Di Maio rompe i 5 Stelle
Scissione del ministro degli Esteri. Conte accetta la linea Draghi sull'Ucraina ma perde 60 parlamentari. Lega primo partito. Nuova tensione nel Baltico. Mancano acqua e gas. Via alla Maturità
Segnato da tempo sul calendario della politica come il giorno della resa dei conti finale, a proposito della guerra in Ucraina, fra Giuseppe Conte e Mario Draghi, queste prime 24 ore dell’estate 2022 passeranno invece alla cronaca, se non alla storia, come quelle della fine del primato del Movimento 5 Stelle nel Parlamento italiano. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha lasciato infatti il Movimento e con lui ben 60 parlamentari hanno abbandonato i 5 Stelle. Di Maio ha dato vita ad una nuova formazione politica che si chiama “Insieme per il futuro”. Ora è la Lega il primo partito rappresentato nelle istituzioni. La rottura è arrivata dopo settimane e mesi di tensione, Giuseppe Conte non ha mai metabolizzato i distinguo di Di Maio ai tempi della corsa al Quirinale e a ben poco sono serviti i numerosi tentativi di mediazione fra i due. In più pesa come un macigno all’interno del Movimento la vicenda del doppio mandato, una regola sempre considerata “identitaria” da Beppe Grillo, e che però potrebbe gestita attraverso deroghe “ad personam” in vista delle prossime elezioni politiche, fra un anno, da Conte stesso. Ovviamente l’iniziativa del più brillante e stimato dei leader grillini provocherà ripercussioni in tutto il sistema politico. Dodici mesi in fondo sono anche pochi per riorganizzare il consenso.
In una giornata così Mario Draghi è andato via liscio, senza problemi, nonostante la sua maggioranza abbia faticato non poco a trovare una soluzione di compromesso sulla “risoluzione” poi votata in modo plebiscitario dal Senato. Il suo discorso (che la Versione propone in forma integrale) è stato misurato ed attento, non volendo scontentare i tanti dubbiosi sul forcing bellicista. Domani inizia un Consiglio europeo molto impegnativo e sarà importante capire quanto i leader UE spingeranno ancora per il negoziato.
A proposito di negoziato, anche negli Stati Uniti si moltiplicano le voci, non solo di ex diplomatici, che invitano il presidente Usa Joe Biden a cercare un cessate il fuoco e una tregua in Ucraina. La Versione di oggi vi propone oggi un importante articolo di Charles A. Kupchan che Repubblica aveva pubblicato ieri nella pagina dei commenti e che mi era sfuggito 24 ore fa. Kupchan ha una tesi molto chiara e condivisibile: gli Usa (noi aggiungiamo con l’Europa) devono prendere un’iniziativa negoziale, altrimenti ogni giorno la guerra rischia un’escalation mondiale. Come la nuova tensione sull’exclave di Kaliningrad dimostra. Sono argomenti che, vista l’autorevolezza e gli incarichi ufficiali a Washington di Kupchan, non possono essere facilmente liquidati come espressione di anti americanismo.
Bella iniziativa del giornalista russo Dmitrij Muratov, direttore di Novaya Gazeta e premio Nobel per la pace, che ha venduto all'asta per 103,5 milioni di dollari, poco meno di cento milioni di euro, la medaglia del premio Nobel ricevuta a Stoccolma. Tutto il ricavato, per decisione dello stesso Muratov, andrà all'Unicef, che lo userà per aiutare i bambini profughi dall'Ucraina e le loro famiglie.
In Italia si combatte con l’emergenza siccità. Le Regioni stanno affrontando la mancanza d’acqua in ordine sparso, in attesa che il governo prenda un’iniziativa nazionale. L’altra emergenza è quella delle risorse energetiche: domani il Consiglio dei Ministri dovrebbe decidere nuove misure. Il presidente della Consob Paolo Savona ha lanciato l’idea di uno “scudo” per difendere i risparmiatori dall’inflazione. A Roma sono arrivate molte famiglie per il decimo incontro annuale col Papa e i Vescovi. L’incontro comincia stasera con uno spettacolo trasmesso da Rai Uno.
Oggi La Versione di Banfi, come tutti i mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente tutte le mattine può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
Inizia in questi minuti la prima prova scritta di Maturità per circa 500 mila studenti in tutta Italia. Secondo i dati resi noti dal ministero dell'Istruzione, ha ottenuto l'ammissione il 96,2% delle candidate e dei candidati. I migliori sono gli studenti veneti, con il 97,2% degli ammessi, è andata peggio di tutti invece ai ragazzi sardi: solo il 91,7% è stato ammesso alle prove.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera sceglie una metafora tellurica: Terremoto Di Maio sui 5 Stelle. E in effetti la notizia della scissione di quello che era fino a ieri il primo gruppo parlamentare domina la scena. Metafora da spettacolo teatrale per Repubblica: Polvere di 5 Stelle. La Stampa è più didascalica: Draghi piega Conte, Di Maio addio 5S. Avvenire sottolinea l’ok alla linea Draghi e poi la divisione grillina: Sì pro Kiev, 5S spaccati. Il Domani tende a minimizzare l’uscita del Ministro degli Esteri dal suo partito: Il M5S si arrende a Draghi. Il governo resiste, fino alla prossima turbolenza. Il Fatto è sprezzante e tratta il titolare della Farnesina come se fosse un qualsiasi Mastella: Di Maio libera i 5 Stelle e fonda la nuova Udeur. Per il Giornale è: Il funerale del grillismo. Il Quotidiano Nazionale sceglie l’ironia nel commento: Alla fine è Di Maio ad espellere i 5 Stelle. Il Manifesto è geniale nel fotografare la foto con Di Maio e Conte: Armi e bagagli. Libero fa un titolo da fumetto: Booom. Di Maio lascia, M5S esplode. Il Mattino tifa per il suo conterraneo Gigino: Di Maio lascia, M5S a pezzi. Il Messaggero registra in modo molto simile: Di Maio lascia, scissione 5S. Il Sole 24 Ore riporta le parole del presidente della Consob Paolo Savona: «Scudo anti inflazione sui risparmi». La Verità insiste con la sua campagna No Vax: I bimbi vaccinati si ammalano di più.
LA ROTTURA DI LUIGI DI MAIO
Luigi Di Maio abbandona il Movimento 5 Stelle. 60 i parlamentari con lui. "Insieme per il futuro" è il nome della nuova creatura politica del capo della Farnesina. Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Undici senatori, 51 deputati: è la scissione più ampia di sempre della storia del M5S, ma anzi - si raccontava nei corridoio di Palazzo Madama - della storia repubblicana. Alla fine, dopo mesi di tira e molla, di due partiti in uno, Luigi Di Maio se ne va davvero. E sembra una scelta che fa contenti tutti, visto che mentre la rottura si concretizzava qualcuno negli uffici parlamentari del Movimento brindava all'addio. Rapporti ormai non tanto inesistenti, ma di reciproca insofferenza. Si chiama "Insieme per il futuro" il nuovo gruppone, potrebbero esserci altri arrivi nei prossimi giorni da parte di indecisi, comunque Di Maio si porta via anche una viceministra all'Economia (Laura Castelli), quattro sottosegretari (Pierpaolo Sileri, Dalila Nesci, Manlio Di Stefano e Anna Macina) e quattro presidenti di commissione. E poi altri pezzi da novanta per la storia del Movimento: l'ex ministro Vincenzo Spadafora, Carla Ruocco che fu tra i membri del direttorio ai tempi di Gianroberto Casaleggio, ex sottosegretari come Gianluca Vacca e Simone Valente. A questo punto, oltre ai possibili contraccolpi per il governo, si assottiglia notevolmente il gruppo dei 5 Stelle che nel 2018 era arrivato forte di numeri consistenti: 339 eletti, ora sono rimasti in 165. L'ufficializzazione della nuova creatura parlamentare è arrivata solo in serata, con un incontro all'hotel Bristol di piazza Barberini, dove ha parlato solo Di Maio: «Le persone qui stasera non hanno alcuna intenzione di costruire una forza politica personale o di esibirvi un simbolo, di somministrarvi l'ennesimo manifesto elettorale. La nostra dovrà essere un'onda che avrà al centro le esperienze territoriali. Non ci sarà spazio per l'odio, per populismi, sovranismi, estremismi ». Così il ministro ha spiegato quali sono state le ragioni della scissione: «Pensare di picconare la stabilità del governo, e quindi di un Paese intero, solo per ragioni legate alla propria crisi di consenso è da irresponsabili, a maggior ragione in un momento delicato come questo». Con ampi riferimenti alla guerra in corso e a quelle che considera le ambiguità del suo ormai ex partito: «Di fronte alle atrocità che sta commettendo Putin non potevamo mostrare incertezze, dovevamo necessariamente scegliere da che parte stare nella storia. Nei giorni scorsi si è acceso un dibattito proprio sul voto di questa mozione. Un dibattito nato dall'esigenza di fare chiarezza su alcune dichiarazioni di dirigenti M5S. Putin ancora in questi minuti sta continuando a bombardare. Non possiamo permetterci ambiguità». E poi: «Quando si ricevono gli endorsement dagli aggressori dell'Ucraina non si risponde con il silenzio e l'indifferenza ma con l'indignazione, perché non possiamo stare dalla parte sbagliata della storia. Dobbiamo stare con il mondo libero». Ovviamente il nuovo gruppo promette massima lealtà all'esecutivo, si prefigura come una sorta di cuscinetto a tutela del governo: «In questo anno e mezzo ho lavorato con Draghi in dossier delicati e per questo sono stato definito "draghiano". È vero, faccio parte del suo governo e credo che l'operato del presidente del Consiglio sia motivo di orgoglio in tutto il mondo. Continueremo a sostenerlo con lealtà e massimo impegno». Dopodiché la tempistica della scissione, proprio nel giorno in cui comunque il Movimento trovava un accordo con il governo per il testo della risoluzione votato in aula, ha destato una certa sorpresa. Ci fosse stata in occasione di una rottura tra Draghi e Giuseppe Conte sarebbe stata forse più giustificata dal punto di vista mediatico, ma ormai - è quel che dicevano un po' tutti i parlamentari - i toni si erano ormai alzati a tal punto che la convivenza sarebbe stata impossibile. Poi rimane aperta una questione: il M5S adesso chiederà ai transfughi membri del governo di lasciare "le poltrone"? E lo chiederà a Draghi? Le fibrillazioni sono quindi destinate ad aumentare. Mentre da lontano, ma comunque vicino per certi versi, l'ex Alessandro Di Battista sentenzia commentando il tutto: «Ignobile tradimento».
Chi ha seguito Di Maio? Lorenzo Giarrelli lo ricostruisce per il Fatto, giornale nemico dello scissionista.
«Ci sono un viceministro, quattro sottosegretari, un questore della Camera e alcuni volti noti della stagione grillina in Parlamento. Tutti pronti a seguire Luigi Di Maio nella scissione governista, "moderata e liberale" - così definì lui una volta il suo nuovo profilo politico - che certifica l'addio della corrente "draghiana" al Movimento 5 Stelle. Saranno una cinquantina alla Camera e fino a venti al Senato. E chissà quanti di loro si ricorderanno della penale da 100 mila euro prevista nel 2018 - con Di Maio leader del Movimento - per chiunque avesse cambiato partito. Oppure dell'intransigenza con cui il ministro bacchettava i morosi delle quote al Movimento e i fuoriusciti, invitandoli a mollare anche le rispettive poltrone in caso di addio al M5S. Acqua passata. E se la fedeltà a Mario Draghi è l'imprinting della secessione, appare normale che molti di quelli con le valigie in mano abbiano un incarico nell'esecutivo. È il caso di Laura Castelli, viceministra dell'Economia e dal 2013 in Parlamento col Movimento, fedelissima dell'ex capo. Con lei ecco Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri prima con Giuseppe Conte e poi coi Migliori, che dunque con Di Maio ha condiviso anche i dossier al ministero. Fanno parte del governo, sempre con l'incarico di sottosegretario, pure Anna Macina (alla Giustizia) e Dalila Nesci (al Sud), entrambe allineate a difesa di Di Maio ("condivido le sue posizioni", aveva detto tre giorni fa Nesci lasciando intendere di essere pronta a seguirlo). Con Di Maio ci sarà poi Vincenzo Spadafora, ascoltatissimo consigliere durante gli anni della sua leadership. Spadafora, eletto per la prima volta nel 2018, è stato sottosegretario con delega alle Pari opportunità nel Conte-1, diventando poi ministro dello Sport nel governo giallorosa. Storico nome del Movimento è anche Carla Ruocco, protagonista fin dalla campagna elettorale del 2013 che già difese pubblicamente Di Maio dopo i tumulti dell'elezione del presidente della Repubblica: "Luigi è la storia e l'anima del M5S - twittò nei giorni dello scontro con Conte - Il suo contributo è imprescindibile". Al secondo mandato alla Camera, Ruocco guida la commissione d'inchiesta sul sistema bancario. Un'altra casella persa dal M5S, dunque, al pari di quella di questore della Camera ricoperta dal messinese Francesco D'Uva, animatore dei primi Meet Up e capogruppo del Movimento alla Camera a inizio legislatura. Altri big in uscita sono Federica Dieni, vicepresidente del Copasir, l'ex sottosegretario Simone Valente e la storica 5S Marta Grande. E poi ci sono Filippo Gallinella, presidente della commissione Agricoltura alla Camera; Vittoria Casa, che guida la Commissione Cultura, e Luigi Iovino, componente dell'Ufficio di presidenza di Montecitorio. Scontato che a seguire il ministro siano anche due fedelissimi come Gianluca Vacca e Sergio Battelli, ma pure Primo Di Nicola, senatore che già nei giorni scorsi aveva difeso Di Maio dalle critiche dei colleghi del Movimento. A Palazzo Madama sono pronti a lasciare il Movimento anche - tra gli altri - Simona Nocerino (a un certo punto si era pensato a lei come candidata sindaca a Milano nel 2021) e i campani Vincenzo Presutto e Sergio Vaccaro. Scudieri dell'ex leader, saranno un riferimento per l'annunciata diaspora di amministratori nella loro Regione».
