La Versione di Banfi

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Cristo si è fermato in Turchia?

alessandrobanfi.substack.com

Cristo si è fermato in Turchia?

7.700 vittime del sisma. Le sanzioni e la geopolitica bloccano gli aiuti alla Siria. Appello di Sant'Egidio e del cardinal Zenari. Sanremo patriottico con Mattarella e Benigni. Meloni a Milano

Alessandro Banfi
Feb 8
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Cristo si è fermato in Turchia?

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AVVISO PER TUTTI:
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La solidarietà del mondo occidentale è in una strada piena di ostacoli. Lo spiega benissimo in un’accorata intervista ad Avvenire il cardinal Mario Zenari, quando si augura “che si riesca a indurre la comunità internazionale a superare gli interessi politici, le divisioni”. E poi aggiunge: “Qui c’è da soccorrere l’umanità tout court. Sarà un test di umanità e saremo giudicati tutti di fronte alla storia: la Siria che deve superare divisioni e conflitti interni, come la comunità internazionale. Un vero test di umanità”. Il Corriere della Sera con Francesco Battistini spiega: “Nessuna pietà. Né per i morti, né per i vivi. La distruzione siriana resta nel cono d’ombra. D’un regime (quello di Assad ndr) che rifiuta gli aiuti, perché diretti in regioni dell’opposizione. D’una Turchia nel caos che ha chiuso le frontiere e, in questo momento, non può pensare a far passare i soccorsi diretti nel Paese vicino. D’una comunità internazionale paralizzata dalle sanzioni imposte ad Assad, incapace d’entrare in un’emergenza catastrofica”. La Comunità di Sant’Egidio chiede a gran voce di sospendere le sanzioni occidentali contro la Siria.

Scrive Alberto Negri sul Manifesto: “In questa tragedia immane la geopolitica della solidarietà si è spaccata in due. Tutti i soccorsi occidentali che si stanno approntando vanno in Turchia, pochissimi, raggiungono la Siria. In Occidente le ambasciate siriane sono chiuse, nulle le relazioni diplomatiche mentre le sanzioni europee e americane sono pervasive, il presidente degli Stati uniti Joe Biden non cita nemmeno la Siria nel suo discorso sul terremoto: neppure questa tragedia smuove la livorosa politica occidentale”. Aiutano i siriani la Russia e i Paesi arabi come Libano, Iran, Bahrain, Emirati, Algeria, Giordania ed Egitto. Mentre Usa ed Europa negano i loro aiuti. Ieri alti funzionari dell’Oms hanno lanciato l’allarme sull’emergenza umanitaria in cui si trova la Siria. Ad Aleppo ci sono le Ong e la solidarietà del volontariato internazionale, a cominciare da AVSI (trovate qui come mandare aiuti), Pro Terra Sancta (altro link qui) e Caritas (qui) che si stanno prodigando per portare aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto.

Le ultime notizie da Kiev riguardano la visita lampo del ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, che ieri ha annunciato la fornitura di almeno 100 carri armati Leopard 1A5. Mentre un numero inferiore di Leopard 2 potrebbe arrivare a marzo. In una foto pubblicata dal ministro ucraino della Difesa Oleksiy Reznikov, sul suo profilo Twitter, si vede il modellino di carro armato portato dalla Germania e regalato agli ucraini. Il segretario generale dell’Onu António Guterres  ha detto ieri che le prospettive di pace continuano a diminuire e la prospettiva di un allargamento mondiale del conflitto è più probabile.

L’Italia si è fermata ieri sera per la prima del Festival di Sanremo, segnata dall’inedita presenza del Presidente della Repubblica all’Ariston e dal discorso di Roberto Benigni sulla Costituzione. Serata “patriottica” in stile nazional popolare. Nella stampa di destra c’è chi apprezza, come Alessandro Sallusti, e chi no, come Maurizio Belpietro e Augusto Minzolini. Delle canzoni e degli artisti si scriverà e parlerà a lungo.

Domani inizia un importante Consiglio d’Europa a Bruxelles. Si riuniscono i Capi di stato e di governo dei 27  che devono esaminare due grandi temi: la politica economica della Ue (aiuti di Stato, fondo sovrano europeo, il nuovo patto di stabilità…) ed eventuali nuove norme al contrasto dell’immigrazione. Su quest’ultimo tema otto Paesi, sia nordici che mediterranei, hanno chiesto una revisione delle norme sul diritto di asilo.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae una neonata in incubatrice, che è stata salvata a Jandairis, città siriana al confine con la Turchia. La piccola è venuta alla luce tra le scosse. I soccorritori l'hanno trovata ancora legata alla madre morta. La bambina è l'unica sopravvissuta della sua famiglia.

Foto ANSA/AFP

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera punta sulle testimonianze della tragedia: Le voci da sotto le macerie. La Repubblica tematizza le polemiche sui ritardi nei soccorsi: Il tempo della rabbia. Per Avvenire invece: È l’ora della solidarietà. Mentre il Manifesto sottolinea la differenza fra la Turchia aiutata e la Siria abbandonata: La faglia dei soccorsi. Il Quotidiano Nazionale fotografa il dramma dei sopravvissuti: Grida d’aiuto, migliaia sotto le macerie. Molti anche i titoli sul Festival di Sanremo. La Stampa enfatizza l’elogio della Costituzione pronunciato da Roberto Benigni: Inno alla libertà. Anche a Libero la “prima” è piaciuta: L’Italia s’è desta pop. Mentre sono critici Il Giornale: Casino di Sanremo e La Verità: Ci mancava solo Mattarella a Sanremo. Spazio alla politica per Il Fatto, che si concentra sulle polemiche nel centro destra: Meloni, Salvini e Berlusconi litigano già su tutto. E per il Domani che si occupa delle primarie del Pd: Per Schlein la vittoria su Bonaccini non è più una missione impossibile. Il Sole 24 Ore segnala il rallentamento della nostra burocrazia statale: PA: spesa reale -14,9% nella Ue +12%. Tutti i buchi nelle assunzioni del Pnrr. Il Messaggero annuncia: Stipendi, tetto per i manager.

LA DISTRUZIONE SIRIANA RESTA NEL CONO D’OMBRA

Il bilancio del terribile terremoto in Turchia e Siria cresce ancora: 7700 le vittime stimate, migliaia i feriti. I soccorsi in Siria sono complicati dalla guerra civile strisciante. La figlia di Assad dice: «Attenti, non aiutate quelle zone» mentre vengono lanciate bombe dopo il sisma nelle aree dei ribelli. I soccorsi internazionali bloccati. Francesco Battistini per il Corriere della Sera.

