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Draghi da Biden: meglio la pace

alessandrobanfi.substack.com

Draghi da Biden: meglio la pace

Il nostro premier alla Casa Bianca chiede la "fine del massacro" e un negoziato. Ma stiamo per mandare armi all'Ucraina. Macron chiama Xi, la Cina in pressing. Missili su Odessa, attacco in Donbass

Alessandro Banfi
May 11, 2022
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Draghi da Biden: meglio la pace

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Mario Draghi incontra Joe Biden alla Casa Bianca proprio nel momento in cui l’Europa di Emmanuel Macron è in prima linea nella diplomazia e nella ricerca di una soluzione negoziale alla guerra. Come nota Tommaso Ciriaco su Repubblica, giornale non certo imputabile di scarsa simpatia per il governo, “l'eco delle parole di Macron sulla necessità di non "umiliare" la Russia al termine del conflitto è scomodo, complica la vigilia della missione”. Il nostro Presidente del Consiglio sceglie allora di essere un leader europeo quando dice di fronte alle tv: “In Italia ed Europa la nostra gente vuole la fine di questi massacri, di questa violenza, di questa macelleria. La gente pensa alla possibilità di portare un cessate il fuoco e di ricominciare con dei negoziati credibili. Penso che dobbiamo riflettere profondamente su come affrontare tutto questo”. Allo stesso tempo,  come nota il Domani, Draghi si presenta come il più atlantista e filo americano dei leader europei. Le indiscrezioni, scritte sul Corriere di oggi, da Fiorenza Sarzanini su che cosa stia facendo concretamente l’Italia sul piano delle armi agli ucraini conferma questa impressione.

Se ne discuterà finalmente in Parlamento il 19 maggio e ci sarà tempo per capire se le intenzioni polemiche di Matteo Salvini e Giuseppe Conte incideranno davvero sulle scelte dell’esecutivo che finora hanno sostenuto. È indubbio però che il clima diplomatico internazionale sia mutato dopo i due discorsi contemporanei del 9 maggio: quello breve di Vladimir Putin a Mosca e quello articolato di Emmanuel Macron al Parlamento europeo (che oggi Antonio Polito sul Corriere cerca di re-interpretare in chiave bellicista). Anche nel campo saldamente occidentale. Un opinionista molto accreditato della grande tv americana Cnn, Fareed Zakaria, ha titolato così ieri sera la sua newsletter: Dealing With ‘the Russia We Have’. Che significa: “Dobbiamo avere a che fare con la Russia che abbiamo” e aggiunge: “Non con quella che preferiremmo". Come dire: abbandoniamo l’idea del cambio regime a Mosca e troviamo una soluzione realistica.

Più importante del colloquio alla Casa Bianca fra Draghi e Biden, è stato quello tra il presidente Macron e l’omologo cinese Xi, dopo che un analogo colloquio era già avvenuto col cancelliere tedesco Scholz. La Cina concorda su un punto importante con i leader europei: va salvaguardata l’integrità territoriale dell’Ucraina. Se Pechino eserciterà la sua pressione, potrebbe riuscire a rompere anche l’ostinazione e la prepotenza di Mosca.

Ma gli Stati Uniti e l’Europa hanno proprio gli stessi interessi in questa fase del conflitto? La questione è stata lanciata domenica da Carlo De Benedetti. Oggi ne scrivono Gustavo Zagrebelsky per Repubblica e Domenico Quirico per la Stampa. Che scrive: “Domanda doverosa, urgente poiché la divaricazione tra la guerra degli europei e quella degli americani contro l'aggressione russa combattuta sul suolo ucraino si sta, giorno dopo giorno, allargando. L'Atlantico è più largo. A causa del conflitto che si prolunga nonostante gli incauti annunci di una vittoria ucraina ormai prossima”.

Fra le cronache dall’Italia diamo spazio alle denunce femministe a proposito delle molestie degli alpini durante il raduno nazionale dello scorso fine settimana a Rimini. È intervenuto anche il ministro della Difesa, mentre Libero difende la reputazione delle “penne nere”.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Mario Draghi in visita alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden. Il colloquio si è svolto ieri sera, ora italiana, ed è durato circa un’ora.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Tema quasi obbligato per l’apertura dei quotidiani italiani oggi: il colloquio alla Casa Bianca tra Mario Draghi e Joe Biden. Il Corriere della Sera sceglie proprio una frase del presidente americano: «Putin non ci ha divisi». La Repubblica è enfatica e lo chiama: Il patto della Casa Bianca. Avvenire sottolinea la spinta per il negoziato da parte del nostro premier: Draghi: far cessare le stragi. Sulla stessa linea Il Giornale: Draghi avverte Biden: «L’Europa chiede pace». Così come il Quotidiano Nazionale: Draghi a Biden: l’Europa vuole la pace. Il Domani interpreta così il dialogo: Draghi da Biden per dimostrarsi il più americano dei leader europei. Il Manifesto ironizza infatti sull’amicizia fra i due leader: A carissimo amico. Il Mattino è concreto: Draghi a Biden: serve la tregua. Il Messaggero commenta: Draghi in Usa, spinta per la pace. La Stampa drammatizza: Draghi: “Fermare il massacro”. Il Fatto preferisce sottolineare una frase del responsabile salute di Stato-Regioni: “Per la sanità non hanno soldi, ma per le armi sì”. La Verità è ancora in trincea sulla pandemia: A scuola con la mascherina ma Speranza non sa perché. Mentre Libero difende le penne nere nella bufera per l’assedio alle donne di Rimini: La sinistra molesta gli alpini. Il Sole 24 Ore si occupa della politica monetaria europea: Tassi e scelte Bce, allarme liquidità.

DRAGHI: ITALIA ED EUROPA VOGLIONO LA PACE

Il vertice Usa-Italia. Mario Draghi alla Casa Bianca tiene la linea europea, in un quadro di grande amicizia con gli Usa: "La gente vuol sapere cosa possiamo fare per la pace". E chiede una mossa con Mosca sul grano ucraino. Joe Biden lo elogia e sottolinea la solidarietà italiana contro Vladimir Putin. La cronaca di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Cinque sedie sparse a caso attorno alla scrivania di Joe Biden raccontano di un briefing appena concluso in fretta e furia. Il Presidente degli Stati Uniti accoglie Mario Draghi nello Studio Ovale con un sorriso: «Sei un buon amico e un grande alleato». Parla con voce talmente bassa da spiazzare i cronisti al seguito, che annotano: «Si capisce solo la parola "incredibile"». Mario Draghi comunque ringrazia. E rilancia un messaggio che è equilibrismo tra le due sponde atlantiche, in una crisi che l'Europa inizia a soffrire per davvero. E così, prima rassicura Biden: «Putin ha cercato di dividerci, ma ha fallito. Siamo più uniti di prima». Poi, fissando il finestrone con vista sui giardini presidenziali, pronuncia una domanda che trasmette un senso di necessità, quasi di urgenza: «In Italia ed Europa la nostra gente vuole la fine di questi massacri, di questa violenza, di questa macelleria. La gente pensa alla possibilità di portare un cessate il fuoco e di ricominciare con dei negoziati credibili. Penso che dobbiamo riflettere profondamente su come affrontare tutto questo». È la via stretta di Draghi, l'autocandidatura per rappresentare un punto di caduta possibile tra alleati. Apprezzato dalla Casa Bianca, che lascia trapelare il «riconoscimento della leadership europea» del presidente del Consiglio, assieme alla sintonia sul "price cap" per l'energia. Il premier si presenta a Washington con il volto un po' stropicciato dal lungo viaggio. I venti contrari sull'Atlantico hanno allungato il volo fino a nove ore e mezza. Una doccia nella suite dell'hotel St. Regis, poi dritto al cospetto di Biden. Il colloquio dura un'ora. Con l'ex banchiere, l'ambasciatrice a Washington Mariangela Zappia e il consigliere diplomatico Luigi Mattiolo. L'eco delle parole di Macron sulla necessità di non "umiliare" la Russia al termine del conflitto è scomodo, complica la vigilia della missione. Ora deve rassicurare Biden senza rompere l'unità del Continente. Ne esce fuori una condanna dell'invasione di Putin e la promessa di «unità» per le sanzioni alla Russia. A cui però fa seguire l'esaltazione della via diplomatica ricercata da Macron. «Dobbiamo utilizzare qualsiasi canale diretto e indiretto», sostiene il premier, per far tacere le armi e trattare la pace. Una tregua come precondizione per un tavolo negoziale, dunque. Parole su cui Biden sorvola. La linea del Presidente Usa è chiara: produrre un fallimento strategico del leader russo, indebolirne il regime per renderlo quantomeno inoffensivo. «Putin voleva dividerci - si limita a ribadire - ma non ce l'ha fatta. C'è una cosa che appezzo di lei: lo sforzo di unire la Nato e l'Ue - dice ancora rivolgendosi a Draghi - Era difficile credere che andassero di pari passo, ma lei ci è riuscito». Tradotto: armi e sanzioni, assieme e senza tentennare. È un'impresa complessa, che non può prescindere dall'unità euro- atlantica. «La cooperazione può avere costi molto alti», ricorda il Presidente degli Stati Uniti. E in questa chiave «la cooperazione dell'Italia è fondamentale». Significa che Washington sta sollecitando altro materiale bellico e denaro per la ricostruzione dell'Ucraina. A porte chiuse, assicura flessibilità nella fornitura di nuove armi. Se necessario, si andrà oltre il terzo decreto interministeriale, con dotazioni ancora più "pesanti", ad esempio missili anti- nave. Ma non basta. Il capo dell'esecutivo è pronto anche a inviare uomini sul fronte Est dell'Europa - Bulgaria e Ungheria - per rafforzare ulteriormente il contingente Nato. In cambio, Roma incassa anche il riconoscimento della leadership italiana nel teatro libico, che potrebbe garantire enormi forniture di gas. «Tu cosa faresti?», domanda Biden. «Bisogna stabilizzare insieme il Paese». I costi della crisi sono altissimi, come durissima la crisi economica ed energetica all'orizzonte. Ad ascoltare il colloquio tra i due leader c'è anche la segretaria al Tesoro Janet Yellen, che di Draghi è amica dai tempi in cui guidava la Fed. Ragionano davanti al Presidente Usa delle ricette per evitare che la recessione si intrecci con l'inflazione. Nel pacchetto pesa ovviamente l'emergenza energetica, assillo del premier. A Biden chiede sostegno per liberarsi dalla dipendenza di Mosca. Un'opzione è quella di aumentare la produzione di petrolio americano di 240 milioni di barili, calmierandone il prezzo. E poi quella di accrescere l'afflusso di gas liquido, vitale per evitare un "autunno freddo" in Europa. Il Presidente Usa si complimenta per lo sforzo di diversificazione e insiste sulle rinnovabili. Sono sfide gigantesche. Fallire significherebbe destabilizzare le opinioni pubbliche e far ballare i governi occidentali. Draghi lo ammette, senza enfasi: «Quello che sta accadendo porterà cambiamenti massicci in Europa». Non a caso, insiste con Biden per attivarsi in modo da sbloccare le esportazioni di grano dall'Ucraina per far fronte alla crisi alimentare, soprattutto in Africa, evitando esodi migratori. E gli chiede di valutare se attivarsi direttamente con i russi. Sessanta minuti dopo, il capo dell'esecutivo lascia la Casa Bianca. Non c'è conferenza stampa, anche se Roma avrebbe gradito. Parlerà alla stampa oggi, in ambasciata. Andrà al Congresso da Nancy Pelosi. E riceverà il premio dell'Atlantic Council. Un tavolo per la serata si prenota per centomila dollari».