CONTE SCONFITTO NEL GIORNO DELLA VENDETTA CONTRO DRAGHI
Antonio Polito sul Corriere nota che il “terremoto” della scissione si abbatte proprio nel giorno in cui Giuseppe Conte aveva promesso di fare fuoco e fiamme in Parlamento contro Mario Draghi.
«Giuseppe Conte era partito lancia in resta per piegare il governo sull'Ucraina. Ha finito con il perdere una sessantina dei suoi parlamentari, senza peraltro ottenere nessun cambio di linea in politica estera.
Il Parlamento ha deciso che l'Italia resta impegnata, insieme e al pari degli altri grandi Paesi europei, a difendere in ogni modo l'Ucraina, aggredita da Putin. Ma il partito di maggioranza relativa non c'è più: si è spaccato, scisso, ha perso il ministro degli Esteri che si è fatto un gruppo a sé, precipitando così nelle convulsioni finali di una crisi che durava da tempo e che era già diventata manifesta nelle urne. Di Maio, il «capo politico» dei tempi felici quando i voti grandinavano, è ora un nemico. La rivoluzione a cinque stelle, cominciata nelle urne nove anni fa, si è forse conclusa ieri in Parlamento. Con l'aggravante che mai, durante queste settimane, si è avuta la sensazione di un vero, sincero, nobile dibattito di politica estera. Ma piuttosto di una guerra intestina per procura, nella quale la sorte dell'Ucraina valeva più o meno come la questione del terzo mandato dei parlamentari. Il pacifismo di Conte risulta posticcio in un ex premier che ha firmato con Trump l'impegno ad accrescere la spesa militare italiana fino al 2%. Fa così il paio con il pacifismo di Salvini, rimesso frettolosamente nel cassetto dopo l'insuccesso alle amministrative. Di Maio, che era già sull'uscio da tempo, ha evidentemente preferito andarsene sulla politica estera, e non ha offerto vie di fuga all'avversario, imprudentemente lanciatosi su una strada che non avrebbe potuto percorrere fino in fondo perché portava alla crisi di governo. Mentre questo esecutivo non ha alternative da qui alla fine della legislatura. È l'esito dello psicodramma di ieri e delle ore convulse che l'hanno preceduto. E ciò che è più paradossale è che era un esito scontato. Non si cambia posizione nel pieno di una guerra, smentendola nemmeno tre mesi dopo averla votata ad amplissima maggioranza in Parlamento, se non si vuol essere un Paese da operetta. Né il regime parlamentare, nel quale l'esecutivo riceve il mandato dalle Camere e poi governa, poteva essere sostituito con un regime assembleare, in cui non governa più l'esecutivo ma le risoluzioni parlamentari (e Conte, che ha gestito la pandemia a furia di Dpcm, avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro)».
Ma Conte e Di Maio, benché divisi per sempre, si somigliano ancora molto, secondo Stefano Feltri sul Domani.
«Con la spaccatura del Movimento 5 stelle tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio finisce la stagione della protesta, ma non quella della radicalità. Su Facebook Alessandro Di Battista, da tempo fuori dal parlamento, indica il peccato originario del Movimento: aver deciso di governare, farsi potere invece che rimanere contropotere. Come tutti i populismi e in particolare i populismi di sinistra, quelli che se la prendono con la minoranza forte (l'élite) invece che con la minoranza debole (immigrati, persone con identità sessuali o di genere varie), i Cinque stelle hanno sperimentato e generato la frustrazione di promettere un cambiamento che non sapevano come generare. Donald Trump non ha provato a cambiare "il sistema", si è limitato a imbrogliarlo, a sfasciarlo. I Cinque stelle avevano intenzioni migliori, così come il procuratore generale progressista Chesa Boudin di San Francisco, sfiduciato dai suoi elettori, o a suo tempo Alexis Tsipras in Grecia, Bernie Sanders negli Stati Uniti e così via. Ma per cambiare il sistema servono idee, competenze, radicamento. I Cinque stelle hanno sempre avuto programmi imbarazzanti, competenze minime, nessun radicamento sul territorio (come dimostrano i risultati alle amministrative). Conte e Di Maio, in modo speculare, hanno seguito lo stesso percorso: hanno imparato le logiche della politica, ma non quelle dell'efficacia. Reddito di cittadinanza a parte (che non è poca cosa), di cosa possono andare fieri? Dei decreti Salvini contro gli immigrati? Del più grande sperpero di denaro pubblico della storia repubblicana, il Superbonus edilizio? Conte ha sempre avuto la pochette, Di Maio ha imparato l'inglese e a comportarsi in società, uno a suo agio nei palazzi romani come i democristiani di un tempo, l'altro rapido nell'apprendere e nel decidere come Matteo Renzi (ma senza cedere al fascino del denaro). Ma a parte questo sono uguali: hanno interpretato l'evoluzione di un Movimento che ha imparato a gestire il potere senza avere la più vaga idea di cosa farne. Così finisce quindi la stagione della protesta: nessuno si fiderà più di chi limita l'articolazione del disagio a un "vaffa". Non scompare però il bisogno di radicalità nelle proposte e nelle scelte: amministrare l'esistente con diligenza non può essere l'unica alternativa al fallimento dei populisti, come ha scoperto a sue spese Macron. Dopo Conte e Di Maio non c'è Di Battista, tutti e tre sono interpreti di una stagione conclusa. Ma resta spazio a chi saprà rispondere a quelle domande di equità, redistribuzione e giustizia in modo efficace, competente ma anche netto e coraggioso».
Anche per Alessandro Sallusti di Libero è Giuseppe Conte il vero sconfitto.
«Giuseppe Conte si è rimangiato, come al solito, la promessa di fare ballare il governo Draghi sulle mine da inviare all'Ucraina ma ciò non è servito a non far esplodere il Movimento Cinque Stelle. Sempre per stare in metafora guerresca "il dado è tratto": Luigi Di Maio se ne è andato, seguito da qualche decina di deputati e senatori da oggi ex grillini. La scissione si è consumata, un fragoroso boom che rimbomberà a lungo nei palazzi della politica. Le strade tra i "governisti" e i movimentisti duri e puri (in maggior parte deputati e senatori duri più che altro per non essere stati cooptati su qualche poltrona governativa) si dividono e difficilmente un giorno torneranno a unirsi perché le scissioni sono ferite politiche ed umane non sanabili, come ben sanno sia in Forza Italia che nel Pd. È evidente che l'operazione ha la copertura sia del premier Draghi che del presidente Mattarella. Di Maio è troppo scaltro per fare un salto nel buio e avrà avuto più di una garanzia sul fatto di mantenere la poltrona di ministro degli Esteri, un po' come fece nel 2014 Angelino Alfano quando a sorpresa, Giorgio Napolitano regista, lasciò Forza Italia per fondare il suo nuovo partito e indebolire Berlusconi. In realtà che cosa farà Di Maio nelle prossime settimane o mesi è tema poco appassionante. Più interessante è capire se ieri è nato qualche cosa spendibile elettoralmente, cioè se siamo di fronte all'embrione di un nuovo partito di centro, qualcuno già lo chiama "draghiano", capace di rimescolare le carte dell'offerta politica. Può essere che questo sia il progetto - il fatto che in tanti lo abbiano seguito lascia intendere che Di Maio è in grado già oggi di offrire una ricandidatura - ma i precedenti targati Alfano, Monti, Renzi e Calenda non sono benauguranti né ha mai funzionato un partito che nasce per somma di ex e neo leader perché come noto un pollaio funziona se c'è un solo gallo. In attesa di capire il futuro il presente ci dice che non è possibile - come ancora crede il povero Conte che da questa vicenda esce a pezzi come era più che prevedibile - essere contemporaneamente movimento di opposizione e forza di governo. Prima o poi l'elastico si spezza, e questo vale non soltanto per i grillini. Chi vuole intendere, intenda».
LA LEGA DIVENTA IL PRIMO PARTITO
Sarà anche il nuovo Udeur, come scrive Il Fatto di Marco Travaglio, ma la scissione parlamentare di Di Maio ha numeri molto significativi e ha prodotto una vera rivoluzione nel Parlamento italiano. Giacomo Salvini per Il Fatto.
«La scissione di Luigi Di Maio dal Movimento 5 Stelle è il primo rimescolamento del quadro politico da qui alle elezioni del 2023. Ieri pomeriggio in Senato gli esponenti centristi parlavano di una "slavina" che potrebbe portare a un grande centro nel nome di Mario Draghi e, conseguentemente, a una spinta sempre maggiore per una legge elettorale proporzionale. Se questo diventerà realtà è ancora presto per dirlo. Ma intanto al centro qualcosa si muove. Si parla molto di un nuovo partito ecologista e progressista tra Di Maio e il sindaco di Milano Beppe Sala ma all'esperimento centrista guardano con grande attenzione anche le ministre di Forza Italia Mariastella Gelmini (data in uscita verso Azione di Carlo Calenda) e Mara Carfagna, a cui Di Maio è molto legato. Se Calenda ieri ha già detto "no" a un'alleanza con il ministro degli Esteri, è stato Matteo Renzi nel salone Garibaldi di palazzo Madama a intrattenere i cronisti sul futuro politico del centro: "Ce n'è bisogno e mi sto muovendo per costruirlo - ha detto il leader di Italia Viva - adesso però servirà capire chi raccoglierà il voto di protesta. Letta deve decidere come fare il 'campo largo'". Il rebus delle prossime settimane, infatti, sarà proprio quello delle nuove alleanze. Il segretario del Pd Enrico Letta ieri ha invitato alla calma ed è rimasto soddisfatto per aver contribuito alla mediazione sulla risoluzione in Parlamento: "Noi siamo il baricentro, tutto attorno a noi si muove vorticosamente, nervi saldi" ha fatto filtrare il Nazareno all'AdnKronos. Sui due duellanti, Conte e Di Maio, dal Pd fanno sapere che "non c'è un tifo" e che " i rapporti sono buoni con entrambi". Come dire che nel campo largo di Letta potrebbero entrare tutti e due senza problemi. Poi certo, nel Pd le correnti hanno le proprie preferenze: l'area più di sinistra rappresentata è più vicina a Conte, Base Riformista di Lorenzo Guerini più a Di Maio. E per questo, da oggi i primi chiederanno di rafforzare l'alleanza con il M5S, i secondi di guardare più al centro. Dal Nazareno fanno sapere però di non voler entrare nelle dinamiche interne del M5S. Certo se poi Conte decidesse di uscire dal governo "si aprirebbe un grosso problema". La scissione di Di Maio cambia però anche gli equilibri di governo. Da oggi diventa la Lega il primo partito di maggioranza relativa in Parlamento con 193 parlamentari (132 alla Camera, 61 al Senato) contro i 165 del M5S (erano 227 fino a ieri) e quindi la prima forza della maggioranza di governo. Una posizione che Matteo Salvini vuole utilizzare per ottenere risultati concreti nell'esecutivo: ha già chiesto a Draghi un decreto per rinnovare lo sconto benzina, uno per l'emergenza siccità e vuole la rottamazione delle cartelle esattoriali. Per il momento il leader della Lega non vuole uscire dal governo ma si è dato fino alla fine dell'estate per decidere se lasciare in autunno. I suoi fedelissimi però lo pressano per scaricare l'esecutivo e anticipare una possibile uscita del M5S di Conte. "Dovremmo cogliere il momento adesso" dice un deputato leghista. "La Lega chiede decreti, non poltrone" ha specificato ieri Salvini. Che sa bene quali siano i rapporti (idilliaci) tra Di Maio e il suo numero due Giancarlo Giorgetti, entrambi vicini a Draghi (ieri erano al suo fianco in Senato). Tant' è che Salvini ieri ha attaccato direttamente il ministro: “Se qualcuno rimane nel governo senza rappresentare nessuno, un problema c'è: a nome di chi va in giro per il mondo il ministro degli Esteri? Non ho capito chi rappresenta chi”».
LA MAGGIORANZA VOTA COMPATTA SULL’UCRAINA
Nel dibattito sull’invio di armi all’Ucraina alla fine si è raggiunto un compromesso sulla “risoluzione”. Ok al governo Draghi sull’Ucraina. Il via libera di Palazzo Madama arriva con 219 sì e 20 no. FdI si astiene. Oggi il voto alla Camera. Serenella Mattera per Repubblica.
