori da stadi e hotel. Il Giornale sostiene: Passa la linea dura. Ultimatum ai no vax. Il Quotidiano Nazionale concorda nella sostanza: Nuove regole, oggi la stretta sui No vax. Come il Mattino: No vax, passa la linea dura. Il Messaggero sottolinea le misure di verifica: Super pass, piano per i controlli. La Stampa anticipa: Vaccino obbligatorio per insegnanti e polizia. La Verità prende in giro le nuove norme sui test: Il ridicolo ballo del tampone. Avvenire riprende l’appello della Cei che riguarda la campagna vaccinale ma anche giovani e migranti: Più responsabilità. Il Sole 24 Ore avverte che Bruxelles ci studia: Spesa e tasse, faro Ue sull’Italia. Il Domani nota: Sulla politica agricola vince ancora il bla bla bla dell’Unione Europea. La Repubblica anticipa i temi della Giornata contro la violenza sulle donne che sarà celebrata domani: “Così difenderemo le donne”. Fermo immediato e più tutele. Libero attacca l’ex pm di Mani pulite: Caro Davigo, ora tocca a te. Il Fatto polemizza con i nuovi vertici della azienda nata sulle ceneri di Alitalia: Mr Ita insulta tutti: “Fuori metà lavoratori!”. Il Manifesto dedica il titolo alla scelta del 40enne tetraplegico che ha avuto il via libera dalla regione Marche per il suicidio assistito: Fine pena.

GREEN PASS, LE NUOVE REGOLE SUL TAVOLO

Oggi dovrebbe essere il giorno decisivo per capire che cosa conterrà davvero il nuovo decreto sul Green pass, che potrebbe andare in vigore già lunedì prossimo o al massimo dal 6 dicembre. La cronaca delle indiscrezioni dell’ultima ora di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Il decreto che consentirà soltanto ai vaccinati e ai guariti di ottenere il «super green pass» per frequentare le attività sociali, ricreative e culturali potrebbe entrare in vigore la prossima settimana, forse già lunedì 29 novembre, al massimo il 6 dicembre. Adesso Mario Draghi vuole correre e valuta l'obbligo vaccinale per le forze dell'ordine. Anche per il personale scolastico la decisione è matura, ma su questo il premier vuole un «approfondimento ulteriore». La scelta potrebbe essere rimandata a un successivo decreto sulla scuola da varare con il via libera al vaccino per i bambini dai 5 agli 11 anni, che arriverà dopo il sì dell'Aifa e sarà facoltativo. I governatori Oggi a Palazzo Chigi il premier riunirà la cabina di regia politica per sciogliere gli ultimi nodi. Nell'agenda della giornata decisiva c'è un nuovo confronto con i presidenti delle Regioni e c'è il Consiglio dei ministri per il via libera, che dovrebbe essere unanime. La Lega si è ricompattata sulla linea di Massimiliano Fedriga e dei governatori del Nord e anche Matteo Salvini si è rassegnato ad approvare la stretta. L'impianto è pronto, l'obiettivo è dichiarato. Per evitare le chiusure di attività e imprese nelle prossime settimane e durante le festività natalizie, anche l'Italia, così come altri Stati europei, decide di escludere dalle attività ricreative chi ha scelto di non immunizzarsi. Di fronte a una risalita veloce della curva epidemiologica, che senza la soluzione del super green pass provocherebbe nuove limitazioni per tutti gli italiani, si sceglie di imporre divieti soltanto ai no vax. La decisione cruciale da prendere è se lo stop per le persone non immunizzate debba scattare in tutta l'Italia indistintamente, già dalla zona bianca, oppure solo a partire dalla fascia di rischio gialla. Zona bianca o gialla. Per Fedriga, Fontana e Zaia la distinzione tra super green pass e certificato verde ottenuto con il tampone deve partire solo quando un territorio vede peggiorare i dati ospedalieri e cambia colore. Secondo gli altri presidenti, le restrizioni dovrebbero scattare già in zona bianca. Decisiva sarà la posizione di Draghi, che a quanto trapela preferirebbe una maggiore gradualità, quindi zona gialla. Il tampone. Per andare a lavorare basterà il tampone negativo molecolare o antigenico. La lista dei divieti. Si impedirà ai non vaccinati di frequentare bar, ristoranti, cinema, teatri, stadi e palazzetti sportivi, piscine e palestre, impianti sciistici, discoteche e sale gioco. Alberghi. In vista delle vacanze natalizie il governo è pronto a imporre il green pass ai clienti degli alberghi. Discoteche. In fascia gialla scatta la chiusura delle discoteche e i gestori sono già pronti a nuove proteste. Il governo potrebbe cambiare la norma e prevedere che i locali da ballo, con il super green pass, restino aperti anche in fascia gialla. Obbligo vaccinale. A Palazzo Chigi si valuta anche la questione, delicatissima, dell'obbligo vaccinale generalizzato. Draghi è cauto, se non contrario. Per ragioni giuridiche: tanti costituzionalisti coltivano dubbi. Per motivi politici: Salvini farebbe le barricate, Renzi non è favorevole e anche nel Pd non tutti sono d'accordo. Poi perché il premier non ritiene che la situazione sanitaria italiana richieda una misura così estrema, che impatterebbe pesantemente sul mondo del lavoro con conseguenze difficili da gestire. Durata del green pass. La validità del green pass dovrebbe diminuire a 9 mesi ma la parola definitiva dovrà darla il Cts convocato oggi alle 13. Terza dose. Con una circolare il ministro della Salute ha accorciato i tempi per la terza dose, che si potrà fare 5 mesi dopo la seconda. Il governo è pronto a far cadere le limitazioni per fasce, come chiedono i governatori, ma il via libera al richiamo per tutti non dovrebbe essere in questo decreto. Il testo conterrà invece l'obbligo i terza dose per i sanitari e i lavoratori delle Rsa. E l'obbligo per le forze dell'ordine. Mascherine all'aperto In cabina di regia si affronterà anche il tema del ritorno della mascherina all'aperto, ma a Palazzo Chigi sperano che la misura non sia necessaria. Entrata in vigore. Molti governatori e il ministro della Salute Roberto Speranza spingono perché il decreto entri in vigore lunedì 29 novembre. La scelta sarà fatta con il generale Figliuolo tendo conto che molti hub sono stati chiusi».

L’OMS PREVEDE DUE MILIONI DI MORTI IN EUROPA

I dati drammatici dell’emergenza sono quelli che riguardano l’Europa e soprattutto i Paesi orientali: Ungheria, Buglaria e Romania sono in ginocchio. Ma anche l’Olanda non ha più posti in terapia intensiva e la stessa Germania chiede aiuto. L’Oms stima due milioni di morti in più nell’Europa continentale entro la prossima primavera. La cronaca del Corriere a firma di Alessandra Muglia e Irene Soave.