«Le scosse, i morti, il buio, il gelo, la fame, la paura. E Assad. Delle sette piaghe di Siria, l’ultima è la peggiore. Due minuti di terremoto son riusciti a finire il lavoro di dodici anni di guerra, seppellendo i più sfortunati che già vivevano sigillati nei campi profughi e nelle città di cartone, ma il regime di Bashar al-Assad sa bene come peggiorare il peggio: poche ore dopo il sisma, quando ancora si levavano colonne di polvere dalle case distrutte, mentre a mani nude si scavava per tirare fuori cadaveri e feriti, l’esercito siriano ha bombardato. Raid e cannonate su Marea, 25 km a nord di Aleppo. «Un attacco davvero insensibile e atroce», denuncia il governo inglese: «Bombardamenti del tutto inaccettabili — dice il ministro degli Esteri, James Clevergy —, il metodo di comportamento d’un regime che ben conosciamo». E che usa ogni mezzo: sul profilo Instagram di «zzzeiiinnn», che poi sarebbe Zein al-Assad, 19 anni, ecco il bombardamento social della seconda figlia del dittatore. La ragazzina ha sempre vissuto a Londra con mamma Asma, costose scuole e una passione per il cachemire, e in un post trova il modo di mettere sul chi va là i suoi follower, citando un link di raccolta fondi per i terremotati d’Idlib, una delle città più colpite (e però controllate dai ribelli): «Per favore — scrive Zein —, attenti a quelli a cui donate. Questo è un gruppo che sostiene terroristi a Idlib. Le donazioni non andranno ad Aleppo, a Latakia o a Hama» (che sono invece in zone sotto il governo di Assad). Nessuna pietà. Né per i morti, né per i vivi. La distruzione siriana resta nel cono d’ombra. D’un regime che rifiuta gli aiuti, perché diretti in regioni dell’opposizione. D’una Turchia nel caos che ha chiuso le frontiere e, in questo momento, non può pensare a far passare i soccorsi diretti nel paese vicino. D’una comunità internazionale paralizzata dalle sanzioni imposte ad Assad, incapace d’entrare in un’emergenza catastrofica. Ci sono almeno 250 villaggi rasi al suolo, decine di campi profughi devastati, 400 località colpite, in ginocchio Aleppo, Hama, Latakia, Idlib. C’è una cittadina, Harem, che conta un morto ogni venti abitanti. E Jeindreis, 25 mila persone e più di mille vittime. Nessuno ci va, a parte il nunzio apostolico Mario Zenari, Sant’Egidio e qualche missionario, o i volontari della Mezzaluna rossa, tutti concordi nel chiedere una sola cosa: sospendere le sanzioni, consentire i soccorsi a chiunque, lealisti e oppositori, arabi e curdi, musulmani e cristiani. Le zone ribelli, le più colpite — 5 milioni di persone, metà delle quali già sfollate durante la guerra —, soffocano in un puzzle di microaree controllate ora dalle milizie filoturche, ora dai soldati di Assad, ora da gruppi jihadisti o che rispondono agl’iraniani. Non arriva nulla: l’unico valico aperto al mondo era quello di Bab al-Hana, al confine turco, ma è pieno di macerie e da due giorni chiuso anche quello, causa neve. Per di più, la Turchia non consente che passino aiuti non catalogati, non etichettati, non registrati. Ha gioco facile il dittatore, così, quando maramaldeggia facendo dire dal suo ambasciatore all’Onu, Bassam Sabbagh, che «tutti gli aiuti verranno distribuiti, ma dovranno prima passare per Damasco». O propone per bocca del ministro degli Esteri, Faisal Mekdad, di togliere le sanzioni. Americani e inglesi, francesi e tedeschi non vogliono che Assad tocchi un solo camion d’aiuti. Non c’è un’ambasciata occidentale, in Siria, e anche il governo italiano sta cercando di bypassare i divieti d’aiuto ricorrendo a gruppi privati. La diaspora spedisce dollari da Usa, Europa, Australia. «Ma usare questi soldi è impossibile», dice l’ong Molham, che ha pure raccolto su Instagram un milione e mezzo di euro: «Se non si sta con Assad, non si fa nulla». Nove siriani su dieci erano sotto la soglia di povertà, prima di lunedì. Ora, chissà».

ZENNARI: SPERO CHE LA SOLIDARIETÀ PREVALGA

Parla il cardinale Mario Zenari in visita nel centro di Aleppo dilaniato dal terremoto: «Voglio sperare che il senso di umanità prevalga. Che si possa arrivare al cessate il fuoco, che tacciano le armi e ci si rimbocchi tutti le maniche: saremo giudicati dalla storia». Luca Geronico per Avvenire.

«Qui le temperature sono molto rigide. Partendo questa mattina da Damasco abbiamo trovato la neve: la gente sfollata, cominciamo dal sottolineare questo, vive in questa situazione climatica molto dura». Ha appena terminato la visita alle comunità religiose e alle comunità cristiane colpite dal terremoto ad Aleppo, il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, quando risponde ad Avvenire. Parrocchie e conventi trasformatisi nel volgere di una tragica notte in primi centri di accoglienza e di coordinamento spontaneo degli aiuti. «Sono incontri molto toccanti, l’ultimo era con una comunità religiosa che sta accogliendo mille persone. Tutti mi dicono che la gente ha molto paura: pure io poche ore fa, mentre visitavo una chiesa, ho sentito il pavimento tremare. La gente ha paura di rientrare nelle case, non sono più stabili, spesso danneggiate dagli anni di guerra. Sinora non ho visto molte case rase al suolo, ma i danni peggiori sino quelli che non si vedono all’esterno: le fessure che le rendono inagibili. Un palazzo di sei piani, che ho visitato, è rimasto in piedi solo per metà. Nella parte rimasta illesa abitava un vescovo emerito, in quella crollata il suo segretario, un sacerdote di 50 anni poi estratto morto da sotto le macerie. Domani (oggi, ndr) continuerò la mia visita».

Cardinale Mario Zenari, come si può intervenire per portare aiuti umanitari in questa tragedia, tenendo conto anche della situazione politica molto complessa della Siria. Il governo ha ribadito di voler gestire gli aiuti su tutto il territorio della Siria...
È un punto molto delicato, credo che questa tragedia sia un test umanitario sia per la Siria, sia per la comunità internazionale. Tutti devono essere capaci di superare contrasti, conflitti: purtroppo qui in Siria siamo in una situazione di guerra non ancora superata. Voglio sperare che il senso di umanità prevalga, che si possa arrivare a questo auspicato cessate il fuoco, che tacciano le armi e che ci si rimbocchi tutti quanti le maniche per soccorrere la gente bisognosa. E poi che si riesca a indurre la comunità internazionale a superare gli interessi politici, le divisioni: qui c’è da soccorrere l’umanità tout court. Sarà un test di umanità e saremo giudicati tutti di fronte alla storia: la Siria che deve superare divisioni e conflitti interni, come la comunità internazionale. Un vero test di umanità.

Eminenza, ma che grido ha visto levarsi in queste tragiche ore da Aleppo, che è una città simbolo di tutte le sofferenze e le contraddizioni del popolo siriana?
Aleppo è una città martire. Mi ricordo quello che ha vissuto questa città nel 2016, negli ultimi giorni della terribile battaglia di Aleppo pioveva e nevicava mentre centinaia di migliaia di sfollati fuggivano dalla città. Questa è gente che ha sofferto il martirio, ogni genere di armi sono state sganciate su questa popolazione, poi è stata quella che io chiamo la “bomba della povertà”, con oltre il 90% della popolazione sotto la soglia sussistenza e adesso questa orribile catastrofe naturale. Ora la gente, anche i religiosi ti chiedono: perché ora anche questa tragedia? Difficile rispondere, qui c’è solo la risposta della solidarietà.

Aleppo è anche la città delle sette cattedrali cristiane che convivono in pace. Cosa rappresenta questa comunità per la Chiesa universale?

Ad Aleppo ci sono sei vescovi cattolici, due vescovi ortodossi, un pastore protestante: prima del conflitto c’erano 150 mila cristiani di varie denominazioni, adesso sono 30 mila. Questa è un’altra tragedia, e ora il confronto con la calamità del terremoto. La Chiesa cattolica un anno fa fece una conferenza per organizzare la carità e un paio di mesi è insediata una commissione episcopale per organizzare gli aiuti umanitari. Appena in tempo, viene da dire. Ma questi 12 anni di guerra ho visto molta gente morire, ora sto vedendo la speranza morire: per questo tutti noi come Chiese dobbiamo cercare di tenere viva la speranza di Aleppo».

GLI AIUTI DEL VOLONTARIATO: AVSI, CARITAS E GLI ALTRI

Viviana Daloiso per Avvenire fa il punto sugli aiuti umanitari e la solidarietà internazionale in favore delle popolazioni colpite.