«L'Italia continuerà ad «aiutare l'Ucraina a difendere la libertà e la democrazia». Anche, se servirà, con l'invio di armi. Dopo mesi di distinguo, due settimane di trattative, quarantotto ore sull'orlo della rottura, la maggioranza si riallinea. All'ultimo minuto utile, Giuseppe Conte decide di non rompere. Passa una risoluzione unitaria che dà mandato al governo di proseguire nella gestione del conflitto ucraino e delle sue ricadute esattamente come fatto finora, «con il necessario e ampio coinvolgimento delle Camere». Il voto è compatto: 219 sì, 20 no, l'astensione responsabile dei 22 senatori di Fdi. Ed è questo che conta, dice Mario Draghi ai suoi parlamentari dopo aver ricevuto la notizia dell'accordo: «Il sostegno unito » del Parlamento al governo, perché «l'unità è essenziale specialmente » ora che «il Paese è, sia pure indirettamente, coinvolto in una guerra ». Avere il sostegno delle Camere è «importante», sottolinea, per ragioni anche «personali», perché ci sono da prendere decisioni «molto complesse, profonde», con «risvolti morali». Mario Draghi entra nell'emiciclo del Senato senza ancora sapere se Giuseppe Conte deciderà di smarcarsi e aprire la crisi. «Mah, non lo so, vediamo... », dice serafico prima di accomodarsi in Aula. Per diciannove minuti, in un'atmosfera sospesa, rotta soltanto da cinque moderati applausi, svolge le sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo di domani e venerdì. Ha negli occhi le «devastazioni» viste la settimana scorsa a Kiev, ricorda che l'aggressione russa all'Ucraina prosegue, cita il «terribile bilancio » di 4569 morti («ma sono molti di più»), le «atrocità» dell'esercito di Vladimir Putin che dovranno essere punite. Ribadisce la necessità di «continuare a sostenere l'Ucraina per raggiungere una pace non subita». «Spetta a tutti noi aiutare quel Paese a rinascere», dice. I senatori applaudono. Draghi prosegue. Con l'impegno europero per la «ricostruzione », la spinta «coraggiosa» per l'adesione di Kiev, dei balcanici e in prospettiva di «gran parte dei Paesi vicini alla Russia» che ora guardano all'Ue. Con le sanzioni «sempre più efficaci che faranno perdere alla Russia 8,5 punti di Pil». E con la «ricerca della pace», il tentativo di «dialogo» con Putin per sbloccare il grano ucraino, attraverso l'Onu, per «evitare una crisi umanitaria di dimensioni straordinarie». Ma nel Consiglio europeo si parlerà, ricorda il premier, anche della crisi energetica, di un «rapido e deciso» sostegno da dare ai cittadini («L'Italia ha stanziato circa 30 miliardi») e dell'urgenza di un tetto al prezzo del gas per evitare che «le difficoltà per l'Europa aumentino vertiginosamente». Quando Draghi parla, non ha ancora il sostegno della sua maggioranza. Rivendica che il governo si è mosso finora nel solco del «mandato» ricevuto a marzo dal Parlamento. Ma non sa se alla fine della seduta avrà ancora una maggioranza unita. Perché quel mandato Conte vorrebbe modificarlo, mettere condizioni all'invio di nuove armi. Contro questo tentativo Luigi Di Maio, che con sguardo severo siede accanto al premier, sta consumando la sua scissione. I senatori grillini tengono gli occhi fissi sui cellulari, la vicepresidente del Movimento Paola Taverna è collegata via Zoom, forse con il Consiglio nazionale guidato da Conte, via whatsapp gli alleati del Pd si scambiano aggiornamenti sui numeri dei dimaiani. La risoluzione di maggioranza sulle comunicazioni del premier è ostaggio delle divisioni pentastellate. Per tutta la mattina, dopo la riunione fiume di lunedì, il sottosegretario Enzo Amendola e il ministro Federico D'Incà sono stati chiusi in una stanza con i rappresentanti di maggioranza per trovare la formulazione che metta tutti d'accordo. Manca solo un tassello, il passaggio che riguarda la guerra. Il M5S a trazione contiana vorrebbe eliminare dal testo la citazione del decreto di marzo, il n.14, che dà al governo la cornice entro cui agire e consente fino a fine anno di inviare armi all'Ucraina. Palazzo Chigi fa muro, non esiste. Allora i contiani chiedono che il governo debba almeno riferire in Aula - e non solo davanti al Copasir, con vincolo di segretezza - quando si dovranno decidere nuove «cessioni di forniture militari». Niente da fare, è la risposta. Leu, con Federico Fornaro, fa da sponda a Conte. La riunione di maggioranza viene sospesa, il M5S si riunisce in conclave, i contatti proseguono. Solo intorno alle 16 D'Incà porta a Draghi il foglio con la mediazione. È quel che voleva il governo, il premier. Si va avanti come fatto finora, l'esecutivo terrà informate le Camere ma fino a fine anno potrà inviare armi a Kiev. Il ministro degli Esteri e Guerini, che per tutto il tempo siedono accanto al premier, insieme a Giancarlo Giorgetti, sorridono soddisfatti. Il «teatrino » si poteva evitare, concordano Pier Ferdinando Casini e Matteo Renzi. Il M5S in Aula batte sul tasto della pace e annuncia la prossima battaglia sul Superbonus. Matteo Salvini non parla ma gli interventi dei suoi senatori hanno accenti di lotta, più che di governo. Gli ex grillini di opposizione attaccano il premier, lui solo per un attimo si scompone: «Ma che dite», sibila. «Non saremo la stampella della maggioranza», dice Luca Ciriani, prima che FdI si astenga. Mette le mani avanti. Perché oggi sull'Ucraina si vota alla Camera e non si attendono sorprese. Ma la maggioranza non è più la stessa. «Non sono preoccupato », assicura Draghi. Ma l'unità non è più scontata».
DRAGHI: “NON SMETTIAMO DI CERCARE LA PACE”
La Versione vi propone il discorso integrale pronunciato dal presidente del Consiglio Mario Draghi ieri al Senato. È un passaggio importante del governo italiano, in vista del Consiglio europeo che inizia domani.
« Presidente Casellati, Onorevoli Senatrici e senatori
Il Consiglio europeo del 23 e 24 giugno affronterà i seguenti temi:
- gli sviluppi della guerra in Ucraina e il sostegno europeo a Kiev;
- le ricadute umanitarie, alimentari, energetiche e securitarie del conflitto;
- gli aiuti a famiglie e imprese colpite dalla crisi;
- le prospettive di allargamento dell’Ue;
- i seguiti della Conferenza sul futuro dell’Europa.
Ci avviciniamo al quarto mese dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio. Mosca continua ad aggredire militarmente città ucraine nel tentativo di espandere il controllo sul territorio e rafforzare la propria posizione. I combattimenti a Severodonestk, nella regione di Luhansk, sono particolarmente feroci. Il bombardamento russo di Kharkiv, la seconda città più popolosa dell’Ucraina, aggrava il già terribile bilancio di morti e feriti. Al 20 giugno sono 4.569 civili morti, 5.691 quelli feriti secondo le nazioni unite. Ma il numero reale probabilmente è molto, molto più alto. Continuano a emergere nuove atrocità commesse ai danni dei civili da parte dell’esercito russo. Le responsabilità saranno accertate e i crimini di guerra saranno puniti. Anche il numero delle persone in fuga dal conflitto continua ad aumentare. Soltanto in Italia sono oltre 135 mila i cittadini ucraini arrivati dall’inizio dell’invasione. Voglio esprimere ancora una volta la mia gratitudine alle italiane e agli italiani che li hanno accolti. La strategia dell’Italia in accordo con l’Ue e con gli Alleati del G7 si muove su due fronti: sosteniamo l’Ucraina e imponiamo sanzioni alla Russia perché Mosca cessi le ostilità e accetti di sedersi davvero al tavolo dei negoziati. Durante la mia recente visita a Kiev insieme al Cancelliere tedesco Scholz, al Presidente francese Macron e al Presidente rumeno Iohannis, ho visto da vicino le devastazioni della guerra e constatato la determinazione degli ucraini nel difendere il loro Paese. Siamo andati a Kiev per testimoniare di persona che i nostri Paesi e l’Unione sono determinati ad aiutare un popolo europeo nella sua lotta a difesa della sua democrazia e della sua libertà. Durante la visita il Presidente Zelensky ci ha chiesto di continuare a sostenere l’Ucraina per poter raggiungere una pace che rispetti i loro diritti e la loro volontà. Solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura. La sottomissione violenta e la repressione di un popolo per mano di un esercito, non portano alla pace ma al prolungamento del conflitto, forse con altre modalità, certo con altre distruzioni. Il Governo italiano, insieme ai partner dell’Ue e del G7, intende continuare a sostenere l’Ucraina così come questo Parlamento ci ha dato mandato di fare. Il nostro sostegno a favore di Kiev è anche un impegno alla ricostruzione del Paese. Il Consiglio europeo straordinario del 30 e 31 maggio ha discusso di questo, e le conclusioni del prossimo Consiglio riaffermeranno questo impegno. Non è un’impresa che possono affrontare i singoli Stati. Lo sforzo deve essere collettivo e coinvolgere anche gli Organismi internazionali e le Banche di sviluppo, la Banca mondiale e il Fondo monetario primi tra tutti. Vogliamo ricostruire per ridare una casa alle famiglie che l’hanno persa, per riportare i bambini nelle scuole, per aiutare la ripresa della vita economica e sociale in Ucraina. Oggi spetta a tuti noi aiutare l’Ucraina a rinascere. A Kiev ho ribadito che l’Italia vuole l’Ucraina nell’Ue e vuole che abbia lo status di candidato. Il Governo italiano è stato tra i primi a sostenere questa posizione con chiarezza e convinzione, in Europa e in Occidente. Se non sbaglio la prima volta che ho affermato questo punto è stato proprio in questo Parlamento. Continueremo a farlo in ogni consesso internazionale, a partire dal prossimo Consiglio europeo. Sono consapevole che non tutti gli Stati membri oggi condividono questa posizione. Ma la raccomandazione della Commissione è un segnale incoraggiante e confido che il Consiglio europeo possa raggiungere una posizione consensuale in merito. Gran parte dei Paesi vicini alla Russia, grandi e piccoli, guardano ora all'Unione Europea per la sicurezza, per la pace, per la stabilità. Il percorso da Paese candidato a Stato membro è lungo per via delle impegnative riforme strutturali richieste. Ma il segnale europeo deve essere chiaro e coraggioso da subito. Oggi i Paesi, tra l'altro, sono in grado di portare avanti queste riforme strutturali più velocemente rispetto al passato. Il 3 giugno il Consiglio europeo ha adottato il sesto pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia. E’ stato introdotto l'embargo su tutto il petrolio e sui prodotti petroliferi importati in Europa via mare, rispettivamente a partire dalla fine del 2022 e dall'inizio del 2023. Gli operatori europei non potranno più assicurare e finanziare il trasporto di petrolio a Paesi terzi. Sono state escluse dal sistema Swift altre tre banche russe, tra cui la più grande del Paese, Sberbank, e una banca bielorussa. E’ stato ampliato l'elenco di beni soggetti al blocco delle esportazioni, compresi prodotti chimici che possono essere usati per finalità belliche. Vengono sanzionate altre 18 entità russe e 65 persone, tra cui quello che è considerato il responsabile degli orrori di Bucha. Sono state sospese in Europa le trasmissioni di altre tre organi statali di informazione russa che diffondono propaganda. Le sanzioni funzionano. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che quest'anno il costo inflitto all'economia russa sarà pari a 8,5 punti del Prodotto interno lordo. Il tempo ha rivelato e sta rivelando che queste misure sono sempre più efficaci. Ma lo voglio sottolineare ancora una volta: i nostri canali di dialogo rimangono aperti. Non smetteremo di sostenere la diplomazia e cercare la pace, una pace nei termini che sceglierà l'Ucraina. Anche dei miei colloqui col presidente Putin, ho più volte ribadito la necessità di porre fine all'aggressione e parlare di pace, di definirne concretamente i termini e i tempi. Durante il Consiglio Europeo si discuterà anche dell'allargamento dell'Unione ai Balcani occidentali. Il governo italiano è favorevole a far partire i negoziati di adesione con l'Albania e la Macedonia del Nord. Nella discussione, che inizierà a questo Consiglio Europeo, inoltre il presidente Macron presenterà il suo impegno per una Comunità politica europea. Come ha già chiarito il Presidente francese questo progetto non sarà un canale sostitutivo allo status di Paese candidato. Il consiglio di fine mese rappresenta un'occasione per cominciare a guardare al futuro assetto dell'Unione, i suoi confini, la sua sicurezza, il suo sviluppo economico. Il parere positivo della Commissione europea sull’adozione dell'Euro da parte della Croazia a partire dal 2023 è un ottimo segnale, che naturalmente l'Italia accoglie con favore. Negli ultimi decenni l'allargamento dell'Unione Europea ha dato pace e stabilità a Paesi segnati dalla guerra. L'allargamento ha trasformato l'Unione Europea nel più grande mercato unico del mondo, che rappresenta tra il 5 e 6 per cento della popolazione e circa un sesto del prodotto globale. Ha creato nuove opportunità di cooperazione tra Paesi in aree di fondamentale importanza: campo energetico, nei trasporti, nella sicurezza alimentare, nella salute, nello studio, nel lavoro. Ha stimolato negli Stati membri lo sviluppo di un'economia di mercato funzionante e favorito un processo di riforme sin dalla domanda di adesione. Ha esteso diritti e tutele, diritti e tutele sul lavoro assenti ancora oggi in altre parti del mondo. Ha fornito un potente incentivo allo sviluppo della vita democratica, al rispetto della dignità umana e dello stato di diritto. Come scritto nel Trattato sull'Unione Europea, ogni Stato europeo che rispetti questi valori e che si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell'Unione. L'adesione a questi principi non è una considerazione secondaria, è alla base del progetto europeo. L'allargamento dell'Unione Europea però comporterà certamente anche una riflessione profonda sulle regole che disciplinano il suo funzionamento, in politica estera, di sicurezza, in politica economica, in politica sociale. E’ opportuno convocare al più presto una conferenza intergovernativa per discutere di come affrontare questa sfida. Uno stimolo il cambiamento è arrivato anche dalla Conferenza sul futuro dell'Europa che si è conclusa a maggio. Le proposte dei cittadini europei, soprattutto giovani, presentate in quell'occasione riguardano temi di grande importanza per il futuro dell'Unione, dal cambiamento climatico allo stato di diritto, e meritano di essere valutate con attenzione. Il conflitto in atto rischia di creare una crisi umanitaria di dimensioni straordinarie. Le forniture di grano sono a rischio nei Paesi più poveri del mondo. Già adesso il blocco dei porti tiene vincolati milioni di tonnellate di cereali del raccolto precedente che rischiano di marcire. Le devastazioni della guerra peggioreranno la situazione nei prossimi mesi. Recenti bombardamenti russi hanno distrutto il magazzino di uno dei più grandi terminali agricoli dell'Ucraina, nel porto di Mykolaiv, che secondo le autorità ucraine conteneva tra 250 e 300 mila tonnellate di cereali. Le proiezioni fornite dall'Ucraina indicano che la produzione di cereali potrebbe calare tra il 40 e il 50% rispetto all'anno scorso. Dobbiamo liberare le scorte che sono in magazzino in modo da sbloccare le forniture per i Paesi destinatari e fare spazio al nuovo raccolto che arriverà a settembre. Nell'immediato è necessario realizzare lo sminamento dei porti e garantire l'uscita delle navi in sicurezza. Dopo vari tentativi falliti, non vedo alternativa a una risoluzione delle Nazioni Unite che definisca i tempi di questa operazione e dove l’ONU garantisca sotto la propria egida la sua esecuzione. L'Europa, sia sul piano G7 che bilaterale, ha messo in atto uno sforzo di cooperazione su larga scala per aiutare i Paesi più vulnerabili. Negli ultimi giorni la Russia ha ridotto le forniture di gas all'Europa, compresa l'Italia. Dall'inizio della guerra, il nostro governo - questo governo - si è mosso con rapidità per trovare fonti di approvvigionamento alternative al gas russo. Abbiamo stretto accordi importanti con vari Paesi fornitori, dall’Algeria all’Azerbaijan, e promosso nuovi investimenti, anche nelle rinnovabili. Grazie a queste misure potremmo ridurre in modo significativo la nostra dipendenza dal gas russo già dall'anno prossimo. In Europa l'andamento del prezzo dell'energia è alla base dell'impennata dei tassi di inflazione degli ultimi mesi. A maggio in Italia l'inflazione ha raggiunto il 7,3%, ma l'inflazione di fondo - che esclude i beni energetici e alimentari - è meno della metà. Per frenare l'aumento generale dei prezzi e tutelare il potere d'acquisto dei cittadini, è essenziale agire anche - e sottolineo ‘anche’, perché i campi di intervento sono vari e non si limitano a questo - sulla fonte del problema e contenere i rincari di gas ed energia. I governi hanno gli strumenti per farlo. La soluzione che proponiamo da diversi mesi è l'imposizione di un tetto al prezzo del gas russo che consentirebbe anche di ridurre i flussi finanziari verso Mosca. Il Consiglio europeo ha dato alla Commissione il mandato di verificare la possibilità di introdurre un controllo, un tetto al prezzo. Questa misura è diventata ancora più urgente alla luce della riduzione delle forniture da parte di Mosca. Le forniture sono ridotte, il prezzo aumenta, l'incasso da parte di Mosca resta lo stesso, le difficoltà per l'Europa aumentano vertiginosamente. L'Europa deve muoversi con rapidità e decisione per tutelare i propri cittadini dalle ricadute della crisi innescate dalla guerra. Dall'anno scorso l'Italia ha stanziato circa 30 miliardi di euro in aiuti a famiglie e imprese. Parte di questi interventi sono stati finanziati con un contributo straordinario delle grandi aziende energetiche, che hanno maturato profitti enormi grazie all'aumento dei prezzi. Con questa misura abbiamo dunque chiamato le imprese che hanno beneficiato di rincari eccezionali a compartecipare a costi che tutta la società sta sopportando. È stata una scelta dettata da un principio di solidarietà e di responsabilità. L'Italia continuerà a lavorare con l'Unione europea e i nostri partner del G7 per sostenere l'Ucraina, ricercare la pace, superare questa crisi. Questo è il mandato che il governo ha ricevuto dal Parlamento, da voi. Questa è la guida per la nostra azione. Grazie».