«Entro marzo 2022, ha stimato ieri l'Oms, due milioni di europei saranno morti di Covid-19. La proiezione (che comunque comprende anche Russia e altri Paesi extra-Ue dell'area) è cupa; ma la distribuzione dei nuovi morti - e dei nuovi contagi - non è per ora uniforme. Non lo è, del resto, l'aderenza alla campagna vaccinale: il 66% di media Ue (popolazione vaccinata con almeno due dosi) tiene conto dell'88% del Portogallo e del 24% della Bulgaria. E così il tasso di contagi giornalieri ogni milione di abitanti, discrimine che ha spesso deciso lockdown e coprifuochi nel continente - a quota 800 Boris Johnson chiuse tutto in Regno Unito -, cresce a razzo, soprattutto in Europa centrale e orientale. In Ungheria è a 870. In Croazia a 1.106. In Olanda e Belgio a 1.160. In Austria, dove si è tornati in lockdown, a 1.500, e così in Repubblica Ceca. In Slovacchia a 1.800. Numeri mai registrati prima, e a cui non tutti i governi rispondono più con politiche di contenimento e controllo dell'epidemia. Le restrizioni Lo ha fatto, ritrovandosi subito 40 mila no-vax in piazza, il governo austriaco. Da lunedì e fino almeno al 13 dicembre il Paese è in lockdown, dopo che una restrizione dei movimenti solo per i non vaccinati non ha rallentato i contagi, raddoppiati in poco più di una settimana. Le terapie intensive sono, scrive il quotidiano Kurier , «vicine al collasso». I danni economici del lockdown saranno così ingenti che il governo aveva incaricato una commissione di salute pubblica di quantificare l'impatto economico di un «bonus» di 500 euro da elargire ai non vaccinati per convincerli. Sarebbe costato meno di un lockdown. Eppure il movimento dei no-vax austriaci, secondo il ministro degli Interni Nehammer, «è sempre più radicalizzato e furioso». Succede lo stesso in Belgio e nei Paesi Bassi, dove i laboratori analisi non accettano più tamponi perché troppo pieni. Il picco Il Belgio è alle prese con un nuovo picco: 16 mila contagi al giorno, e persino il premier De Croo è in isolamento (dopo avere incontrato l'omologo francese Jean Castex, anche lui positivo). Nei Paesi Bassi ci sono 20 mila contagi al giorno. Lo scetticismo per i vaccini in Europa sembra riunire più frange ideologiche. Una componente però è tipica dell'ex blocco sovietico. Uno studio pubblicato ad aprile da un ricercatore della London School of Economics, Joan Costa-i-Font, mette in diretta relazione la scarsa aderenza alla campagna vaccinale nell'Est con l'abitudine «a diffidare delle istituzioni pubbliche sviluppata durante il comunismo». Molti governi dell'area cavalcano questo sentimento. In Ungheria il presidente Orbán ha detto che «valuterà» nuove restrizioni dopo una supplica dell'ordine dei medici. I contagi sono 10 mila al giorno, vicini a un nuovo picco. Politici e no-vax In Slovacchia, - rt 1,8, il peggiore del mondo - il premier Eduard Heger sta «valutando approfonditamente» un lockdown di tre settimane come nella vicina Vienna. La cautela, incomprensibile con 1.800 contagi al giorno per milione di abitanti, è dovuta alla resistenza che nella popolazione, vaccinata appena al 42%, trovano le misure anti-Covid. Lo stesso ex primo ministro Robert Fico, ancora popolare, non si vaccina e va ai cortei dei no-mask. In Repubblica Ceca, che la settimana scorsa riportava 22 mila nuovi casi al giorno, il 70% è tra i non vaccinati. In tutta la Slovenia, alle porte dell'Italia, ogni due tamponi uno è positivo e restavano liberi, a ieri, appena otto posti in terapia intensiva su una capacità massima di 288. La cronica arretratezza e scarsità di risorse nella sanità dei Paesi dell'Est aggrava l'emergenza. In Polonia i casi raddoppiano ogni settimana con scarse misure di contenimento. Il ministero della Salute ha iniziato a preparare contromosse, ma le autorità sono divise tra campagne pro-vaccino e ammiccamenti agli scettici. Il governo di Mateusz Morawiecki è arrivato a promuovere una lotteria nazionale. Ma dall'altra parte il presidente Andrzej Duda si è detto contrario al vaccino obbligatorio e ha voluto far presente pure di non aver fatto l'antinfluenzale. Il tracollo Ma le ultime in Europa, sui vaccini, sono Romania e Bulgaria, dove si concentra una parte della filiera produttiva della Ue e che è quindi difficile «confinare» fuori dalla libertà di movimento prevista dalle regole europee. I nuovi contagi a Bucarest e dintorni hanno superato il picco il 22 ottobre, ma gli ospedali e i duemila posti letto in terapia intensiva sono ancora tutti occupati e gli obitori non sanno più dove mettere i cadaveri. In Romania meno del 36% degli abitanti è vaccinato; in campagna i tassi di immunizzazione sono metà che nelle aree urbane, complici l'influenza dei leader locali e la disinformazione che dilaga sui social. «Guardate la realtà», ha ammonito il colonnello Valeriu Gheorghita, medico dell'esercito che gestisce la campagna di vaccinazione. «Abbiamo le unità di terapia intensiva piene, centinaia di morti al giorno. Oltre il 90% dei pazienti che sono morti non erano vaccinati». Di fronte alla crisi, il capo dello Stato Klaus Iohannis ha nominato premier il generale Nicolae Ciuca, che guiderà un governo di unità nazionale, con i due blocchi rivali storici, i liberali e gli ex comunisti sovranisti, per la prima volta insieme. Messa persino peggio è la Bulgaria: i decessi per Covid restano 20 volte quelli dell'Italia, 8 volte quelli della Germania. Il Paese meno vaccinato d'Europa (lo è solo un abitante su 4) ha la mortalità pro capite più alta al mondo: la malandata sanità pubblica ereditata dalla dittatura comunista è allo stremo. Ora la lotta alla pandemia è la priorità delle forze filooccidentali al potere che hanno scalzato l'uomo forte Borissov. Il vento che soffia da Est è minaccioso: la vicina Ucraina ha contato ieri 800 morti in 24 ore, la Russia 1.200. In Europa, per l'Oms, il Covid è la prima causa di morte». 

TIM, VENERDÌ IL PROSSIMO CDA

Vicenda Tim: la francese Vivendi non vuole vendere al fondo Usa Kkr. Per ora il prezzo sarebbe troppo basso. Confronto serrato in vista del prossimo Cda di venerdì: possibile la resa dei conti sul vertice. Che cosa interessa al Governo. Il punto di Antonella Olivieri per Il Sole 24 Ore.

«Incontri e telefonate si susseguono in vista del cda Telecom di venerdì, convocato su richiesta di consiglieri e sindaci, prima che irrompesse sulla scena Kkr, che inizialmente aveva all'ordine del giorno lo stesso punto del cda straordinario di metà mese e cioè «strategia e organizzazione». C'è tempo fino a 12 ore prima per aggiornarlo e in una situazione così fluida non è da escludere nulla, nemmeno che si arrivi a una resa dei conti sulla governance. Al momento non è ancora certo che torni sul tavolo la proposta del fondo Usa, di cui ha preso atto il board domenica senza deliberare, anche se la risposta non potrà tardare per non lasciare il titolo sulle montagne russe. Il consiglio non deve valutare la congruità del prezzo - 0,505 euro ancora a titolo indicativo - ma valutare se il progetto portato dal fondo Usa è nell'interesse dell'azienda, che nessuno comunque ha messo in vendita visto che oltretutto le quotazioni pre offerta erano a livelli da depressione storica. Il documento d'offerta recapitato in Telecom spiega quale è il piano, fornendo gli elementi affinchè il board possa decidere se aprire le porte alla due diligence confirmativa richiesta dal fondo. A quanto risulta, il progetto, è centrato sullo scorporo della rete per offrirla "a termine" alla Cdp, orientativamente dopo qualche anno, a riassetto completato. In questo scenario sarebbe poi la Cdp a decidere se tenere due partecipazioni distinte nella rete Telecom e in Open Fiber oppure se realizzare la "rete unica", a questo punto totalmente scollegata da Telecom. L'obiettivo cioè è di replicare il modello Terna, applicato nel campo dell'elettricità, alla rete portante delle tlc italiane. Le modalità sarebbero ovviamente ancora tutte da discutere. L'idea però sarebbe di separare la parte dei servizi dalla parte infrastutturale. La prima, secondo le stime di Intermonte, potrebbe avere un enterprise value (equity più debito) di 7,2 miliardi su 25,5 miliardi di valore d'impresa totale, applicando un multiplo di 2,4 volte. Kkr, va ricordato, è stato spinto a muoversi dall'esigenza di proteggere il proprio investimento nella rete secondaria di Telecom, 1,8 miliardi per una quota del 37,5%, che - con l'obiettivo di sostituire il rame con la fibra - consente oggi al fondo di godere di un "comodo" rendimento annuo dell'8-9%. L'Opa potrebbe essere l'occasione per realizzare nel contempo un buon affare, ma a patto che siano tutti d'accordo, evitando bracci di ferro che rischiererebbero di vanificare la convenienza finanziaria dell'operazione. Non a caso Telecom ha sbandato in Borsa - per chiudere alla fine in calo del 4,72% a 0,43 euro- quando un portavoce del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré ha dichiarato: «Vivendi è molto attaccata all'Italia e a Telecom Italia e non ha intenzione di vendere la propria quota». Se la posizione di Vivendi - che, col 23,9%, è il primo azionista della compagnia - restasse questa, Kkr non impegnerebbe 11 o forse più miliardi per trovarsi impantanato in una guerra di trincea, considerato che non si tratta di un fondo speculativo bensì di un investitore di lungo periodo che ha alle spalle i fondi pensione. Si registra nel contempo una presa di distanza dalle voci che danno il fondo pronto a considerare un rilancio sul prezzo fino a 70-90 centesimi pur di vincere le resistenze di Vivendi. Fonti vicine al dossier fanno sapere infatti che «Kkr è totalmente e solamente focalizzato sull'offerta presentata al board di Tim venerdì, nei termini comunicati domenica». L'offerta, per ora non vincolante, segnala un prezzo indicativo di 0,505 euro per un'Opa totalitaria (col vincolo di raggiungere un minimo del 51% del capitale), subordinata a una due diligence confirmatoria della durata stimata di quattro settimane, e a patto di ottenere il gradimento di management, consiglio e delle autorità, in primis governative, visto che sulla rete e altri asset strategici del gruppo insiste il golden power. Ieri il ceo di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine, avrebbe chiamato il Tesoro - che è azionista di Cdp e domenica è uscito con un comunicato a nome del Governo - per assicurare la volontà del gruppo francese a collaborare con le autorità italiane per il successo di Telecom».

QUIRINALE 1. DRAGHI CERCA LA SUA STRADA

Visita del premier Mario Draghi ieri al punto luce di Save the Children, che diventa occasione di un dialogo pubblico coi giovani, anche sulle sue scelte. Palazzo Chigi o Quirinale? A 74 anni si può ancora cercare la propria strada. Ilario Lombardo sulla Stampa.