IL NUOVO PIANO DI AIUTI MILITARI DELL’ITALIA

Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera rivela i nuovi aiuti italiani a sostegno della resistenza ucraina: soldati, armi e droni per un salto di qualità del contributo tricolore. Altri militari sono in partenza per Ungheria e Bulgaria.

«L'Italia è pronta a schierare altri militari al confine con l'Ucraina. Ma anche a mettere a disposizione delle autorità di Kiev armi tecnologiche come gli antidroni Guardian, disturbatori di radar, sistemi di difesa contro eventuali attacchi alle infrastrutture. Sono oltre 600 i soldati che nelle prossime settimane partiranno per Ungheria e Bulgaria per proteggere l'area del Sud insieme agli altri reparti della Nato. E proprio in Ungheria al nostro Paese potrebbe essere affidato il comando delle operazioni. La procedura è già stata avviata, i dettagli saranno inseriti nella «delibera missione» che il Consiglio dei ministri approverà nei prossimi giorni e invierà poi al Parlamento per la ratifica. L'impegno nel conflitto scatenato dall'invasione russa sale dunque ulteriormente di livello con lo schieramento sul campo dei reparti speciali e l'aiuto per fermare eventuali attacchi cyber, ma anche intrusioni aeree. Uno spiegamento di forze che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva preannunciato al Parlamento, confermato nel corso della visita del presidente del Consiglio Mario Draghi al presidente Joe Biden.
Le due missioni Circa 250 soldati in Bulgaria, 350 in Ungheria. Guerini lo ha spiegato con chiarezza alle Camere: «Abbiamo deciso di rafforzare la postura di deterrenza e rassicurazione, con particolare attenzione sui Paesi del fianco Est. L'Italia già contribuisce a queste misure in maniera significativa, con una componente terrestre in Lettonia, una componente aerea in Romania e Islanda e una componente navale nel Mediterraneo Orientale. A questo sforzo si aggiungeranno gli impegni in Bulgaria e Ungheria, che saranno inseriti nella delibera missioni di prossima presentazione al Parlamento». Anche in questi due Paesi, così come già avvenuto per i militari partiti poco dopo l'inizio della guerra, si tratta di appartenenti ai nuclei speciali come lagunari, paracadutisti, alpini, incursori del Comsubin. Radar e droni Il salto di livello riguarda però la tecnologia, dove l'Italia può contribuire con aziende di primo livello. Non a caso nelle consultazioni avviate in questi giorni sono stati previsti gruppi di lavoro che coinvolgano gli esperti di Leonardo e di altre industrie specializzate. L'esigenza manifestata in ambito Nato e condivisa dai vertici della Difesa è di aiutare l'Ucraina sia nell'intercettazione di droni, sia con i disturbatori di radar. Ma anche con l'utilizzo di sistemi elettronici di intercettazione di comunicazioni e di frequenze radar che possono servire a bloccare eventuali intrusioni. Una tecnologia di avanguardia che mira a prevenire possibili attacchi alle infrastrutture che - questo è il timore - in un'eventuale escalation potrebbero coinvolgere l'Ucraina ma anche altri Stati. Le armi pesanti Nonostante le proteste di M5S e Lega il governo garantirà ulteriori invii di armi pesanti, senza un nuovo voto in Parlamento. La «copertura» normativa è infatti già arrivata con il decreto approvato l'1 marzo, poi convertito in legge. E questo consentirà fino al 30 settembre di armare ulteriormente le autorità di Kiev sia con «mortai, lanciatori Stinger, mitragliatrici pesanti Browning , colpi browning, mitragliatrici leggere, lanciatori anticarro, colpi anticarro, razioni K, radio, elmetti, giubbotti» inviati subito dopo l'avvio della guerra, sia con gli armamenti più pesanti mandati due settimane fa».

DIPLOMAZIA, SI MUOVONO FRANCIA, CINA E GERMANIA

Colloquio tra il presidente Macron e l’omologo cinese Xi, dopo un analogo colloquio avvenuto ieri col cancelliere tedesco Scholz. La Cina concorda su un punto importante: va salvaguardata l’integrità territoriale dell’Ucraina. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Sussulti di fermento della diplomazia sull'Ucraina: Francia e Germania mandano segnali di ricerca di spazi di autonomia europea rispetto agli Stati Uniti, mentre la Bielorussia alza la tensione schierando forze speciali alle frontiere meridionali: una mobilitazione difensiva - afferma Minsk -, perché Kiev avrebbe rafforzato con 20 mila uomini le sue postazioni sul confine. E alla galleria degli orrori del conflitto si aggiunge la notizia di decine di cadaveri di soldati russi abbandonati senza sepoltura "per le strade e nelle case", quando le truppe di Mosca si sono ritirate dalle regioni di Kiev e Al Jazeera segnala corpi ammassati nel vagone frigorifero di un treno nei pressi di Kiev. "Non li hanno presi con sé, li hanno lasciati nelle discariche", riferiscono fonti ucraine. "Noi trattiamo i morti dei nemici meglio di come loro trattano i civili". A Mariupol l'assalto all'acciaieria Azovstal, dove resterebbero un centinaio di civili, è ripreso: decine di attacchi aerei in 24 ore. Missili ipersonici sono stati sparati lunedì sera su un hotel e un 'mall ' vicino a Odessa. Nella notte, è stato distrutto il Monastero di San Giorgio di Svyatogorsk, eremo del 1526 dove si erano raccolti molti rifugiati. A Izyum, sotto le macerie di un edificio distrutto dai russi, sono stati scoperti i corpi di 44 civili. In un'audizione al Senato, la direttrice dell'intelligence statunitense Avril Haines manda messaggi contraddittori: avverte che la Russia potrebbe tentare di intercettare le armi inviate in Ucraina "nelle prossime settimane" e mette in guardia su una possibile "vendetta" di Mosca contro le sanzioni; poi dice che il presidente russo "Vladimir Putin userà l'arma nucleare solo se sarà di fronte a una minaccia esistenziale". Per la Haines, Putin imporrà la legge marziale in Russia perché vuole una guerra "lunga" - mentre tutto fa pensare che lui avesse in mente una blitzkrieg- e conta sul fatto che il sostegno a Kiev di americani ed europei diminuirà nel tempo. La Russia, inoltre, non intenderebbe fermarsi al Donbass, ma vorrebbe portare la guerra in Transnistria. Per il generale Scott Berrier, responsabile dell'intelligence militare Usa, "la guerra è in stallo e potrebbe restarlo a lungo: ora come ora, non stanno vincendo né i russi né gli ucraini e non vi sono segnali di svolta imminente". Che fare?, gli è stato chiesto. "La cosa giusta è 'Wait and see'", tanto mica muoiono degli americani. Il presidente Usa Joe Biden ha firmato una legge per velocizzare l'invio di armi all 'Ucraina, ispirata a una misura del 1941, la cosiddetta legge sul Lend-Lease, usata per rifornire d'armi i britannici contro i nazisti. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky lo ha ringraziato per l'aiuto "nella lotta per la nostra libertà e il nostro futuro" e ha poi criticato Malta, parlando al Parlamento della Valletta: "smetta di fare favori ai russi", vendendo loro passaporti e trasportando il loro petrolio. Mentre il governo britannico si sente "orgoglioso" di avere "tracciato la strada" della linea dura verso la Russia - parole del premier Boris Johnson ai Comuni -, in un colloquio telefonico tra i presidenti francese Emmanuel Macron e cinese Xi Jinping è emerso un approccio comune "sull 'integrità territoriale e sulla sovranità dell'Ucraina" come "sull 'urgenza di giungere a un cessate il fuoco". Fonti cinesi dicono che Macron e Xi ritengono che "tutte le parti interessate dovrebbero sostenere la Russia e l'Ucraina perché ripristinino la pace attraverso i negoziati". Xi ha sottolineato che la Cina "sostiene i Paesi europei affinché prendano in mano la sicurezza dell'Europa". Lunedì, c'era stata una telefonata analoga nei contenuti tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz e Xi. A Kiev, ieri, c'era il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbook. L'ucraino Dmytro Kuleba le ha espresso soddisfazione per "il cambiamento della posizione" di Berlino sulle forniture di armi e l'embargo al petrolio russo e ha detto che l'adesione dell'Ucraina all'Ue è una "questione di guerra o di pace" in Europa. Per l'Onu, in Ucraina al 3 maggio risultavano oltre 8 milioni di sfollati interni.».