«Migliaia di persone che dormono nelle macchine, o per strada, e hanno bisogno di tutto: coperte per il freddo insopportabile, cibo, acqua. Adesso. C’è da organizzare una macchina impressionante di aiuti, per la Turchia e la Siria ferite dal terremoto, e Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas Italiana nel Sud Est Europa, è arrivato a Istanbul dalla Bosnia ieri pomeriggio per iniziare: «Qui operiamo con Caritas Turchia, ma sul posto è Caritas Anatolia che in questo momento sta gestendo la prima emergenza». Come può, visto che i volontari non hanno più nemmeno un posto dove incontrarsi: la cattedrale di Iskenderun è distrutta, gli uffici della diocesi inagibili, così come gli altri spazi destinati a sistemare gli aiuti e i generi di conforto. «Gli operatori stanno lavorando in giardino. Ma ci sono, nonostante quello che è accaduto li abbia scossi profondamente». Essere accolti da qualcuno, incontrare un briciolo di speranza nel mondo sbriciolato dalla furia della natura, è già qualcosa per chi ha perso tutto. «Per ora deve bastare – continua Daniele –. L’emergenza è solo all’inizio, in questo momento occorre pensare a salvare vite e mettere in sicurezza gli sfollati. Noi dobbiamo concentrarci su quello che accadrà dopo, nel medio e nel lungo periodo». Ciò per cui da Caritas è già partita una raccolta fondi, a cui si aggiunge lo stanziamento di 500mila euro dai fondi dell’8Xmille da parte della Cei per far fronte alle prime necessità: «Auspichiamo che la macchina della solidarietà internazionale si metta subito in moto per garantire una rapida ricostruzione » è l’appello del presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. I problemi sul campo sono enormi, in Turchia e ancor di più in Siria. A cominciare dalla mole di sfollati: talmente tanti che non si sa dove metterli, soprattutto perché i grandi edifici sono quasi tutti semidistrutti o pericolanti. Suor Arcangela, che lavora in supporto dei progetti Avsi all’ospedale di Aleppo, ripete al telefono che oltre al gelo (lunedì notte in città si sono toccati i 4 gradi sotto zero) «ci spaventa anche la fame». In corsia il personale mangiava il cibo avanzato dai carrelli dei pazienti già prima del disastro, «che cosa succederà adesso? Siamo alla fame e siamo senza speranza, perché dopo la guerra e tutto quello che è successo, qui, questo è il colpo di grazia». Avsi, che gestisce tre ospedali tra Aleppo e Damasco, insieme a Croce Rossa, Mezzaluna Rossa e Nunziatura apostolica sta cercando di portare i primi soccorsi: «Soprattutto coperte e disinfettante, perché qui il nemico negli ultimi mesi è stato anche il colera» spiega il referente per la Siria della fondazione, Filippo Agostino. Ieri le prime massicce consegne, per le strade della città. Altro step sarà fornire l’assistenza psicosociale ai più piccoli: «Come Avsi siamo presenti in diverse scuole e ci faremo trovare pronti a questo servizio». Ma se in Turchia è stata già aperta una campagna di donazione di sangue e attivato un supporto psicologico, in Siria manca tutto: il carburante per consentire anche ai soccorritori di raggiungere i villaggi più remoti, l’elettricità (presente una o due ore al giorno). «Anche le nostre strutture sono state colpite: una clinica e i magazzini » spiega il portavoce della Federazione internazionale della Croce Rossa, Tommaso Della Longa. I team della Mezzaluna Rossa siriana e turca, che erano già sul territorio, sono stati i primi a intervenire «ma la situazione è catastrofica. La comunità internazionale non deve dimenticarsi di Siria e Turchia, perché questo terremoto durerà anni».

SANT’EGIDIO: SOSPENDERE LE SANZIONI CONTRO LA SIRIA

L’appello della comunità di Sant’Egidio è rivolto soprattutto ad Usa ed Europa: «Sospendiamo le sanzioni alla Siria già devastata dal conflitto». La cronaca di Avvenire.

«Riteniamo sia giunto il momento di sospendere le sanzioni per permettere ai soccorsi di giungere copiosi e il più rapidamente possibile, in aiuto alla popolazione stremata dalla guerra e dal sisma»: dopo il terremoto che ha devastato Turchia e Siria e che ha interessato anche le aree del Kurdistan settentrionale e occidentale si muove la Comunità di Sant’Egidio, il movimento cattolico che ha appena compiuto 55 anni (celebrati, stamattina, con una messa a S. Giovanni in Laterano, presieduta dal loro ecclesiastico più autorevole, il card. Matteo Zuppi, attuale presidente della Cei), definita “l’Onu di Trastevere” per il grande credito a livello internazionale, specialmente Oltreoceano, ottenuto negli anni e la sua “diplomazia parallela”, particolarmente attiva nell’area africana e medio orientale.
La proposta è di sospendere le sanzioni internazionali che colpiscono da anni la Siria per favorire l’accesso umanitario urgente, via aerea e via terra: tanto più, scrive la comunità in una nota, che il sisma ha colpito una regione che è il teatro di una sanguinosa guerra che dura da più di 11 anni. «Siamo in contatto con la Chiesa latina di Siria e con tante famiglie siriane, tramite i profughi arrivati con i corridoi umanitari. Purtroppo alcuni hanno avuto notizia di aver perso dei parenti. È una situazione grave e angosciosa che colpisce il popolo siriano dove già la guerra aveva portato distruzioni enormi.
È anche in corso un’epidemia di colera, e le strutture sanitarie del paese sono distrutte». La comunità di Sant’Egidio – che si sta attivando attraverso le comunità cristiane presenti in Siria – si dice particolarmente preoccupata per i governatorati di Aleppo e Idlib in Siria, devastati dal conflitto e in cui giungono rari aiuti internazionali a causa delle sanzioni. Le attuali sanzioni nei confronti della Siria sono state introdotte per la prima volta nel 2011 sia dagli Usa che dall’Ue (quest’ultima, a maggio 2022, le ha ulteriormente prorogate, almeno fino al primo giugno 2023) e sono dirette, oltre che ad Assad, alla sua famiglia, ai funzionari del governo e anche alle entità terze che lo sostengono come società, aziende, singoli imprenditori. Includono anche un embargo sulle importazioni di petrolio, restrizioni su alcuni investimenti, congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’Ue e restrizioni al credito, ai finanziamenti, all’esportazione di attrezzature e tecnologie. Già nel 2020, durante la pandemia, la ong cattolica New Humanity lanciò un appello internazionale (sottoscritto anche da Romano Prodi), chiedendo la revoca dell’embargo, che aveva gravemente danneggiato la capacità della Siria di produrre e acquistare medicinali, attrezzature, pezzi di ricambio e software. A febbraio 2021, l’allora arcivescovo cattolico greco-melchita di Aleppo monsignor Jean-Clément Jeanbart (che, a seguito del terremoto, è stato estratto vivo dalle macerie della sua abitazione ed è attualmente ricoverato), denunciò, in una lettera all’agenzia di stampa dei vescovi italiani, il Sir, «le sanzioni e l’embargo che ci vengono inflitti e che colpiscono tutti gli abitanti, soffocando in particolare i meno fortunati che sono moltissimi. Sanzioni commerciali e finanziarie messe consapevolmente in atto per impedire la ricostruzione, la riabilitazione e la rinascita economica della Siria».

LA GEOPOLITICA DELLA SOLIDARIETÀ DIVIDE IL MONDO

L’amaro commento di Alberto Negri sul Manifesto: interessi politici e divisioni strategiche vengono prima del soccorso umanitario.

«In questa tragedia immane la geopolitica della solidarietà si è spaccata in due. Tutti i soccorsi occidentali che si stanno approntando vanno in Turchia, pochissimi, raggiungono la Siria. In Occidente le ambasciate siriane sono chiuse, nulle le relazioni diplomatiche mentre le sanzioni europee e americane sono pervasive, il presidente degli Stati uniti Joe Biden non cita nemmeno la Siria nel suo discorso sul terremoto: neppure questa tragedia smuove la livorosa politica occidentale. Solo minoranze, laiche, cristiane, musulmane, qui rivolgono un pensiero a quel Paese ed è Sant’Egidio, non la politica, a chiedere la sospensione dell’embargo a Damasco. La Siria vive almeno tre contemporanee tragedie: la guerra civile, che continua come permane la presenza militare straniera - quella del terremoto e l’abbandono occidentale, colmato solo parzialmente dagli aiuti di russi, iraniani, iracheni, che sostengono al potere Bashar Assad. A tutto questo si aggiunge la chiusura delle frontiere dal lato siriano controllato dalla Turchia, che ospita circa tre milioni di profughi siriani, e ha appena proclamato lo stato di emergenza per tre mesi: da qui, da un unico valico, passavano finora gli aiuti delle agenzie Onu alle popolazioni siriane lungo un confine che da tempo rappresenta come disse papa Francesco «una guerra mondiale a pezzi». Qui abbiamo i curdi, che combatterono contro il Califfato, poi lasciati alla vendetta di Erdogan, qui ci sono i jihadisti al Nusra, Al Qaida e Isis, che controllano sacche di territorio come Idlib, colpite nelle scorse settimane anche da un’epidemia di colera, di cui non avevamo notizia se non da organizzazioni come Medici Senza Frontiere. Se è vero che in Siria ci sono le basi russe e dei pasdaran iraniani, Biden non può fare finta di ignorare che gli Usa sono presenti militarmente nel Paese dal 2014 nella Siria nord-orientale e nella base di Tanf, a sud-est, oltre naturalmente a fare la guardia ai pozzi petroliferi di Deir Ez Zhor per privare di risorse il regime di Damasco. Washington ha determinato le sorte di tutte queste popolazioni aiutando prima i curdi contro l’Isis e poi lasciando che Erdogan li martellasse con l’aviazione occupando Afrin e attaccando anche il Rojava, l’unico esperimento politico laico e pluralista della regione. Ma per gli Stati Uniti e per Israele (che occupa il Golan siriano dal 1967) la Siria rappresenta soprattutto una sorta di poligono di tiro dove colpire le postazioni iraniane in una guerra di più vasta portata contro Teheran, il maggiore alleato di Assad insieme a Mosca e agli Hezbollah libanesi. Ora proprio dal Libano - travolto da una crisi profondissima e che ospita già più di un milione di rifugiati siriani - possono arrivare gli aiuti occidentali da affidare alle Ong che hanno accordi con il regime di Damasco. Speriamo che a questa complicata eventualità dia seguito qualche governo di buona volontà. La geopolitica e il terremoto stritolano le vite delle persone colpite dalla guerra. Alla frontiera tra Turchia e Siria si sta giocando da tempo la sorte di milioni di profughi siriani, un destino già disperato che aveva subito di recente un sorta di accelerazione improvvisa. Erdogan, in serie difficoltà economiche, da tempo si vuole liberare di loro mentre i miliardi di euro versati da Ankara dall’Ue non bastano più a soddisfarlo. Infatti prima della fine dell’anno era accaduto un evento rilevante, per lo più ignorato dai media. A Mosca si sono incontrati il ministro della difesa russo, il turco e quello siriano. È stata la prima volta in oltre un decennio che un ministro della Nato, di cui la Turchia è membro dagli anni Cinquanta, parlava ufficialmente con un alto rappresentante siriano. Secondo le fonti di Damasco, per altro non smentite, la Turchia sarebbe disponibile a ritirarsi dal territorio siriano occupato mentre, in cambio, la Siria si riprenderebbe indietro i profughi mettendo sotto controllo il Pkk e i curdi del Rojava. L’intesa per Erdogan, in vista delle elezioni di giugno, aveva un forte valore propagandistico presso l’opinione pubblica turca ormai ostile ai rifugiati siriani. Ma il terremoto adesso ribalta le carte sul tavolo. Erdogan sa perfettamente che sul sisma si gioca la sopravvivenza politica. Ha preso in mano direttamente le operazioni della protezione civile e gestisce gli aiuti internazionali perché ovviamente nessuno deve fare ombra al reìs. Certo per lui sono settimane decisive perché, come spiegavano ieri sul manifesto Murat Cynar e sulla Stampa la giornalista Esma Cakir, prenderanno quota le polemiche sull’urbanizzazione selvaggia e l’edilizia priva di misure anti-sismiche. Centinaia di migliaia di turchi non possono rientrare nelle loro case, non possono lavorare e sopravvivere: e il reìs per tenerli a bada non può usare stavolta i metodi repressivi del suo ex amico, l’autocrate Assad. Ma il terremoto, che si aggancia alla guerra in Ucraina, porta altre conseguenze. La Russia - cui Ankara non ha imposto sanzioni, opponendosi anche all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia - è diventata il maggiore partner della Turchia (+45% il commercio bilaterale): dal gas, al grano, a investimenti diretti stimati dal Wall Street Journal tra i 5 e i 10 miliardi di dollari. Il sisma restringe le prospettive di Erdogan e Putin mentre gli Stati Uniti eserciteranno pressioni sul Sultano dell’Alleanza atlantica, il più riottoso degli alleati Usa (presenti in Turchia a Incirlik la base strategica con i missili nucleari) che in questo momento aiuta militarmente Kiev ma gioca con Mosca da battitore libero. Ecco uno dei tanti frammenti acuminati della partita sulla vera e presunta solidarietà internazionale che si gioca sulla pelle dei terremotati».

BERLINO ASSICURA 170 LEOPARD ENTRO L’ESTATE

Le ultime notizie dalla guerra. In una visita lampo del ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius a Kiev, i tedeschi rassicurano sulla consegna dei panzer. Valerio Cattano per Il Fatto.

«A sorpresa il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ieri è andato a Kiev per annunciare che l’alleato ucraino riceverà almeno 100 carri armati Leopard 1A5. Un numero più ridotto di Leopard 2, il tank tanto richiesto, dovrebbe arrivare a marzo. Per ora, a Kiev c’è solo un modellino, che Pistorius mostra in una foto pubblicata dal ministro Reznikov sul suo profilo Twitter. Per Spiegel, i tank Leopard 1 – mezzo dismesso 20 anni fa – saranno 178. I primi corazzati potrebbero essere consegnati prima dell’estate. L’industria Rheinmetall non si sbilancia: prevede di mandare i primi 20-25 Leopard 1 entro l’anno. Altri 88 entro il 2024, ha detto ieri l’amministratore Armin Pappergersaid. Il governo ucraino è ottimista e già pensa ai jet da combattimento, sebbene la risposta sugli F-16, almeno per il momento, dagli Stati Uniti sia stata negativa. “È solo una questione di tempo prima che ci arrivino” dice il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, Oleksiy Danilov, in un’intervista alla Cnn. Dal fronte non arrivano buone notizie per Kiev. I russi a un anno dall’invasione cercano di portare a casa una vittoria nel Donbass prendendo Bakhmut, che è circondata. Sul lato politico, le continue fughe di notizie sulle dimissioni del ministro della Difesa Reznikov fanno arrabbiare il presidente Zelensky, che ieri in Parlamento ha chiesto di fermare le “voci o qualsiasi tipo di pseudo-informazione” che può minare l’unità nella guerra contro la Russia. Un pasticcio, perché ieri era stato proprio Reznikov a scrivere un messaggio dove annunciava le dimissioni: “Grazie per il supporto”. Nei giorni scorsi sono stati rimossi molti funzionari del ministero della Difesa con l’accusa di corruzione, e il titolare del dicastero, pur non essendo stato coinvolto nelle inchieste, pagherebbe un mancato controllo dei suoi collaboratori; i funzionari – secondo i magistrati – volevano lucrare pure sui pasti destinati ai soldati al fronte. La guerra dell’informazione: l’Alto Rappresentante dell’Ue Josep Borrell sostiene alla conferenza pubblica Beyond Disinformation– Le risposte dell’Ue alla minaccia della manipolazione dell’informazione straniera: “Siamo stati in grado di imporre misure restrittive alla macchina di propaganda del Cremlino. In questo modo non stiamo attaccando la libertà di espressione, la stiamo proteggendo”. Da Mosca la replica di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri: “Si inizia vietando, bruciando libri e si finisce bruciando le persone”».

GUTERRES TEME LA GUERRA MONDIALE

Il segretario generale dell’Onu, Guterres, lancia l’allarme: non siano mai stati così vicini a un terzo conflitto mondiale. Ma parlare di pace sembra ormai diventato un tabù. Dall’editoriale di Maurizio Belpietro su la Verità.

«Il mondo si avvia a occhi aperti verso una guerra mondiale. Non sono parole mie, ma del segretario generale dell’Onu davanti all’assemblea dell’organizzazione internazionale. António Guterres, forse ricordando ciò che accadde più di cento anni fa, quando le potenze europee assistettero come sonnambule allo scoppio di un conflitto globale, ha lanciato l’allarme su un’escalation militare che rischia di trascinare il mondo verso una guerra più ampia. Per l’alto rappresentante delle Nazioni Unite, il pericolo di un impiego di ordigni nucleari non è stato mai così elevato come oggi e tuttavia nessuno pare curarsene. (…) Guterres dice che andiamo a occhi aperti verso la terza guerra mondiale. E purtroppo temo che abbia ragione. Al punto in cui siamo arrivati, mi pare di poter escludere che la Russia si arrenda e ritiri il proprio esercito. Dunque, restano solo due opzioni: o si raggiunge una tregua o la guerra rischia di arrivare fino alle estreme conseguenze. Cioè fino a trasformarsi in un conflitto nucleare. Sul Corriere di ieri se ne discuteva come se si stesse parlando dell’esito del Festival di Sanremo. Le opzioni sono due, spiegava il principale quotidiano italiano: o si accetta una pace sporca, cioè un’intesa che conceda a Putin quello che le sue truppe hanno conquistato, oppure bisogna sconfiggere Mosca in modo definitivo, anche a rischio di scatenare una guerra atomica. E secondo il giornale di via Solferino, nell’amministrazione americana la linea oltranzista si va rafforzando. Insomma, mentre Guterres ammette che si cammina a occhi aperti verso un conflitto più ampio, politici e giornalisti dibattono di opzioni nucleari come se fossero in un seminario riservato a professori di geopolitica. Per loro mi viene spontanea una domanda: ma siete scemi o totalmente incoscienti? Purtroppo temo che il quesito preveda entrambe le risposte».

PER BIDEN RESTA LO SCONTRO FRA DEMOCRAZIE E AUTOCRAZIE

I giornali di stamattina non avevano la possibilità materiale di riportare il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato la scorsa notte, ora italiana, dal presidente Joe Biden. Alberto Simoni per La Stampa si basa sugli annunci fatti alla Casa Bianca prima dell’evento.