«Non è tempo di frasi dal sen fuggite, questo, dove ogni sospiro, ogni alzata di sopracciglio viene passata al setaccio. E così, una visita destinata ai margini della cronaca di giornata può diventare la mappa con cui orientarsi per cercare un senso nel silenzio in cui Mario Draghi ha avvolto le sue intenzioni sul Quirinale. Soprattutto se su un palco dice che anche lui come tutti «sta cercando la sua strada», e se la strada potrebbe portare al Colle, come tappa finale di una carriera iniziata con il sogno del basket. Il presidente del Consiglio conversa con i ragazzi del Punto Luce Save the Children di Torre Maura a Roma. È seduto su una sedia, a raccogliere domande semplici, ma in qualche modo disarmanti. Le risposte sono un'ode alla gioventù, alla fame di vita e di futuro ma, asciugate dalla solennità dei consigli tipici di un adulto, diventano tracce di una biografia ancora non completamente scritta. Draghi racconta di quando voleva essere un atleta, un bravo giocatore di pallacanestro. Racconta di una vita che si è edificata su un consiglio, uno dei pochi dei suoi genitori scomparsi troppo presto: «Fai in tutto quello che ti capita il meglio possibile. Perché più fai bene le cose più sei libero di scegliere o non scegliere». Tra meno di sessanta giorni Draghi dovrà scegliere, e, in caso, essere scelto, dai grandi elettori del presidente della Repubblica. Ma nelle ultime settimane di ansiogena ricerca di un segno di cedimento, è stato bravissimo a disorientare chiunque: collaboratori, ministri, parlamentari, giornali, grandi aziende, partner europei, opinione pubblica. Nessuno è in grado di dire con certezza cosa farà. Se si candiderà a succedere a Sergio Mattarella oppure no. I leader dei partiti aspettano di capirlo. E più aspettano, più Draghi oppone un'atarassia che a tratti diventa indifferenza: «Importante è quello che fai in quel momento. Se ce la fai, se non ce la fai. Identificarsi con quello che fate è la cosa più importante: farlo bene e divertirsi. Tutti noi cerchiamo la nostra strada, anche io la sto cercando», dice ai ragazzi, impacciati tra il "tu" e il "lei" mentre rivolgono le domande al presidente del Consiglio. È chiaro, aggiunge il premier, che è più difficile cercare la strada quando si è giovani, quando tutto è presente e non c'è tempo per il passato. A 74 anni Draghi è di fronte a un bivio: restare a Palazzo Chigi, costruire su di sé un'alternativa politica al sovranismo, in Italia e in Europa, o trasferire la propria riconosciuta autorevolezza al Quirinale, dove vestirebbe i panni del garante costituzionale della stabilità economica. Sono scelte che in fondo possiedono la stessa drammatica intensità di quelle di un ragazzo o di una ragazza di fronte all'università, al lavoro, a un viaggio che ti può cambiare la vita o più semplicemente al tiro da tre che vale una partita di pallacanestro. Vinci, o non vinci. I pareggi non esistono. Soprattutto in politica. E dopotutto è quello che giorno dopo giorno i partiti gli stanno chiedendo. Di scegliere. Di battere un colpo, di segnare un punto. Ma mentre Silvio Berlusconi continua la sua campagna presidenziale e il nome di Paolo Gentiloni viene gettato nella rissa dei totonomi per il Quirinale da un pezzo di Pd, segretamente sostenuto da fronde disorganizzate di 5 Stelle, Draghi appare impermeabile alle pressioni. Una imperturbabilità che, davanti ai ragazzi di Save the children, riveste di quell'orgoglio che suona bene in romanesco: «Io so' così, non è che mi cambiano».

QUIRINALE 2, RENZI HA “BRUCIATO” GENTILONI?

Secondo Wanda Marra sul Fatto la conclamata candidatura di Paolo Gentiloni da parte di Renzi è “interessata” e maligna:

«"La corrente dei renziani nel Pd non esisteva, ma se si vuol trovare un rapporto fra il contributo e la corrente, i due capi, uno nel partito, uno nel governo, erano Lorenzo Guerini e Paolo Gentiloni, che non avevano alcun rapporto economico con Open". Sabato sera, Matteo Renzi alla Leopolda attacca a testa bassa l'inchiesta Open. E tira dentro il ministro della Difesa e il Commissario europeo agli Affari economici. Non esattamente un favore associarli a una vicenda come quella. Dunque, si tratta di uno di quei messaggi cifrati da cui bisogna partire per rileggere la storia del presunto lavoro del fu Rottamatore per portare Gentiloni al Colle. Ne dà notizia per primo Domani, poi Repubblica racconta di una cena a Bruxelles a casa del Commissario, in occasione della visita del leader di Iv. Raccontano che a far uscire la notizia di quest' incontro sia stato lo stesso Renzi. Anche questo, non certo un favore a Gentiloni: far trapelare un nome per il Quirinale con così largo anticipo è un modo sicuro se non per bruciarlo, almeno per indebolirlo. Dato non irrilevante: i rapporti tra i due erano sostanzialmente inesistenti da anni. Bisogna tornare alla fine del 2016, quando Renzi diede il suo assenso al nome di Gentiloni come premier, dopo essersi dimesso per la sconfitta al referendum costituzionale. Un attimo dopo cominciò a soffrirlo in quel ruolo: il presidente del Consiglio era davvero lui e questo a Renzi non andava giù. La rottura si consumò definitivamente quando Gentiloni decise di riconfermare Ignazio Visco a governatore di Bankitalia, nonostante l'opposizione dell'allora segretario del Pd, che lo aveva già indicato come responsabile delle crisi bancarie, almeno per omissione. Era l'autunno del 2017, nella bufera c'era il caso Banca Etruria, con le ingerenze di Maria Elena Boschi in favore dell'istituto del padre: anche su questo caso lavorava la Commissione di inchiesta sulle banche. Con un passato come questo, difficile pensare che Renzi stia lavorando davvero per Gentiloni. Più facile che voglia bruciarlo. O che sia pronto a intestarsi l'operazione. In fondo, due facce della stessa medaglia. D'altra parte, un lavoro su Gentiloni al Colle era reale, prima ancora che ci mettesse il cappello il senatore di Scandicci. Con lui aveva pranzato anche Enrico Letta, lo scorso 11 novembre, in occasione del suo viaggio a Bruxelles. Gentiloni ci spera. E i suoi fedelissimi sono convinti che lo voterebbe almeno parte dei Cinque Stelle e che Draghi con lui al Quirinale resterebbe a Palazzo Chigi. Insomma, Renzi è salito sull'operazione in corso, sempre della serie "o ti incorono o ti brucio". Da notare che anche l'altro citato alla Leopolda, Guerini, è un quirinabile. Per indole e per curriculum (come ministro della Difesa è un candidato naturale). Per tornare alle vicende del 2017, con vista Colle, a capo della Commissione d'inchiesta sulle banche, il fu Rottamatore volle Pier Ferdinando Casini. Quello che da agosto viene considerato il suo vero candidato. Dopo aver fatto credere a Miccichè di essere pronto a portare i voti di Italia Viva su Berlusconi, aver tirato nel mucchio Gentiloni, il prossimo sarà di nuovo Casini. Perché Giorgia Meloni e Matteo Salvini non possono accettare un candidato del Pd, e dunque il Commissario lo bloccheranno. A quel punto, Renzi potrebbe tirar fuori nuovamente Casini. Per eleggerlo? Come sopra, per bruciarlo o per incoronarlo. Raccontano che l'interessato sarebbe piuttosto nervoso rispetto all'idea di essere il candidato del fu Rottamatore. Perché il gioco di Renzi più che portare qualcuno al Colle sembra quello di destabilizzare il quadro, per risultare determinante. E alzare, con il suo potere di influenza, il suo "prezzo" da conferenziere e da lobbista. Sempre che a un certo punto il gioco non gli scoppi in mano, con il centrodestra che lo abbandona al suo destino. O che, viceversa, non trovi un canale per lui davvero conveniente nel "vendersi" come il kingmaker del presidente. Per inciso, con l'elezione di Mattarella celebrò il "capolavoro" politico, salvo poi trovarsi un presidente con il quale non è mai andato d'accordo. E con la defenestrazione di Conte ha fatto da ariete di sfondamento per portare Mario Draghi a Palazzo Chigi. Salvo poi non incontrarlo mai».