LYSYCHANSK CUORE DELLO SCONTRO
Dal campo bellico: il reportage dal Donbass di Lorenzo Cremonesi per il Corriere. Tra gli ucraini in pausa prima di tornare in trincea: «Per quanto tempo potremo ancora resistere?». Lysychansk è il cuore dello scontro. Notizia da Kharkiv: sono stati uccisi 15 civili.
«Sono i rombi dei bombardamenti già prima delle tre della mattina a lasciare capire che la predizione di Zelensky si sta avverando. «Sarà una settimana difficile. I russi vogliono intensificare l'offensiva contro il Donbass in concomitanza del vertice europeo sull'Ucraina di giovedì e venerdì», aveva messo in allarme due giorni fa il presidente da Kiev. A Kramatorsk, immobilizzata dal coprifuoco notturno, il fracasso delle artiglierie si mischia al crepitare nervoso delle mitragliatrici pesanti ed echeggia tra i condomini vuoti, gli spostamenti d'aria fanno vibrare i vetri. I siti ucraini segnalano che la battaglia si concentra su Severodonetsk, ma soprattutto attorno alla città gemella di Lysychansk, che sta sulla sponda occidentale del corso del Siversky Donets. Una conferma ci arriva per messaggio alle 8 della mattina dall'unità di artiglieria ucraina che avremmo dovuto andare a visitare oggi. «Impossibile venire, la strada da Bakhmut è presa di mira e noi abbiamo problemi», scrive via Whatsapp Youroslav, l'ufficiale con cui eravamo in contatto. Più tardi un suo attendente farà sapere che i «problemi» sono in verità molto seri: una bomba russa ha centrato la palazzina del loro quartiere generale, uccidendo una cinquantina di soldati. Un altro racconta che c'è preoccupazione in tutto il settore: i russi bombardano e in alcuni punti hanno tentato di lanciare commando per attraversare il fiume. Almeno in un'area, non lontano da Sloviansk, per qualche ora sono riusciti ad arrivare sulla sponda occidentale. «Poi li abbiamo cacciati indietro, ma non doveva accadere», spiega in fretta la fonte, «le nostre difese si sono lasciate prendere di sorpresa». Sono tutte conferme molto fattuali della forte pressione esercitata dai comandi di Mosca per cercare di conquistare rapidamente «la regione» di Lugansk (che corrisponde a circa la metà dell'intero Donbass). In realtà non manca molto, specie dopo le offensive preparate dai feroci bombardamenti cominciati a inizio aprile: ormai l'armata controlla il 95% della regione, che era già stata in parte occupata dai separatisti filorussi, grazie al massiccio sostegno di Mosca, sin dalla guerra del 2014. Tre giorni fa sono anche riusciti a prendere il villaggio di Toshkivka e altre due località a ovest del fiume: ormai minacciano apertamente tutte le vie di comunicazione a est di Bakhmut. Gli ucraini rischiano di restare accerchiati, mentre dalla regione di Kharkiv giunge notizia dell'uccisione di 15 civili. «Se voi occidentali, specie gli alleati europei, parlaste meno e vi muoveste invece concretamente per mandarci le armi che chiediamo, certamente il Lugansk oggi sarebbe tutto libero. Ma ormai è perduto, inutile farci illusioni, poche settimane e noi dovremo abbandonare sia Severodonetsk che Lysyshansk», ammette il 48enne Taras, un ufficiale delle forze speciali incontrato in un bar di Sloviansk. Le sue valutazioni fanno il paio con quelle che pubblica la stampa americana citando gli esperti del Pentagono: gli ucraini non potranno tenere l'ultimo 5 per cento del Lugansk, ma la battaglia per la provincia di Donetsk resta ancora tutta da giocare, gli ucraini cominciano ad usare con efficacia i cannoni e lanciarazzi inviati dagli Stati Uniti e dagli altri alleati. In ultima analisi, ben difficilmente Putin riuscirà a coronare il suo piano di prendere l'intero Donbass. Ma anche questa narrativa della parziale ritirata ucraina, cui seguirà una lunga guerra di logoramento alla fine della quale non è affatto detto che Putin possa prevalere, è smentita con fermezza da tre giovani soldati delle forze speciali incontrati in serata appena usciti dall'assedio di Severodonetsk e in cui rientreranno a combattere prima che faccia buio. Sono eccitati dalla battaglia e dal pericolo, magri, hanno le mani che tremano, parlano nervosi, tra loro condividono quell'intimità esclusiva che nasce dalla «camaraderie» delle trincee. Sono Ieroslav di 26 anni, Alexey di 27 e Alexandrey di 32. Dicono: «I russi avanzano solo grazie alle loro artiglierie e i tank, ne dispongono di numeri spropositati. Ma le fanterie sono nulle, vengono mandate a morire stupidamente dagli ufficiali ceceni che se ne restano nelle retrovie. A noi basterebbero un poco più di armi, specialmente di droni a lungo raggio, e avremmo la meglio».
MYKOLAIV SI PREPARA AL PEGGIO
Reportage di Nello Scavo per Avvenire da Mykolaiv, snodo strategico per arrivare ad Odessa. Gli ucraini hanno costruito un reticolo di sotterranei per far fronte all’aggressione russa. La Marina del Cremlino è tornata a dispiegare nella baia di Odessa tre navi.
«Il soldato dai capelli bianchi è esausto. Quando i paramedici militari lo prelevano dalla trincea, l'uomo ha la pressione così bassa da far temere un collasso. È stanco, ma non di stare al fronte a respingere l'attacco russo da Kerson. L'umore del campo di battaglia è tutto qui: una guerra che nessuno voleva, ma che nessuno vuole chiudere alzando per primo la bandiera bianca. Le tecniche di guerriglia applicate alla fanteria stanno mandando in confusione l'artiglieria di Mosca. Mentre raggiungiamo le linee avanzate di Schevchenkove, vediamo un continuo spostarsi di cannoni, obici, carri armati che sbucano dalle campagne e vengono caricati sui camion. Poi, a tutta velocità, questi li faranno sbarcare su altre trincee. Si colpisce da una parte e quando le forze russe reagiscono, la fanteria si è già spostata ed è pronta ad aggredire un altro fianco. Perciò è aumentato sul cielo da Mykolaiv a Kherson la presenza di droni spia. Uno viene abbattuto proprio sulle nostre teste da un razzo antiaereo in dotazione alle forze di Kiev. Il velivolo senza pilota si nascondeva tra le nuvole che annunciano maltempo, ma è stato avvistato dai radar. La risposta degli artiglieri delle forze di occupazione è come sempre brutale. La terra trema per chilometri e chilometri, per ore e ore. Fino a quando altri due missili riescono a bucare la barriera della contraerea per distruggere alcune case di campagna nei dintorni di Mykolaiv. Neanche quella di oggi si preannuncia come una giornata in cui poter sognare ventiquattr' ore di tregua dopo quattro mesi di piombo. Il 22 giugno, l'Ucraina celebra la Giornata del dolore e della memoria per le vittime della guerra tedesco-sovieti- ca. Una nostra fonte militare ci mette in guardia: «C'è un'alta probabilità di provocazioni da parte delle forze di occupazione con possibili attacchi missilistici». Le indicazioni sono le solite: «Astenersi dal soggiornare in luoghi affollati; in caso di allerta aerea recarsi immediatamente al rifugio più vicino; nelle stanze, ricordarsi la regola dei due muri e due uscite». Vuol dire cercare un riparo tra due pareti interne e avendo a disposizione almeno un paio di vie di fuga.
Impossibile per quasi chiunque viva in un appartamento normale, ma neanche questo ennesimo allarme sembra far cambiare abitudine agli irriducibili dei bar all'aperto. «Purtroppo - aggiunge la fonte - i rumors sull'avvicinamento di numerose navi lanciamissili affiancate da unità da sbarco e sottomarini oggi sono stati confermati dalle autorità militari . Il rischio di attacchi missilistici è altissimo». Ma il maggior timore restano i sabotatori russi. Ieri a Odessa gli uomini del servizio segreto (Sbu) hanno arrestato un insegnante di informatica che, secondo l'accusa, ha utilizzato alcuni social network vietati per propagandare l'aggressione armata della Federazione russa e le azioni dell'esercito di Mosca. Dallo scorso fine settimana, gli arrestati sono venti, a cui si aggiunge un uomo di origini russe che grazie a una serie di appostamenti avrebbe indicato con precisione ai quali piloni d'acciaio del ponte di Zakota colpire per rendere inservibile l'unica infrastruttura viaria che collega direttamente Odessa alla regione sud, oltre il fiume Dnestr, in direzione della Romania. Proprio nel Paese confinante sarebbe dovuto arrivare una parte del grano da spedire attraverso le navi cargo ormeggiate nel porto di Costanza. Ipotesi accantonata dopo il quinto fatale bombardamento del ponte. A due ore d'auto, intorno a Mykolaiv, il traffico sulla strada aperta ai soli militari è apparso sostenuto. Ci arriviamo grazie a un lasciapassare che consente di raggiungere le linee avanzate senza dover sottostare agli ordini - e ai divieti dei comandanti di campo. I carristi che alla chetichella provano a spostare i blindati all'inizio, ci guardano storto. Sono ragazzi interamente ricoperti di fuliggine e grasso nero. Poi si mettono a chiacchierare della vita al fronte e dei timori a dare battaglia da dentro una scatola di metallo chiassosa e certo non invincibile. «È impossibile prendere Odessa se non si prende Mykolaiv. Ma per come vanno le cose -- ripetono - è impossibile prendere Mykolaiv». E se dovesse accadere, gli ucraini sono pronti a bersagliare il ponte Antonov, la maestosa opera di collegamento sul Dnepr proprio a Kherson. Se accadesse, vorrebbe dire rinunciare a riconquistare la città da cui si accede alla Crimea. Ma potrebbe essere l'estremo bersaglio per non perdere Odessa. A Mykolaiv intanto si preparano al peggio. Tunnel sotterranei, cantine, catacombe, vengono attrezzati e collegati in un reticolo nel quale proteggere la popolazione e riorganizzare una resistenza nel buio se davvero i battaglioni degli invasori prendessero d'assedio la città. «Non possiamo farci trovare impreparati. E i militari dell'Azovstal ci hanno dimostrato che è possibile resistere per mesi», spiega uno degli "architetti" della città sotterranea. Una prospettiva da orrore, ma che non mette in fuga la popolazione rimasta. Come di consueto le autorità militari confermano i danneggiamenti agli obiettivi militari ventiquattr' ore dopo le esplosioni. Così da Odessa il "Comando Sud" fa sapere che, il giorno prima, uno dei 14 missili Onycs scagliati contro la regione ha distrutto gli hangar all'interno dei quali si trovavano i droni ucraini. Si tratterebbe della piattaforma di lancio da cui erano partiti gli attacchi di Kiev contro le piattaforme per la produzione di gas nel Mar Nero. Mosca ha condito la notizia con le solite allusioni. Gli hangar erano stati identificati «durante un'operazione di ricognizione», ha detto il portavoce del ministero della Difesa, Igor Konashenkov. Un modo per sbeffeggiare l'intelligence ucraina e i radar che non avrebbero visto i velivoli ricognitori. Nelle stesse ore, gli ucraini hanno attaccato per 30 volte con i droni armati l'Isola dei Serpenti, conquistata dalla Marina di Mosca. Ieri quest' ultima è tornata dispiegare nel golfo tre navi d'attacco che trasporterebbero una trentina di missili da crociera. E alle 22 in punto le sirene su Odessa annunciano un'altra lunga notte di coprifuoco».