QUI DONBASS, È INIZIATA LA FASE DUE DELLA GUERRA

Le notizie dal campo bellico. Dal Donbass, travolto dai missili, il reportage di Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.

«I russi non avanzano di un centimetro, però bombardano da lontano con missili e artiglierie pesanti. Qui hanno sparato cinque giorni fa contro la stazione di benzina, forse pensavano ci fosse un deposito di carburanti. Intanto però gli ultimi civili rimasti se ne sono andati, la sera non vedo più neppure una luce accesa nelle finestre dei condomini qui attorno». Il poliziotto 28enne che dice di chiamarsi Gregory procede a fatica sul retro della stazione di servizio, tra i sassi e le zolle di terra che circondano l'enorme cratere: un buco profondo oltre sette metri e largo almeno dieci. «Uno spreco assurdo, il missile costava almeno dieci volte ciò che ha distrutto. Però loro fanno così, visto che non riescono ad ottenere vittorie militari rilevanti, mirano a devastare le infrastrutture, costringendo la gente ad andarsene. Ovvio che non intendono finire domani, questa è una strategia per la lunga durata», aggiunge e le parole di questo giovane agente, a sua volta timoroso che un secondo missile possa colpire se i droni dovessero intercettare troppe persone assembrate nell'area, confermano dal campo ciò che l'intelligence americana va ripetendo ormai da giorni. La fase due Putin non intende affatto bloccare l'offensiva, anzi, Mosca si sta organizzando per una guerra di lunga durata e a bassa intensità, dato che ha perso subito in partenza quella agile dei blitz veloci. La stessa massima responsabile dei servizi d'intelligence Usa, Avril Haines, ha ribadito ieri di fronte al Congresso che Putin in persona «prepara un conflitto prolungato in Ucraina». Torniamo nelle regioni del Donbass prospicenti Donetsk per verificare come, a circa sei settimane dal suo inizio, la «fase due» dell'invasione russa risulti sostanzialmente in stallo e le posizioni dei due eserciti siano le stesse che vennero determinate dal cessate il fuoco seguito al conflitto del 2014. La cittadina di Kurakhove è spettrale: negozi chiusi, pochissime persone per strada, i campi coltivati tutto attorno sono stati abbandonati, soltanto qualche camion militare passa veloce con al traino le artiglierie di lunga gittata appena arrivate dagli alleati americani e si dirige verso la prima linea del fronte, una quindicina di chilometri più a est. Combattimenti più intensi si verificano invece a nord, verso le zone a ovest di Lugansk, oltre a Izium e Kramatorsk. E proprio qui in alcuni punti gli ucraini sono stati costretti ad arretrare un poco. I successi più rilevanti continuano invece ad ottenerli attorno a Kharkiv (la seconda città del Paese), dove ormai i netti ripiegamenti russi hanno allontanato la loro artiglieria pesante che adesso sembra non riuscire a colpire il centro città. Ma se ormai la guerra è soprattutto di logoramento non possono essere ignorati i danni enormi che sta procurando alla struttura sociale ed economica dell'intera Ucraina. Le Nazioni Unite osservano che ormai oltre 6 milioni di civili sono profughi all'estero e gli sfollati interni sfiorano quota 8 milioni. Ciò significa che oltre un terzo della popolazione ha abbandonato le proprie abitazioni e quasi sempre anche le attività lavorative. Secondo le stime della European Bank for Reconstruction and Development, l'economia nazionale è destinata quest' anno ad un tonfo superiore al 30 per cento rispetto ai valori del 2021. La classe media Sono dati che testimoniano dell'enorme crisi strisciante: molti liberi professionisti cercano lavoro all'estero, la classe media rischia di venire messa in ginocchio. Putin mira così a vincere l'Ucraina per esaurimento interno. Un conflitto che si alimenta anche di paure e propaganda. L'Onu tende adesso ad ascoltare con attenzione le denunce ucraine contro i crimini ai danni della popolazione commessi dalle truppe russe nelle regioni a nord di Kiev e parla di circa 300 civili uccisi senza alcun motivo e addirittura torturati. I portavoce militari ucraini raccontano inoltre di decine di cadaveri di soldati russi chiusi dentro sacchi bianchi che sarebbero stati trovati ammassati in un vagone refrigerato dopo il ritiro del loro esercito a fine marzo. Il canale inglese della tv qatariota Al Jazeera ne ha fatto un servizio raccontando tra l'altro che in uno dei sacchi sarebbero stati trovati anche gioielli, forse refurtiva rubata alla popolazione. «La Russia non vuole questi corpi, ognuno rappresenta la prova di un crimine di guerra», spiega il colonello Volodymyr Liamzin. Inoltre, a detta del capo dell'amministrazione militare di Kharkiv, Oleg Sinegubov, numerosi altri soldati morti sarebbero stati trovati «per le strade, nelle case e nelle discariche delle zone appena abbandonate dal loro esercito».

QUI ODESSA, APPELLO DELLA UE PER IL PORTO

Da Odessa il reportage di Nello Scavo per Avvenire. La «Regina del Mar Nero» viene bersagliata con i missili ipersonici Kinzhal: colpiti hotel e negozi. La Bielorussia schiera forze speciali alla frontiera ucraina.

«Quand'è l'alba il sole a Odessa non riesce a sorgere. La nebbia scura esala l'odore della distruzione. I palazzi del centro tremano nel buio della sera quando comincia il nuovo attacco. Alcune ore prima lo «zar» aveva risposto all'appello dell'Ue, che chiede almeno la riapertura del porto commerciale, sganciando quattro missili in modo che il presidente del Consiglio Ue fosse costretto a correre in un bunker. Poi la tregua per la parata a Mosca. «Nessun generale potrà ordinare un blitz missilistico mentre parla il capo. Poi torneranno a sparare», ci aveva aveva avvertito una fonte militare ucraina. E aveva ragione. Per tutta la notte la gente di Odessa, già costretta in casa dal rigido coprifuoco prolungato proprio in occasione del 9 maggio, ha dovuto sigillare le finestre e tappare ogni fessura. L'incendio dei bersagli colpiti ha incenerito ogni cosa e sprigionato un'ondata di fumi tossici che hanno provocato in chi ha inalato l'aria avvelenata irritazioni e insufficienza respiratoria, cefalee, nausea, con continue chiamate al pronto soccorso e di mattina presto la corsa verso le farmacie cercando spray che dessero sollievo. Molti hanno temuto che fossero state sganciate bombe al veleno. Quella di Odessa è la regione costiera ucraina dalla quale i carri armati russi restano più lontani, ma è tra le più colpite negli ultimi giorni. Bombardamenti che non hanno alcuno scopo tattico e che quasi mai riescono a centrare gli obiettivi militari. Una imprecisione di tiro talmente marcata da cancellare ogni residuo dubbio sulla reale volontà di colpire obiettivi civili. Ad oggi le forze di Mosca non hanno alcuna concreta possibilità di mettere piede nella «Regina del Mar Nero». Perciò i bombardamenti sembrano avere due soli scopi: proseguire la rappresaglia rivendicata da Putin nel modesto proclama sulla Piazza Rossa (quando sono sparite dal dizionario dello zar i nomi di città come Kiev o Leopoli, ma sono rimaste le mire sul Donbass) e il rancore per l'eccidio di filorussi avvenuto a Odessa il 2 maggio 2014. I raid compiuti proprio il 2 maggio non sono stati che l'anticipo della brutale aggressione dall'alto piovuta su centri commerciali, alberghi, chiese ortodosse, condomini. Una battaglia di missili combattuta sia con vecchi razzi, imprecisi ma potenti come mai ne aveva dovuti subire la città, sia con armi di ultima generazione. Da quanto si apprende la Russia ha usato missili cruise, comprese le nuove armi ipersoniche «Kinzhal».
Non hanno un nome a caso.
Vuol dire «pugnale», e con la stessa intenzione sono stati usati per colpire obiettivi senza difese e civili sbalzati dall'onda d'urto. Uno tsunami di aria compressa che fa diventare proiettile anche le lampade dell'illuminazione stradale. Il campionario dei danni dell'ultima settimana è lo specchio fedele della sproporzione tra chi indossa una divisa e chi mette il pigiama ai bambini. Sono stati devastati due alberghi, un centro commerciale, un deposito di merci, palazzi con appartamenti e un bilancio provvisorio di un morto e cinque feriti. Negli ultimi giorni le autorità hanno dichiarato inagibili quasi 300 alloggi. Secondo quanto riferiscono fonti dell'intelligence occidentale, è «la seconda volta dall'inizio del conflitto che i russi usano il missile balistico ipersonico Kh-47M2 Kinzhal, che ha fatto il suo esordio in combattimento il 19 marzo scorso». In quell'occasione fu lanciato da un aereo Mig-31K, contro un deposito di munizioni sotterraneo a Delyatyn, nella regione di Ivano-Frankovsk, non lontano dal confine con la Romania, secondo quanto confermato a suo tempo dal ministero della Difesa a Mosca. La città portuale sul Mar Nero è il principale scalo delle esportazioni agricole ucraine. Il governo di Kiev nelle settimane scorse aveva tentato di riavviare, seppure al minimo, la macchina dell'export investendo sull'unica alternativa disponibile: un corridoio via terra che dalla regione di Odessa conduce nel distretto della Bessarabia, l'ultimo lembo di Ucraina, confinante con la Romania. La destinazione individuata era il porto rumeno di Costanza, da cui far ripartire i cargo con le derrate alimentari. Ma proprio quando i container carichi di grano hanno cominciato a percorrere quei 450 chilometri, l'artiglieria di Mosca ha ripreso a bombardare il ponte mobile di Zatoka. L'infrastruttura consentiva di superare l'estuario del fiume Dnestr evitando un percorso più tortuoso e con implicazioni geopolitiche. La via alternativa prevede infatti l'ingresso e l'uscita nella Moldavia (Paese extra Ue) con l'obbligo di avviare dunque le pratiche doganali per ogni spedizione, oltre a una dilatazione dei tempi di percorrenza e all'aumento dei costi. Non bastasse, anche la Moldavia è messa a dura prova dalla riapparizione dell'opposizione politica dichiaratamente filorussa, in ottimi rapporti con i separatisti filorussi della repubblica non riconosciuta di Transnistria. Proprio qui, come denunciano da settimane le autorità della capitale Tiraspol, vengono segnalati sabotaggi e attentati che potrebbero impegnare i 1.500 uomini dell'esercito russo dispiegati come «forza di pace» nella provincia moldava ribelle. Ma è anche a Nord che si guarda. L'esercito bielorusso è in grado di «infliggere danni intollerabili ai suoi nemici» in caso di attacco, ha minacciato ieri il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Minsk ha schierato forze speciali alle sue frontiere con l'Ucraina, sostenendo che si tratta di una «mobilitazione difensiva» a seguito del rafforzamento delle forze armate di Kiev oltre confine. Mentre le macerie di Odessa, fortunatamente ancora fuori dalle meraviglie del centro storico, dicono che il tempo del rancore non è ancora passato e che se la guerra è persa, quando finirà ci sarà poco da festeggiare».

QUI KHARKIV, ANZIANI SEQUESTRATI DAI RUSSI

Il racconto di Francesca Mannocchi per la Stampa: una coppia anziana racconta le peripezie vissute vicino a Kharkiv, in balia dei soldati russi.

«Scriveva Ingebord Bachmann, nel 1953, negli anni della guerra fredda che tanto somiglia a quella di oggi, che «la guerra non viene più dichiarata ma proseguita». Succede spesso, quando le guerre si protraggono, che la cronaca finisca per mangiare la Storia e svuotarla, ma la Storia continua a scorrere anche se trascurata, per ripresentarsi, si sa, come tragedia o come farsa. Lo sa chi i conflitti li combatte e lo sa chi i conflitti li subisce. Così è oggi la guerra d'Ucraina, o meglio: l'invasione russa dell'Ucraina, che rischia di restare intrappolata in una ragioneria della battaglia che smarrisce il quadro d'insieme. Il conto dei morti, il chilometro di terra riconquistato e quello perduto. Nomi di minuscoli agglomerati urbani, sconosciuti fino a ieri, strategici per una settimana, che torneranno a essere sconosciuti domani. In mezzo la vita delle persone, gli unici forzieri di verità, gli unici portatori di risposte che restano sospese da due mesi e mezzo. Il 28 febbraio Ludmylla Volodymyrivna e suo marito Sasha hanno provato a scappare da Mala Rohan. I russi erano entrati da tre giorni nel loro paese a nord di Kharkiv. I primi giorni non hanno minacciato nessuno, né usato violenza. Dice Ludmylla che facessero avanti e in dietro provando a chiamare qualcuno. Sebbene nessun missile colpiva le case civili, tutti provavano a scappare. Anche lei, con suo marito aveva organizzato la fuga con un gruppo di veicoli: loro due e i vicini.
Il 28 hanno preparato qualche valigia, l'hanno caricata in macchina, si sono fatti forza e hanno cominciato a guidare in direzione Kharkiv, finché hanno incontrato un check point di soldati russi molto più aggressivi. Hanno sparato alle auto e hanno fatto uscire gli uomini costringendoli in ginocchio con le mani alzate. Ludmylla, vedendo suo marito settantenne inginocchiato al freddo, a terra, ha aperto lo sportello della macchina e ha cominciato a gridare: guardateli, sono degli anziani ma cosa state facendo? Il soldato più giovane l'ha spinta a terra con la canna del fucile e poi lo ha puntato in testa al marito. Lei si è trascinata davanti a Sasha e ha urlato di non sparare. I soldati li hanno tenuti stesi, hanno controllato tutte le loro borse, li hanno perquisiti, poi hanno ordinato loro di restare faccia a terra. Ludmylla ha allungato una mano verso suo marito, certa che sarebbero morti, gli ha detto che lo amava, lui ha fatto lo stesso. Dopo qualche minuto un giovane soldato russo li ha fatti alzare, ha intimato di correre dall'altra parte della strada, ma Sasha - ha avuto un'ischemia meno di un anno fa - non poteva affrettare il passo. Ludmylla lo sosteneva mentre i soldati col fucile puntato alla schiena si chiedevano «dove sistemare i prigionieri». Li hanno portati in un garage, privati di telefoni e documenti e hanno cominciato a interrogarli: chi siete, dove sono le vostre case, supportate il governo di Kiev o i liberatori russi? E' andata avanti così per due giorni, il terzo giorno, dopo aver legato alla schiena le mani dei più giovani, li hanno trasferiti al piano di sopra e hanno detto agli anziani come Ludmylla e suo marito che li avrebbero rimandati a casa con una sola regola: non raccontare niente a nessuno, «se non volete essere uccisi, voi o le vostre famiglie». Nessuno doveva sapere dei prigionieri. Ludmylla ha gridato ancora e più forte. Rivoleva indietro i giovani costretti in soffitta con le mani legate. Così, tra le grida, i russi hanno legato anche loro, e li hanno trascinati in un'altra casa. Gli anziani al secondo piano e i soldati con la mitragliatrice nella stanza accanto. Quando vedevano qualcuno camminare in strada, uno di loro scendeva armato, gli puntava il fucile addosso e lo conduceva nel seminterrato. Uniformi lise, vecchi elmetti e cinture con simboli sovietici per i più giovani, altri in uniforme nera, ben equipaggiati. Ludmylla li ricorda così. Il tre o quattro marzo, non riesce a ricordarlo con precisione, la donna ha origliato una conversazione tra soldati: sono arrivati i camion, si dicevano, carichiamo. Hanno picchiato un ragazzo, e lo hanno caricato sul primo mezzo. Poi hanno interrogato di nuovo gli altri, e costretto anche loro sul camion, avrebbero saputo poi, da due giovani riusciti a fuggire, diretto prima a Vovcansk e successivamente oltreconfine, in Russia. Delle decine di ragazzi portati via, oggi, a un mese e mezzo dalla liberazione della cittadina, nessuno sa niente. Quando la città è stata liberata, il 25 di marzo, chi era in città, ostaggio della guerra, è scappato via. Delle tremila persone che vivevano qui, prima della guerra, ne sono tornate solo trecento. Tra loro Ludmylla, ginocchia a terra, stavolta non sotto la minaccia di un fucile, ma a raccogliere i detriti di una casa che, colpita da un missile, cade in pezzi. Oggi, che riesce a guardare gli eventi senza il timore dei bombardamenti, pensa che i russi li abbiano presi e tenuti vivi come garanzia, per potersi ritirare senza essere attaccati. Forse, dice, avevano comunicato all'esercito ucraino la loro presenza e la loro sopravvivenza dei civili è stata merce di scambio durante la ritirata. Si spiega così, per esempio, perché i russi un giorno, poco prima che il villaggio venisse liberato, abbiano chiesto a tutti nomi e indirizzi. Pensa, Ludmylla, che li abbiano mandati all'esercito ucraino per certificare chi fossero le persone nelle loro mani. L'ha capito quando sono finiti i bombardamenti che fossero scudi umani, e forse, chissà, oggetto di trattativa. «Non si tratta di incidenti isolati. Questi crimini fanno molto parte di uno schema in cui le forze russe controllavano una città o un villaggio», ha detto Donatella Rovera, consulente senior per la risposta alle crisi di Amnesty International, in una conferenza stampa tenuta a Kiev lo scorso sei maggio. Parlando di «incidenti non isolati», l'ultimo rapporto di Amnesty si riferisce ai racconti raccolti intorno Kiev dopo la liberazione delle aree occupate, all'orrore di Bucha, alla distruzione di Borodjanka. Civili vittime di abusi, «finte esecuzioni e torture sconsiderate». Raid aerei russi «sproporzionati e indiscriminati» sulle aree civili. Sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. Quei racconti sono diventati, per la guerra in Ucraina, il paradigma degli abusi. La sua unità di misura. Con questo si confrontano le aree liberate anche intorno Kharkiv, che delineano storia dopo storia, dettaglio dopo dettaglio, le similitudini e le divergenze con le modalità di occupazione della capitale. Quando sono entrati a Mala Rohan, come nei villaggi circostanti che distano trenta chilometri dalla Russia, i soldati pensavano di trovare una terra in cui ad essere di troppo non era l'occupante ma il confine. Alla domanda: cosa siete venuti a fare? Uno dei comandanti dell'unità che li teneva in ostaggio ha risposto a Ludmylla che fossero lì per tenere unita la Russia. Non liberarla, dunque, ma appropriarsene. Poi qualcosa è andato storto, nonostante la storia di quella zona. Sasha racconta che Mala Rohan è stato un luogo di immigrazione. In tanti sono arrivati qui dagli anni Settanta. Dove finisse l'Ucraina e iniziasse la Russia, allora, non era un tema. La gente lavorava e pensava a costruire case lungo i campi o in prossimità del piccolo lago limitrofo. Dopo il 1991 è arrivata ancora più gente: casa, salario, terreni. Qui hanno avuto figli e nipoti. Qui, dice Sasha, sono cresciuti negli anni separatisti e collaborazionisti. Succede quando la cronaca si fiacca, la memoria si distrae, ma la Storia continua a battere il suo tempo, in attesa di ripresentarsi alla porta. Come il 24 febbraio, con le colonne di carri armati in mezzo alle strade del paese. Sappiamo chi li ha aiutati, dice Sasha. E fa nomi e cognomi. Gli stessi che una settimana prima aspettavano insieme a lui la corriera sulla strada che attraversa le campagne, e che sono entrati poi, nella casa adibita a base militare russa, con la fascia bianca al braccio come i soldati di Mosca. Uno in particolare, un giovane di famiglia russa. Del padre, Ludmylla dice che è un nostalgico e abbia cresciuto i figli così, dando la colpa alla perestrojka. Della madre, che è sua cara amica, dice che non ha colpe. Sa che la nostalgia troppo spesso si provi più verso ciò che non è stato che verso un passato mitico. Per Ludmylla il futuro è continuare a chiamare quella donna amica, e provare a non chiamare suo figlio collaborazionista. Sa che i semi dell'odio di domani nascono sulle parole non dette, su quelle usate male. Su quelle non guarite. Per questo sta riavvolgendo il nastro degli ultimi due mesi e mezzo cercando di non smarrire i dettagli, di non alterare la memoria, di non lasciare che la cronaca mangi la Storia, svuotandola».

LA MARCIA DELLA PACE IN UCRAINA

A che punto è l’iniziativa del Movimento non violento per una marcia di pace in Ucraina? Non c’è ancora una data. Wanda Marra fa il punto della situazione per Il Fatto.

«”Mettere in secondo piano quella che è in assoluto la nostra più vitale priorità: bloccare la loro invasione sul piano militare”. Insomma, loro dicevano “non violenza”, si sono sentiti rispondere “armi”. Ci sono già le locandine dell'iniziativa, stampate in varie lingue. Ma non c'è una data. Perché la non violenza convince gli ucraini fino a un certo punto. "Ma se il conflitto di resistenza dovesse arrivare a una escalation, fino a una vera e propria guerra nucleare, non pensi che a quel punto la guerra diventi una sconfitta per tutti?", ha chiesto a un certo punto Angelo Moretti a padre Ihor, direttore del seminario greco di Leopoli. "Per noi non cambia nulla, morire sotto le bombe normali o sotto le bombe nucleari... che differenza c'è?", ha risposto lui, con un'affermazione niente affatto scontata. La delegazione si è messa in discussione, ma non si è fatta smontare. La non violenza, per dirla con la Sclavi, "è una forza, quando si manifesta nella presenza di migliaia di persone che hanno il coraggio di mettersi personalmente in gioco ". Anche perché "la presenza forte e coraggiosa è un modo per dire che l'Europa deve esserci in maniera autonoma dagli Usa e contemporaneamente dare voce alla società civile". E dunque Moretti riflette: "Dobbiamo creare le condizioni. Da qui, dire 'vi armiamo' o 'non vi armiamo' è comunque sbagliato. È tutto troppo semplice. Abbiamo capito che l'unico modo è stare con loro, metterci in gioco anche con i nostri corpi". Tra i frammenti di dialogo raccontati dalla Sclavi ce ne sono alcuni particolarmente significativi, come quello in cui si dice che la propaganda russa presenterebbe la mobilitazione come una manipolazione Usa. D'altra parte, è proprio l'accusa di equidistanza quella che devono respingere in primo luogo i pacifisti. Eppure, dopo tre giorni, uno spiraglio s' intravede: gli ucraini, che insistono sul fatto di essere "costretti a difenderci con la violenza" apprezzano "il coraggio". Lo slogan è: "More arms for more hugs". In inglese "arms" significa "braccia". "Più braccia per più abbracci". La delegazione tornerà entro giugno. In programma anche un contatto con lo staff di Zelensky: per la non violenza c'è bisogno di alleanze. La mobilitazione dovrebbe essere a luglio».

SALVINI: LA TREGUA È FINITA

In Italia Matteo Salvini riapre le polemiche sul governo e fa la sponda con Giuseppe Conte. Il leader della Lega punta a mettere insieme una maggioranza contro l’invio di nuove armi. Emanuele Lauria su Repubblica.

«La tregua è finita. Matteo Salvini rispetta l’impegno che aveva preso con Mario Draghi giovedì scorso, quando era andato a trovarlo a Palazzo Chigi: nessuna polemica sulla strategia italiana in Ucraina fino alla visita del premier alla Casa Bianca. Ma con il primo ministro ancora in volo per Washington, il leader della Lega torna a schierarsi contro l’invio delle armi a Kiev. In modo più forte e più netto di prima: "Se verranno richieste più armi io dovrei riunire la Lega per decidere. Personalmente sono contrario, ma non sono il re Sole e quindi devo riunire il partito e chiederlo a loro". Una presa di posizione che racchiude due mosse. La prima mossa. Salvini lancia un avvertimento a Draghi proprio in vista del colloquio con Biden, per cercare di condizionarne l’esito: "Non possiamo più permetterci altri mesi di guerra, è questione di sopravvivenza. Dall’incontro tra Draghi e Biden mi aspetto la pace. Arrivare subito alla pace è vitale". Parole pronunciate pur sapendo che il presidente Usa è intenzionato a chiedere massimo sostegno all’Italia sulla linea della forza, di un impiego ancora maggiore di materiale bellico contro l’aggressione russa. D’altronde, il capo del Carroccio conferma la sua avversione alle politiche di Biden: "Non c’è la belligeranza degli americani ma c’è un’amministrazione americana che ha intrapreso un percorso bellico, ma negli stessi Stati Uniti il dibattito è aperto, con tante parti che chiedono la pace". Salvini continua a riconoscere che "la Russia ha aggredito e l’Ucraina è stata aggredita". Ma ora, aggiunge, "entrambe parti in guerra vogliono farla finita", quindi "se qualcuno dall’altra parte del mondo vuole conseguire su campi altrui i propri obiettivi strategici non è il caso e non è il momento". C’è una stoccata anche per il primo ministro britannico Boris Johnson: "Spero che nessuno dei 27 membri dell’Ue tifi per la guerra", mentre c’è "qualche ex Paese europeo che per motivi interni usa parole di guerra. Ma nessuno usi per politica interna le vite altrui, i morti ucraini, russi e i lavoratori italiani". Salvini finisce addirittura per elogiare Emmanuel Macron, il presidente francese che ha appena sconfitto l’amica Marine Le Pen: "Ha detto che bisogna arrivare alla pace senza umiliare Putin: pensate cosa sarebbe accaduto se questa frase l’avessi pronunciata io...". La seconda mossa. Con la sua nuova accelerazione contro l’invio di armi, Salvini si prepara anche a un secondo scenario, che si realizzerà in caso di insoddisfacente risultato (per la Lega, ovviamente) del viaggio americano di Draghi: fare asse con Giuseppe Conte ma anche con altri partiti che condannano l’escalation militare (si pensi alla sinistra) per far valere in aula quelle che definisce "le ragioni della pace". Al di là della consultazione interna alla Lega (forse un consiglio federale), il senatore milanese è pronto a spingere la sua rappresentanza parlamentare verso un voto. Al momento, si badi, non è in calendario alcun pronunciamento di Camera e Senato sull’invio delle armi in Ucraina. L’unico impegno in programma, per Draghi, è un question time a Palazzo Madama il 19 maggio. Ma in ambienti leghisti non si esclude la presentazione in qualsiasi momento di un atto parlamentare (una mozione o un ordine del giorno) per impegnare il governo a fermare la fornitura di armamenti all’Ucraina. "Speriamo che Draghi ci ascolti e stavolta tenga conto delle dinamiche e dei numeri parlamentari", dice un senatore vicino al segretario: "Perché la nostra posizione, che si oppone a una deriva iperatlantista e belligerante, con molte probabilità, è già oggi maggioranza fra Camera e Senato..."».

IL PAPA: SMILITARIZZIAMO I CUORI

Papa Francesco chiede agli anziani di essere maestri di pace. E avverte: queste grandi crisi possono renderci insensibili alle altre epidemie e alle forme di violenza che minacciano l’umanità. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Una accorata richiesta alla Madonna, «Madre della Tenerezza», di «fare di tutti noi degli artefici della rivoluzione della tenerezza, per liberare insieme il mondo dall'ombra della solitudine e dal demone della guerra». Della guerra in Ucraina e delle altre guerre che insanguinano il mondo. È con questa implorazione alla Beata Vergine che papa Francesco conclude il suo Messaggio per la seconda Giornata mondiale dei nonni e degli anziani che la Chiesa celebra il 24 luglio, nel giorno della memoria liturgica dei santi Gioacchino e Anna, i genitori di Maria. Il Pontefice osserva che il mondo sta vivendo «un tempo di dura prova », segnato «prima dalla tempesta inaspettata e furiosa della pandemia », poi «da una guerra che ferisce la pace e lo sviluppo su scala mondiale». «Non è casuale - aggiunge - che la guerra sia tornata in Europa nel momento in cui la generazione che l'ha vissuta nel secolo scorso sta scomparendo». E «queste grandi crisi rischiano di renderci insensibili al fatto che ci sono altre "epidemie" e altre forme diffuse di violenza che minacciano la famiglia umana e la nostra casa comune».
Di fronte a tutto ciò, spiega Francesco, abbiamo bisogno di «un cambiamento profondo», di «una conversione, che smilitarizzi i cuori, permettendo a ciascuno di riconoscere nell'altro un fratello». Il Papa nel suo Messaggio usa il "noi" per indicare i «nonni e anziani». «Noi - scrive -, abbiamo una grande responsabilità», quella di «insegnare alle donne e gli uomini del nostro tempo a vedere gli altri con lo stesso sguardo comprensivo e tenero che rivolgiamo ai nostri nipoti ». Infatti i nonni e gli anziani hanno affinato la loro umanità nel prendersi cura del prossimo e oggi possono «essere maestri di un modo di vivere pacifico e attento ai più deboli». «La nostra, forse - sottolinea il Pontefice evocando il capitolo quinto del Vangelo di Matteo -, potrà essere scambiata per debolezza o remissività, ma saranno i miti, non gli aggressivi e i prevaricatori, a ereditare la terra». Per il Vescovo di Roma uno dei frutti che i nonni e gli anziani sono «chiamati a portare» è quello «di custodire il mondo». Scrive il Papa: «Oggi è il tempo di tenere sulle nostre ginocchia - con l'aiuto concreto o anche solo con la preghiera -, insieme ai nostri, quei tanti nipoti impauriti che non abbiamo ancora conosciuto e che magari fuggono dalla guerra o soffrono per essa». E aggiunge: «Custodiamo nel nostro cuore - come faceva san Giuseppe, padre tenero e premuroso - i piccoli dell'Ucraina, dell'Afghanistan, del Sud Sudan». Nel suo Messaggio Francesco ribadisce che la vecchiaia «non è un tempo inutile» in cui tirare i remi in barca, ma «una stagione in cui portare ancora frutti». Infatti la «speciale sensibilità» dell'età anziana «per le attenzioni, i pensieri e gli affetti che ci rendono umani», dovrebbe «ridiventare una vocazione di tanti». Questa «sarà una scelta d'amore degli anziani verso le nuove generazioni». Con una «missione nuova», quella di diventare «protagonisti» della «rivoluzione della tenerezza». Una «rivoluzione spirituale e disarmata» che può veramente liberare il mondo dal «demone della guerra».

POLITO RISCRIVE IL DISCORSO DI MACRON

Il dibattito delle idee. Antonio Polito sul Corriere della Sera prova a re-interpretare il discorso pronunciato lunedì da Emmanuel Macron al Parlamento di Strasburgo. In chiave bellicista.   

«Qual è il nostro obiettivo di fronte alla decisione unilaterale della Russia di invadere l'Ucraina e attaccare il suo popolo? Fermare questa guerra il più presto possibile. Fare tutto il possibile per assicurare che l'Ucraina possa alla fine resistere e che la Russia non vinca mai. Per preservare la pace nel resto del continente europeo ed evitare qualsiasi escalation». Come non essere d'accordo con Macron? Ha ribadito l'altro giorno a Strasburgo la scelta di campo dell'Unione europea e dell'alleanza occidentale che sta aiutando Kiev a difendersi. Però, qui e là, nell'incredibile fricassea che sta diventando il dibattito pubblico in Italia, le parole di Macron sono diventate: «Mosca ora non va umiliata». Oppure «La pace non si ottiene umiliando Mosca». Presentate come se fossero una chiara presa di distanza dal resto dei Paesi occidentali. Da che cosa nasce questo ennesimo equivoco? Riprendiamo il testo integrale di Macron: «Per sostenere l'Ucraina abbiamo adottato sanzioni senza precedenti..., abbiamo mobilitato risorse militari, finanziarie e umanitarie..., stiamo lottando e lotteremo contro l'impunità per gli indicibili crimini commessi dalla Russia in Ucraina». Poi Macron continua: «Ma non siamo in guerra con la Russia. Stiamo lavorando per la conservazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Ucraina, per il ritorno della pace nel nostro continente. Spetta all'Ucraina definire le condizioni per i negoziati con la Russia. Il nostro dovere è di stare al suo fianco per ottenere un cessate il fuoco e poi costruire la pace. Allora saremo lì per ricostruire l'Ucraina. Perché, infine, quando la pace tornerà sul suolo europeo, dovremo costruire nuovi equilibri di sicurezza e non dovremo mai cedere alla tentazione dell'umiliazione o allo spirito di vendetta, perché hanno già, in passato, devastato i sentieri della pace».
Mi scuso per la lunghezza della citazione. Però, qualche volta, i testi andrebbero letti invece che saccheggiati. Ancora una volta: come non essere d'accordo con Macron? Quando la pace tornerà perché la guerra di Putin non ha vinto, non bisognerà fare l'errore che la Francia pretese dagli alleati alla fine della Prima guerra mondiale, e cioè la punizione e l'umiliazione della Germania guglielmina, che posero le premesse del tragico revanscismo tedesco. Ma, per arrivare alla pace, l'Europa si batte oggi per fermare chi ha umiliato la legalità internazionale con l'invasione; ha umiliato un popolo che piange decine di migliaia di vittime civili, non facendone neanche il nome nel discorso sulla Piazza Rossa, come se l'Ucraina non esistesse; e ha umiliato il prestigio della sua stessa nazione e del suo esercito, esponendoli a rovesci politici e militari e a una generale condanna morale. Che si tratti di malafede o di superficialità, non è la prima volta che le esigenze della rissa mediatico-politica di casa nostra vengono applicate a una cosa come la guerra, troppo seria per essere lasciata ai guerrieri da talk show. Ancora ieri, per esempio, a tre giorni dall'accertamento dell'errore, c'era ancora chi scriveva che Stoltenberg, segretario generale della Nato, avrebbe smentito la disponibilità espressa da Zelensky a cedere la Crimea, e che ciò confermerebbe che in realtà è la Nato a combattere una guerra per procura contro la Russia. Ma il fatto è che della presunta offerta di Zelensky c'era traccia solo sui media italiani (problemi di traduzione?). Mentre di Stoltenberg, invece, è stata citata una sola frase: «L'annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dai membri della Nato» (e anche questo è un fatto: non solo i Paesi Nato, ma nessuno al mondo ha riconosciuto l'annessione otto anni fa, quando è avvenuta illegalmente, con l'eccezione di Afghanistan, Cuba, Corea del Nord, Kirghizistan, Nicaragua, Siria e Zimbabwe). Viene invece deliberatamente omessa la successiva frase di Stoltenberg: «Saranno però il governo e il popolo ucraino a decidere in maniera sovrana su una possibile soluzione di pace». Perché quest' ansia di manipolazione? Non sarebbe meglio tornare a cronache rispettose dei fatti, poi ognuno li commenta come vuole? Gli ammiratori nostrani di Putin dichiaravano da due mesi che l'autocrate russo avrebbe potuto sventrare l'Ucraina come e quando voleva, che la resa di Kiev era un dovere morale perché non si combatte una guerra già persa, perfino che il paragone con la Resistenza italiana non reggeva perché i nostri partigiani avevano la possibilità reale di vincere, mentre quelli ucraini no. E ora temono addirittura che Putin venga umiliato? È una presa d'atto del fatto che le previsioni apodittiche di tanti improvvisati esperti di geopolitica sono fallite come i piani A e forse anche B dell'armata di Putin? Se questo è l'intento, fatti loro: noi non sappiamo come e quando finirà questa guerra, ma di certo in Italia ha già distrutto molte reputazioni e calpestato molti principi etici. Ma se l'intento è quello di Macron e dell'Europa (ricordo che il capo di Stato francese è il presidente di turno dell'Unione), allora è più che giusto ripetere che a guerra finita, a pace conquistata, la Russia non dovrà essere umiliata, perché la sicurezza dell'Europa si basa sull'indipendenza da e sulla cooperazione con questo suo grande e tormentato vicino. Non siamo in guerra con la Russia. È la volontà di potenza di Putin che ha portato la guerra in Europa. Va fiaccata, respinta, e costretta alla pace».

L’EUROPA DEVE TORNARE AD ESSERE “TERZA”

Valori etici o nuda forza? In mezzo c’è la politica. E sulla politica l’Europa deve giocare le sue carte. Importante intervento di Gustavo Zagrebelsky per Repubblica.

«Sull’eterna questione del rapporto tra l’etica e la politica, realisti e moralisti si scambiano accuse reciproche. La politica, per i realisti, è il regno dei fatti, non dei paternoster; per i moralisti, deve essere il regno dei valori, non della nuda forza. Non saprei aggiungere nulla a una polemica infinita come è questa, fatta di distinguo, di sfumature, di tentativi di conciliazione sempre falliti. C’è, però, una questione preliminare alla disputa tra realisti e idealisti: che cosa occorre perché di politica, propriamente, possa parlarsi. È una questione che viene prima dei contenuti, cioè di ciò che vogliamo intendere per “buona” o “cattiva” politica. Possiamo tradurre la domanda così: quando un soggetto che si autodefinisce “politico”, in realtà, non lo è? Molto semplice. Quando si lascia portare dagli eventi, come un bastoncino di legno trasportato dalla corrente e non opera per determinarli. Gli eventi, certo, condizionano la politica, ma non fino a dominarla. La politica non è il luogo in cui semplicemente “si galleggia”, si subisce la nuda forza dei fatti. Chi si fregia del titolo di “politico”, proponendosi come tale e cercando consenso mentre solo sa galleggiare, non è altro che un opportunista, forse un ipocrita, uno che, talora, sa parlare bene ma non merita d’essere creduto né, tantomeno, sostenuto. La ragione è semplice: il galleggiamento tra gli scogli riguarda solo lui, la sua sopravvivenza, la sua carriera. In sintesi: il politico è colui che si pone dei fini (buoni o cattivi, è altro discorso), è al servizio di essi, e, weberianamente, si prepara e agisce consapevolmente, competentemente e tenacemente per cercare di realizzarli. Tutto il resto è solo strumento: proporsi nel discorso pubblico, cercare e accrescere il consenso, promuovere alleanze, disarticolare gli avversari, eccetera, è utile e necessario, ma se è solo questo, non è politica, è politicantismo. Riconosciamo i politicanti dal loro trasformismo, dalla facilità con cui cambiano posizione, cioè dal fatto che, in realtà, non ne hanno alcuna se non quella di servire se stessi dove e come conviene. Il politico degno di questo nome, invece, è una “testa dura”; è pragmatico solo quanto ai mezzi. Nella sfera politica, cambiare opinione è possibile, qualche volta giusto e necessario, sempre, però, pagando un costo: il riconoscimento dell’errore passato e la disponibilità ad ammettere la possibilità di errori presenti e futuri. Onde, la testa dura del politico deve essere anche una testa umile, capace di riconoscere i suoi limiti e, se del caso, di ritirarsi dalla politica. Potremmo ragionare finché vogliamo su queste cose che affascinano gli scienziati e i filosofi politici. Ora, però, urgono questioni di sostanza. Quali siano i fini politici spetta, per l’appunto, alla politica determinare. Spetta cioè alla libertà e ai suoi usi, senza di che non c’è politica, ma solo soggezione: per esempio, ai centri finanziari, alle lobby militari e industriali, alle potenze soverchianti d’ogni genere. In questi casi, la politica retrocede di fronte alla esecuzione e i politici sono sostituiti dai “funzionari”, dai “tecnici”, dagli esecutori. In effetti, viviamo oggi in una “epoca esecutiva”. Non solo sui treni ad alta velocità la classe superiore è executive (e non, per esempio, legislative) ma anche in molta parte dell’apprezzamento sociale essere tecnico è molto meglio che essere politico. Questa “scala di valori” con l’esecutivo in cima non è la stessa dappertutto ed è tipica degli Stati che, difettando di libertà e quindi di politica, devono fare di necessità virtù. In un’epoca esecutiva come è quella che stiamo attraversando, si parla di etica, ma è una cosa diversa dall’etica politica. È efficienza e fedeltà nell’adempimento di compiti preassegnati. I discorsi su etica e politica sono dunque vaniloqui se quest’ultima difetta di autonomia. L’Europa, che s’invoca proprio nel frangente che attraversiamo, ha a che fare con questi discorsi, con la libertà della politica? Sì, se guardiamo alle ragioni fondative del progetto della sua unità. Esistevano ottime ragioni per promuovere l’integrazione economica e commerciale in un libero mercato comune tra Stati storicamente ostili da cui si ipotizzava (a torto) che sarebbe venuta naturalmente l’integrazione politica, come effetto indotto. Ma, l’intenzione più profonda degli spiriti lungimiranti fu, per l’appunto, la creazione di uno spazio di libertà politica in un mondo spaccato in due, in cui la “guerra fredda” tra le due superpotenze obbligava gli Stati europei a schierarsi schiacciandosi o di qua o di là. Si sarebbe potuto trattare della creazione di un terzo polo sufficientemente forte per sviluppare una politica propria. In politica, il numero due, nella specie Usa e Urss, è il numero della prossima probabile catastrofe, è il numero dei due lottatori avvinghiati tra loro fino alla fine di uno o di entrambi. In proposito, sarebbe istruttiva, anzi necessaria, la lettura dell’ammonimento di Bertrand Russell, nel 1957, cioè a ridosso della crisi dell’Ungheria, rivolto ai due “Potentissimi signori” di allora, Eisenhower e Krusciov. Il numero tre è, invece il numero dell’equilibrio dinamico in cui tutti possono essere “terzi” e il confronto politico può svolgersi non come lotta per distruggersi ma come confronto per accreditarsi gli uni rispetto gli altri. L’Europa come “terzo” era la generosa speranza, alternativa all’“equilibrio del terrore” e alla “strategia della tensione” sempre a rischio di sfuggire dal controllo e di degenerare in guerra aperta. Abbiamo per troppo tempo fatto come se “la Bomba” non esistesse e, oggi, il tabù che sembrava proteggerci si è rotto mostrandoci scenari terrificanti. L’Europa politica ha un senso solo se afferma il suo diritto di “differenziarsi”, cioè di porsi come “terzo”. Altrimenti, sono sufficienti gli ambasciatori che comunicano ai governi la volontà della potenza egemone; oppure le visite dei capi dei governi che, senza mandato, si recano a riceverne le istruzioni o a fare promesse. Riprendiamo da capo. Per poter parlare di etica politica non retoricamente occorre lavorare insieme per costruire lo spazio della differenziazione. L’Europa che non sa di essere se stessa e nemmeno ha l’orgoglio di cercare di esserlo non sarà mai un soggetto politico. E, meno che mai, lo saranno gli Stati che la compongono. La sua etica sarà quella dell’esecutore fedele, per non dire del servo, inutile per la pace».

EUROPA E USA, INTERESSI DIVERSI

L'analisi di Domenico Quirico si sviluppa sul tema lanciato dall’intervista di Carlo De Benedetti: Europa e Usa hanno interessi molto diversi su questo conflitto. Washington vorrebbe innescare la "katastrojka", una replica del 1989, ma stavolta in chiave militare. Come Chirac con l'Iraq, l'Ue deve dissuadere l'alleato.

«Prefazione. Necessaria. Porre la domanda non significa affatto cadere nella vecchia ossessione anti-americana composta di anticaglie marxiste un poco colorate di verde da una parte o di avversione da destra per la democrazia e per l'economia liberista. Nessuna fantasticheria compensatoria per fare dispetto a una Storia che non ci ha dato ragione, o smorfie di sdegno nei confronti di un modello, per carità. La domanda è: ma gli Stati Uniti hanno sempre ragione? Si può essere Occidente senza la bandiera americana e senza il rito bizantino del bacio della pantofola al presidente di turno a Washington? Senza tradire il campo delle democrazie e mescolarsi a tagliagole e mezzi tiranni? Domanda doverosa, urgente poiché la divaricazione tra la guerra degli europei e quella degli americani contro l'aggressione russa combattuta sul suolo ucraino si sta, giorno dopo giorno, allargando. L'Atlantico è più largo. A causa del conflitto che si prolunga nonostante gli incauti annunci di una vittoria ucraina ormai prossima. Divaricazione fatale e inevitabile poiché ben diversi sono i punti di partenza e gli scopi che europei ed americani si propongono. I primi settanta giorni fa e ancor più oggi si propongono un finale minimo: salvare la indipendenza della Ucraina, non quella di prima del 2014 ma quella di prima del 23 febbraio, data dell'invasione russa. Accettando quindi la spiacevole necessità di negoziare con Putin visto che sembra saldo al Cremlino nonostante i fervidi auspici di tirannicidio; e riducendo le pretese di Zelensky di fantascientifiche «revanche». Sono sottintesi che per maleodoranti cliché di astuzia politica si preferisce tacere ma che sono impliciti nell'auspicio mantrico a «negoziare sul serio».
Macron per utile suo provvede a poco a poco a tirarli fuori da sotto il tavolo, come quando svela che la garantita, quasi fatta adesione di Kiev all'Unione richiederà... decenni. Gli americani, o almeno una parte dell'Amministrazione affezionata a tiritere belliciste, invece sono passati settimana dopo settimana dal progetto di un modello Afghanistan Anni Ottanta, limare con una lunga guerriglia ucraina il regime di Putin, alla più radicale tentazione di spazzar via la potenza russa come pericolo permanente. Il cambio di regime a Mosca a questo punto non sarebbe che un dettaglio, una conseguenza inevitabile e perfino secondaria della sconfitta totale. Insomma altro che umiliazione, una seconda «katastrojka» questa volta militare e non economica e di sistema come l''89 sovietico. Secondo Washington è l'unico happy end della guerra criminale di Putin in Ucraina. Per gli europei, prudenti, questa guerra è una sciagura che bisogna tentare di esorcizzare sveltamente. Per gli americani una imperdibile occasione di riaffermare una «iperpotenza» a cui sono giustamente affezionatissimi, che molti guai ed errori hanno rimesso in discussione. Se gli europei avranno il coraggio collettivo di affermare che gli americani in Ucraina stanno sbagliando a proporre questa vittoria totale, l'Unione compirà l'atto identitario decisivo per diventare quella che ancora non è, ovvero una presenza di qualche rilievo sulla scena mondiale e non soltanto in quella delle banche centrali, dei flussi commerciali e degli indicatori di ricchezza. L'impero americano deve essere analizzato continuamente attraverso un approccio strategico-democratico , necessario alla salute di tutti. E solo l'Europa ha il privilegio di poter condurre questo controllo in condizioni di legittimità. Questo atto di dissenso esplicito viene prima di qualsiasi riorganizzazione burocratico amministrativa e militare dei meccanismi comunitari. Questa arguzia escatologica di subordinare ogni scelta all'avvento preliminare di un universo perfetto autorizza a pazientare tranquillamente fino alla fine del mondo. Non sono le regole interne che costruiscono una potenza, ma la sua capacità di distinguersi negli atti dalle altre, soprattutto quelle amiche e simili. Vedo il levarsi di sopracciglia. Ma questo è il vecchio anti-americanismo, il trucchetto per giustificare sottobanco il passaggio nelle schiere del nemico. Si scorgono sulfurei veleni un tempo pro Unione Sovietica e oggi pro Putin! E no! Questo valeva al tempo delle piazze in tumulto dei pacifisti in orgasmo contro il dispiegamento degli euromissili: allora sì che l'ossessione anti-americana equivaleva a spostarsi oggettivamente (vecchio avverbio marxista-leninista, non a caso adesso coperto di ragnatele!) nell'altro campo, l'Urss il socialismo un po' troppo reale per essere sopportabile, il terzomondismo con i missili atomici. C'era una ideologia opposta e astuta nell'arruolare utili idioti. Oggi anche spiegando agli americani che stanno sbagliando non c'è alcuna diserzione possibile, decente. Cos' è il putinismo se non esercizio di pura prevaricazione imperialista, vaneggiamento di potenza? Dov' è la ideologia neo-zarista al di la di sconclusionate menzogne manipolatorie? Il tipo di guerra da condurre in Europa, i suoi limiti, li dobbiamo scegliere noi europei, che ne conosciamo i rischi e ne paghiamo il prezzo. E questo non significa affatto capitolazione o viltà di fronte alla prevaricazione putiniana. Non è un caso che ad essere andato più avanti in questo distinguersi sia la Francia dove l'antipatia verso gli americani è antica. De Gaulle li accusava di non aver aiutato la Francia appena scoppiata la guerra, nel 1914 e poi nel 1940, attendendo per salvarla dai tedeschi che si decomponesse come potenza mondiale. Chirac ha trovato un posto nella storia in un bilancio presidenziale non certo esaltante rispondendo «no» agli Stati Uniti di Bush che gli chiedevano di scendere in campo nella grande alleanza della seconda guerra del Golfo, sventolando come motivazioni di una guerra giusta false prove preparate ad arte. Fu una saggia decisione, come dimostra ciò che seguì. Se l'Europa l'avesse imitato gli americani forse non avrebbero commesso un grave errore che ha scardinato la storia del Terzo millennio. E se l'Europa avesse chiesto a Washington di non restare vent' anni in Afghanistan sulla base di false promesse di installare una democrazia, invece di accodarsi con contingenti militari, forse l'Occidente avrebbe evitato un disastro che è scritto nella biografa di quattro presidenti americani».