«Biden non annuncerà la sua candidatura, ma mi aspetto che getterà le basi per il 2024 stasera». A parlare è un influente deputato del Partito democratico che ha abbandonato le riserve sulla conferma del presidente alla Casa Bianca nella notte delle elezioni di Midterm e che si appresta ad ascoltare, dalla Camera dei deputati, il discorso sullo Stato dell'Unione, nella notte italiana. Era il secondo per Biden, il primo davanti a un Congresso spaccato in due con la Camera guidata dal repubblicano Kevin McCarthy. Biden aveva un'agenda articolata da illustrare ai deputati e all'America sintonizzata davanti alla tv. Ha delineato la sua visione per il futuro, fatta di attenzione per i problemi sociali ed economici, spirito bipartisan e un rinnovato impulso alla leadership americana nel mondo. Il presidente, la cui popolarità è al 41% e che il 62% degli americani non vorrebbe di nuovo alla Casa Bianca nel 2024, ha lavorato al discorso per settimane. Fonti dell'Amministrazione hanno riferito che lo ha limato fino all'ultimo considerando i danni che il caso del pallone-spia cinese ha fatto ai già «tesi rapporti fra i due Paesi». E ha indicato nuovamente nella Cina un «competitore strategico». In un briefing prima del suo intervento, i portavoce della Casa Bianca hanno spiegato che Biden avrebbe messo l'accento anche sull'Ucraina. E chiesto un impegno al Congresso di continuare sul sostegno a Kiev. «È in gioco non solo il futuro del Paese, quello che stiamo facendo è un aspetto della lotta più ampia fra democrazie e autocrazie», ha detto, secondo le anticipazioni, il presidente che ha ribadito l'unità dell'alleanza occidentale. Ad ascoltare il discorso - così come lo scorso anno - c'era anche Oxana Markharova, ambasciatrice ucraina a Washington. E proprio la lista degli invitati - quella dei singoli deputati e della Casa Bianca (l'onere è lasciato ufficialmente alla first lady) - rappresenta uno specchio dell'agenda per i prossimi anni. C'erano i genitori di Tyre Nichols, il 29enne afroamericano picchiato selvaggiamente dalla polizia a Memphis e morto il 10 gennaio. Biden ha ribadito la necessità di riforma il sistema, senza tuttavia parlare di una riduzione dei finanziamenti. Così come è tornato a chiedere al Congresso di agire sulle armi automatiche d'assalto, vietandole. «È la comunità afroamericana quella più colpita dalle azioni della polizia», ha detto a La Stampa Joe Tate, il primo speaker afroamericano del Michigan e fra gli ospiti d'onore ieri notte. Jill Biden ha portato uomini e donne che hanno affrontato difficoltà e problemi di salute. Chi ha lottato contro il cancro, chi è rimasto vittima degli oppioidi, chi travolto dal fentanyl e chi, come Anabely Lopes, la scorsa estatE non ha potuto abortire in Florida quando alla 15esima settimana è stata diagnosticata una malformazione al feto. La donna si è trasferita a Washington per abortire. Sul palco presidenziale anche la prima ambasciatrice donna afghana Roya Rahmani e Bono Vox, il frontman degli U2 per il «suo impegno nella lotta all'Aids». Fra gli ospiti pure Paul Pelosi, il marito dell'ex Speaker aggredito in casa a San Francisco qualche mese fa e alcuni genitori dei bambini uccisi in maggio nella scuola elementare texana di Uvalde. Il discorso sullo Stato dell'Unione è generalmente un manifesto. Molte delle iniziative di Biden non vedranno mai la luce (non in questa legislatura). Il presidente ha parlato di un aumento delle tasse alle corporation e sui miliardari e invocato una legge per garantire l'accesso all'aborto. Due questioni a cui l'attuale Camera non darà semaforo verde».

SANREMO, LA PRIMA VOLTA DI UN PRESIDENTE

In Italia è in primo piano l’apertura ieri sera del Festival di Sanremo, che ha visto per la prima volta la partecipazione del Presidente della Repubblica. Ugo Magri per La Stampa.

«Mattarella ha rotto un tabù: s'è recato a Sanremo dove finora nessun capo dello Stato aveva mai messo piede. Il suo arrivo con la figlia Laura è stato accolto da applausi che sarebbero forse durati più a lungo se il presidente non avesse invitato il pubblico, con chiari gesti, a restare nei limiti. La standing ovation fa il paio con quella alla Scala di Milano, due mesi fa; allora Mattarella volle onorare la lirica nella sua espressione più nobile; stavolta ha consacrato l’Ariston come tempio della canzone nazional-popolare, spesso bistrattata quale sottoprodotto musicale del genio italico, che tuttavia resta la colonna sonora della Repubblica. Qualcuno ha ipotizzato inesistenti intrecci tra la visita presidenziale, resa nota all'ultimo ieri mattina, e la telenovela del messaggio di Zelensky. In realtà non esiste alcun nesso. La decisione di Mattarella era matura da tempo; forse risale addirittura a 12 mesi addietro quando il conduttore della kermesse, Amadeus, aveva dedicato al capo dello Stato appena rieletto un celebre successo di Mina (Grande, grande, grande) particolarmente caro al presidente, alla moglie Marisa mancata dieci anni fa e al fratello Piersanti, assassinato dalla mafia: insieme avevano assistito all'ultimo concerto di Mina, nel '78 alla Bussola di Viareggio. Dopodiché, la sorpresa del presidente a Sanremo richiama altri temi più squisitamente politici. Il Colle spiega la presenza di Mattarella con lo show di Benigni dedicato alla Costituzione , che il primo gennaio ha celebrato il 75° anniversario. E in effetti, al termine del trascinante monologo in cui il premio Oscar ha contrapposto libertà e dittatura, democrazia e fascismo, il presidente s'è alzato in piedi con un largo sorriso sul volto. Sarà un caso, ma nelle ultime settimane Mattarella ha moltiplicato i suoi interventi di pedagogia costituzionale. Ha ricordato nei suoi discorsi che arte e scienza (articoli 9 e 33) devono essere libere; che le discriminazioni di razza non sono consentite (articolo 3); che la libertà di stampa è pienamente garantita (articolo 21). La sua presenza a Sanremo ha inteso rimarcare più forte, davanti a milioni di telespettatori, il valore della Carta , quanto sia ancora viva e attuale. Dunque tutt'altro che obsoleta o da riscrivere, magari nella chiave presidenzialista gradita ai nuovi padroni d'Italia».

LA COSTITUZIONE SPIEGATA SUL PALCO DELL’ARISTON

Roberto Benigni ha proposto un monologo sulla Carta costituzionale. Una Carta, ha detto fra l’altro, “che ripudia la guerra, ci fa sentire che viviamo in un Paese che può essere giusto e bello”. Ecco alcune frasi della sua performance pubblicate oggi dalla Stampa.  