KALININGRAD, IL BLOCCO FA SALIRE LA TENSIONE
Grande tensione sul fronte diplomatico per il rischio di una nuova escalation a Kaliningrad. La Russia minaccia di isolare i Paesi baltici, che bloccano le merci per l’exclave. Gli Usa dicono: la Nato è pronta a difendere La Lituania. Rosalba Castelletti per Repubblica.
«Che il "blocco di Kaliningrad" abbia alzato il livello di tensione lo dimostra il fatto che Nikolaj Patrushev, il potente segretario del Consiglio di sicurezza del Cremlino, nonché uno dei pochi consiglieri fidati di Vladimir Putin, ieri sia volato nell'exclave russa sul Baltico. «La Russia reagirà a tali atti ostili. Le misure appropriate sono in fase di elaborazione a livello interministeriale e saranno adottate presto. Le loro conseguenze avranno un impatto negativo significativo sulla popolazione della Lituania», ha minacciato in risposta alla decisione di Vilnius di vietare il transito ferroviario delle merci soggette a sanzioni europee in direzione della strategica e militarizzata regione russa. A riprova che lo scontro non riguardi solo Vilnius, ma anche Bruxelles, contemporaneamente a Mosca, il ministero degli Esteri convocava il capo della delegazione Ue in Russia, Markus Ederer, per esprimere «una risoluta protesta » e chiedere «l'immediato ripristino » del transito, altrimenti «seguiranno misure di ritorsione». «Faccio appello alla parte russa perché mantenga il sangue freddo e non provochi un'escalation», questa disputa può essere risolta «per vie diplomatiche », ha assicurato Ederer al vice ministro degli Esteri russo Aleksandr Grushko. Ma il suo appello sembra essere caduto nel vuoto. Patrushev non è entrato nel dettaglio delle ritorsioni allo studio, ma in passato la Russia ha più volte minacciato di revocare lo status "non nucleare" della regione che già ospita i missili balistici Iskander. A spaventare di più è però la prospettiva, avanzata da diversi media russi, che Mosca possa isolare i Paesi Baltici dal resto d'Europa sfruttando il cosiddetto "Corridoio di Suwalki", la terra di confine tra Polonia e Lituania, chiusa a Nord-Ovest da Kaliningrad e a Sud-Est dalla Bielorussia. Scenario che aprirebbe a una pericolosa escalation come minacciato dagli Stati Uniti che ieri hanno ribadito il loro sostegno alla Lituania, partner Nato, e la loro devozione «a prova di bomba» all'articolo 5 dell'Alleanza atlantica che prevede «che un attacco contro un Paese alleato è un attacco contro tutti». In questo contesto già teso, ieri Putin ha annunciato lo schieramento entro la fine dell'anno a Krasnojarsk, Siberia centrale, del nuovo missile intercontinentale Sarmat, oltre alla fornitura all'esercito dei nuovi sistemi di difesa missilistica S-500. «Non esiste esercito al mondo più efficiente di quello russo», ha detto. L'enclave di Kaliningrad, quartier generale della flotta russa nel Mar Baltico, è incuneata tra Lituania e Polonia, membri Nato e Ue che hanno sostenuto fermamente Kiev dopo l'offensiva russa lanciata contro l'Ucraina il 24 febbraio. I treni merci provenienti dalla Russia continentale viaggiano solo attraverso la Bielorussia e la Lituania. Non transitano dalla Polonia. Il divieto di transito su rotaia delle merci messe al bando dalle sanzioni dell'Unione Europea è stato annunciato dalle autorità lituane nel fine settimana e ha suscitato una raffica di feroci reazioni da Mosca, con il Cremlino che ha definito la mossa senza precedenti e illegale. Secondo Mosca, le restrizioni lituane violano un accordo di transito risalente al 2002, messo in atto quando i Paesi baltici, ex Repubbliche sovietiche, entrarono nell'Ue. Il governo lituano ieri ha spiegato che «il transito di passeggeri e merci non sanzionate continua ininterrotto » e che il divieto è solo la messa in atto - peraltro sostenuta dalla Commissione Europea - di una parte del quarto pacchetto delle sanzioni europee contro la Russia che riguarda materiali ferrosi e da costruzione, elettrodomestici, auto e loro parti di ricambio, oltre a varie merci di lusso, compresi caviale, sigari e cavalli. «Non c'è nessun blocco di Kaliningrad », ha assicurato ieri la prima ministra lituana Ingrida Simonyte. Ma a Mosca non basta».
MURATOV VENDE IL NOBEL PER GLI UCRAINI
Articolo del giornalista russo premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta Dmitrij Muratov, in Italia pubblicato da La Stampa, in cui racconta di aver messo all'asta per 103 milioni di dollari la medaglia d’oro ricevuta a Stoccolma nel 2021. Il ricavato andrà all'Unicef, che lo userà per aiutare i bambini profughi dall'Ucraina e le loro famiglie.
«Cosa fare quando ti senti impotente? Quando provi un'impotenza che non hai mai sperimentato in tutta la tua vita, nei tuoi sessant' anni? L'impotenza di non sapere come fermare i terribili combattimenti in Ucraina. L'impotenza di fronte alla sensazione che, probabilmente, non proverai mai più la gioia di vivere, perché avrai sempre davanti agli occhi le fotografie dei civili ucraini, morti, stesi sulle strade delle loro città. Ci abbiamo pensato a lungo, nella redazione di Novaya Gazeta, ci abbiamo riflettuto, e ci siamo resi conto che esistono persone che stanno molto peggio di noi. Sono i profughi. I bambini ucraini malati. Stanno molto peggio di noi. E quindi, non dobbiamo rimanere in silenzio ad autocompatirci. Abbiamo capito che per aiutare le vittime di questa guerra possiamo e dobbiamo donare le cose più care e importanti che abbiamo. E così abbiamo deciso di mettere all'asta la medaglia del Nobel. È d'oro, è famosa, è pesante, è la medaglia che accompagna il premio Nobel per la pace. I soldi ricavati andranno ai bambini profughi, dovunque si trovino: nei Paesi europei, in Ucraina o in Russia. Nel mondo non esistono più profughi stranieri. Due terzi del numero di bambini ucraini - più di 5 milioni - dal 24 febbraio sono diventati rifugiati o sfollati interni. Sedici milioni di persone, quasi un quinto degli abitanti dell'Ucraina, sono state costrette a lasciare la loro casa. Alcuni di loro ritorneranno, altri per molto tempo o per sempre rimarranno in una terra straniera. Se si guarda la mappa, che viene aggiornata settimanalmente dalle Nazioni Unite, è difficile trovare stati che non abbiano accolto i profughi: Polonia, Germania, Slovacchia, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Romania, Moldavia, Svizzera, Gran Bretagna, Norvegia, Grecia, Italia, Finlandia, Svezia. Il tasso di aumento del numero di rifugiati ha superato il livello dei primi mesi della seconda guerra mondiale. Sono molto grato al comitato per i Nobel che ha appoggiato la mia decisione di mettere questa medaglia all'asta. Sono molto grato alla casa d'asta Heritage, una delle più grandi al mondo e con una reputazione impeccabile, che svolgerà tutte le operazioni senza chiedere nessuna commissione. Sono grato all'Unicef: trasferirò tutti i soldi ricavati a questa organizzazione creata dalle Nazioni Unite. Cos' altro aggiungere? Io credo che tutti noi, o almeno molti di noi, possiedano reliquie care. Potete metterle all'asta grazie a Heritage, così che il flash mob in aiuto ai profughi e ai bambini che soffrono per i combattimenti in Ucraina possa continuare. Dobbiamo tutti renderci conto che a queste persone è stato strappato il loro passato. Dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per conservare il loro futuro».
PERCHÉ CI VUOLE IL NEGOZIATO
Ieri Repubblica ha stampato un commento da non perdere di Charles A Kupchan, ricercatore presso il Council on Foreign Relations e professore di Affari Internazionali presso la Georgetown University di Washington. Kupchan non è certo tacciabile di anti americanismo e scrive una lucida analisi sulla necessità di un negoziato per porre fine alla guerra in Ucraina. Ve lo ripropongo, scusandomi per il ritardo:
«Stiamo entrando nel quarto, lancinante mese di guerra e gli ucraini continuano coraggiosamente a infliggere perdite alla forza di invasione russa. Gli Stati Uniti e i loro alleati sorreggono con un afflusso di armi costante la salda determinazione del Paese invaso a difendere il proprio territorio. L'obbiettivo, come ha scritto il presidente Joe Biden in un recente editoriale sul New York Times, è «lavorare per rafforzare l'Ucraina e sostenere i suoi sforzi per giungere a una conclusione negoziata del conflitto».
Una conclusione negoziata del conflitto è l'obbiettivo giusto da perseguire e ci si deve arrivare il prima possibile. L'Ucraina probabilmente non dispone della forza militare per cacciare la Russia dall'integralità del suo territorio e l'inerzia della guerra, sul campo, ora sembra andare in favore di Mosca. Più a lungo proseguirà questo conflitto, più morti e distruzioni ci saranno e più grandi saranno gli sconvolgimenti per l'economia mondiale e l'approvvigionamento di cibo, e più cresceranno i rischi di un'escalation, fino a una guerra a tutti gli effetti fra la Russia e la Nato. L'unità transatlantica comincia a incrinarsi, con la Francia, la Germania, l'Italia e altri alleati a disagio di fronte alla prospettiva di un conflitto prolungato, specie in un contesto di aumento dell'inflazione. Tuttavia, se Biden vuole veramente facilitare i negoziati, dovrà impegnarsi di più per crearne le basi politiche e plasmare una narrazione che metta una soluzione diplomatica al primo posto. Si sente ancora troppa retorica oltranzista a Washington, con le forniture di armi all'Ucraina che avrebbero come obbiettivo di consentire a Kiev, per citare le parole del segretario di Stato Anthony Blinken, di «respingere l'aggressione russa e difendere pienamente la sua indipendenza e la sua sovranità». Da parte sua, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj insiste, come prevedibile, che «la vittoria sarà nostra» ed esorta gli ucraini a «difendere ogni metro della nostra terra». E Biden, anche se parla della necessità della diplomazia, finora ha scleot di non dissuadere Kiev dal perseguire questi obiettivi, affermando al contrario che non intende «esercitare pressioni sul Governo ucraino, né in pubblico né in privato, per indurlo a fare concessioni territoriali di qualsiasi sorta». «Non diremo agli ucraini come devono negoziare, su cosa devono negoziare e quando devono negoziare», ha ribadito questa settimana Colin Kahl, sottosegretario alla Difesa con responsabilità per le politiche di difesa. «Saranno loro a stabilire autonomamente queste cose». Ma Washington non ha solo il diritto di discutere con Kiev degli obbiettivi della guerra, ma anche il dovere. Non è esagerato affermare che questo conflitto rappresenta il momento geopolitico più pericoloso dai tempi della crisi dei missili a Cuba. È in corso una guerra sanguinosa fra una Russia dotata di armi nucleari e un'Ucraina armata dalla Nato, con i territori Nato a ridosso della zona di conflitto. È una guerra che potrebbe definire i contorni strategici ed economici del XXI secolo, con la possibilità che si apra un'epoca di rivalità militarizzata fra le democrazie liberali del pianeta e un blocco autocratico che ruota intorno a Russia e Cina.
Con una simile posta in gioco, è indispensabile che gli Stati Uniti siano coinvolti direttamente nelle decisioni su come e quando questa guerra dovrà finire. Invece di fornire armi senza condizioni (lasciando di fatto che siano gli ucraini a decidere la strategia), Washington deve avviare una discussione esplicita su come mettere fine alla guerra, insieme agli alleati, insieme a Kiev e in prospettiva anche insieme a Mosca. Per preparare il terreno a questa svolta, l'amministrazione Biden dovrebbe smetterla di fare dichiarazioni che rischiano di legarle le mani al tavolo negoziale. Il presidente degli Stati Uniti insiste che l'Occidente deve «mettere bene in chiaro che non è il potere che fa il diritto», se non vuole rischiare di inviare «ad altri aspiranti aggressori il messaggio che anche loro possono prendersi territori e assoggettare altri Paesi. Questo metterebbe a rischio la sopravvivenza di altre democrazie pacifiche e potrebbe segnare la fine dell'ordine internazionale fondato sulle regole». Ma è proprio così? La Russia ha annesso illegalmente la Crimea e occupa una parte del Donbass dal 2014, ma non per questo l'ordine internazionale fondate sulle regole è venuto meno: al contrario, ha dimostrato di funzionare ottimamente quando si è trattato di punire la Russia per la nuova aggressione ai danni dell'Ucraina. Washington dovrebbe evitare di infilarsi in un angolo con le sue mani pronosticando una catastrofe se la Russia dovesse conservare il controllo di una parte dell'Ucraina nel momento in cui cesseranno i combattimenti, perché previsioni come queste rendono più difficile giungere a un compromesso e rischiano di ingigantire l'impatto geopolitico di qualsiasi guadagno territoriale che la Russia dovesse riuscire ad assicurarsi. La tesi che Vladimir Putin smetterà di creare problemi soltanto se subirà una sconfitta decisiva in Ucraina è un'altra argomentazione infondata che distorce il dibattito e ostacola la strada della diplomazia. In un articolo sull'Atlantic, Anne Applebaum invoca l'«umiliazione» di Putin e insiste che «la sconfitta, la marginalizzazione o la rimozione di Putin è l'unico esito che può offrire una qualsiasi speranza di stabilità duratura all'Ucraina e al resto dell'Europa». Il segretario alla Difesa Lloyd Austin vuole indebolire la Russia «al punto che non sia più in grado di fare le cose che ha fatto invadendo l'Ucraina». Ma questi sono pii desideri, non analisi strategiche ragionate. Putin è destinato a rimanere al potere per il prossimo futuro e continuerà a creare problemi comunque dovesse finire questa guerra: mostrare i muscoli sulla scena mondiale e sbandierare le sue credenziali nazionalistiche sono le fonti primarie della sua legittimazione interna. Senza contare che umiliare Putin è rischioso: se fosse con le spalle al muro, potrebbe agire in modo molto più sconsiderato di come agirebbe se potesse rivendicare la vittoria prendendosi un altro pezzo dell'Ucraina. L'Occidente ha imparato a convivere con Putin e a contenerlo negli ultimi due decenni, e probabilmente dovrà continuare a farlo anche per il prossimo. Infine, Biden deve cominciare a impegnarsi per correggere questa distorsione del dibattito dominante, che considera la diplomazia sinonimo di appeasement. Quando recentemente Henry Kissinger, a Davos, ha detto che l'Ucraina potrebbe dover fare concessioni territoriali per mettere fine alla guerra, Zelenskyj ha replicato: «Il calendario di Kissinger probabilmente non segna '2022', ma '1938' e pensa di parlare non a Davos, ma nella Monaco di quel tempo». Biden stesso dice che «sarebbe sbagliato e contrario a principi consolidati» raccomandare all'Ucraina potenziali concessioni al tavolo negoziale. Ma la prudenza strategica non dev' essere scambiata per appeasement. È nell'interesse dell'Ucraina evitare un conflitto che si trascini per anni e negoziare un cessate il fuoco seguito da un processo finalizzato ad arrivare a un accordo territoriale. Anche gli Stati Uniti, i loro alleati della Nato, la Russia e il resto del mondo hanno interesse che si arrivi a un esito del genere: ed è proprio per questo che è arrivato il momento che Biden metta in piedi un tavolo negoziale».