BUFERA SUGLI ALPINI MOLESTATORI A RIMINI

La denuncia pubblica delle femministe di “Non Una di Meno” ha avuto un seguito anche nelle denunce formali in Questura a Rimini: al raduno nazionale degli alpini dello scorso fine settimana sono stati segnalati episodi di pesanti molestie. La cronaca di Giansandro Merli per il Manifesto.

«Il coraggio delle decine di donne che hanno raccontato le molestie subite ha ottenuto un primo effetto: infrangere l'unanime celebrazione nazionale, e spesso nazionalista, della 93ª adunata degli alpini che si è svolta a Rimini e San Marino tra il 5 e l'8 maggio. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) ha parlato di «comportamenti gravissimi». Invitando a non generalizzare ha detto che «molestie e violenze non devono mai e in nessun caso trovare giustificazioni». Il deputato Pd Matteo Orfini e il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni hanno definito quanto avvenuto «schifoso». Per Laura Boldrini: «È inaccettabile che incontri di uomini diventino occasione per dare sfogo a violenza e istinti più beceri». Di altro genere le dichiarazioni del centro-sinistra locale. La Conferenza delle donne Pd di Rimini si è voluta dissociare «da toni accusatori, tesi a incrementare un clima di polemica generalista e qualunquista, che getta un inaccettabile discredito verso un corpo dal valore riconosciuto e indiscusso». Quattro giorni dopo le prime segnalazioni di abusi e molestie anche il sindaco Jamil Sadegholvaad, sempre Pd, ha condannato questi episodi invitando a non attribuirli a tutti gli alpini. Del resto il mega evento è stato sostenuto dall'amministrazione comunale e ha creato, secondo una stima di Trademark Italia, un indotto di 168 milioni di euro. Un modello di «turismo mordi e fuggi» che Non Una Di Meno ha criticato insieme alla «dinamica da branco» che l'adunata ha portato in città. Evitando generalizzazioni, il movimento femminista respinge la retorica delle mele marce. Le segnalazioni di molestie, violenze fisiche e verbali sono salite a 160. La maggior parte per più episodi, spesso compiuti da gruppi di uomini. Ieri il giornalista di Fanpage Saverio Tommasi ha diffuso le immagini girate durante una delle notti del raduno. Lo scenario è quello di un assedio alle donne con testimonianze e scene in diretta di continui palpeggiamenti, insulti e offerte sessuali. Anche a minorenni. «Stasera devi essere tollerante» dice a una ragazza un uomo con in testa il copricapo degli alpini, quasi che le avances facciano parte del rito collettivo maschile. Interpretazione respinta dalle rappresentanze ufficiali. «Nella mia esperienza non ho mai visto gli alpini avvicinare le ragazze tanto da arrivare alla molestia sessuale», ha detto il generale degli alpini Giorgio Battisti del Comitato atlantico italiano. In realtà anche in edizioni passate ci sono state segnalazioni di comportamenti sessisti. Lo ha ricordato lo stesso presidente dell'Associazione nazionale alpini (Ana) Sebastiano Favero per quella di Trento del 2018. Favero, però, ha ribadito anche ieri che a Rimini come a Trento non ci sono state denunce formali. Invece in serata una ragazza, di 26 anni, è andata per prima in questura e almeno un'altra decina sarebbero pronte a seguirla. La difficoltà delle donne a denunciare le violenze è un fatto strutturale. Perfino nei casi più gravi. La Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio presieduta dalla senatrice Pd Valeria Valente ha rilevato che nel biennio 2017-18 solo il 15% delle donne uccise aveva denunciato l'uomo che le avrebbe ammazzate. «In un evento in cui si concentrano migliaia di uomini, militari, che consumano alcol e sostanze è ancora più difficile. Come fa una ragazzina da sola a denunciare un branco di adulti che l'hanno molestata? O una lavoratrice che rischia il posto?», dice Manila, attivista di Nudm. Il movimento femminista ha offerto assistenza legale e sostegno a tutte le donne vittime di abusi. Nella difesa a spada tratta degli alpini si è cimentata la destra. Per il cofondatore di FdI Guido Crosetto «andrebbe chiesta un'aggravante» per «quegli esseri indegni che hanno portato discredito agli alpini» e infangato un simbolo. Mentre secondo il leghista Matteo Salvini è giusto «condannare episodi di molestie o maleducazione» ma vanno evitate generalizzazioni. Una prospettiva diversa rispetto a quella espressa dopo le violenze sessiste dello scorso Capodanno in piazza Duomo a Milano. In quell'occasione aveva twittato: «In arabo "taharrush gamea" significa "molestia collettiva". Troppe aggressioni contro ragazze e donne, le ultime a Milano, per mano di stranieri che si sentono impuniti. Altro che integrazione».

Commento di Alessandro Sallusti su Libero, che offre questo titolo in prima pagina: La sinistra molesta gli alpini.

«C'è una guerra in corso, c'è una crisi economica ma "la situazione in Italia è grave ma non è seria", come scriveva a metà del secolo scorso quel genio di Ennio Flaiano in uno dei suoi fulminanti aforismi capaci di mettere a nudo più di mille discorsi la cialtronaggine della classe politica e intellettuale del Paese. Da allora praticamente nulla è cambiato, anzi probabilmente "si stava meglio quando si stava peggio" (paradosso anonimo diventato modo di dire) nel senso che in epoca pre internet le fesserie rimanevano confinate in ambiti accettabili mentre oggi dilagano ed esplodono a tempo di record. Così è per le presunte molestie che gli alpini convenuti il week end scorso a Rimini per l'annuale adunata avrebbero inflitto a ragazzotte locali. Dico presunte non per garantismo ma perché sono davvero presunte, visto che per ora c'è una sola denuncia. Un tam tam, insomma, partito probabilmente dal racconto di una ragazza messa in imbarazzo da complimenti un po' spinti di qualche penna nera su di giri che giorno dopo giorno si è ingigantito arrivando a disegnare una sorta di mega stupro di massa con almeno 150 casi di molestie. Il tutto in seguito all'isteria, e all'odio per gli uomini soprattutto se militari o ex militari, di quattro acide e frustrate femministe di sinistra in cerca di pubblicità. Ovvio che se qualche alpino ha commesso un reato dovrà risponderne in tutte le sedi, ma oggi come oggi mancano sia l'alpino che il reato. Eppure per la sinistra a Rimini gli alpini hanno commesso qualche cosa di paragonabile ai crimini di guerra di cui trattiamo da oltre due mesi. Dopo 150 anni di onorato ed eroico servizio alla Patria, il più antico corpo di montagna del mondo dovrebbe insomma essere sciolto per disonore perché forse quattro signori (vai a sapere se erano alpini o imbucati) hanno esagerato con l'alcol e con le parole. Ma per favore, care signore e signori, un po' di cautela e di rispetto - almeno tanto quanto ne avete avuto per gli immigrati che hanno stuprato davvero ragazze in piazza Duomo a Milano la notte di Capodanno- per una delle poche sane istituzioni che ci rimangono. Onore al Corpo degli Alpini in queste ore molestato dalla solita compagnia di giro di sfascisti perennemente in guerra con il loro Paese».

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