«Questa edizione di Sanremo è particolarmente bella e importante perché si celebra il 75° anniversario della nostra Costituzione, il 1° gennaio 1947. Si può dire: cosa c'entra Sanremo con la Costituzione? Sanremo c'entra: è il luogo dello spettacolo, della musica e quindi dell'arte, e la Costituzione è legatissima con l'arte, anzi sono quasi la stessa cosa, perché la Costituzione è un'opera d'arte e canta: canta la libertà e la dignità dell'uomo. Di più: ogni parola della Costituzione sprigiona una forza evocativa e rivoluzionaria, come le opere d'arte, perché butta all'aria quell'oppressione della libertà, quell'ingiustizia, quella violenza che c'era prima. È uno schiaffo al potere, a tutti i poteri. Ci mostra una realtà diversa da quella che abbiamo davanti agli occhi, ci fa sentire che viviamo in un Paese che può essere giusto e bello; ci dice insomma che un mondo migliore è possibile, senza ingiustizie e senza violenza, un mondo come l'arte ci fa sognare. È un sogno la Costituzione, un sogno fabbricato da uomini svegli. Se c'è una canzone di Sanremo che possiamo accostarle è la più famosa, l'incipit di Volare di Modugno: «Penso che un sogno così non ritorni mai più». E così è la Costituzione: i nostri padri e le nostre madri costituenti non l'hanno pensata, l'hanno sognata, e chi sogna arriva prima di chi pensa. Infatti l'hanno scritta in pochissimo tempo. Avete visto oggi quanto ci mettono a fare una legge? A volte anni. La Costituzione invece è stata una folgorazione, una visione, sono stati dei visionari, ed è stato un miracolo perché erano tanti, tutti di partiti diversi, tutti che la pensavano diversamente, divisi su tutto esclusa una cosa: essere uniti per scrivere la Costituzione più bella che si potesse immaginare (...) famosa in tutto il mondo, ammirata, soprattutto nei suoi diritti fondamentali, gli articoli 1,2 ,3, il 9, l'11. L'11 quasi sono imbarazzato a ripeterlo perché è come il verso di una poesia, come dire M'illumino d'immenso, dice: «L'Italia ripudia la guerra». Una scultura. Pensate la forza, la bellezza e la perentorietà di questa frase meravigliosa. Pensate se questo articolo lo avessero adottato le altre Costituzioni nel mondo: non esisterebbe la guerra sulla Terra, mai più nessuno Stato potrebbe invadere un altro Stato. (...) Tra i nostri padri e madri costituenti c'era una persona che vorrei nominare perché ha a che vedere con il nostro Presidente: Bernardo Mattarella. che è il padre di Sergio. Presidente, lei e la Costituzione avete avuto lo stesso padre: possiamo dire che la Costituzione è sua sorella. (...) Il mio preferito è l'articolo 21 con una forza e una bellezza che si rimane stupiti e ci si chiede: ma veramente c'era bisogno di scrivere una cosa così? Dice così: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Se l'hanno scritto vuol dire che ce n'era bisogno. (...)Perché prima della Costituzione, durante il ventennio fascista, non si poteva pensare liberamente. E non si sarebbe potuto fare neanche il Festival, perché c'era una canzone sola, sempre la stessa, la propaganda: si cantava il capo, il Duce, la guerra, l'esercito, il partito, il potere. E in quegli anni pensate che mentre voi mangiavate una pizza con gli amici o eravate a casa, a cena con i vostri parenti poteva – ed è accaduto tante volte – arrivare qualcuno, aprire la porta, prendere vostro fratello, vostra sorella o la vostra fidanzata e portarli via perché avevano saputo che avevano detto una cosa libera. Accadeva spesso e queste persone venivano picchiate, a volte sparivano e non si vedevano mai più. L'articolo 21 ci ha liberato dall'obbligo di avere paura. (...) Nel mondo intorno a noi e in Paesi molto vicini a noi quelli che pensano liberamente vengono incarcerati, avvelenati, a volte fatti sparire, solo perché a volte mostrano il loro volto e i loro capelli felicemente o perché ballano o cantano o parlano. (...) L'unica maniera di fare qualcosa di utile per il futuro è avere il passato sempre presente, e ricordarci una cosa: che tutto ciò che abbiamo ci può venire tolto da un momento all'altro. I nostri padri e le nostre madri costituenti questo lo sapevano, scrivendo la Costituzione come se avessero scritto solo due parole: mai più. E hanno fatto una scommessa ma non fra di loro, con tutti noi: hanno detto ce la potete fare, ce la possiamo fare tutti insieme. (...) I padri e le madri Costituenti hanno scritto la Costituzione, ma l'ultima pagina l'hanno lasciata bianca. È la pagina più importante, che non potevano scrivere perché sapevano che dovevamo scriverla noi. Noi, con la nostra vita, vivendola. E sono sicuro che la scriveremo bene, ci dobbiamo credere fino in fondo. La Costituzione è stata scritta, ma deve essere attuata, bisogna farla vivere. La costituzione non è solo da leggere, è da amare. Ora voi mi potete dire: sì però è un ideale, è una chimera, è un'illusione, è un sogno. È un sogno, sì, però abbiamo un vantaggio: i nostri padri e le oltre madri costituenti ci hanno tracciato la strada, ci hanno mostrato il cammino, ci hanno fatto vedere la via e a noi hanno lasciato una sola cosa da fare: far diventare questo sogno realtà».

Alessandro Sallusti su Libero per una volta apprezza il “patriottismo” della situazione, che vede comunque nell’ottica meloniana. Il titolo è chiaro: “L’Italia s’è desta” pop.

«Lo so bene che un giornale controcorrente come il nostro dovrebbe staccarsi dal coro di consenso per quello che è accaduto ieri sera a Sanremo dove per la prima volta nella storia italica un Presidente della Repubblica ha assistito in presenza al Festival. Confesso, non ce la faccio. Abbiamo visto per la prima volta Sergio Mattarella emozionarsi e soprattutto sorridere, qualcuno sostiene di averlo visto anche ridere ma non ci sono prove documentali. Sì, abbiamo scoperto che Mattarella, altrimenti detto la Sfinge del Quirinale, sa sorridere, una notizia coi fiocchi. E che dire di Gianni Morandi, dico il Gianni quello di “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” cantare l’Inno di Mameli? Pure Benigni, giullare di immenso talento a noi non particolarmente simpatico, è stato per Una volta nei binari della correttezza politica. Va bè, già me lo sento: cosa c’entra tutto questo con il festival della canzone italiana? Niente, ovvio, ma ieri sera la Rai ha messo in scena, lo so non senza retorica come in tutte le messe cantate, l’Italia che forse non è ma che ci piacerebbe fosse. Qualcuno obietterà: Mattarella, Benigni e il richiamo alla Costituzione che ha spazzato via il fascismo è uno spot alla sinistra. No, è uno spot dell’Italia pop, quella che mischia generi e talenti - Mattarella, Anna Oxa e Chiara Ferragni- che poi è la cosa che meglio ci definisce e ci riesce. Con una guerra sull’orlo di diventare mondiale, con alle porte la tragedia di uno dei terremoti più devastanti della storia, noi si canta ma sotto l’egida del Presidente della Repubblica ed evocando la Costituzione. Geniale, siamo l’Italia. Insomma, “l’Italia s’è desta” pop e lo fa, non saprei dire quanto casualmente, con un governo di destra che immaginiamo avrebbe anche potuto, sia pure da dietro le quinte, ostacolare tutto ciò. Non c’è traccia che l’abbia provato a fare e mi piace pensare che sia successo non a caso ma perché anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni è a suo modo pop e quindi fuori dagli schemi. E poi vuoi mettere: musica e politica unite da un nome, Fratelli d’Italia, che a sei giorni da un importante appuntamento elettorale e con ciò che evoca, quello sì fa girare i santissimi alla sinistra. Non è poco».

MELONI PREGUSTA LA VITTORIA IN LOMBARDIA

La premier Giorgia Meloni va a Milano per la chiusura della campagna elettorale delle regionali. Gli alleati ostentano unità. Berlusconi dice: “Non ci divideranno mai, la vittoria avrà un riflesso europeo”.

«Per la prima uscita politica a Milano (la sua presenza alla Scala a Sant'Ambrogio era stata più che altro una passerella istituzional-liberatoria) la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si presenta a pochi giorni dalle regionali lombarde. Nel pomeriggio in Prefettura incontra il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, il prefetto Renato Saccone e il sindaco di Milano Beppe Sala per fare il punto sulla sicurezza nelle stazioni. «Dal 16 gennaio sono state controllate oltre 40 mila persone tra Napoli, Roma e Milano», dice. «Sono stati espulsi 115 stranieri. Vuol dire che si potevano rimpatriare». Ma il faccia a faccia è anche un modo per ritrovare la sintonia con il primo cittadino milanese dopo le polemiche sui 50 milioni per il trasporto pubblico locale dei giorni scorsi. «Ho assicurato al sindaco che farò del mio meglio per dare una mano» conferma Meloni. «La premier ha capito che non stiamo chiedendo la luna» risponde Sala. Poi Meloni si sposta al Teatro Dal Verme per la chiusura della campagna elettorale di Attilio Fontana, quella che Berlusconi definisce «la festa del centrodestra». Ci sono le bandiere dei partiti e i supporter di Lega, Fdi e Forza Italia che un po’ battibeccano per garantirsi pari visibilità. Maurizio Lupi, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si chiamano per nome e ricordano che non sono «solo colleghi di lavoro ma amici». Meloni si spinge a dire che «Berlusconi è stato il miglior ministro degli Esteri di questa nazione». «C'è chi sceglie gli anarchici, io i lombardi» la frase di Salvini che più scalda il popolo del centrodestra. Anche Berlusconi punta sulla mozione degli affetti: «Non ci divideremo mai. La vittoria di domenica e lunedì avrà un riflesso nazionale ed europeo». La kermesse ha più l'aspetto di un grande bilancio - o per meglio dire un autoelogio - del lavoro fatto nei 100 giorni di governo, che di un evento in cui si parli di Lombardia. Dopotutto mostrarsi uniti e compatti è anche una strategia elettorale. Un tentativo di allontanare il problema dei problemi in caso di vittoria: un cambio di peso specifico dei tre alleati più forti in consiglio, con ricadute sulla composizione della giunta e sulla gestione della macchina regionale. «Ogni giorno scopro che ho litigato, imbavagliato o frustato un ministro, sto sempre a litigare. Io vedo un clima diverso», dice subito Meloni. Sull'autonomia, rivendicata dalla Lega, la premier gioca di sponda: «Sono fiera che abbiamo già approvato la cornice dell'autonomia. È una riforma basata sul merito. Lo dico a quei governatori che si lamentano ma non hanno speso il 70% dei fondi europei». Poi, con la sicurezza di una leader che «ha rotto il tetto di cristallo», come ricorda la conduttrice dell'evento, zittisce quanti «dicevano che l'Italia con Meloni sarebbe stata isolata a livello internazionale. Sono andata in Europa e ho detto: non ho le antenne, non sono verde». Un applauso parte quando, con tono stentoreo dice: «Il primo provvedimento di questo governo è stato salvare il carcere ostativo. Il messaggio che abbiamo dato è che la mafia non poteva trattare con noi. Come con noi non possono trattare gli anarchici e quelli che pensano di minacciarci, perché uno stato serio non indietreggia rispetto alle regole». Attilio Fontana, che si presenta con la giacca a vento delle Olimpiadi Milano-Cortina, è l'unico che parla soprattutto di Lombardia. Rivendica il lavoro fatto, promette di «non consentire alle sinistre di governare la Regione» ma punzecchia anche i ministri: «Verrò a Roma a rompere le scatole al governo». 

GAS, ENI AVVIA UN HUB NAZIONALE A GELA

Eni avvia i cantieri a Gela, in Sicilia per un hub nazionale del gas. L’infrastruttura è progettata per il transito di 10miliardi di metri cubi di gas. In totale un investimento complessivo di 4 miliardi, inclusa la bioraffineria. Nino Amadore per Il Sole 24 Ore.

«Si vede poco ma è solo un’illusione ottica. Perché quel poco è già tanto. È l’impalcatura di un’opera strategica per l’Italia ma non solo: l’attacco a terra dei tubi che trasporteranno il gas da Argo e Cassiopea, i due giacimenti al largo delle coste siciliane su cui Eni ha puntato ormai da quasi dieci anni, da quando nel 2014 ha firmato l’Accordo di programma per la riconversione del sito di Gela. Qui, in quest’area liberata dai vecchi impianti, nell’area ad est del pontile di Bioraffineria, Eni ha scelto di costruire gli impianti di approdo e ricezione sulla costa. Un cantiere avviato negli ultimi mesi dell’anno scorso che nel 2023 dovrebbe subire un’accelerazione: tra il secondo e il terzo quarter del 2023, spiegano dall’azienda, è prevista la realizzazione dei 4 pozzi sottomarini e in parallelo cominceranno anche i lavori di installazione delle condotte a mare. In totale un investimento di 800 milioni, una parte dei circa quattro miliardi che dal 2000 a oggi Eni ha già investito da queste parti per una transizione ecologica di fatto avviata da tempo con la costruzione della Bioraffineria, inaugurata nel 2019. Per l’inaugurazione degli impianti di Argo-Cassiopea bisognerà, secondo previsioni, aspettare il 2024: da qui passeranno gli oltre 10miliardi di metri cubi di gas che i due pozzi del Mediterraneo sono in grado di garantire con una produzione di picco annua di un miliardo di metri cubi di gas. E si affiancherà all’altro punto di approdo, diciamo così, quello che consente di immettere nella rete nazionale il gas già proveniente dalla Libia: qui si trova il punto di approdo del gasdotto Greenstream, costituito dalla centrale di compressione di Mellitah sulla costa libica e da una singola linea di circa 520 chilometri. La capacità annuale della centrale di Mellitah è pari a circa 11,5 miliardi di metri cubi l’anno e l’anno scorso dalla Libia sono arrivati 2,5 miliardi di metri cubi di gas. Ed è questo, sostanzialmente, il quadro che si è trovato davanti Ditte Juul-Joergensen, direttore generale Energia della Commissione europea, la quale rispetto al lavoro fatto a Gela da Eni commenta: «Quello che abbiamo visto è un esempio molto interessante. Con la guerra della Russia all’Ucraina, si è determinato un grande cambiamento nel panorama dell’energia – spiega –. Dobbiamo diventare più resilienti, più indipendenti e questo progetto (Argo Cassiopea, ndr) dà un contributo importante. Vediamo anche che i flussi di energia in Europa stanno cambiando. Prima erano da Est a Ovest, ora vediamo che vanno da Sud a Nord, e in questo senso sono importanti gli investimenti che stanno avvenendo su questo progetto. Sono interessanti anche per gli impatti locali». Per Giuseppe Ricci, direttore generale Energy evolution di Eni, «è stata una incredibile occasione per mostrare alla Commissione europea, l’importanza e anche la difficoltà di una trasformazione industriale vera che significa non solo che fermi le vecchie attività produttive e fai la bonifica ma parti con nuove attività che possono coniugare la sostenibilità ambientale con la sostenibilità economica sociale». Ma l’incontro di Gela è stato anche l’occasione, per Eni, di ribadire l’importanza del ruolo dei biocarburanti di cui Gela è un’eccellenza nel percorso di transizione energetica. «Anche i biocarburanti giocheranno un ruolo importante complementare ai veicoli elettrici – dice Ricci – soprattutto per la decarbonizzazione del trasporto pesante, del trasporto aereo e del trasporto marittimo. Questo vuole anche essere un momento per riflettere sull’intenzione della Commissione europea di bandire il motore a combustione interna, anche se alimentato da bio carburante. Vorremmo una correzione di rotta e per farlo abbiamo voluto mostrare lo sforzo che Eni e il territorio tutto con i suoi lavoratori, le sue imprese e le sue professionalità, stanno facendo nella trasformazione di questo di questo sito». Eni ha in programma entro il 2025 Eni di raddoppiare la capacità delle proprie bioraffinerie di Venezia e Gela fino a raggiungere 2 milioni di tonnellate e di portare entro il prossimo decennio la capacità di bioraffinazione fino a 6 milioni di tonnellate l’anno».

PD , PER GLI ISCRITTI MEGLIO BONACCINI

Ma le primarie aperte potrebbero alla fine favorire Elly Schlein, a soli dodici punti dal governatore dell’Emilia Romagna. Maria Teresa Meli per il Corriere.

«Per la prima volta nella storia del Pd l’esito del voto degli iscritti potrebbe non coincidere con il risultato delle primarie. Finora le elezioni del segretario ai gazebo infatti sono state un plebiscito per il leader, adesso invece c’è una contesa vera e propria. Che attualmente dà Elly Schlein a poco meno di dodici punti dietro Stefano Bonaccini (48,8 contro 36,94; Cuperlo all’8,41, De Micheli al 5,85%). Ma si sono espressi solo 20 mila e 184 tesserati. Quel che è indicativo è però il voto nelle grandi città. A Milano, nelle sezioni in cui si è votato sinora, la leader di Occupy Pd è in testa. Lo stesso dicasi per Firenze e Bologna. E per ammissione degli stessi supporter del governatore dell’Emilia-Romagna pure a Roma il risultato sarà questo. Insomma, il voto d’opinione degli stessi tesserati dem premia Schlein. E questo potrebbe ribaltare i pronostici: «Verrà giù una slavina. Ovunque c’è voto aperto e partecipazione senza truppe Elly è in vantaggio», dice Francesco Boccia. Magari proprio così non è, perche la leader di Occupy Pd prende voti anche nei circoli rimasti fermi ai Ds o lì dove i novemila iscritti di Articolo 1 hanno la maggioranza. Però è vero che Schlein è in rimonta. Tutto si giocherà sul numero di elettori che si recherà ai gazebo. Nessuno spera che alla fine si raggiunga il milione e mezzo che elesse Zingaretti. Ma se l’affluenza superasse gli ottocentomila elettori nel quartier generale di Schlein sono sicuri di avere tutte le chances per sorpassare Bonaccini. Ciò detto, i voti del Sud, che arrivano in ritardo, potrebbero allargare ulteriormente la forbice a favore di Bonaccini. E a proposito di Sud, Boccia ha deciso di dimettersi da commissario della Campania per protestare sul caso del tesseramento di Caserta: «Non è possibile in alcune città ritrovarsi con più iscritti che voti presi alle ultime elezioni». E ancora: «Penso che De Luca abbia il dovere di fare bene dentro l’amministrazione regionale ma se il Pd diventa un’appendice dell’istituzione che governa il partito finisce per essere poco credibile». Un pesante atto d’accusa. A cui si aggiunge quello dell’ex procuratore antimafia Franco Roberti che presiede la commissione congressuale di quella regione e che dice all’ Huffington Post : «A Caserta c’è anche il rischio di infiltrazioni camorristiche». La presidente della commissione congressuale del Pd Silvia Roggiani cerca di disinnescare il «caso Caserta» (per il Pd sono 4.681 le tessere online da verificare o annullare) incontrando i rappresentanti dei quattro candidati. Dallo staff del governatore fanno sapere che sono disposti anche ad annullare il voto di quella città, ma a Bologna è il comitato Bonaccini a contestare le tessere «in bianco» a favore di Schlein. E mentre il Pd si divide, Carlo Calenda e Giuseppe Conte bypassano i dem per tentare l’accordo sul salario minimo e la mozione anti Dalmastro».

“SPENDERE MEGLIO I SOLDI DEL PNRR”

Domani inizia un importante Consiglio d’Europa a Bruxelles. Due i grandi temi sul tappeto: il nuovo piano di aiuti economici e forse l’istituzione di un fondo sovrano europeo e la vicenda migranti. Sul primo argomento fa il punto Federico Fubini sul Corriere.

«Fino a due settimane fa, lo scambio di concessioni fra governi europei sembrava concentrarsi su un binomio: i Paesi del Nord hanno più mano libera per versare aiuti di Stato, reagendo così all’ondata da duemila miliardi di dollari di sussidi che arriva dagli Stati Uniti, mentre quelli del Sud e la Francia avrebbero ottenuto un’apertura della Germania a nuove forme di fondi comuni di Bruxelles per finanziare progetti industriali europei. A poche ore dal vertice europeo di domani, convocato proprio su questi temi, il binomio è cambiato. La Germania, che ha la maggiore capacità di bilancio nazionale, ottiene sempre l’opzione di allargare lo spettro degli aiuti di Stato a vari settori industriali. Dall’altra parte invece c’è soprattutto una maggiore «flessibilità» — sui progetti e probabilmente sui tempi — nell’uso dei fondi europei esistenti: inclusi quelli del Piano nazionale di ripresa (Pnrr). Dell’ipotesi di un progetto della Commissione di un nuovo «fondo di sovranità» europeo invece i governi si limitano a prendere atto. Senza esprimere entusiasmo. La bozza di conclusioni del vertice di domani fra i capi di Stato e di governo dell’Unione, quanto a questo, è chiara. Essa è il frutto del negoziato degli sherpa nazionali e riflette il possibile compromesso fra governi. Quanto a rimuovere alcuni dei vincoli sugli aiuti di Stato, c’è una concessione: «Le procedure vanno rese più semplici, rapide e prevedibili e devono permettere che sostegni mirati e temporanei siano dispiegati velocemente nei settori strategici per la transizione verde e che subiscono l’impatto negativo dei sussidi esteri o di prezzi elevati dell’energia». È trasparente il riferimento all’Inflation Reduction Act della Casa Bianca, che prevede crediti d’imposta stimati da Credit Suisse fino a circa 800 miliardi di dollari sui prossimi 10 anni, con investimenti complessivi da 1.700 miliardi. Ma la formulazione è abbastanza vaga da includere nel campo degli aiuti di Stato, ad esempio, il settore dell’auto o la chimica: entrambi strategici per Berlino. Il vertice chiede poi approvazioni più semplici per i «Progetti importanti di interesse comune europeo» (in Italia, ad esempio, sull’idrogeno o le batterie). In contropartita c’è l’apertura che interessava al governo italiano, troppo indebitato per versare molti sussidi propri all’industria. I Paesi si impegnano a un «accesso a pari livello ai mezzi finanziari». Per questo «i fondi europei esistenti (dunque anche il Pnrr, ndr) dovrebbero essere dispiegati in maniera più flessibile e andrebbero esplorate opzioni per facilitare l’accesso delle imprese alla finanza». Significa poter ridisegnare il piano e avere più tempo per spendere, oltre le scadenze del 2026. Ma è anche un’ammissione implicita di qualche difficoltà di esecuzione del Pnrr: difficile ottenere nuovi «fondi di sovranità» finché non si dimostra di saper usare bene quelli che ci sono».

MIGRANTI. ALLEANZA FRA GRECIA E DANIMARCA

Sul tema migranti otto Paesi, alcuni nordici e altri mediterranei, chiedono di rivedere il sistema dell’asilo. Daniela Fassini per Avvenire.

«Tre morti, una decina di dispersi e 27 naufraghi, salvati anche dal freddo e dal gelo, oltreché dal mare in tempesta. È il resoconto dell’ultima tragedia del mare. Alcuni profughi sono stati poi ricoverati in ospedale per ipotermia. Dopo le 12 salme arrivate a Lampedusa settimana scorsa, le due persone disperse, i due corpi senza vita recuperati dalla nave Ong SeaEye4 giunta lunedì a Napoli, ecco l’ennesimo naufragio. Questa volta tutto è accaduto lungo la rotta orientale, tra Turchia e Grecia. Un gommone, con 40 persone circa a bordo, dopo aver urtato uno scoglio è affondato a Thermi sull’isola di Lesbo in Grecia. Al momento risultano 3 morti, 11 dispersi e 27 sopravvissuti. Tra questi si registrano 18 uomini, 4 donne e 3 minori originari della Somalia, Sudan, Yemen, Eritrea e Gambia. In base alle testimonianze raccolte, sull’imbarcazione di fortuna viaggiavano 41 persone. Quest’ultimo naufragio è avvenuto a soli 2 giorni da un altro, simile per dinamica: sempre al largo di Lesbo domenica, quando un altro gommone per il forte vento e il mare in tempesta era finito contro gli scogli provocando la morte di 5 persone: 4 bambini e 1 donna. Intanto cresce la tensione sul fronte europeo. Alla vigilia del Consiglio straordinario in programma a Bruxelles domani e dopo, con al centro il tema dei migranti, spunta un’inedita “coalizione” composta da Paesi nordici, baltici, meridionali e centrali. Sono otto Paesi che puntano il dito contro la gestione dei flussi migratori. «A nostro avviso l’attuale sistema di asilo è rotto e avvantaggia soprattutto i cinici trafficanti di esseri umani che approfittano della sfortuna di donne, uomini e bambini» scrivono infatti in una lettera inviata ai presidenti di Commissione e Consiglio i governi di Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Grecia, Malta e Austria. «Invitiamo la Commissione a presentare un approccio europeo completo per tutte le rotte migratorie e tale approccio dovrebbe mirare ad affrontare i fattori di attrazione anche attraverso i necessari adeguamenti giuridici e tecnici». Gli esecutivi sottolineano «l’importanza di compiere progressi sull’intero Patto Ue in materia di migrazione e asilo e sulla revisione del Codice delle frontiere Schengen il prima possibile, e di concordare proposte legislative volte ad affrontare le situazioni di migrazione strumentalizzata», si legge ancora nel documento proposto dagli otto Paesi. Tra le richieste avanzate a Commissione e Consiglio spiccano «rafforzare ulteriormente la protezione delle frontiere esterne, tenendo conto delle differenze tra frontiere terrestri e marittime, e sostenere gli Stati membri nei loro sforzi, compreso lo spiegamento di infrastrutture e la sorveglianza aerea pre-frontaliera per le frontiere marittime» nonché il « pieno utilizzo di Frontex»; «l’aumento significativo dei rimpatri rapidi di cittadini di Paesi terzi senza soggiorno legale nell’Ue dato che «il tasso estremamente basso di rimpatri riusciti costituisce di per sé un fattore di attrazione»; «sviluppare nuovi partenariati e accordi con Paesi terzi sicuri» oltre a «garantire l’allineamento delle politiche in materia di visti dei Paesi terzi prioritari» e «rafforzare ulteriormente le capacità di comunicazione strategica per prevenire la diffusione di informazioni relative all’attraversamento irregolare delle frontiere esterne dell’Ue». E proprio su questo aspetto specifico, in serata è arrivato l’affondo del premier ungherese, Viktor Orban, non nuovo a provocazioni sul versante delle migrazioni. «Uno dei punti principali all’ordine del giorno» del vertice straordinario dei leader europei «è l’immigrazione illegale. Quello che diciamo da anni sta lentamente diventando una posizione comune: per mantenere l’Europa al sicuro, l’Ue deve finanziare la protezione dei nostri confini, comprese recinzioni e altre barriere fisiche» ha scritto Orban in un tweet».

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