NUCLEARE A VIENNA, C’È SOLO LA BOLDRINI
L’Italia non c’è alla Conferenza sul Trattato nucleare a Vienna. Sarà presente solo Laura Boldrini, deputata pd, che ne scrive oggi per il Manifesto.
«Perché è importante partecipare alla conferenza sul Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw)? Perché oggi più che in passato esiste purtroppo una minaccia concreta che vengano utilizzate. Se non ci fosse, Putin non potrebbe tenere il mondo con il fiato sospeso. La messa al bando di questi ordigni è il tema di cui si discute a Vienna, dove è in corso il primo vertice degli Stati parte del Tpnw. Un accordo siglato nell'ambito dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 7 luglio del 2017, che nell'ottobre del 2020 ha ottenuto la cinquantesima ratifica ed è entrato in vigore il 22 gennaio 2021.
Nessun Paese della Nato è tra i firmatari ma cinque di essi - Germania, Paesi Bassi, Belgio, Australia e Norvegia - hanno deciso di partecipare all'appuntamento austriaco come osservatori, un segnale di attenzione nei confronti dei valori che ispirano l'accordo. Dei quattro Stati dell'Unione europea che ospitano sul proprio territorio testate nucleari Nato, l'Italia è l'unico a non essere presente alla conferenza di Vienna sul Tpnw neanche in veste di osservatore. E questo nonostante una risoluzione a mia prima firma approvata alla Camera da tutta la maggioranza in cui si chiedeva al Governo di valutare la presenza. E nonostante 240 parlamentari italiani, tra cui l'attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio e altri esponenti dell'Esecutivo, avessero firmato nell'ottobre 2017 un appello per l'adozione del trattato.
Difficile comprendere le ragioni di questa assenza e della mancata sottoscrizione del trattato.
Eppure il rischio nucleare è sempre più concreto. Dopo l'invasione russa dell'Ucraina, le minacce pronunciate o ventilate da Putin e da esponenti del governo russo hanno dimostrato che l'utilizzo delle armi nucleari non è una lontana ipotesi. Anche per questo era importante che il Governo italiano partecipasse all'appuntamento, che invece vede la mia presenza nella sessione destinata ai parlamentari e la presenza del presidente del consiglio comunale di Brescia Roberto Cammarata, in quella destinata agli enti locali. L'aumento dei conflitti in ogni angolo del pianeta certifica inoltre che la 'deterrenza nucleare' non è garanzia di pace e di stabilità. Obiettivi che la comunità internazionale dovrebbe continuare a perseguire per evitare il baratro dell'estinzione del genere umano. E un modo per farlo è proprio proibire le armi nucleari, come richiesto in modo accorato, nel corso della Conferenza, dalle vittime dei test nucleari tra cui Karipbek Kuyukov, pittore kazaco nato senza braccia a causa delle radiazioni dei test sovietici. Il Trattato per la messa al bando di queste ordigni è un atto di saggezza e di responsabilità. Dimostra anche che quando c'è una grande motivazione pure gli obbiettivi più difficili si possono raggiungere. Le organizzazioni della società civile di molti Paesi hanno dato vita nel 2007 alla International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican) finalizzata a fornire, attraverso un Trattato, lo strumento giuridico per la progressiva e totale eliminazione delle armi nucleari. Questa campagna ha ricevuto nel 2017 il Premio Nobel per la Pace. Mi ha fatto piacere ricevere l'invito a partecipare alla conferenza di Vienna dalla direttrice della campagna Ican Beatrice Fihn e dalle associazioni che in Italia hanno promosso la campagna: Rete italiana Pace e Disarmo e Senzatomica. Seguo queste associazioni fin dalla scorsa legislatura e conosco il loro impegno per liberare il pianeta dal pericolo che le armi nucleari possano distruggerlo. Lo stesso impegno che mi spinge ad andare avanti affinché l'Italia si coinvolga sempre di più nel processo di disarmo nucleare. Lo slogan della campagna Ican nel nostro Paese è «Italia, ripensaci», cioè: aderisci al Trattato. Continueremo a lavorare perché ciò avvenga. Come ha detto aprendo i lavori a Vienna il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: «Eliminiamo le armi nucleari prima che loro eliminino noi'».
MACRON È A CACCIA DI ALLEATI
Le altre notizie dall’estero. Emmanuel Macron è a caccia di alleati. Al presidente servono 40 deputati per formare un nuovo governo, dopo il rinnovo dell’Assemblea nazionale. Respinte le dimissioni della premier. Danilo Ceccarelli per La Stampa.
«È stato un viavai di leader politici quello visto ieri all'Eliseo, ricevuti uno per volta da Emmanuel Macron. Tutti, o quasi, andati per sentire cosa aveva da dirgli l'inquilino del palazzo presidenziale dopo la batosta incassata alle ultime legislative. Il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta all'Assemblea nazionale ha costretto il capo dello Stato fresco di rielezione ad aprire il dialogo con le opposizioni nel tentativo di risolvere un rebus politico da cui dipende la governabilità della Francia. Ma lo stallo, al momento sembra durare. Per colmare quel buco di una quarantina di deputati necessari a raggiungere la soglia della maggioranza schiacciante, Macron è in cerca di un alleato affidabile, capace di garantirgli l'appoggio necessario nell'emiciclo quando ci sarà da votare per le riforme del governo, prima fra tutte quella delle pensioni. I Repubblicani sarebbero la soluzione ideale con i loro 61 seggi ottenuti domenica. Ma i neo-gollisti non ci pensano proprio a fare da "ruota di scorta" alla maggioranza senza una contropartita. «Spetta a lui mettere proposte sul tavolo», ha detto il leader Christian Jacob al termine dell'incontro rimanendo sulle posizioni di questi ultimi giorni. Anche Marine Le Pen ha accettato l'invito, per cortesia più che per interesse visto il momento di grazia che sta vivendo il suo Rassemblement National dopo aver ottenuto ben 89 scranni. Diffidente invece il Partito socialista, che si è presentato alle ultime elezioni al fianco delle altre formazioni di sinistra riunite nella Nuova unione popolare, ecologica e sociale (Nupes), diventata prima forza parlamentare con 131 deputati. Al segretario Olivier Faure il casting lanciato dal presidente non interessa, così come la questione delle dimissioni della premier Elisabeth Borne richieste a gran voce dagli alleati della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Una frecciata lanciata ai macroniani, ma anche al partito dell'alleato che il 5 luglio presenterà una mozione di sfiducia al governo, complicano così i rapporti interni alla Nupes. Proprio il tribuno della politica d'oltralpe è stato il grande assente nella lista degli invitati all'Eliseo. Il leader della gauche radicale era impegnato ad accompagnare i suoi al Palais Bourbon per il debutto da parlamentari. Un po' come fa uno zio con i nipotini per il primo giorno di scuola. Per l'occasione, Mélenchon si è fatto addirittura scappare un mea culpa per la proposta avanzata lunedì, quando ha chiesto agli alleati della Nupes di formare un solo gruppo nell'emiciclo. Troppo presto per un'ipotesi del genere, meglio evitare di scaldare gli animi in un momento così delicato. La palla ora sta a Macron, che deve decidere cosa fare con i suoi 245 deputati. Dopo aver respinto come da tradizione le dimissioni della sua premier (che resta comunque in bilico), il presidente sta tastando il terreno, senza però trovare un campo fertile dove poter piantare una nuova coalizione. In suo soccorso arriva anche l'ex premier Edouard Philippe, alleato con il micro-partito Horizons, che in serata ha lanciato un appello per «costruire una grande coalizione». Intanto, anche oggi continua la caccia agli alleati».
“TRUMP MI CHIESE 11MILA SCHEDE”
Proseguono le audizioni al Congresso Usa sull’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Testimonianza choc contro Donald Trump del segretario di stato della Georgia: “Mi chiese: trovami 11.780 schede inesistenti". Paolo Mastrolilli per Repubblica.
«Trump e Giuliani mi hanno chiesto di violare il giuramento di fedeltà alla Costituzione ». È rotta da commozione e rabbia, la voce dello Speaker della Camera dell'Arizona Rusty Bowers, quando lancia questa drammatica accusa contro l'ex presidente. Poco dopo, alle audizioni della Commissione d'inchiesta della Camera sull'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, testimonia il segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger, aggiungendo che «Trump ha perso le elezioni in maniera chiara e legale, perché 28mila repubblicani hanno rifiutato di votarlo. Ma invece di accettare il risultato, ha premuto su di me affinché gli trovassi schede inesistenti per farlo vincere». La giornata di ieri potrebbe passare alla storia come il momento della svolta, nella campagna per incriminare Trump e impedirgli di ricandidarsi alla Casa Bianca. Bowers ha denunciato le pressioni di Trump, Giuliani e i loro alleati, come la moglie del giudice della Corte Suprema Thomas, Ginni, per rovesciare il risultato. «Volevano che cambiassi retroattivamente le leggi, per consentire al Parlamento dell'Arizona di nominare un gruppo di grandi elettori alternativo a quello determinato dal risultato di novembre. Mi sono rifiutato. Non ho mai detto a Trump che aveva vinto, mente». Raffensperger, segretario di Stato della Georgia e quindi responsabile delle elezioni, ha ricordato che «Trump mi ha chiamato e ha detto: "Voglio che mi trovi 11.780 voti, cioè uno in più di quelli che abbiamo"», e così scavalcare Biden. Il suo assistente Gabriel Sterling ha aggiunto: «Ha incitato le violenze, io e mia moglie abbiamo ricevuto minacce di morte». La Commissione ha poi rivelato che il senatore del Wisconsin Johnson aveva offerto a Pence grandi elettori falsi. Queste testimonianze erano fondamentali per almeno due motivi. Il primo era demolire la linea difensiva usata finora da Trump, allo scopo di evitare che la Commissione d'inchiesta trasferisca al dipartimento della Giustizia le informazioni raccolte finora, per incriminarlo. L'ex presidente potrebbe essere accusato di aver ostruito i lavori del Parlamento e cospirato per la sedizione. Per sostenere questa linea, però, i procuratori dovrebbero provare la sua malafede, dimostrando che sapeva di aver perso regolarmente contro Biden. Trump sembra orientato a difendersi sostenendo che era convinto che le elezioni fossero state rubate, e quindi non aveva l'intenzione di violare la legge, ma piuttosto di difenderla. Dalla conversazione con Raffensperger e le pressioni su Bowers, si capisce invece che sapeva di aver perso, e quindi stava cercando di ostruire il Congresso in malafede. Ciò potrebbe convincere il segretario alla Giustizia Garland ad incriminarlo. Il secondo motivo è l'inchiesta già aperta in Georgia sulle pressioni fatte su Raffensperger, che secondo esperti legali come l'ex procuratore del Watergate Nick Akerman rappresentano il reato per cui l'ex presidente rischia di più. Primo, perché l'intento di violare la legge è evidente, nel momento in cui sollecita il segretario di Stato a trovargli un voto in più di Biden. Secondo, perché la prova è contenuta nella telefonata registrata, quindi è inconfutabile e non può essere modificata durante un eventuale interrogatorio in aula. Nella Fulton County la procuratrice Fani Willis ha già creato un Grand Jury a cui presentare le prove, e ora potrà usare anche quelle raccolte dalla Commissione d'inchiesta della Camera per incastrare Trump».
RAPPORTO SULLA LIBIA DI MEDICI SENZA FRONTIERE
Nell'ultimo rapporto sui migranti l'Ong Medici senza frontiere critica i Paesi dell'Unione europea e le agenzie delle Nazioni unite. Giansandro Merli per il Manifesto.
«Sul dramma che i migranti vivono in Libia si è detto e scritto molto. Agenzie Onu, Ong indipendenti e gli stessi rifugiati hanno squarciato il velo su una quotidianità di violenze, torture e omicidi. Anche naufragi e sbarchi ricevono un'alterna attenzione, offuscata di recente dall'arrivo dei profughi ucraini. Si parla meno, invece, delle opportunità e dei limiti dei canali legali di uscita dal paese nordafricano.