CASO RAI, GRILLO PRENDE IN GIRO CONTE

Beppe Grillo è intervenuto ieri, a distanza, in una riunione dei Gruppi parlamentari dei 5 Stelle sull’ambiente. E ha pizzicato Conte. La cronaca di Virginia della Sala sul Fatto:

«La conferenza stampa sulle comunità energetiche e sul loro potenziamento imminente è passata ieri rapidamente in secondo piano: al palazzo dei Gruppi parlamentari a Roma l'attenzione è stata catalizzata dalle battute del fondatore del M5S , Beppe Grillo, in video collegamento. "Mi fa piacere che siamo qui con la stampa - ha detto Grillo sulle polemiche di questi giorni per le nomine Rai -: anche Conte non riesce a dare ultimatum, è lo specialista del penultimatum". Una battuta, certo, ma anche l'ennesimo graffio del Garante per l'ex premier. A cui Conte replica con un po' di imbarazzo: "Avevo detto (al Fatto, ndr) che con lui ci siamo confrontati su questo punto. Sul piano della comunicazione Grillo ha una visione non ortodossa, già in passato ha dimostrato di non essere legato molto alle apparizioni tv. Non c'è alcuna divergenza". Poi prova ad alleggerire: "C'è la Rai in sala? Ho detto che non saremmo andati nei canali del servizio pubblico, ma non è che teniamo fuori la Rai". Oltre questo sipario, ieri sedevano allo stesso tavolo sei esponenti del M5S , incluso il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, e in più il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Se si possa considerare il settimo resta mistero (benché non perda occasione per ribadire che è un tecnico senza partito). L'iniziativa presentata è positiva, il potenziamento delle comunità energetiche rinnovabili con cui è evidente che il M5S cerca di riconquistare parte della credibilità ambientale persa negli ultimi anni. "Dobbiamo riflettere sugli errori che abbiamo fatto - dice Grillo - ma siamo gli unici che possono fare questa transizione, perché non siamo coinvolti in niente, non abbiamo cointeressenze negli inceneritori e in nulla. Siamo dei dilettanti straordinari". Poi parla di (e a) Cingolani: "Quando sento Cingolani mi sciocco, ho paura, perché quando parla dice 'stiamo facendo una comunità in 5 Paesi, c'ho 1 miliardo di sovvenzioni dalla fondazione Rockefeller, coso mi dà 1 miliardo, quell'altro un altro miliardo, stiamo parlando con Musk di fare una centrale su Plutone". La scienza, rileva Grillo in quella che è una evidente battaglia tra visionari, "dice una cosa, poi l'applicazione è un'altra cosa. È un processo lento". Così, la presentazione delle comunità energetiche - che, misura Cingolani, porterà lo sviluppo di 2 gigawatt di rinnovabili su 70 da realizzare entro il 2030 - assume un valore fortemente simbolico: ribadire, come fanno Conte e il ministro Patuanelli, che la questione ambientale è nel Dna dei pentastellati ("Oggi tutti parlano di transizione ecologica ma noi ne parlavamo già 15 anni fa" dice con realismo Patuanelli), indicare la via che potrebbe portare al 20% di risparmio in bolletta e alla decarbonizzazione, come fa il parlamentare Gianni Girotto, pilastro del M5S su questi temi, parlare di "comunità" e di rivoluzione dal basso. Poi però bastano poche domande e tutto torna al suo posto: il nucleare? Il gas? Conte dice che il M5S non le ritiene fonti energetiche da incentivare, non importa cosa dica la tassonomia Ue, mentre Cingolani, che specifica "di parlare solo per Cingolani", la attende per capire quanto investire in ricerca e sviluppo su soluzioni come i mini reattori. Poi se ne va, in anticipo e di fretta. La conferenza è di fatto finita».

Maurizio Crippa sulla prima pagina del Foglio non si lascia sfuggire l’occasione di un commento.

«Uomo tutto d'un pezzo, ma di caucciù, deformabile a piacere e all'infinito a seconda di chi tiri e dove, ma senza mai perdere l'indeformabile sorrisetto per tutte le stagioni, ieri Giuseppi Conte ha finalmente dimostrato di avere davvero qualcosa che lo avvicina ad Aldo Moro: il talento per l'ossimoro, la capacità di violare senza violazione il principio di non contraddizione. Che una decisione annunciata una settimana fa come irreversibile possa essere ora non più irreversibile, sbalordirebbe anche l'inventore delle convergenze parallele. Non vogliamo "prendere una decisione irreversibile", ha detto a proposito della scelta di non andare più in Rai. E che c'è di strano? S' è mai visto qualcuno prendere una decisione e volerla mantenere? Va da sé che il comico in chief, garante del Movimento o di quel che, irreversibilmente, è diventato, non potesse fare a meno di infilzarlo: "E' un gentleman, non riesce a dare degli ultimatum, è uno dei più grandi specialisti di penultimatum". Dall'arbiter elegantiarum che è, l'avvocato dovrebbe sapere che "rever" è termine che s' addice al bavero delle giacche. Farsi prendere per il bavero dalla propria stessa inconsistenza, è una brutta faccenda».

Per Antonio Polito sul Corriere Conte e Salvini sono due “Re travicello”.

«Come mai i due più grandi interpreti della stagione del populismo appaiono oggi i leader in maggiore difficoltà? Sia Salvini sia Conte hanno perso mordente. Il primo sembra alla rincorsa continua dei suoi governatori e dei suoi ministri. Ha appena finito di alzare la voce per riaffermare la propria autorità dopo le critiche di Giorgetti. Gli hanno detto tutti di sì, il capo sei tu: e poi hanno ripreso a occuparsi del governo regionale e centrale a modo loro. Si è visto con chiarezza nella vicenda del cosiddetto «super green pass»: Salvini si è attardato a difendere il tampone dei non vaccinati, mentre tutte le Regioni del Nord spingevano per scelte di maggior rigore in difesa dei vaccinati. Ha invece addirittura sorpreso l'arringa con cui l'ex «avvocato del popolo» Conte ha difeso la sua prerogativa, in quanto capo del M5S, di scegliere almeno uno dei direttori Rai. Sia perché è una implicita ammissione di sconfitta («specialista di penultimatum», l'ha definito Grillo); sia perché stride con la benemerita tradizione anti-lottizzatoria del Movimento. Mentre Salvini sembra controllare il partito ma non la sua politica, a Conte viene lasciato il compito di occuparsi di politica senza controllare il partito. Il primo non è riuscito così a trasformare una forza territoriale e di governo come la Lega in un movimento di euro-destra sovranista; il secondo sta verificando quanto sia difficile fare di un movimento populista fondato da Grillo una forza politica moderata e di centro. Intendiamoci, entrambi restano la migliore chance per i rispettivi partiti alle elezioni: alternative o sostituti non se ne vedono. Ma su tutti e due incombe la sindrome del «re-travicello»: trasformarsi in leader che regnano ma non governano».

LA SCELTA DI MARIO, LE MARCHE DICONO SÌ

Mario può scegliere di morire  in una forma di suicidio assistito. Dalle Marche, la sua regione, arriva il sì del comitato etico ma ci sono dubbi sul farmaco da usare. La cronaca di Giusi Fasano per il Corriere:

«Ad agosto del 2020 aveva avuto il via libera per andare a morire in Svizzera. Ma Mario, 43 anni, marchigiano, tetraplegico dopo un incidente stradale, oggi è il primo italiano al quale sono riconosciuti i requisiti necessari per accedere al suicidio assistito nel nostro Paese. Così ha deciso il Comitato etico della sua azienda sanitaria di riferimento - la Asur Marche - che ha fondato la sua valutazione sulla relazione dell'équipe medica che per giorni e giorni, a settembre, aveva visitato il paziente nella casa in cui vive con sua madre. La Corte Costituzionale aveva stabilito i requisiti per accedere alla dolce morte e si trattava semplicemente di verificare, con le visite mediche appunto, che valessero per il caso di Mario. Per farlo ci sono voluti 13 mesi, più due per arrivare alla decisione del Comitato etico. E adesso si rischia di allungare ancora i tempi e, secondo la Regione Marche, perfino di tornare in tribunale per sciogliere i nodi di un'altra questione: le modalità e la metodica di somministrazione del farmaco letale, dettagli sui quali, dicono loro, «il comitato etico ha sollevato dubbi». «Non è così» se la prendono dall'Associazione Coscioni. Con una nota, Marco Cappato e Filomena Gallo, tesoriere e avvocata, nonché segretaria nazionale dell'Associazione, rispondono che «il Comitato non ha validato le modalità tecniche per l'autosomministrazione del farmaco, ma quel che la Regione non dice è che la responsabilità di definire le procedure tecniche non è del malato ma del servizio sanitario, che però si rifiuta di farlo». «Una trappola burocratica», la definisce Cappato. Tutto questo mentre si fa sentire la voce della Pontificia Accademia per la Vita: «Meglio le cure palliative che incoraggiare a togliersi la vita». E mentre in Parlamento i relatori alla legge alla Camera sul suicidio assistito aprono a una delle principali richieste di Lega, FI e Fdi, cioè la possibilità per il personale sanitario di fare obiezione di coscienza. È un tentativo di fermare due anni di ostruzionismo del centrodestra e far uscire dalle secche una legge che la Corte Costituzionale ha sollecitato nel 2019 con la sentenza sul caso Cappato/dj Fabo. Con quella sentenza la Corte stabilì, a certe condizioni, la non punibilità del suicidio assistito per chi lo agevola e in quello stesso provvedimento invitò il Parlamento a intervenire, giudicando «indispensabile» una legge. Di cui però ancora oggi non c'è traccia. «Votiamo quel che ha chiesto la Consulta» scrive sui suoi profili social Laura Boldrini, deputata del Pd. La senatrice Emma Bonino, però, ai microfoni di Rai Radio1, ospite della trasmissione Un Giorno da Pecora , dice che no, non crede che presto ci sarà una legge in tal senso, e si dice «contenta per Mario che ora si sente più libero». Sul caso di Mario interviene anche Beppino Englaro, padre di Eluana: «È un passo avanti per il nostro Paese perché permette finalmente di vedersi riconoscere i propri diritti fondamentali».

Eugenia Roccella su Avvenire è critica verso quella che appare un’operazione mediatica, per spingere in favore di una legge che introduca l’eutanasia.

«Mario è tetraplegico, dunque è in una condizione di gravissima disabilità. Un incidente stradale gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale. Vuole morire, e ritiene di poterlo fare, grazie alla recente sentenza della Corte costituzionale (242/2019) che però pone una serie di condizioni perché l'aiuto al suicidio non sia penalmente perseguibile. I paletti posti dalla Consulta sono chiari: la persona deve essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ed essere in grado di esprimere una decisione libera e consapevole. Mario, assistito dai radicali dell'Associazione Coscioni, non vuole andare in Svizzera, come ha fatto Dj Fabo, che con il suo caso, e il processo a Marco Cappato che ne è seguito, ha aperto la strada alla sentenza della Consulta. Non vuole nemmeno utilizzare la legge sulle Dat, che permette di morire interrompendo idratazione e alimentazione. Vuole che si riconosca che per lui le condizioni dettate dalla Corte costituzionale ci sono, e che può porre fine alla sua vita assumendo 20 grammi di Tiopentale sodico, farmaco usato in 37 Stati dove vige la pena di morte, per le esecuzioni dei condannati. Il Comitato etico competente, il cui parere è indispensabile, ha espresso molti dubbi: secondo gli esperti non viene motivata scientificamente la scelta del dosaggio del farmaco letale né sono indicate le modalità di somministrazione, non si dice se verrà fornito prima un anestetico o un ansiolitico, e nemmeno cosa fare se il farmaco fallisce. Il Comitato dichiara quindi che «la richiesta di fornire una valutazione relativa all'oggetto (modalità, metodica e farmaco) non può essere soddisfatta», e conclude che non è di sua competenza «indicare le modalità alternative» al protocollo di morte proposto. Non è chiaro, quindi, il senso di titoli e comunicati quasi trionfalistici su quello che è definito «il primo caso di suicidio assistito» nel nostro Paese. Anzi, è chiaro. C'è un obiettivo politico: arrivare all'eutanasia come opzione facile e libera. C'è un obiettivo culturale: distruggere l'idea di intangibilità della vita. Per farlo bisogna andare avanti per forzature progressive. Oggi il traguardo dei militanti dell'eutanasia è sfondare gli argini alzati dalla Consulta, e stabilire che Mario, che non è attaccato a nessuna macchina, si possa egualmente considerare dipendente da sostegni vitali, allargando il concetto fino a comprendere qualunque terapia. E poi disporre ufficialmente un protocollo sperimentale di morte, che per fortuna in Italia ancora non esiste. Così, mentre le terapie intensive tornano a riempirsi, e l'inquietudine per i contagi di Covid in aumento serpeggia per tutta l'Europa, si cerca di far passare la morte autoprocurata non come una scelta libera e tragica, che una comunità solidale deve cercare di evitare, ma come un diritto che il Servizio sanitario è obbligato a offrire. In un momento come quello che attraversiamo, in cui per bloccare la pandemia è più che mai necessario ricordare che ognuno di noi non ha solo la responsabilità di sé e della propria salute ma anche quella dell'altro, soprattutto di chi è più fragile, siamo posti di fronte a una scelta. Dobbiamo decidere se vogliamo un Paese dove la morte è un diritto del singolo, a cui possiamo essere indifferenti, o se l'Italia deve restare il Paese dove il presidente della Repubblica premia la carabiniera Martina, capace di passare tre ore su un ponte, accanto a una donna che aveva già scavalcato il parapetto, convincendola a non buttarsi. Questo è il Paese che amiamo».

MIGRANTI E VITA, LE PREOCCUPAZIONI DELLA CEI

L'attenzione del cardinale Bassetti, presidente della Cei, è rivolta soprattutto alla condizione dei migranti alle porte dell’Europa e ai giovani del nostro Paese. La pandemia e i vaccini stanno dividendo l’Italia. Mimmo Muolo per Avvenire.

«Giovani e migranti. Persone che soffrono per il Covid e vittime di abusi. E poi il nostro «pianeta malato» e la necessità di far fronte alla quarta ondata della pandemia con senso di responsabilità. Ci sono tutti i temi dell'attualità nello sguardo d'insieme con cui il cardinale Gualtiero Bassetti si è rivolto questa mattina, martedì 23 novembre, ai vescovi italiani riuniti a Roma per la 75ª Assemblea generale straordinaria. E c'è naturalmente nella sua introduzione (che Avvenire pubblica integralmente) un approfondimento sul cammino sinodale della Chiesa italiana. Il presidente della Cei non ha mancato di fare riferimento al Papa, che lunedì ha aperto i lavori assembleari dialogando in forma riservata con i vescovi. «Come sempre - ha sottolineato - ci ha rivolto parole importanti, che ci spronano a cogliere le occasioni di grazia che questo tempo ci offre». E ha rivolto un grazie anche al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per il servizio reso al Paese in questi sette anni». La radiografia di Bassetti è partita dalla Settimana sociale di Taranto, spunto per ricordare che «il pianeta è malato, perché sono malate le relazioni tra di noi. Abbiamo tradito il mandato divino di coltivare e custodire la creazione », ha aggiunto il presidente della Cei, ma la presenza a Taranto di tanti giovani fa ben sperare. Ma il porporato ha levato un nuovo allarme per le migliaia di nostri ragazzi che «ogni anno in Italia fanno le valigie per cercare fortuna altrove. Molti stentano a trovare lavoro qui oppure sono demotivati a tal punto da rinunciare a cercare un'occupazione o a studiare per raggiungerla ». Non possiamo assistere impotenti a una tale situazione, ha detto Bassetti. Occorre invertire la tendenza. Ma la cronaca di questi giorni offre anche altri elementi di preoccupazione. Tra gli scenari drammatici che non è possibile ignorare, ha citato la Libia e «quanto sta avvenendo nei confronti dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, e a quelli che dalle coste del Maghreb si avventurano nel Mediterraneo». «Sono vicende che non appartengono alla cultura europea generata dal Vangelo», ha ammonito. Quanto poi alle difficoltà causate ancora dalla pandemia ha aggiunto: «Di fronte all'aumento dei contagi, che registriamo anche in Italia, serve un surplus di responsabilità da parte di tutti: proprio adesso è necessario fare quello sforzo ulteriore che ci aiuterà a superare il secondo inverno difficile nel nostro Paese e in tutto il mondo. La divisione in fronti contrapposti indebolisce sia la tenuta della società sia il cordone sanitario che ci ha permesso di salvaguardare i più fragili e di contenere significativamente il numero delle vittime». È invece necessario pensare ai più piccoli e ai più fragili (i bambini e gli anziani soprattutto), senza dimenticare le vittime di abusi fisici e psicologici, anche in ambienti ecclesiali. «Sono persone - ha sottolineato Bassetti - segnate da ferite che richiedono molto tempo e fatica per guarire. La Giornata di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, istituita dal Consiglio Permanente, che abbiamo celebrato pochi giorni fa, è un ulteriore segno concreto dell'attenzione e della vicinanza della nostra Chiesa». Il presidente della Cei si è poi soffermato sul Cammino sinodale della Chiesa in Italia, sottolineando la dimensione dell'ascolto. «Abbiamo l'opportunità - ha ricordato - di coinvolgere tutti i credenti, anche quelli più tiepidi, facendoli sentire non accessori o meri destinatari, ma essenziali della vita della Chiesa». Un vero ascolto, ha concluso il cardinale, è tale «se non c'è più chi parla soltanto e chi ascolta soltanto; tutti siamo in ascolto gli uni degli altri, e soprattutto in ascolto dello Spirito». Dunque «nessuno è esclusivamente docente e nessuno è esclusivamente discente: ci si ascolta, si impara e si cresce insieme».

DOMANI LA GIORNATA ONU CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

La giornata del 25 novembre è dedicata alla lotta in difesa delle donne vittime di femminicidi e di violenza di genere. Viola Giannoli per Repubblica fa il punto sulla situazione, anche legislativa, in Italia.

«Se in soli 11 mesi ci sono già stati 109 femminicidi, se le vittime di violenza sono 89 al giorno, se solo il 15% delle donne denuncia gli abusi prima di venire uccisa, se le misure di sicurezza e quelle facoltative vengono applicate in pochissimi casi e nelle sentenze dei tribunali si legge che le vittime "provocano" o si parla di "relazioni burrascose" davanti ai maltrattamenti, qualcosa non sta funzionando. Dall'omicidio d'onore, l'Italia si è dotata di un poderoso patrimonio legislativo contro gli uomini violenti ma poi c'è Juana Cecilia Hazana Loayza, morta ammazzata in un parco di Reggio Emilia per mano del suo ex, Mirko Genco, già condannato per atti persecutori contro di lei, già denunciato dalla precedente compagna, orfano a sua volta di un femminicidio. La relazione della Commissione d'inchiesta sul femminicidio restituisce l'immagine di un Paese in cui le donne non sono ancora sufficientemente tutelate. O meglio, spiega la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione, «gli strumenti ci sono - dall'allontanamento dell'uomo violento al braccialetto elettronico - ma raramente vengono utilizzati. Bisogna saper leggere correttamente il fenomeno, che risiede nella sperequazione di potere della relazione uomo- donna, nella visione patriarcale delle società. Serve la specializzazione dei tribunali, la formazione delle forze dell'ordine, dei giudici, degli avvocati, dei medici e degli insegnanti». Poche denunce. La Commissione sui femminicidi ha preso in esame un solo bienno, il 2017-2018, quando le donne uccise sono state 216, più della metà dai partner. «Il 63% delle donne uccise non aveva parlato con nessuno della violenza. Solo il 15% aveva denunciato l'autore - spiega Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell'Istat che ha curato parte del rapporto - Due dati molto gravi che chiamano in causa tutti noi: padri, madri, amiche, amici». A volte, si legge nel report, il racconto a una persona fidata, una mamma, una zia diventa la prima e troppo spesso l'unica esternazione della violenza subita. Nella maggior parte dei casi, lo sfogo non si traduce in denuncia. «Ma chiamate in causa - aggiunge Sabbadini - sono anche le istituzioni che non riescono a raggiungere donne che ne hanno bisogno». Il rischio sottovalutato. Poi ci sono quelle che denunciano: minacce, lesioni, tentati di strangolamenti con tanto di certificati medici. Reati gravi che farebbero scattare anche misure cautelari. E invece «da parte dell'autorità - dicono le commissarie - non vi è stata un'adeguata valutazione della violenza». E quelle donne sono morte. Ma se le querele sono così rare è evidente che quando le vittime trovano il coraggio la situazione è drammatica. «Il 79% delle uccise che aveva denunciato aveva indicato di temere per sé e i figli. La maggioranza aveva sporto più di una denuncia, segno di una piena escalation della violenza. Le donne devono essere credute » sottolinea Sabbadini. Ma nei centri più piccoli, in cui si conoscono tutti, vengono dissuase. «Il femminicidio - dice Antonella Veltri, presidente della rete anti violenza D.i.Re - non è un evento imprevedibile. Le donne uccise avevano cercato aiuto, si erano separate dai maltrattanti, a volte erano stati emessi provvedimenti. Non è bastato. Manca la valutazione del rischio: va fatta con i centri anti violenza che usano una metodo consolidato per scegliere il livello di protezione di ogni donna». Pene e attenuanti. Sui 118 processi arrivati a sentenza per i femminicidi considerati dalla Commissione parlamentare, ci sono state 98 condanne, 19 assoluzioni, un patteggiamento. «Sono di meno gli autori condannati a ergastolo e a 30 anni di quelli condannati a meno di 20 anni», dice Sabbadini. Pene inferiori a quelle attese per via del rito abbreviato, poi cancellato dal "Codice rosso", e delle attenuanti. «Preoccupanti », le definiscono le commissarie. A leggerle si trovano anche «l'essere un ottimo lavoratore attaccato alla famiglia» o «i problemi economici e di salute della moglie», uccisa. I figli orfani o sottratti. Anche i bambini diventano vittime della stessa violenza: uccisi dai padri, orfani di madri (169 in quei soli due anni) o sottratti alle donne che denunciano i violenti. Come nel caso di Laura Massaro, una sopravvissuta della violenza, che lotta da anni per stare con suo figlio. «Il processo penale per violenza e quello civile di separazione seguono strade separate: un uomo violento può essere considerato un buon padre a cui affidare i bambini - spiega Valente - Così le donne non denunciano anche per paura di perdere i figli».

IL CASO ROWLING, MINACCIATA SUI SOCIAL

Nuove minacce contro J. K. Rowling, la scrittrice che ha inventato la saga di Harry Potter. Alcuni attivisti trans hanno rivelato l'indirizzo della sua casa sui social. Paola De Carolis per il Corriere.

«L'indirizzo di casa su Twitter. Ha sopportato il biasimo di colleghi, editori, attori e anche dei divi da lei creati, ma c'è un limite a ciò che si accetta in silenzio, anche quando ti chiami J.K. Rowling. Di fronte alla decisione di tre giornalisti attivisti-trans di pubblicare sui social la fotografia della villa dove abita con il marito e i figli, l'autrice di Harry Potter ha rivendicato la libertà di parola e opinione e puntato il dito contro chi nel nome della correttezza politica e dell'inclusione vuole togliere la voce a chi si esprime a favore dei diritti delle donne biologiche. «Non so cosa credevano di ottenere», ha precisato Rowling citando i nomi dei responsabili, «ma ormai ho ricevuto così tante minacce di morte che potrei tappezzarci la casa». Non le fa più tanta impressione, insomma, essere presa di mira, anche perché si sente protetta dall'affetto di tanti lettori e seguaci, che sui social hanno subito denunciato la foto, e dalla polizia scozzese, ma che dire di tutte le donne che invece sono più isolate? «Nell'arco degli ultimi anni ho guardato con sconcerto il caso di Allison Bailey, Raquel Sanchez, Marion Miller», tutte «cancellate» un po' come lei, sino a tempi recentissimi e a Kathleen Stock, la professoressa di filosofia dell'università del Sussex costretta a dare le dimissioni perché, come Rowling, sostiene che sia sbagliato che il concetto di «genere» sostituisca completamente quello di «sesso biologico». «Nessuna di queste donne - ha precisato Rowling - è protetta nel modo in cui lo sono io. Assieme alle loro famiglie sono state messe in uno stato di paura e angoscia». «Forse il modo migliore di dimostrare che il vostro movimento non è una minaccia per le donne è di smettere di seguirci e di molestarci», ha scritto Rowling. Sui social diverse donne e associazioni trans si sono schierate dalla sua parte, dichiarandosi contrarie a intimidazioni di ogni tipo, ma nel Regno Unito difendere i diritti delle donne biologiche separatamente da quelli delle donne trans rimane un campo minato, sebbene anche il portavoce del primo ministro Boris Johnson si sia espresso a favore di Rowling. «Nessun individuo dovrebbe essere preso di mira in questo modo. Crediamo che tutti abbiamo il diritto di essere trattati con dignità e rispetto e di condividere le proprie vedute». Se da una parte il suo intervento sui diritti di donne trans e biologiche, che risale al giugno 2020, è stato candidato a un premio di filosofia dedicato a Bertrand Russell, dall'altra Rowling è stata pubblicamente criticata dalla casa editrice Bloomsbury, che ha dato i natali anche a Harry Potter, e non è stata inclusa nei festeggiamenti dei 20 anni dall'uscita del primo film della fortunatissima serie cinematografica».

IL TRATTATO DEL QUIRINALE “NON È UNA SVENDITA”

Domani al Colle la firma tra Mario Draghi ed Emmanuel Macron del Trattato fra Italia e Francia. Il Trattato prevede maggiore cooperazione tra i due governi, mentre si assicura che il testo andrà in Parlamento. Le indiscrezioni della vigilia sono raccolte da Anais Ginori per Repubblica.

«A poche ore dalla firma, le diplomazie sono ancora al lavoro per finalizzare gli ultimi ritocchi del "Trattato fra la Repubblica francese e la Repubblica italiana per una cooperazione bilaterale rafforzata". L'intesa che Mario Draghi e Emmanuel Macron andranno a ufficializzare venerdì mattina è destinata a cambiare gli equilibri in Europa. Nell'assoluto riserbo sul testo, l'Eliseo ha voluto spiegare quello che il patto non è. Non è vero, hanno precisato gli sherpa di Macron, che il patto andrebbe a «rafforzare un atteggiamento predatore della Francia sull'economia italiana». Una posizione «totalmente falsa» risponde l'Eliseo che insiste sul carattere «paritario» dell'intesa. «L'Italia ha ritrovato il suo ruolo da protagonista in Europa e questo è importante anche per noi» continua l'Eliseo citando la volontà di Macron di lavorare con Roma in vista della presidenza francese dell'Ue che comincia a gennaio. Dalla sicurezza alla cultura, dai trasporti all'ecologia, Francia e Italia si impegnano a «strutturare la loro relazione» dentro una cornice solenne e istituzionale. Il modello lontano a cui ispirarsi è il trattato franco- tedesco dell'Eliseo che firmarono De Gaulle e Adenauer quasi sessant' anni fa, poi aggiornato nel 2019 ad Aquisgrana. Da Parigi però si evitano paragoni. «Con la Germania c'era la necessità di una riconciliazione - ricordano gli sherpa di Macron - mentre con l'Italia c'è una prossimità forte e un'eredità culturale comune». Dall'Eliseo non si vuole presentare il patto come un asse alternativo con Roma nel dopo-Merkel. «Non giochiamo al triangolo delle gelosie» precisa un consigliere di Macron. Il cosiddetto trattato del Quirinale sarà firmato da Draghi al Colle. Una concessione istituzionale decisa insieme a Sergio Mattarella - che riceverà Macron domani - per rispettare il nome coniato nel vertice bilaterale del settembre 2017 con l'allora premier Paolo Gentiloni. Il leader francese aveva annunciato a sorpresa l'idea, rispondendo a una domanda di un giornalista dell'Ansa sull'ipotesi di un patto con Roma simile a quello esistente tra Parigi e Berlino. Da allora c'è stato un lungo e complesso lavoro preparatorio, frenato dalle tensioni politiche durante il governo Conte, poi riavviato con convinzione da Draghi. Il testo è accompagnato da un allegato che stila una road map per il breve-medio termine. Al livello istituzionale, i due Paesi si impegnano a una serie di meccanismi di consultazioni periodiche al fine di «intensificare il dialogo congiunto al livello tecnico e operativo» tra ministeri, parlamenti e altri organismi vari. Gli obiettivi sono per esempio fluidificare la cooperazione alla frontiera e coordinare gli investimenti in settori strategici come il cloud, la produzione di batterie elettriche e semi- conduttori, lo sviluppo dell'idrogeno. Una parte del trattato è dedicata agli scambi culturali, con incentivi all'insegnamento delle rispettive lingue, un servizio civile unificato per i giovani, ma anche proposte originali come un "Grand Tour" degli artisti o il lancio di una piattaforma per la diffusione di film coprodotti. Non manca l'impegno comune per scambiare buone pratiche nella sfida della transizione ecologica e nella protezione di ecosistemi a rischio come le Alpi e il Mediterraneo. Dopo la firma, il testo passerà al vaglio dei rispettivi Parlamenti. «Come è da prassi per i trattati internazionali - osserva l'eurodeputato Sandro Gozi - gli accordi vengono prima negoziati e firmati dai governi e poi analizzati, valutati ed eventualmente ratificati dai Parlamenti».

BIDEN PROVA A FERMARE L’INFLAZIONE

Si affida ad esperti scelti da Trump, Joe Biden nell’affrontare il tema per lui più insidioso: l’inflazione. Ecco l’analisi del Foglio.

«La Casa Bianca mette sul mercato 50 milioni di barili di greggio della riserva strategica nazionale per ridurre i costi dell'energia e l'inflazione. Mossa concordata con Cina, India, Giappone, Corea del sud e Regno Unito alla quale Joe Biden ha lavorato per giorni, e che sottrae potere all'Opec, il cartello arabo spalleggiato dalla Russia. Dalla Strategic Petroleum Reserve verranno 32 milioni di barili e altri 18 dall'accelerazione di produzione già autorizzata dal Congresso in èra Trump. Il resto del fronte anti Opec non ha ancora tempi e quantità ma appare chiaro che Biden si era già assicurato la loro collaborazione, a partire dalla lunga conversazione con il leader cinese Xi Jinping. Negli Usa ci sono pochi precedenti: la guerra del Golfo del ' 91, gli uragani del 2005, la guerra in Libia del 2011. Il governo giapponese non ha mai attinto alle riserve strategiche ma ha autorizzato le aziende private nel 1991 e per il terremoto del 2011 che distrusse la centrale nucleare di Fukushima. La Cina in genere agisce e poi comunica. Gli Usa sono i maggiori produttori e consumatori di petrolio del mondo mentre non hanno le maggiori riserve, primato che spetta a Venezuela, Arabia Saudita e Canada. Ma questa classifica è poco significativa in quanto ciò che conta è la possibilità di mettere rapidamente il greggio sul mercato. I 50 milioni sono una frazione dei 600 milioni di barili della riserva strategica ma lanciano un segnale geopolitico e pratico: ne resteranno delusi gli ambientalisti che si aspettano l'abbandono delle energie fossili attraverso minori consumi ( e incombe anche la sovraproduzione di carbone nella West Virginia). Ma la transizione energetica non è attuabile in tempi rapidi, mentre la prima urgenza per gli elettori e la Casa Bianca è domare l'inflazione. In questo senso va anche la conferma a capo della Fed di Jerome Powell, sostenitore della fine degli acquisti di titoli pubblici, senza per ora aumentare i tassi. Due decisioni old style, ma la cifra di Biden è il realismo. La creatività è una gran bella cosa, quando è attuabile».

IL MONDO SECONDO SCHWAB

Ha appena incontrato a Roma, come da comunicato ufficiale della presidenza del Consiglio, Mario Draghi. Ma Klaus Schwab, influente organizzatore del World Economic Forum, non racconta a Repubblica il contenuto di quel colloquio. Offre però scenari interessanti di economia internazionale, mostrando preoccupazione su tre punti: la scarsità mondiale dei prodotti, l’inflazione e il debito. Filippo Santelli:

«Abbiamo di fronte una sfida esistenziale, dice Klaus Schwab. Una sfida che mostrerà se il mondo è in grado di governare il cambiamento per il meglio, se il multilateralismo ha ancora senso, oppure no. È la corsa alle nuove tecnologie, che vede Stati Uniti e Cina sfidarsi per il primato della prossima rivoluzione industriale. «Servono delle organizzazioni globali che lavorino affinché queste tecnologie vengano utilizzate al servizio delle persone e del pianeta», spiega - in visita alla redazione di Repubblica, in un incontro a cui partecipa il direttore Maurizio Molinari - il fondatore del World Economic Forum, organizzazione che ogni anno a Davos riunisce politici, manager ed economisti in uno dei più importanti summit globali. Nel mondo che prova ad uscire dalla pandemia, i venti che soffiano contro la ripresa sono tanti, sostiene il professore: dall'inflazione alle diseguaglianze, che il virus è tornato ad allargare. La conferenza sul clima Cop26 si è chiusa con esiti in chiaroscuro. Che prospettive vede per la battaglia contro il cambiamento climatico? «A mio avviso Cop26 è stata una pietra miliare, perché ha mostrato che questioni di questa portata non possono essere risolte da governi, imprese o dalla società civile singolarmente. C'è bisogno di piattaforme che mettano insieme questi attori. I risultati concreti di Glasgow sono soprattutto legati a iniziative in cui sono state le aziende a prendere la guida, per esempio la "First movers coalition" annunciata da Biden in collaborazione con il nostro Forum, che unisce il potere commerciale delle aziende in modo da finanziarie tecnologie in via di sviluppo. Un esempio: Maersk (colosso del trasporto navale, ndr) ha annunciato l'acquisto di cargo a carburante verde, anche se la tecnologia non è ancora a punto, dando così una spinta al suo sviluppo». Quindi il ruolo cruciale è del settore privato più che dei governi? «È essenziale la cooperazione dei tre pilastri: i governi, che devono fissare gli obiettivi, creare incentivi e disincentivi, la comunità del business, che deve prendere impegni e metterli in pratica, e la società civile che può contribuire molto». Come si bilanciano gli investimenti necessari in rinnovabili con la dipendenza che ancora ha il mondo dai combustibili fossili? «Non sappiamo ancora come condurre la trasformazione. Nel 2040 il mondo avrà bisogno del doppio dell'elettricità, e oggi il mix globale è 60-65% combustibili fossili, 15-20% rinnovabili e circa il 10% di nucleare. Una doppia sfida: aumentare la produzione di elettricità e allo stesso tempo far scendere nel mix il fossile. Possiamo gestirla solo con nuove tecnologie per la de carbonizzazione, investendo nella rete elettrica, discutendo sulla fusione nucleare. Dobbiamo sperimentare su più fronti, ma abbiamo ancora bisogno di scoperte fondamentali per centrare gli obiettivi». La ripresa globale durerà? «Non sappiamo quanto sia duratura, ci sono molti venti contrari. C'è il fenomeno "della scarsità" (delle materie prime e delle merci, ndr): la pandemia ha portato giù la capacità produttiva, mentre la domanda è salita. Dove si troverà il nuovo equilibrio? C'è l'inflazione: alcuni ritengono sia temporanea, ma potrebbe essere anche incorporata nei salari e influenzare le aspettative, prolungandosi o diventando addirittura stagflazione. E poi c'è il debito: l'economia ora viaggia sotto gli steroidi degli stimoli, ma come verranno ritirati? Se i tassi salissero di un punto, un Paese indebitato come l'Italia pagherebbe 1,6 punti di Pil di costi extra per finanziarsi. L'unica strada è tenere bassa l'inflazione, stimolare la crescita e tenere giù i tassi. Ma come si fa? Le scelte politiche non sono mai state così difficili». E i governi sono pronti? «I politici, ahimè, sono sempre più focalizzati sul breve periodo: una modalità di gestione delle crisi che non lascia tempo per i lunghi progetti. Anche la polarizzazione della società non aiuta, perché la politica richiede compromessi». Stati Uniti e Cina possono trovare un modo per lavorare insieme? L'accordo sul clima di Glasgow sembra mostrare che una convergenza di interessi è possibile. «Credo ci sia spazio per una cooperazione in aree specifiche. Ma la sfida fondamentale tra Stati Uniti e Cina rimarrà, perché riguarda il dominio della quarta rivoluzione industriale, chiave della leadership globale. La Cina ha capito di essere caduta nel XIX e XX secolo perché è rimasta indietro nelle rivoluzioni industriali, prima nei confronti della Gran Bretagna e poi degli Stati Uniti. Ora ha capacità tecnologiche sempre più avanzate, quindi la competizione con l'America continuerà. Per questo credo siano necessarie delle organizzazioni globali che lavorino affinché le nuove tecnologie siano usate al servizio dell'uomo e del pianeta, che ragionino su limiti e opportunità, e che disseminino velocemente quelle chiave, per esempio per la sfida climatica». Si potrà evitare un conflitto? «I rischi di conflitto ci sono. Ma credo nella razionalità dei decisori politici, credo che entrambe le parti sappiano cosa c'è sul tavolo. La recente telefonata tra Biden e Xi mi ha confermato che c'è spazio per la cooperazione». Di cosa si parlerà a Davos a gennaio? «Di tutto ciò e di un altro tema preoccupante: l'aumento delle diseguaglianze. Il Covid è tornato a far crescere la distanza tra Paesi industrializzati e resto del mondo. Si stima che 200 milioni di persone siano state respinte indietro nella povertà. Ma la forbice si allarga anche all'interno dei Paesi industrializzati: una politica monetaria a tassi a zero premia chi possiede asset come azioni e immobili, e svantaggia gli altri. In più c'è l'impatto dell'evoluzione tecnologica sulla classe media e il lavoro. Queste forze spingono verso una società più diseguale. I governi devono capire cosa fare».

AFGHANISTAN, 100 GIORNI CON I TALEBANI

Bilancio ragionato dei primi cento giorni del governo talebano di Kabul. Domenico Quirico sulla Stampa.

«Cento giorni dopo il disastro il problema è irrisolto: trattare con il diavolo talebano? Questo avviene ogni qual volta il nemico viene tratteggiato come una delle figure del Male assoluto. Quando si deve rinunciare a questa identificazione, proficua per infiammare la guerra, e si passa alla diplomazia ci si accorge che non esiste Terrorismo senza terroristi, Fanatismo senza fanatici, Integralismo senza integralisti. Ed Emirato afgano senza taleban. Come lo raccontiamo allora dopo questo breve tempo? Con le immagini dei bambini denutriti in ospedali dove tutto salvo i loro sguardi è annientato dalla miseria. Sono loro che continuano a pagare il prezzo della guerra, sono loro che non dimenticheranno mai, se sopravvivono, quale sia stato il vero prezzo da pagare. E quelle degli afgani "senza qualità" che non abbiamo portato via e a cui non sono rimaste neppure la fuga, la diserzione, le armi modeste e sacrosante con cui l'uomo comune ha difeso sempre il suo diritto a sopravvivere dal sopruso di volerlo morto. Non morire è il loro ideale, il più degno di tutti. L'unico in cui scorgo l'onore, perfino il coraggio. Sofferenza infinita. Da appena cento giorni l'Afghanistan è sospeso in una zona scura, con i suoi segni, i suoi messaggi, i suoi geroglifici, ai margini di una estensione ridiventata ignota, che prolunga tra le ombre il mondo della nostra Storia. Unica cosa certa è che la guerra è finita ma non la sofferenza degli afgani, tra attentati micidiali, fame e inverno incombenti, oscurantismo applicato con omeopatica ma spietata efficienza. La tentazione dell'oblio tra noi sconfitti, quella, avanza. Più che le cose dette pesano le reticenze. Uomini, donne e bambini afgani irremissibilmente retrocedono nella gerarchia delle urgenze delle cancellerie, anime svanite, come ricacciate in una nuova gestazione. E sopravvivono solo nella indomita pignoleria di minoranze misericordiose, il loro riaffermare che anche lì restiamo presenti. Nessun passo indietro. Se mai c'erano dei dubbi sul diavolo ora almeno questi sono fugati. Perché i taleban sono stati in questi cento giorni coerenti. Hanno disegnato fortemente i propri contorni. Nei loro piani era il progetto di ereditare intatto l'Afghanistan dal vecchio governo, compresi gli indispensabili aiuti umanitari internazionali. Hanno preso in mano il caos e questo li ha portati molto vicini al disastro. Ma non hanno fatto un passo indietro nei loro santificati soprusi. Chi li dipingeva panglossianamente come mutati dalle comodità del potere, tendenti al moderato, disposti a far le fusa all'Occidente perché assillati dalla necessità di riconoscimento e di aiuti, ha dovuto riporre le proprie carte. Pensavano che la vittoria accade e quindi si consuma. Spiano invece, come cento giorni fa, all'epoca dell'aeroporto di Kabul, i soliti volti tremendi, colmi di un selvatico, tetro potere. L'Afghanistan dei cento giorni appare saldamente talebano e l'unico nemico che li sfida è la versione locale del terrorismo dell'Isis, che sta infoltendo i ranghi. La promessa talebana di garantire almeno la sicurezza in un paese della guerra eterna appare dunque falsa. Purtroppo neppure i più cinici fautori della realpolitik potrebbero mai immaginare di investire sul Califfato indigeno come forza di resistenza. Anzi il loro attivismo sanguinario che mette freddo alla pelle sarebbe una tentazione in più per accomodarsi alla coesistenza con i taleban, jihadisti di una guerra santa micidiale ma paesana, rigorosamente ristretta ai confini nazionali. Non genereranno una vasta prole di fanatici capace di far saltare in aria il pianeta. Non invadono, non ingombrano, restano lì. L'emirato si presenta in pericolosa e rapida discesa verso il collasso, sospeso a una mezza vita anemica. Non ci sono soldi per pagare i funzionari e soprattutto i miliziani. Conseguenza di una economia da venti anni totalmente artificiale tenuta in piedi solo dal sostegno americano e dall'aiuto internazionale. Così, con i fondi della banca centrale bloccati dagli Stati Uniti come misura di pressione e dal fondo monetario, ventidue milioni di afgani sono in situazione di insicurezza alimentare acuta e nove già alla carestia. Ancora una volta come al momento della decisione di riconsegnare il Paese ai taleban l'Afghanistan si presenta innanzitutto, a noi, come un problema morale. Cercare, dopo una sconfitta una soluzione perfetta che garantisca sicurezza, un panorama mondiale immacolato e in più sia coerente con degli assoluti morali, proprio noi che abbiamo tradito gli afgani andandocene, appare come un errore arrogante. Facciamo collezione di ragionamenti pericolosi. Politicizzare gli aiuti. E' la tentazione, neppur troppo nascosta, di politicizzare gli aiuti, ovvero subordinarli ad una accettazione di alcuni principi chiave capaci di rendere il diavolo talebano meno impresentabile, ovvero concessioni sulla libertà di donne e minoranze, e attenuazione dei bulloni della sharia sulla società. Si fanno tentativi un po' ipocriti in questa direzione, aiutando ma sotto spoglie anonime, consentendo l'invio di aiuti ma a non impegnative "organizzazioni non governative". Diciamolo: un affaruccio da usuraio, un po' vigliacco. Ai taleban è sufficiente per presentarlo come un implicito "riconoscimento". Non è affatto certo che il rapporto di forza basato sugli aiuti funzioni davvero e non renda semplicemente proprio coloro che dobbiamo aiutare come donne e bambini più esposti a fame e abbandono. I taleban da vincitori non hanno ceduto in nulla e sanno presentare la carestia come l'ennesima aggressione indiretta e vendicativa dell'Occidente a cui hanno saputo tagliare gli artigli. Strada maestra per scatenare un nuovo riflusso di odio contro gli stranieri. Purezza e rigore. Ma alla luce dei primi cento giorni siamo poi sicuri che i taleban siano davvero così ossessionati dal patire quotidiano dei loro trenta milioni di sudditi? Che abbiano per attenuarlo bisogno di noi? I jihadisti, e i taleban lo sono, hanno scarsa attenzione al benessere minuto del popolo. La compassione non fa parte della loro arte di governo. Loro compito è assicurare con gesti inequivoci la virtù necessaria per meritarsi l'apoteosi bigotta non il miraggio della pancia piena o del tasso di sviluppo. Nel loro messianismo implacabile il povero affamato è avvantaggiato nell'ascesa. Al contrario di altre tirannidi apportano alla loro violenza uno scrupolo di purezza e di rigore che la rende ancora più salda, capace di mineralizzare l'uomo. Non facciamoci illusioni sul dinamismo delle vittime, non speculiamo, ferocemente e con troppe speranze, sulle rivolte della fame. Sullo sfondo c'è la Cina che fa fluire per ora un rivolo di aiuti, barattandoli però con forniture utili. Per i taleban. Una tentazione. E una soluzione».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 24 novembre:

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