Un bilancio, a tratti impietoso, dell'intervento umanitario delle due principali agenzie Onu che si occupano di migranti è stato fatto da Medici senza frontiere (Msf) nel rapporto Fuori dalla Libia. Aprire canali sicuri per i migranti vulnerabili intrappolati in Libia. Una è l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l'altra l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Schematicamente la loro competenza si può dividere così: l'Oim sui migranti economici (nel paese nordafricano ne sono stimati 600mila), l'Unhcr sui rifugiati (40mila quelli registrati nella sede di Tripoli). Queste agenzie organizzano due dei tre tipi di canali legali di uscita dal Paese. L'Oim si occupa dei cosiddetti «rimpatri volontari umanitari» (sigla inglese: Vhr), destinati a chi manifesta l'intenzione di tornare nel proprio paese e finanziati dall'Ue. Secondo Msf, però, la definizione di «volontari» è «altamente discutibile» dal momento che molti migranti non hanno alternative, soprattutto quando sono detenuti a tempo indefinito nei centri dove subiscono violenze di ogni tipo e perfino forme di schiavitù. Per loro «i Vhr sono un modo importante per uscire dalla detenzione», si legge nel rapporto. Che denuncia i lunghi tempi di attesa. Nel 2021, a causa del Covid-19, i voli sono stati ripetutamente bloccati e meno di 2mila persone hanno lasciato la Libia in questo modo. Tra il 2017 e il 2021 sono state 50mila, mentre altre 10mila rimangono in attesa di partire. Il secondo canale legale di uscita è il reinsediamento verso Paesi terzi sicuri, in Europa e Nord America. Gestito dall'Unhcr, in genere funziona attraverso il Meccanismo di transito di emergenza (Etm) con cui i richiedenti asilo sono portati nei campi in Niger e Ruanda. Questo strumento è destinato a soggetti perseguitati nei paesi di origine, che non possono tornare a casa. I problemi sono numerosi. In primis l'Unhcr accetta solo le persone di nove nazionalità: Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Eritrea, Etiopia, Somalia e Sud Sudan. Tutte le altre sono automaticamente escluse, sebbene l'asilo politico sia un diritto riconosciuto su base individuale e non nazionale. Del resto l'Unhcr ha ribadito spesso che «il reinsediamento non è un diritto». Si tratta quindi di una sorta di concessione. La priorità, poi, viene data a donne, minori e famiglie in base al criterio della «vulnerabilità». In Libia, però, tutti i migranti rischiano continuamente la vita, dentro e fuori i centri di prigionia. Lo hanno gridato da ottobre 2021 a gennaio 2022 i rifugiati accampati davanti alla sede Unhcr di Tripoli per chiedere l'evacuazione in un luogo sicuro, prima di essere arrestati in massa. Il Paese nordafricano, del resto, considera «illegali» tutti gli stranieri presenti sul territorio, anche perché non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Secondo Msf le pressioni internazionali per spingere Tripoli a farlo sono state «limitate» e questo limbo è usato come una giustificazione del fatto «che l'Unhcr non è in grado di applicare i propri standard». Importanti ostacoli sono anche i tempi di attesa, lunghissimi e indefiniti, e il numero di reinsediamenti concessi dai paesi terzi, estremamente contenuto. Tra il 2017 e il 2021 dalla Libia sono stati reinsediati 7.500 rifugiati: meno di 2mila ogni anno. Nello stesso periodo, che non a caso coincide con quello del memoradum italo-libico, almeno 8mila persone sono morte nel Mediterraneo centrale e altre 80mila sono state intercettate dalla sedicente «guardia costiera» di Tripoli (dati: Oxfam). Per tali ragioni Msf chiede a Ue e Paesi membri di ampliare il terzo canale, quello dei «percorsi complementari». Sono tre: visti umanitari, ricongiungimenti familiari e corridoi umanitari.
Questi ultimi sono stati aperti nel 2021 da alcune organizzazioni della società civile italiana per trasferire 500 persone in un anno. Finora ne sono arrivate solo 189, ma esponenti del governo li hanno ripetutamente utilizzati come contrappeso del sostegno alle milizie libiche. È proprio questo il nodo gordiano dei canali legali di uscita dalla Libia: per le autorità italiane ed europee restano solo l'altra faccia delle politiche securitarie. Così a fronte di poche migliaia di persone trasferite nei Paesi sicuri, decine di migliaia sono costrette ogni anno a rischiare la vita in mare, andando incontro a naufragi, intercettazioni e di nuovo detenzioni e violenze».
MALI, GOVERNO SOTTO TIRO
130 civili uccisi negli ultimi tre giorni ad opera dei miliziani jihaidisti. Mauro Stefano per il Manifesto.
«Il presidente ad interim, colonnello Assimi Goïta, ha assicurato che «le forze di difesa proseguiranno con la distruzione dei diversi gruppi jihadisti presenti nel Paese». Ma intanto da ieri il Mali è in lutto nazionale, per 72 ore. «Oltre 130 civili sono stati uccisi negli ultimi tre giorni in diverse località del centro e del sud (... ) in attacchi attribuiti ai miliziani jihadisti» ha indicato all'agenzia Afp Nouhoum Togo, presidente del partito Union pour la Sauvegarde de la République du Mali (Usr). Gli attacchi non sono stati rivendicati, ma secondo diverse fonti locali sarebbero opera della Katiba Macina, aderente al Gruppo di sostegno all'Islam e ai musulmani (Gsim), ramo saheliano di Al-Qaeda. «I miliziani di Ahmadou Koufa (leader della Katiba, ndr) accusano gli abitanti - ha indicato Togo - di aver infranto il patto di non belligeranza aiutando l'esercito maliano e gli ausiliari russi a svolgere operazioni nell'area». Fonti locali riportano che l'attacco sarebbe anche frutto «delle tensioni etniche di questi ultimi mesi», con la comunità Peul - spesso accomunata ai jihadisti - presa di mira con saccheggi, distruzioni e con l'occupazione di numerosi pozzi d'acqua, essenziali in questo periodo di siccità nel Sahel. Diversi partiti politici, leader di comunità (Tuareg) o gruppi armati del nord accusano però il governo di usare «due pesi e due misure», visto che non ha mai pensato al lutto nazionale per i civili uccisi - almeno 400 negli attacchi dell'ultimo mese compiuti dallo Stato islamico a Ménaka. «Nonostante i proclami vittoriosi sull'operazione Keletigui - afferma un comunicato congiunto di numerose associazioni - è davanti agli occhi di tutti l'inefficacia del governo nel contrastare gli attacchi, la mancanza di sicurezza della popolazione, l'uso di violenze indiscriminate contro i civili». Un chiaro riferimento alle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, che, nella sessione speciale del Consiglio di sicurezza Onu per il rinnovo della Minusma, aveva difeso «i risultati convincenti dell'esercito, i jihadisti neutralizzati e le città liberate». Durante la sessione il rappresentante Onu in Mali, el-Ghassim Wane, aveva richiesto il rinnovo della Minusma (il voto è previsto per fine mese) proprio perché «abbandonare il Mali, significherebbe lasciare campo libero ai jihadisti non solo nel paese, ma anche in Burkina Faso (89 vittime la scorsa settimana a Seytenga, ndr) e in Niger dove gli estremisti continuano a compiere frequenti attacchi». «È l'ultimo massacro di una lunga serie, con i civili vere vittime di questo conflitto - commenta Wassim Nasr, esperto di jihadismo nel Sahel - dove è evidente che da una parte i due gruppi jihadisti (Gsim e Stato Islamico) stanno lottando per la supremazia in tutta l'area e dall'altra le forze armate reprimono la popolazione inerme o non controllano più alcune zone del Paese».
INCONTRO ISLAMO-CATTOLICO IN UN VIAGGIO A LAMPEDUSA
Inizia venerdì la terza edizione dell’incontro nazionale islamo-cattolico, promosso dalla Cei e organizzato anche dalla Fondazione Oasis: quest’anno ha la forma di un viaggio in barca a Lampedusa. L’articolo di SettimanaNews, qui nella vessione integrale.
«L’incontro nazionale islamo-cattolico, organizzato dell’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso (UNEDI) della CEI insieme ai Leader delle principali Comunità islamiche presenti in Italia, celebra la sua terza edizione in modo originale: con un viaggio in barca, andata e ritorno, da Trapani a Lampedusa (24-26 giugno 2022). L’obiettivo – suggerito dal Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana (2019), scritto e firmato da papa Francesco e dall’Imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyeb – sarà compiere un passo ulteriore verso l’idea di cittadinanza in una società plurale (dopo quanto elaborato nella prima edizione, alla Grande Moschea di Roma, nel 2019). Nella comune convinzione che «il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina» e che «Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro», il documento di Abu Dhabi invita infatti cristiani e musulmani ad «impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza» basata «sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia». La meta non è casuale. «Quale luogo, più dell’isola di Lampedusa parla oggi all’Italia e all’Europa di diritti, doveri, eguaglianza e giustizia?», si legge nella presentazione dell’evento. «Ecco, allora, la decisione di imbarcarsi e partire verso Lampedusa, cristiani e musulmani, per un viaggio verso e attraverso la cittadinanza. Un percorso insieme, di conoscenza e scambio, tra onde alte e basse, fatto di ascolto e condivisione, silenzio, preghiera e contemplazione». (…) Ecco il titolo: «Sulla stessa barca. Viaggio verso una cittadinanza condivisa». La nave verso Lampedusa «vuole rappresentare una profezia in cammino, l’impegno per la costruzione di una comune cittadinanza in cui i cittadini-fedeli siano, con piena dignità, parte attiva, nella dimostrazione che, proprio a partire dal Mediterraneo, è possibile “essere sulla stessa barca” e restarci, imparando a condividere il tempo e le regole e le risorse di e per tutti, crescendo nella conoscenza e nel rispetto delle identità in una sempre più profonda e ricca contemplazione del mistero della persona umana, al di là delle appartenenze, ma allo stesso tempo, a partire dalle appartenenze». (…) L’incontro nazionale islamo-cattolico nasce per consolidare la conoscenza tra chi lavora per il dialogo su uno stesso territorio e per offrire un’occasione di incontro tra chi vive lo stesso impegno in territori diversi. La giornata di amicizia islamo-cattolica è dunque pensata per i referenti regionali islam e i referenti nazionali delle realtà ecclesiali dell’UNEDI, i delegati delle comunità musulmane e i referenti giovanili di entrambe le realtà».
SICCITÀ, REGIONI IN ORDINE SPARSO
Emergenza siccità, le Regioni italiane sono costrette a muoversi in anticipo con misure straordinarie. C'è chi vieta l'utilizzo dell'acqua di notte, chi richiama i cittadini al senso civico e chi firma i primi decreti come l'Emilia Romagna. In attesa del governo. Micaela Cappellini per il Sole 24 Ore.
«Le Regioni italiane chiedono a gran voce lo stato d'emergenza per la siccità. E mentre aspettano dal governo una risposta forte, soprattutto al Nord hanno cominciato a muoversi in ordine sparso con le prime misure di razionamento. Dalle più rigide ordinanze comunali contro l'utilizzo dell'acqua di notte, ai più blandi appelli al senso civico dei cittadini, fino alle preghiere per la pioggia di manzoniana memoria, annunciate dall'arcivescovo di Milano, Mario Delpini. In Emilia Romagna ieri sera il presidente Stefano Bonaccini è stato il primo governatore a firmare il decreto per la dichiarazione dello stato d'emergenza regionale, una decisione che è stata condivisa dalla cabina di regia sulla crisi idrica cui hanno preso parte i gestori del servizio idrico integrato e l'Agenzia interregionale per il fiume Po. Al momento, non verranno adottate misure straordinarie: «La situazione è molto complessa, ma in questo momento nella nostra regione non abbiamo ancora un livello di allarme tale da mettere in discussione l'idropotabile», ha detto l'assessore regionale all'Ambiente, Irene Priolo. Ma già da oggi tutti i comuni dell'Emilia-Romagna sono invitati a emettere ordinanze per la riduzione degli utilizzi non indispensabili, per esempio lavare l'auto. A destare le maggiori preoccupazioni, anche dal punto di vista dell'acqua potabile, sono soprattutto le province di Ravenna e Ferrara: in quest' ultima città sono già state decise le misure emergenziali per l'acquedotto. La Lombardia per il momento resiste, nonostante le difficoltà dei sui fiumi e dei suoi laghi: «Per adesso non si parla ancora di razionamento per usi civili - ha detto il presidente della Regione, Attilio Fontana - per ora stiamo intervenendo per risolvere il problema nell'uso agricolo». Nei campi lombardi, infatti, l'acqua è agli sgoccioli, con stime di danni all'agricoltura che già oggi ammonterebbero a 2 miliardi di euro: «Tutta la disponibilità che abbiamo dato è per coprire le necessità del comparto agricolo per i prossimi dieci giorni», ha detto il legale rappresentante di Enel, Giovanni Rocchi. L'assessore regionale agli Enti locali, Montagna e Piccoli comuni, Massimo Sertori, conferma i tempi molto stretti: «Il riparto delle disponibilità delle scorte di acqua è quasi zero: si gioca tutto nei prossimo 8-9 giorni, l'obiettivo è salvare almeno il primo raccolto. È chiaro che nel momento in cui dovesse andare in malora il raccolto perché non c'è acqua, si chiederà lo stato di calamità e noi come Regione Lombardia, siamo assolutamente pronti a chiederlo». L'assessore lombardo all'Agricoltura, Fabio Rolfi, intanto ha annunciato di aver avviato un tavolo per studiare la possibilità di recuperare le acque reflue a fini irrigui. «Serve - ha spiegato l'assessore - un piano nazionale legato alla bacinizzazione dell'acqua, sia attraverso il recupero delle ex cave per l'accumulo irriguo sia con la bacinizzazione dei grandi fiumi. Penso, per esempio, al progetto da 350 milioni di euro di rinaturazione del Po, inserito nel Pnrr». In Piemonte, ad oggi la regione più colpita dalla siccità, l'acqua è già stata razionata in oltre 200 comuni e il governatore Alberto Cirio fin da lunedì ha cominciato a parlare di «allarme rosso». Alla Regione è stato istituito un tavolo di crisi permanente, cui partecipano anche i concessionari dei bacini idroelettrici, alcuni dei quali hanno già attivato lo svasamento per gli utilizzi agricoli. In Piemonte gli invasi sono al minimo storico, con una riduzione media dal 40 al 50%, e le acque del Po non sono mai state così basse da 70 anni. In Veneto l'emergenza idrica si sta facendo sentire soprattutto in provincia di Verona, dove 40 comuni hanno già adottato il razionamento idrico. Polemico il governatore, Luca Zaia: «Sono stato il primo, due mesi fa, a fare richiesta dello stato d'emergenza nazionale e ora vedo che i colleghi si sono allineati». All'orizzonte, però, al momento non sembra esserci nessuna ordinanza regionale, ma solo una serie di consigli, una sorta di decalogo sul consumo responsabile dell'acqua. «Il meteo ci fa ben sperare», ha aggiunto Zaia. In Toscana il presidente Eugenio Giani ha messo allo studio una legge regionale per la realizzazione di bacini, invasi e punti di raccolta acqua sia per fini agricoli che per usi civili. A Livorno, intanto, il sindaco Luca Salvetti ha vietato l'uso dell'acqua potabile per scopi diversi da quelli igienico-domestici, pena una multa dai 100 ai 500 euro. In Trentino, infine, il sindaco di Ronzo Chienis ha emesso una delle ordinanze più restrittive finora: acqua chiusa di notte dalle 23 alle 6. Nella stessa provincia, il sindaco di Tenno, Giuliano Marocchi, ha stabilito la chiusura di tutte le fontane pubbliche, riservandosi di valutare nei prossimi giorni l'estensione del provvedimento anche alle piscine. E proprio il comparto delle piscine e dei parchi acquatici è oggi il più preoccupato di essere in cima alla lista delle restrizioni dei prossimi giorni. «L'ipotesi di razionamenti di acqua o di riduzione dell'orario sarebbero soluzioni insostenibili per la nostra categoria», ha fatto sapere Luciano Pareschi, presidente dell'associazione Parchi Permanenti Italiani. Mentre per Pierpaolo Longo, consigliere di Assonuoto e Federazione Italiana Nuoto «serve una grande distinzione: gli impianti che gestiamo noi erogano un servizio pubblico, ci rivolgiamo a un'utenza che ha un bisogno fisiologico di attività come fragili, disabili, o anziani. Chiudere le piscine crea un danno sociale». A Tesimo però, in Alto Adige, il comune ha già cominciato a vietare l'utilizzo dell'acqua per orti e piscine».
SAVONA (CONSOB): “CI VUOLE UNO SCUDO ANTI INFLAZIONE”
«Uno scudo anti inflazione per proteggere il risparmio». Questa la proposta contenuta nella relazione annuale del Presidente della Consob Paolo Savona. Laura Serafini per il Sole 24 Ore.
«La galoppata dell'inflazione ben oltre le attese delle banche centrali sta accendendo un riflettore sempre più potente sui rischi per il risparmio, quel serbatoio di ricchezza delle famiglie italiane che in qualche modo fa da contraltare e tiene in equilibrio l'imponente debito pubblico del Bel Paese. Ieri il tema è stato al centro della relazione annuale del presidente della Consob, Paolo Savona. Non ci sono interventi pubblici che possano difendere l'ingente quantità di risparmio affluito su depositi e conti correnti dallo scoppio della pandemia, circa 1800 miliardi (oltre 2000 se si contano anche i conti correnti postali) ora esposti a un'erosione sempre più consistente. Savona ha proposto una ricetta in due tappe: primo punto è trovare un canale virtuoso per spingere quei fondi in investimenti redditizi nell'economia reale. E poi c'è una proposta avanzata al governo. L'idea è quella di «creare portafogli che auto-proteggano i risparmiatori dall'inflazione, nel cui ambito gli investimenti in titoli di proprietà svolgono una funzione primaria - ha detto Savona -. La proposta prevede una composizione equilibrata tra attività mobiliari e immobiliari, affidando la redditività agli andamenti dell'economia reale, così alleggerendo la politica monetaria del peso di manovre inusuali sui tassi dell'interesse. Le soluzioni tecniche possono essere diverse e la politica avrebbe il compito principale di creare la struttura giuridica di accoglimento più idonea, per dare vita a un meccanismo protettivo del risparmio che soddisfi il dettato costituzionale». Questi prodotti di auto protezione non sembrano di facilissima realizzazione, perché un conto è immaginarne in linea generale una funzione condivisibile, altra cosa è l'attuazione pratica che finisce per scontrarsi con le dinamiche del mercato e con un framework complesso.
Da questo punto di vista l'esperienza dei Pir, che avevano proprio l'obiettivo di canalizzare il risparmio verso investimenti nell'economia reale, è illuminante. Negli anni sono stati sottoposti a un numero di modifiche normative tale da depotenziarne la portata. D'altro canto è proprio Savona a richiamare nella sua relazione l'accostamento della sua proposta con quegli strumenti. «Un analogo tentativo intrapreso a livello europeo, sia pure circoscritto, ma integrabile con la proposta avanzata, è quello dei Fondi di investimento a lungo termine (Eltif) e dei Piani individuali di risparmio (Pir), questi ultimi attuati in particolare in Italia». Il presidente della Consob ha espresso apprezzamento per le emissioni di titoli di Stato indicizzati all'inflazione, come la tranche che è in fase di emissione questi giorni. «Ovviamente emissioni di Btp indicizzati all'inflazione interna, come quella programmata per questa settimana, sono ben gradite dai risparmiatori perché proteggono per un lungo periodo il valore reale dell'investimento, testimoniando fiducia nella solidità del debito pubblico e ricevendo conferma, da parte delle autorità, della fondatezza dell'istanza protettiva qui caldeggiata». Il sostegno dei risparmiatori nei confronti dei titoli dei debito pubblico nazionale è tanto più utile in una fase in cui, anche per effetto dell'aumento dello spread tra titoli nazionali e titoli tedeschi, le operazioni di acquisto da parte delle banche diventato meno agevoli, a maggior ragione se, come già annunciato, verranno ridotte le operazioni di rifinanziamento da parte della Bce prendendo a garanzia proprio quei titoli. Per Savona, in ogni caso, il «primo passo da compiere che rientra tra gli obiettivi ricordati in apertura perseguiti dalla Consob, ma divenuto urgente da intraprendere, è incanalare il risparmio verso le iniziative produttive delle imprese di ogni dimensione». Il presidente della Consob ha anche raccontato come nel 2021 il risparmio italiano avesse «registrato ancora una buona tenuta», ma i primi indizi, ha aggiunto, «per il 2022 manifestano segni di cedimento dei flussi. È anche emersa con chiarezza la tendenza, che ha mostrato nel corso del 2021 una netta accelerazione, a investire in strumenti speculativi e in mercati esteri, scelte non sempre basate su criteri razionali. Affidare al solo mercato la cura di queste attitudini, non di rado sollecitate da previsioni che la realtà si è data carico di smentire, potrebbe causare gravi conseguenze economiche e sociali, oltre a porsi in contrasto con il dettato costituzionale che considera il risparmio un bene pubblico». In qualche modo il tema dell'attrazione per il mondo delle criptovalute che sempre più affascina il risparmiatore ma che nella realtà è privo di strumenti normativi per difendere i diritti di chi investe è già richiamato in questo passaggio. Savona si spinge ben oltre nella relazione e anche in questo caso lancia un appello affinchè si approdi alla definizione di un framework internazionale. «Necessita anche definire un inquadramento istituzionale complessivo dei problemi insorti, che sollecita la convocazione di una Conferenza internazionale per ristabilire un buon funzionamento del sistema monetario e finanziario globale o, quanto meno, di quella parte del mondo disposta a collaborare in questa direzione - ha detto -. Nella recente riunione dei ministri finanziari del G7 è stata ribadita l'urgenza di una regolamentazione delle diverse forme e degli usi di cryptocurrency, fornendo la precisa indicazione che gli strumenti virtuali devono essere trattati come quelli tradizionali, le cui regole sono frutto di oltre un secolo di esperienze e affinamenti tuttora validi».
EMERGENZA GAS, DOMANI CONSIGLIO DEI MINISTRI
L’Italia resta ancora a livello di “pre-allerta” sull’energia ma domani il Consiglio dei Ministri potrebbe produrre un nuovo intervento. Luca Pagni e Serenella Mattera per Repubblica.
«Gas: non scatta lo stato di "allerta", figuriamoci quello di "emergenza". Nonostante il taglio da parte di Gazprom, il colosso dell'energia controllato dal Cremlino che da una settimana manda in Italia il 15% delle forniture in meno, la situazione rimane sotto controllo. La materia prima non manca, sostituita dalle importazioni da altri Paesi. Per cui il Comitato tecnico presieduto dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha per il momento stabilito che il nostro Paese rimane al livello di "pre-allerta". Ma nonostante questo ci saranno novità. Come ha dichiarato ieri il ministro Cingolani, si sta valutando di dare il via libera nei prossimi giorni a un maggior utilizzo delle sei centrali a carbone ancora in attività per produrre elettricità (sulla carta dovranno chiudere entro il 2025), risparmiando così sul consumo di gas. In questo modo ce ne sarà di più da indirizzare verso gli stoccaggi, i depositi dove si immagazzina il metano durante l'estate per poi essere usato in inverno e, per l'appunto, in casi di emergenza. Ma non solo: domani il Consiglio dei ministri presenterà un emendamento al decreto Aiuti per stanziare altri 3 miliardi per limitare gli aumenti nelle bollette dell'energia, dal taglio agli oneri di sistema per l'elettricità alla sterilizzazione al 5% dell'Iva per il gas. Mentre in un intervento successivo, Palazzo Chigi provvederà a rinnovare il taglio delle accise sui carburanti per limitare i rincari al distributore, in scadenza il prossimo 8 luglio. Ma andiamo con ordine. Quali sono le ragioni con cui il Comitato tecnico del ministero ha mantenuto lo stato di pre-allerta? Sostanzialmente, i motivi sono tre. Il primo è logistico: non ci sono problemi di forniture, al punto che su una domanda di circa 160-170 milioni di metri cubi di gas al giorno l'offerta raggiunge anche i 200 milioni e in qualche giorni gli operatori italiani vendono persino piccole quote all'estero, mentre il rimanente va verso gli stoccaggi. Il secondo elemento è operativo. Il livello di pre-allarme consente già di intervenire d'urgenza, se ce ne fosse bisogno: come chiedere alle centrali a carbone di lavorare di più o razionando il gas verso le industrie energivore. Infine, il terzo elemento: una comunicazione intempestiva potrebbe allarmare gli investitori facendo salire ancora di più il prezzo del gas sui mercati finanziari (che ieri ha superato in Europa i 126 euro al megawattora), dando la sensazione di un Paese in difficoltà. Cosa che al momento non è. Il ministro, in ogni caso, domani incontrerà gli operatori e i proprietari degli impianti di stoccaggio. Chiederà che vengano intensificati gli acquisti: una "moral suasion" visto che si tratta di operatori privati. Caso a parte Snam, che è controllata dal ministero dell'Economia tramite Cdp e che potrebbe aumentare la sua quota nei depositi. Non è escluso, come ha fatto intendere sempre ieri Cingolani, che ci sia un provvedimento che "incentivi" gli operatori: in particolare, potrebbero essere anticipate le garanzie bancarie che gli operatori sono obbligati a presentare nel momento in cui prenotano capacità negli stoccaggi. Al momento il livello nei depositi è al 55%, qualche punto in meno dello stesso periodo dell'anno scorso. Ma quando non c'era la guerra in Ucraina e la tempesta sui prezzi dell'energia era solo agli albori».
COMINCIA STASERA IL DECIMO INCONTRO DELLE FAMIGLIE
A Roma parte stasera il decimo incontro mondiale delle famiglie. Al centro il dialogo ideale tra il Papa, i vescovi e i nuclei familiari. Luciano Moia per Avvenire.
«Prendete duemila famiglie provenienti da tutto il mondo, date loro in mano un documento ecclesiale e proponete di riscriverlo. Senza teorie, raccontando semplicemente la propria vita familiare e quella delle altre famiglie che fanno parte della stessa comunità. Alla fine quelle testimonianze, saranno messe a confronto con il testo originale. Nessun esame, solo un tentativo di capire se la strada percorsa è quella giusta, se quel documento sia stato accolto e compreso, quanto sia stato possibile mescolare quelle indicazioni con la realtà concreta delle coppie, dei genitori, dei figli. Ecco la grande novità del X Incontro mondiale delle famiglie che si apre stasera con uno spettacolo in cui si mescoleranno momento di festa, testimonianze, riflessioni e le parole del Papa (ne scriviamo nell'articolo qui sotto). Da domani si entrerà poi nel vivo di un programma che è stato pensato come dialogo ideale tra il Papa, il vescovi e le famiglie del mondo. I due sinodi mondiali sulla famiglia degli anni scorsi, l'Esortazione postsinodale Amoris laetitia, il grande dibattito innescato hanno consegnato alle famiglie uno strumento pastorale ricco e rinnovato, una mappa preziosa per rivedere il rapporto tra Chiesa e mondo, per ribadire che la Chiesa comprende e partecipa ai problemi concreti delle coppie, ne coglie ansie e speranze - la doppia consultazione popolare prima dei due Sinodi ne è la prova - e vuole camminare al loro fianco accogliendo fatiche e fragilità senza toni giudicati, nella logica della misericordia. Ora, a distanza di cinque anni dalla pubblicazione del documento, papa Francesco ha colto l'occasione del X Incontro mondiale per ascoltare dalla voce delle famiglie se e come quei propositi coraggiosi di rinnovamento siano stati accolti. Per questo sono state messi da parte le questioni dottrinali e le riflessioni teologiche. A parlare, nei tre giorni del Congresso, saranno quasi esclusivamente coppie responsabili di pastorale familiare. Racconteranno, come di fronte ai tanti problemi che le famiglie in tutto il mondo devono affrontare, sia stato possibile tradurre in prassi concrete i percorsi indicati da Amoris laetitia. Parlare di pastorale familiare vuol dire mettersi al fianco delle famiglie, capire come l'amore di coppia venga ogni giorno messo alla prova da una società sempre più complessa e globalizzata, come accompagnare maternità e paternità, come approfondire le cadute del tradimento e le risalite del perdono, come comprendere il senso della generazione, il ruolo di giovani e anziani, come sposi e sacerdoti insieme, su un piano di pari dignità, possono ricostruire il volto delle comunità anche in quella prospettiva sinodale tanto cara al Papa. Ecco, si parlerà di tutto questo da domani a sabato. Ma anche di digitale, di violenze in famiglia, di dipendenze, di adozione e affido, di migranti e di tanto altro. Le coppie dei vari Paesi - sono presenti quasi 200 conferenze episcopali - racconteranno quello che, sui vari temi, hanno inventato e proposto nei loro territori per accompagnare e sostenere la vita delle famiglie. Un confronto tra esperienze che s' annuncia tanto più interessante perché arriverà dalla voce dei diretti protagonisti. Mettiamoci in ascolto. Ne vale la pena».
Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 22 giugno: