Draghi, dilemma rock
Should I Stay or Should I Go? Dall'estero Macron e la Goldman consigliano a Supermario di restare al governo. Mr B. verso il Colle? 100 euro, multa offensiva. I russi in Kazakistan
Per il titolo di uno di quei rapporti riservati che piacciono tanto agli gnomi della finanza, gli analisti di Goldman Sachs hanno preso in prestito una famosa canzone dei Clash: Should I Stay or Should I Go?. È il dilemma di Mario Draghi, che potremmo tradurre nella domanda: “Devo restare a Palazzo Chigi o trasferirmi al Quirinale?”. Formulata così la questione non è affatto amletica, anzi quasi retorica. Infatti quelli della Goldman consigliano Supermario di restare al governo. La sua uscita da palazzo Chigi infatti «scatenerebbe incertezza circa il nuovo governo e l'efficacia della sua politica», con il rischio di impatti negativi sull'utilizzo delle risorse e del Recovery Fund. Sembra pensarla allo stesso modo anche il presidente francese Emmanuel Macron, che ieri ha voluto in una conferenza stampa lodare Draghi e Mattarella: «Oggi abbiamo molta fortuna ad avere un presidente della Repubblica e un presidente del consiglio italiani cosi coraggiosi, europeisti ed amici della Francia. È una opportunità per la Francia e per tutti noi».
Che cosa farà ora il Presidente del Consiglio? Intanto ha deciso che lunedì spiegherà personalmente, in una conferenza stampa, le nuove misure anti Covid. Passaggio importante, viste le reazioni del mondo scientifico, in parte polemiche, e le violentissime critiche verso la ridicola multa di 100 euro, prevista per i trasgressori dell’obbligo vaccinale. Mentre Matteo Salvini, dopo diversi tentennamenti, ieri ha voluto rassicurare sulla lealtà della Lega nei confronti del governo. C’è poi il fronte scuola, dove presidenti di Regione e Presidi chiedono Dad e chiusure, mentre Palazzo Chigi resiste. Draghi vorrebbe ridurre anche la presenza negli stadi per almeno un paio di giornate della serie A. Vedremo che cosa accadrà, ma certo i contagi, con conseguente pressione sugli ospedali, galoppano.
In questo quadro la corsa al Quirinale è benzina sui vari focolai di crisi del sistema politico. Si potesse rimandare la fatidica data, qualcuno ci avrebbe già pensato. Ma non si può. Fra 16 giorni si vota e quindi si percepisce un certo affanno di leader e partiti. Si voterà in piena ondata pandemica e in clima di emergenza. Oggi Lorenzo Fontana vice segretario della Lega dice a Repubblica che il centro destra ha buoni candidati da proporre, anche oltre Berlusconi. Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa fa il nome di Franco Frattini.
Dall’estero: il mondo si interroga sulla repressione violenta dei moti popolari in Kazakistan. L’intervento delle forze militari russe pone serie domande sulla politica di Putin, come spiega Franco Venturini sul Corriere, mentre Anna Zafesova sulla Stampa riflette sugli interessi cinesi. Gianni Cardinale per Avvenire traccia l’agenda di papa Francesco per il 2022. Che potrebbe essere l’anno della grande riforma della Curia.
Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…
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LE PRIME PAGINE
Polemiche e commenti ancora sul decreto anti Covid. Il Corriere della Sera resta centrato sul rientro in classe e cita il Ministro Bianchi: «Le scuole restano aperte». Avvenire commenta: Lezione difficile. Quotidiano Nazionale chiosa: Scuola e stadi, siamo di nuovo nel caos. Il Manifesto ironizza con un gioco di parole mettendo una foto in prima pagina di Draghi e di Bianchi: Zelo in condotta. Il Mattino risente della polemica del Presidente della Campania: Dad, duello De Luca-governo. Il Messaggero tematizza il calcio: Stadi, il governo chiede la stretta. Mentre La Stampa sottolinea che non è solo De Luca della Campania a polemizzare con Palazzo Chigi: Scuola, scontro governo-Regioni. Per La Repubblica è una guerra: Virus, il fronte della scuola. Il Giornale è pessimista: Draghi scontenta tutti. Mentre Domani sostiene: La maggioranza si squaglia nell’infinita vigilia del Quirinale. Il Fatto è critico: “Il lockdown c’è già”. Over50, dubbi al Cts. La Verità oggi mette nel mirino il virologo che si è ammalato: Galli: M’hanno curato con gli anticorpi monoclonali. Libero è infastidito da chi fa il tifo per il virus: Tornano i gufi del lockdown. Il Sole 24 Ore sceglie un tema diverso: Banda ultralarga, debutto flop.
DRAGHI VUOLE SPIEGARE IL DECRETO
Mario Draghi sarà in campo lunedì per spiegare le ultime norme anti Covid, in una conferenza stampa ad hoc. C’è grande preoccupazione sulla tenuta dei partiti. Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.
«Da più parti gli chiedono di assumere un'iniziativa politica e, prima ancora, di rompere il silenzio sulla strategia per rallentare la corsa del virus. E Mario Draghi, dopo giorni di riflessione, ha deciso di spiegare pubblicamente l'ultimo contrastato decreto con cui l'Italia indica all'Europa la via dell'obbligo vaccinale, sia pure dai 50 anni di età. Lunedì il presidente del Consiglio si presenterà davanti ai giornalisti e risponderà ai tanti interrogativi, tecnici e politici, sollevati dal provvedimento. Sarà la prima conferenza stampa dell'anno e la prima dopo il 22 dicembre, quando il capo del governo ha alzato lo sguardo verso il Quirinale e si è definito un «nonno al servizio delle istituzioni». Da allora, la maggioranza di unità nazionale non è più la stessa. Il nervosismo nei partiti è andato crescendo e, in modo inversamente proporzionale, la voglia di governare insieme non ha fatto che calare. Fino a mercoledì, quando la Lega è arrivata a minacciare l'uscita dall'esecutivo. Comprensibile che Draghi sia preoccupato per le tensioni e forse anche deluso dall'atteggiamento di alcuni ministri. Visto il clima tutt' altro che festivo, il 5 gennaio il premier ha rinunciato a incontrare la stampa per illustrare il decreto, nonostante il (sofferto) via libera all'unanimità. La scelta di inviare davanti alle telecamere, nottetempo e in esterna, i ministri Bianchi, Brunetta e Speranza, è stata dettata dall'ora tarda e dal decreto ancora in fieri, ma è stata molto discussa, perché ha rafforzato l'immagine di una maggioranza in conclamata crisi di identità. Ieri, la decisione del cambio di passo. Alla paura di scandire in pubblico una parola di troppo, a Chigi è subentrata la convinzione che solo Draghi possa diradare le nebbia, sulla lotta al Covid e sulla vita del governo. Il presidente parlerà nel giorno in cui entrano in vigore le nuove norme, il 10 gennaio. E difenderà il decreto, che per lui «non è un compromesso politico, è una mediazione intelligente per fermare l'assalto agli ospedali e proteggere gli italiani». Se la mediazione è stata parecchio sofferta, si sappia che non è stato solo per i veti della Lega e del Movimento. Draghi è rimasto «molto sorpreso», per non dire irritato, dalla nota diffusa dal Pd prima di entrare in cabina di regia. Perché pressare il governo sull'obbligo vaccinale generalizzato, sapendo bene che la Lega sarebbe salita sulle barricate? «L'argomento non è sul tavolo», ha reagito con disappunto Draghi stoppando Franceschini e compagni. Se a volte l'ex presidente della Bce avrebbe solo voglia di rifugiarsi nel «buen retiro» di Città della Pieve, è per questo genere di veti e di trattative, che sempre più spesso si spiegano solo alla luce delle manovre per il Quirinale. Restare a Palazzo Chigi «a ogni condizione», come sembrano aspettarsi alcuni leader e molti parlamentari, è per lui una richiesta inaccettabile. «Io posso reggere solo una maggioranza larghissima», è la consapevolezza che Draghi va confidando in questi giorni ai suoi interlocutori. Non resterà ad ogni costo, non potrà restare se la maggioranza dovesse spaccarsi e restringersi sul voto del Quirinale. Se resta è per guidare una maggioranza «larga e solida». Se resta è «per governare, risolvere i problemi e uscirne a testa alta». Se invece le forze politiche pensano solo alla strettoia del Colle e poi alle future elezioni, amministrative e politiche, è chiaro, ragiona Draghi con i suoi, che «la maggioranza non è più salda». Qualcuno nell'entourage del premier va oltre e rivela il sospetto che i partiti abbiano «una gran fretta di liberarsi di questo signore». Il dilemma delle segreterie politiche non è solo l'identikit del successore di Mattarella, ma il nome di colui, o colei, che dovrà sostituire Draghi nel caso fosse eletto capo dello Stato. «Il premier sbaglia se pensa di poter scegliere il suo successore», è l'avviso che arriva da Forza Italia. Un esponente berlusconiano del governo la mette così: «A noi Franco e Cartabia non stanno bene, né potremo mai sostenere un governo Di Maio o Franceschini. Se Salvini si sfila, se ne va anche Berlusconi...». È anche da questo genere di altolà che Draghi, a volte, avrebbe voglia di fuggire».
Il Fatto raccoglie le perplessità dei membri del Cts, che prendono le distanze dalle misure scelte dal Governo. E allo stesso tempo rilancia le lamentele per una multa per i trasgressori dell’obbligo, quella di 100 euro, che sembrerebbe simbolica. Stefano Caselli.
«Questa volta i Migliori sembrano proprio non aver strappato applausi. L'affanno politico del governo Draghi in questo momento si manifesta anche in un coro di critiche al decreto (non ancora in Gazzetta Ufficiale all'ora in cui chiudiamo il giornale, dovrebbe essere pubblicato in mattinata, al più tardi) abbastanza inedito per intensità e - soprattutto - per la vicinanza all'esecutivo da cui proviene. Alcuni componenti del Comitato tecnico-scientifico - comunica l'Agi - avrebbero infatti manifestato dubbi sulla scelta di imporre l'obbligo vaccinale per gli over 50. A non convincere alcuni esponenti del Cts del ministero della Salute è l'utilizzo dell'obbligatorietà con riferimento alla variante Omicron, che presenta caratteristiche peculiari, tra cui l'elevata contagiosità, rispetto alle altre finora dominanti. "Il dibattito scientifico è stato sostituito da analisi politiche - dichiara a ilfattoquotidiano.it Angelo Miozzo, membro del Cts - le ultime decisioni sono state adottate senza la testimonianza di una riunione. Inizialmente il Cts si riuniva quasi tutti i giorni - conclude -. Ora siamo in emergenza e l'ultima riunione risale al 29 dicembre. Non serve più?". Altre bordate, poi, arrivano dalla prima linea: "La sanzione di 100 euro in caso di mancato rispetto dell'obbligo vaccinale anti-Covid per gli over 50 - sostiene Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici - non basta ed è inefficace. Ne va della credibilità dello Stato. Se dobbiamo attenderci una risposta in ragione di questa sanzione credo che non andremo da nessuna parte. Il decreto approvato - conclude - è importante perché ha un effetto educativo, ma serve ben altro". Decisamente più aspre le parole dell'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri: "Siamo assolutamente delusi dalle misure adottate dal governo - dichiara il presidente Alessandro Vergallo -, perché tardive e i contenuti sono un artificio politico di mediazione. Mettere una sanzione di 100 euro per chi non si attiene alla regola è un fallimento politico. E anche l'obbligo per i soli over 50 - prosegue - non incide sui contagi che colpiscono ogni fascia di età". "Questa multa mi fa ridere - è il commento di Renata Colombi, capo del pronto soccorso dell'Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo - qui ci sono tantissimi no vax in rianimazione e sub intensiva. Arrivano in pronto soccorso già gravissimi. Faccio fatica a mettermi nei loro panni, ma mi vogliono convincere così, facendomi pagare 100 euro? Ma a maggior ragione non mi vaccino". "Spaventateli, fate la faccia feroce - ironizza infine il microbiologo Andrea Crisanti - questo è il senso del decreto, una trovata alla Pulcinella, ormai siamo passati dalla tragedia alla commedia napoletana. È un obbligo da ridere - prosegue - uno spende di più se gli rimuovono la macchina. Un no vax dice 'ti pago e buonanotte'. Ma è soprattutto l'inutilità del provvedimento, mirato a 2,1 milioni di persone di cui 3-400 mila esenti. È come pensare che con un bicchiere d'acqua aumenti il livello di un lago". Ma le critiche arrivano anche dal consulente del Commissario all'emergenza generale Figliuolo, Guido Rasi ("È un compromesso, il virus non distingue tra 49 e 50 anni") e da Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Speranza ("Sanzione inadeguata, non è un deterrente")».
IL BRACCIO DI FERRO SULLA SCUOLA
«Scuole chiuse in Campania». Le Regioni, in ordine sparso, vanno per conto loro sulla riapertura delle scuole. Il governo impugnerà la scelta. La cronaca di Valentina Santarpia per il Corriere.
«La scuola in presenza è e deve restare una priorità non solo per il governo, ma per tutto il Paese»: mentre il sottosegretario all'Istruzione Rossano Sasso scriveva questo post su Facebook, ieri pomeriggio, arrivavano le prime ordinanze per le chiusure delle scuole a macchia di leopardo. Un terreno di scontro tra governo e Regioni a rischio altissimo, visto che solo in zona rossa gli enti locali possono «derogare alle disposizioni dell'esecutivo» in tema di focolai e diffusione del virus. La prima fuga in avanti è stata quella del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che da giorni sostiene la necessità di rinviare a fine mese l'inizio delle lezioni in presenza. Forte anche dell'appello lanciato giovedì da duemila presidi, De Luca ha annunciato nella sua diretta social del venerdì che dopodomani in Campania, nonostante la zona bianca, non riapriranno elementari e medie, perché «non ci sono le condizioni minime di sicurezza». Ha quindi chiamato in causa il governo responsabile, a suo dire, di non aver preso «decisioni serie ed efficaci» ma di aver «perso tre mesi senza fare niente». Qualche ora dopo è arrivata la replica: da Palazzo Chigi hanno fatto sapere di essere pronti a impugnare la decisione attraverso un passaggio in Consiglio dei ministri. Preoccupati i presidi: «Lunedì sarà come andare alle Termopili», ha detto Matteo Loria, presidente lombardo dell'associazione nazionale. Per Loria, «se non siamo passati alla dad per scelta, ci arriveremo per necessità...». Anche la Fnomceo (Federazione nazionale dei medici) suggerisce di posticipare il rientro di 15 giorni per recuperare poi a giugno. Ma il ministro della Salute Roberto Speranza ha ribadito: «Lezioni in presenza in sicurezza. Il governo ha scelto di tutelare il più possibile la scuola, come presidio fondamentale per la nostra comunità». E per oggi il ministero dell'Istruzione ha convocato i sindacati per informarli sulla nuova gestione dei casi Covid. Intanto la situazione è tesa anche in Sicilia dove diversi Comuni, incluso quello di Messina, hanno deciso il rinvio della riapertura. Il governatore Nello Musumeci, messo alle strette dai sindaci, ha scritto al premier Mario Draghi «rappresentando la gravità delle ultime ore» e anticipando la possibilità di «valutare ulteriori provvedimenti». Anche il Presidente del Veneto, Luca Zaia, si è detto preoccupato: «L'unica novità rispetto alle scuole è il caos. Non siamo in grado di far fronte a questa fase di testing perché tutte le regioni sono allo stremo e una giornata con 18 mila contagiati prevederebbe 18 mila telefonate di contact tracing che moltiplicate per almeno una decina di contatti stretti significa 180 mila persone da contattare in un giorno... Impossibile». Dalla Puglia nessuno stop ufficiale, ma a Copertino (Lecce) non si tornerà lunedì a causa di un focolaio di contagi che sarebbe partito da due feste di auguri tra studenti. Scuole chiuse fino al 15 gennaio anche a Orsara di Puglia. Avrebbe rinviato di sette giorni almeno alle elementari pure il governatore della Toscana, Eugenio Giani: «Se i presidi, che hanno la visione nelle scuole, si esprimono così hanno i loro motivi per farlo. Ma faremo squadra col governo». A Potenza le scuole riapriranno mercoledì, dopo lo screening degli studenti. A Termoli (Campobasso), si resta in Dad fino al 15. Ad Asti rischio rinvio di una settimana.».
GRILLO ATTACCA L’OBBLIGO DECISO (ANCHE) DAI SUOI
Sono "Diktat orwelliani". Beppe Grillo critica pesantemente l'obbligo di vaccino, deciso dal governo all’unanimità. Il post del fondatore aumenta disagi e maldipancia all’interno dei 5 Stelle, che già nei giorni scorsi hanno tenuto un comportamento ondivago. Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori, evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente», scrive Beppe Grillo. E poi, c'è l'errore di essersi «limitati a puntare tutto sulle vaccinazioni, quando è ormai evidente che questa sola strategia non possa bastare». In un post sul suo blog dal titolo "Onere o obbligo?" il fondatore del M5S affonda l'obbligo vaccinale e più in generale la strategia adottata anche dal governo italiano - del quale il suo partito fa parte - per contrastare il Covid-19 . La riflessione di Grillo fa discutere («sulla scienza è un pericolo pubblico», replica Matteo Renzi; «parole munizioni per i no vax», secondo la forzista Licia Ronzulli) ed entra nel pieno dei disagi del Movimento che, mercoledì scorso, è uscito dal Consiglio dei ministri con le ossa rotte, metaforicamente parlando. Per dire, martedì in riunione congiunta coi parlamentari Giuseppe Conte aveva spiegato che «appare paradossale ragionare di obbligo vaccinale quando anche coloro che volontariamente si rendono disponibili per la terza dose incontrano difficoltà a farla in tempi brevi». Posizione condivisa dalla maggioranza. Poi però una volta seduti al tavolo con Mario Draghi, è passato sia il rafforzamento del Green Pass sia l'obbligo per gli over 50. Allora come parziale "risarcimento" il M5S chiedeva nero su bianco misure per implementare lo smart working, che però non sono finite nel testo del decreto legge, firmato ieri sera da Sergio Mattarella. Tre giorni fa il capodelegazione del Movimento, il ministro all'Agricoltura Stefano Patuanelli, non era presente; ne ha fatto le veci la collega alle Politiche giovanili Fabiana Dadone, che ieri ha dovuto spiegare ai capigruppo di Camera e Senato e ai membri del partito nelle commissioni permanenti come sono effettivamente andate le cose, perché la sensazione di una nuova débâcle era (e rimane) abbastanza diffusa. «Abbiamo mantenuto la nostra idea, cioè che lo smart working sia nel pubblico che nel privato non può essere un tabù e che si deve fare il massimo per evitare inutili spostamenti », ha spiegato la ministra, rivendicando politicamente ad esempio la circolare firmata dai ministri Andrea Orlando e Renato Brunetta, la quale però serve più che altro per sensibilizzare le amministrazioni pubbliche e i datori di lavoro privati a usare pienamente tutti gli schemi di lavoro agile. Insomma, nulla di vincolante. Ma in questo momento di caos generale è la comunicazione che conta, far passare che si è ottenuto un risultato. «Mica possiamo strappare col governo proprio adesso, e poi su questo...», è stata la riflessione di un deputato nell'incontro chiarificatore. Perché poi, altra questione, c'è chi invece concorda in pieno con la linea del rigore sull'obbligo, com' è il caso del ministro ai Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà. Altri ancora invece promettono di non piegarsi: «Si tratta di una questione di coscienza, in aula voterò no», ragiona il senatore Mauro Coltorti, professore universitario. Difficile dire se il dissenso si trasformerà in espulsione, ma data la delicatezza del momento con le votazioni sul Quirinale alle porte è molto probabile che non verrà pretesa la disciplina assoluta. Magie della politica e della propaganda, se Grillo nel bocciare l'obbligo ha di fatto lodato l'approccio della Cina basato sui contagi zero, a destra Giorgia Meloni contesta sempre l'obbligo perché «non intendo vivere sotto un modello para-cinese». Aggiunge la leader di Fratelli d'Italia: «Siamo al paradosso: o firmi il consenso informato assumendoti la responsabilità di una vaccinazione che di fatto ti viene imposta, oppure tolgono il pane dai denti a te e ai tuoi figli. Questo non è obbligo: è estorsione di Stato».
SALLUSTI ATTACCA L’AMPIO PARTITO DEI FORZA VIRUS
Nel suo editoriale su Libero Alessandro Sallusti se la prende con tutti coloro che sembrano fare il tifo per la diffusione della pandemia:
«Tutti a discutere di libertà e virus, a spaccare il capello in quattro sulle incongruenze più o meno formali dei decreti che si succedono di settimana in settimana ma la cosa importante è che avanti così si avvicina il momento di parlare non più di forma ma di sostanza, cioè di dover ancora chiudere in tutto o in parte. Molti, troppi italiani - i non vaccinati - sono come i passeggeri del Titanic, danzano e brindano mentre l'iceberg si avvicina diritto a prua. E siccome le scialuppe di salvataggio - i soldi per compensare e ripagare eventuali nuove chiusure - non sono sufficienti per tutti pensiamo che all'occorrenza, speriamo mai, quelle scialuppe debbano mettere in salvo prima i vaccinati, gli altri se la vedano con le loro paranoie, marcino pure su Roma (lo hanno annunciato ieri) per assaltare i palazzi del potere di una dittatura che esiste solo nella loro fantasia. È incredibile ma c'è quasi un compiacimento nel vedere che le cose non stanno prendendo una bella piega, che si parla di non riaprire le scuole e ridurre alcuni servizi pubblici. Noi al tanto peggio tanto meglio non ci stiamo. E lo ripetiamo per l'ennesima volta: il Paese deve rimanere aperto per i vaccinati, imprenditori, lavoratori o studenti che siano. Il vaccinato può anche perdere la scommessa di non infettarsi, ma ogni posto occupato da un non vaccinato in un reparto d'ospedale, cioè la maggioranza, sono un posto e una attenzione ingiustamente sottratti a malati di altre patologie, è una umiliazione per tutto il personale sanitario come ieri in uno sfogo ci ha ricordato Martina Benedetti, la giovane infermiera dell'ospedale di Massa diventata celebre per aver pubblicato, durante la prima drammatica ondata di Covid, la foto del suo volto segnato dalla mascherina dopo un duro turno di lavoro. E a chi sui social l'ha insultata con frasi tipo "trovati un altro lavoro, sei stanca", diciamo: cretino, a dare retta a quelli come te nessuno si stancherebbe mai perché finirebbe diritto o a fare l'elemosina per la strada e a tirare a campare di sussidi oppure in un eterno riposo"».
GOVERNO. MA SALVINI CHE COSA VUOLE FARE?
Nel retroscena di Cesare Zapperi sul Corriere della Sera si cercano di capire le intenzioni della Lega e di Matteo Salvini a proposito del governo: “Serve un cambio di marcia ma avanti con questo premier”, dice. Ma la posizione non è chiara.
«Un giorno il caro bollette, un altro il ritorno al nucleare, l'altro ancora la politica dell'immigrazione. Matteo Salvini mette sempre nuovi temi sul tavolo e invoca dal governo «un cambio di marcia» che a qualcuno fa maliziosamente sospettare una strategia di uscita dall'esecutivo post voto sul Quirinale, ma allo stesso tempo fa diffondere una nota per smentire desideri di rottura. Il segretario del Carroccio, si fa sapere al fine di evitare «fraintendimenti o ricostruzioni fallaci», non «sta progettando alcuna uscita dal governo: la Lega intende rimanerci, con Mario Draghi a Palazzo Chigi, per completare il lavoro». Di più, si coglie anche l'occasione per ricordare che il partito ha «una radicata tradizione di governo: amministra da decenni centinaia di Comuni e Regioni importanti» e, per soprammercato, quando Salvini «è stato vicepremier e ministro la Lega ha saputo raddoppiare i consensi nel giro di un anno». Una nota che ha quasi il sapore di una escusatio non petita , resa necessaria dopo lo scontro in Consiglio dei ministri sull'introduzione dell'obbligo vaccinale per gli over 50 anni. Mercoledì si è consumato uno strappo e non è stato fatto nulla per nasconderlo. Ufficialmente Salvini rimane convinto che Draghi debba continuare nel suo impegno a Palazzo Chigi, lasciando sgombro il terreno su cui si giocherà la partita del Quirinale. E tuttavia, l'impiego della formula «cambio di marcia» e l'accento posto su temi come il nucleare e l'immigrazione non rendono sereno il rapporto con i partner della maggioranza (e infatti è un fiorire di precisazioni, polemiche, botta e risposta che rendono manifesta la fibrillazione). A riprova di un rapporto di reciproca attenzione che si è andato consolidando nelle ultime settimane, l'unico che non si scompone per le uscite salviniane è Matteo Renzi che derubrica le scintille di questi giorni come «normali discussioni interne». Le prese di posizione della Lega, rimarca il leader di Italia viva, «non preoccupano» perché il governo, anche grazie all'apporto del suo partito «è più forte di un anno fa». A surriscaldare il clima è chiaramente l'avvicinarsi dell'appuntamento con il voto per il Quirinale. Il destino di Draghi condiziona le mosse di tutti, a partire da quelle di Salvini che non a caso spinge perché il premier rimanga al suo posto. Approvata la manovra di Bilancio, congedate le festività, la prossima settimana i partiti entreranno nel vivo della partita che avrà il suo fischio d'inizio lunedì 24 alle 15. Si parte martedì con la segreteria del Pd, poi mercoledì toccherà alla riunione di Coraggio Italia (da vedere se farà passi avanti il progetto di una federazione di Centro con i renziani). Giovedì è in programma la direzione dei democratici e, infine, venerdì sarà la volta del vertice del centrodestra. C'è chi si aspetta l'annuncio della candidatura ufficiale di Silvio Berlusconi. Ma è più probabile che rimanga in sospeso fino all'ultimo».
Filippo Ceccarelli analizza per Repubblica il comportamento del leader della Lega. È un “tarantolato”, sempre in movimento.
«Sta sopra, sta sotto, si mette in mostra, si nasconde. Vede Renzi, placa Berlusconi, fa i dispetti a Meloni, i capricci con Giorgetti e poi scompare; quindi prova a sentire Letta, rincontra Draghi, si tiene buono Di Maio, nelle ultime 36 ore lo si è visto anche insieme a Conte. Cosa vuole Salvini? Boh, ma certo l'accompagna la cadenza di una musica ritmata e continua, tamburello, violino, organetto: inconfondibile. Di inquietudini, incertezze, alterazioni e isterie appare satura la vita pubblica nella sua ormai conclamata inconcludenza a 200mila contagi e 15 giorni dalle elezioni presidenziali. Sennonché la fatica di capire, l'impotenza e l'estraneità rispetto a ciò che accade spinge a guardare là dove mai, fino a qualche anno fa, si sarebbe immaginato. “La Taranta è un ragno mitico in sé innocuo che morde simbolicamente e dà col suo veleno turbamenti fisici e dell'anima” si legge in apertura di un breve e straordinario documentario realizzato dalla Rai del 1961 con la consulenza del grande antropologo Ernesto De Martino, fresco autore de La terra del rimorso, e il testi del Premio Nobel Salvatore Quasimodo. Per la verità, da quanto si vede nelle riprese in Salento, le vittime del tarantismo sono tutte donne. Ma nulla, in teoria, vieta che nel novero dei tarantati o tarantolati si possano comprendere, sessant'anni dopo, maschi adulti in trance abbandonica pre quirinalizia. Per cui Salvini non aveva smesso di chiedere un tavolo nazionale o cabina di regia sul caro bollette - “Questa è una rapina” l'amichevole spunto – che già ieri ne ha richiesti l'uno e l'altra sul nucleare. Così un giorno raccoglie pazientemente tutti i leader e un altro giorno, al culmine dell'insofferenza, lascia capire che sta per sfilarsi dalla maggioranza; il lunedì vuole fare il king-maker, il martedì pensa di sfasciare tutto, il mercoledì fa i capricci con il centrodestra, il giovedì non lo sa nemmeno lui cosa fare, dove guardare o andare, ma certo non rimane fermo; è come se l'incolpevole ragnone (Lycosa Tarantula) lo possedesse dandogli la super carica mentre l'ideale colonna sonora della pizzica ne vivifica gli sforzi vani e inconsulti con un sovrappiù di esibizionismo. Sarebbe bello che Salvini non si offendesse o facesse la vittima. Più che una malattia, nell'accezione dalemiana, il tarantismo è una sindrome culturale cui ci si rivolge, pure con qualche sgomento, quando il troppo non solo è troppo, ma lo è da troppo tempo. Non che gli altri protagonisti della scena politica si presentino poi in condizioni psico-motorie molto migliori, nel senso di più sorvegliate, assennate e fruttuose. Però mai come nel caso del Capitano la danza scomposta, o ciclo coreutico terapeutico, si presenta in forma di revival, giacché “il male del cattivo passato torna e continua il suo tormento” insiste la premessa del documentario, essendo “il morso, come il rimorso, aspro da sottomettere”. Già comunista e poi indipendentista padano, ex sovranista patriottico transitato senza il minimo intralcio dentro l'europeismo tecnocratico, dall'orecchino alla collezione di rosari attraverso la Nutella, il mitra e i peluche Salvini manifesta una spiccata concezione iper cinetica della politica; e a De Martino sarebbe certamente interessato il vecchio video in cui lo si vedeva ballare un brano di Rovazzi: “Ho un problema nella testa, funziona a metà/ Ogni tanto parte un suono che fa...”, e a questo punto un rumore elettronico e disturbante si impossessava del suo corpo, bloccandolo in uno stato di possessione, occhi chiusi, testa rovesciata all'indietro, braccia tese, tronco percorso da stroboscopico tremolio, tipico del tarantolato. Era il pre-Papeete, pietra miliare della più trionfale dissipazione. Nel frattempo sulla Bestia si possono ammirare: lui con maglietta “Va' a ciapà i ratt”, scoiattolino, infermiera che dona il rene, droga cucita nei jeans dei carcerati, Pulp fiction, un paio di brindisi, bimbo sgozzato, gemelle che partoriscono lo stesso giorno, cane liberato dal balcone, talebani, uomo ragno all'ospedale pediatrico, marocchino accoltellatore, “calza piena di dolcezze per i bimbi buoni” e “piace a Francesca Cipriani Official”».
QUIRINALE 1. INCOGNITA OMICRON PER BERLUSCONI
Il Cavaliere è sicuro di avere solide chance per diventare Capo dello Stato. La vera incognita per lui, secondo Francesco Verderami sul Corriere, sarebbe la variante Omicron.
«Nella corsa al Quirinale, Berlusconi non teme le variabili politiche. E più dei franchi tiratori oggi è preoccupato per la variante Omicron. Il rischio è che il Covid scombini i conti al Cavaliere, che vanifichi gli sforzi fatti in questi mesi per costruire il consenso necessario a scalare il Colle, mandando a monte il suo progetto. Perché il piano elaborato dai fedelissimi per controllare i voti segreti e impedire il tradimento di chi vorrebbe bruciare Berlusconi alla quarta «chiama», non può nulla davanti all'avanzata del virus. L'incognita che tiene in ansia il leader di Forza Italia non è genericamente legata alla percentuale dei grandi elettori che saranno infetti nei giorni in cui inizieranno le votazioni: il problema è che non è possibile prevedere quanti di quei malati faranno parte della lista su cui fa affidamento per vincere. Già i numeri - ammesso che ci siano - sarebbero risicati. Così diventerebbe una lotteria. In queste condizioni cosa potrà mai assicurare il Cavaliere agli alleati la prossima settimana? Martedì si riuniranno i questori di Camera e Senato per stabilire le misure necessarie a garantire il voto in sicurezza, e la questione degli assenti - come spiega il democratico Raciti - «ha valenza costituzionale»: «Il fatto che un grande elettore non possa esercitare il proprio mandato, potrebbe diventare un elemento di delegittimazione politica per il futuro capo dello Stato». Più prosaicamente il Cavaliere bada ai suoi interessi, e quanti lavorano alla sua candidatura si stanno adoperando per proporre una soluzione logistica. Così c'è chi pensa a un seggio per gli ammalati fuori da Montecitorio: un hub elettorale dove far arrivare gli infetti e farli esprimere dall'auto evitando qualsiasi contatto esterno. A parte le perplessità giuridiche legate a una votazione lontano dall'Aula della Camera, il punto è che in base alle norme anti-virus una persona affetta da Covid non può lasciare il luogo dove sta svolgendo la quarantena. Uno strappo alla legge - se mai fosse consentito - potrebbe produrre nella pubblica opinione un «effetto Djokovic» sul Quirinale. Così il match Berlusconi-Omicron diventa una sorta di challenge, il preliminare da vincere per poter accedere alla finale. La fatidica quarta votazione. «Un (bip) di problema», imprecava ieri sera uno degli sherpa del Cavaliere: «Ora si fa tutto più complicato». Lo era già. E ancor di più lo diverrebbe se il fondatore del centrodestra decidesse davvero di candidarsi. Perché a fronte di questa eventualità il Nazareno si sta adoperando con gli alleati grillini per disertare insieme il voto e impedire a Berlusconi di pescare consensi nelle loro file. «Noi lo faremmo comunque», avvisa un esponente della segreteria del Pd: «E se qualcuno dovesse disattendere la direttiva del partito, farebbe meglio a iscriversi subito a Forza Italia». Tanto basta per capire che il Cavaliere deve aver fatto breccia non solo nel gruppo Misto e nel Movimento, ma anche tra i grandi elettori dem. E che il suo «sogno», accolto inizialmente come una boutade, si è trasformato per il Pd in un incubo. La precauzione viene derubricata a banale «forma di ulteriore tutela», siccome Letta è sicuro che l'ex premier verrebbe comunque affondato dal centrodestra nel segreto dell'urna. In realtà è una mossa politica: perché sarebbe imbarazzante se si scoprisse che alcuni compagni hanno votato per Berlusconi. E siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, la «direttiva» sta provocando malumori molto forti nei gruppi parlamentari dem, che giudicano l'idea «un'intollerabile segno di sfiducia». Ecco le variabili che il Cavaliere si prepara a fronteggiare, comprese le candidature che sarebbero pronti a contrapporgli. Commentandole, alcuni giorni fa, il fondatore del centrodestra ha lasciato di stucco i suoi interlocutori: «Mi hanno detto di Amato». Pausa teatrale. «Ah, se penso al povero Bettino... Come potrebbero votarlo?». Nemmeno un cenno al fatto che, sette anni fa, era stato lui a proporre Amato per il Quirinale in tandem con D'Alema. Allora però Berlusconi non puntava al Colle. Oggi sì. E la cura messa nei dettagli ha spiazzato avversari e alleati. Il guaio è che le variabili politiche si possono calcolare, la variante Omicron no. E nonostante si fidi dei suoi conti, il Cavaliere non può sapere quanti voti il virus potrebbe depennargli dalla lista».
QUIRINALE 2. I PIANI B DEL CENTRO DESTRA
Lorenzo Fontana intervistato da Repubblica ammette che oltre a Silvio Berlusconi “unico candidato”, ci potrebbero essere altre soluzioni.
«Lorenzo Fontana, vicesegretario della Lega, cosa volete veramente per il Quirinale? «Dopo trent' anni di presidenti di centrosinistra pensiamo sia venuto il momento di eleggere una personalità di centrodestra. Per farlo è necessario che il nostro campo sia compatto e che allacci un dialogo con le altre forze per provare a creare delle convergenze». L'unico vostro candidato, Silvio Berlusconi, avrà i numeri? «Il Cavaliere è un candidato importante e godrà del nostro sostegno nelle prime votazioni. Partiamo da una base di 450 grandi elettori. Sono tanti, tuttavia non bastano per eleggerlo». Dove pensate di pescarli i 55 voti che mancano? «Lo verificheremo nel gioco parlamentare, strada facendo, stando bene attenti ad evitare che gli accada ciò che avvenne con Prodi nel 2013». Le tensioni che si manifestano tra voi e Forza Italia al governo si scaricheranno contro il Cavaliere nel segreto dell'urna? «Non deve accadere. Portare al Quirinale una figura di centrodestra deve prevalere su eventuali dissidi. È un appuntamento importante che non possiamo fallire». E se Berlusconi non ce la facesse? «Ci sono nel Paese figure autorevoli, uomini e donne di centrodestra, che potrebbero trovare i consensi necessari anche delle altre forze politiche. È utile, in questo senso, il lavoro che sta facendo Salvini, che ha allestito un tavolo con gli altri leader». Cosa intende per altre forze politiche? «Io partirei da Italia Viva e dal Movimento 5Stelle». Perché? «Italia Viva è il gruppo che più si avvicina al centrodestra, dopo il gruppo Misto. E l'M5S perché è il gruppo di maggioranza relativa». Giuseppe Conte le sembra in grado di controllare i gruppi parlamentari? «Non mi permetto di entrare in casa d'altri. Ma penso che con questa crescita di contagi non possiamo permetterci di tirarla per le lunghe». Questa personalità può essere Mario Draghi? «Secondo me no». Come mai? «In questo momento di emergenza sanitaria serve che il governo sia operativo. Preferirei che rimanesse lì dov' è». Salvini non dà l'impressione di sostenerlo più. «Mi pare di sì invece. Poi si discute, com' è giusto che sia all'interno di un esecutivo. E alla fine si trova sempre un accordo». Ma Salvini ha preso ad attaccarlo pubblicamente. «Non sul piano personale. Il problema non è Draghi, che questo anno ha fatto delle cose importanti». È vero che la Lega andrà all'opposizione se Draghi sarà eletto al Quirinale? «Difficile dirlo».
Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa, nella stessa chiave del candidato del centro destra, lancia Franco Frattini:
«Come una pietra che rotola, il Paese scivola verso una soluzione di emergenza anche per il Quirinale. È questo che nelle ultime ore si sono detti molti leader di partito e ministri. Fatta eccezione per Matteo Salvini, che si ostina a non scoprire le sue carte. E per Silvio Berlusconi, che ripete a chi va a trovarlo: «Dopo tutto quello che ho subito in questo Paese, il minimo è che io diventi presidente», sono in troppi ormai a pensare che con un numero di contagi così alto ci sono solo due scenari da porre a salvaguardia del sistema: il primo, è la permanenza di Sergio Mattarella al Colle. La truppa di parlamentari che lo propone è sempre più folta, va oltre i senatori 5 stelle e i giovani turchi del Pd. La via, strettissima, sarebbe che a chiederlo per via dell’emergenza fosse tutto l’arco parlamentare o quasi. Ma Giorgia Meloni ha fatto sapere anche in queste ore che – nel caso di Fratelli d’Italia – questo non avverrà mai. Ed è pressoché convinta che sulla stessa strada sia pronto a seguirla Matteo Salvini. L’altro scenario è che al Colle ci vada proprio Mario Draghi. Nonostante Goldman Sachs consigli che resti dov’è. Nonostante l’avvertimento della Lega: «Siamo al governo finché c’è lui», il timore di perdere in un colpo solo sia il punto di riferimento dell’attuale capo dello Stato che quello del premier potrebbe portare alla soluzione che nessuno in queste ore sostiene, se non a taccuini serrati. Con una subordinata ripetuta nelle riunioni ristrettissime, lontane dalle paure dei parlamentari semplici: la conseguenza potrebbe essere un governo elettorale, che faccia l’indispensabile nell’emergenza e conduca al voto in autunno. Berlusconi a parte, che stando ai racconti del Transatlantico sta chiamando i grandi elettori uno a uno per ingraziarseli, l’ostacolo è appunto la Lega tendenza Salvini. Dice Claudio Borghi, deputato fedelissimo al segretario: «Ma che senso avrebbe, se davvero volessimo liberarci di Draghi, mandarlo al Quirinale? Magari per fare premier Franceschini? Il centrodestra ha per la prima volta la maggioranza relativa dei grandi elettori per il Colle e dovrebbe lavorare per gli altri? Fosse il Pd al nostro posto, avrebbe già imposto un nome suo». L’idea che vive sia in un pezzo di Lega che di Fratelli d’Italia, con l’ambizione di contagiare Forza Italia – sempre che Berlusconi faccia un passo indietro al «penultimo momento utile», come prevede chi lo conosce – è quella di trovare un nome di centrodestra abbastanza alto da allargare il consenso. Una carta coperta che va in questa direzione in realtà c’è. Se ne è parlato molto in riunioni riservate: si chiama Franco Frattini. L’ex ministro degli Esteri, della Funzione pubblica, ex commissario e vicepresidente della Commissione europea, ora presidente aggiunto del Consiglio di Stato, numero due di Filippo Patroni Griffi che è stato eletto alla Consulta e gli lascerà il posto nei prossimi giorni, ha lavorato nell’ombra, ma molto assiduamente negli ultimi mesi. Presente a inaugurazioni, convegni, seminari. Uomo di relazioni perfetto per il momento: ha cominciato con i socialisti, si definisce allievo di Giuliano Amato che era il suo professore di Diritto costituzionale all’università, ma è poi stato con Forza Italia e sempre al governo con Silvio Berlusconi (anche se in una recente lunga intervista a Tv 2000 ha detto di non aver mai avuto tessere di partito, anche se ha ricordato quanto fosse importante stare lontano dai fascisti negli anni ’70 al liceo Giulio Cesare di Roma, quello di Antonello Venditti). Con l’ex Cavaliere conserva ottimi rapporti. Così come con Meloni, Giorgetti e pezzi di centrosinistra. «È un nome che alla quinta votazione potrebbe avere più di una possibilità», prevede un ministro. Ma fin lì tocca arrivare e i rivali, anche nel centrodestra, sono tanti: Letizia Moratti (ai tempi della Commissione europea Berlusconi voleva mandare lei e non Frattini a Bruxelles), l’ex presidente del Senato Marcello Pera, perfino Gianni Letta, sebbene per ora impegnato nell’eterno ruolo di pontiere. Frattini ha dalla sua un lavoro di cucitura di mondi durato anni. Pur avendo sempre fatto parte di governi di centrodestra, al Consiglio di Stato si è fatto notare per sentenze che – ad esempio – hanno dato ragione ai “passeurs” che aiutano gli immigrati al confine e sono perseguiti, ingiustamente, dalla legge. Da quando Di Maio è alla Farnesina, lo ha incontrato almeno ogni due mesi (il suo ruolo nell’intervento italiano in Iraq è evidentemente considerato acqua passata). A sentirlo evocare, Borghi dice: «Magari!». E Guido Crosetto, fuori dal Parlamento, ma sempre vicino al centrodestra, racconta: «È un primo della classe. Qualunque cosa faccia, la fa bene. È stato il più giovane consigliere di Stato di sempre. Scia ed è maestro di sci. Non sapeva l’inglese al suo primo incarico agli Esteri e lo ha imparato in sei mesi». Insomma, a sentire la destra, un prodigio. A sentire la sinistra, un nome più che presentabile (con Amato ha ancora un ottimo rapporto). Non fosse per quel piccolo particolare che Berlusconi non intende mollare e che – in caso molli – non è detto lo faccia per un esponente di centrodestra, sarebbe una strategia quasi pronta. Ma di strategie, in questo momento, se ne vedono poche. Si parla di scivolamenti, di situazioni che rischiano di imporsi per la tragicità del momento: votare il capo dello Stato con centinaia di migliaia di contagi al giorno e il sistema economico di nuovo in pericolo rischia di sovvertire qualsiasi equilibrio i leader possano tentare di trovare adesso. Meloni lo ha detto qualche giorno fa ai suoi con una battuta, che dà l’idea del clima: «In un Parlamento come questo, dove nessuno controlla nessuno, rischiamo di finire come nel film di Bisio: quello in cui votano uno che si chiama Giuseppe Garibaldi. E un perfetto sconosciuto diventa capo dello Stato».
Ma quello del centro destra è un esercizio da equilibristi, secondo Bruno Vespa sul Quotidiano Nazionale:
«Si dice che Mario Draghi non sia più quello di una volta: l'ambizione quirinalizia lo avrebbe reso più docile e più debole dinanzi alle richieste dei partiti. A nostro giudizio, questo non è vero. L'obbligo vaccinale deciso dal Consiglio dei ministri del 5 gennaio per gli ultra cinquantenni è un ragionevole compromesso tra chi (Pd, Speranza, Forza Italia, forse Draghi stesso) lo avrebbe esteso ai quarantenni e chi, come la Lega, l'avrebbe voluto sopra i sessant' anni. Ogni provvedimento che restringa la libertà individuale è per la sua natura autoritario. Ma qui si tratta di mettere su un piatto della bilancia i diritti individuali e sull'altro quelli collettivi. Omicron spaventa perché molto invasiva, ma i trivaccinati (salvo eccezioni) quasi non l'avvertono e c'è la ragionevole aspettativa che il combinato tra incremento delle punture e miglioramento delle temperature possa rendere già all'inizio della primavera il panorama largamente migliore dell'attuale. Ma adesso è giusto essere più severi di altri Paesi perché stiamo pagando un prezzo in vite umane quasi pari alle vittime civili della seconda guerra mondiale. Non c'è dubbio che il Movimento 5 Stelle e soprattutto la Lega siano i partiti in maggiore sofferenza. Il primo perché Conte fatica ad esercitare la sua leadership, il secondo perché è molto alto il prezzo pagato da Salvini alla nascita (provvidenziale) del governo di unità nazionale. In questi giorni Salvini parla poco e si muove molto. Prende atto della stanchezza degli stessi ministri leghisti a mediazioni decisive, ma elettoralmente poco paganti e guarda insieme al Quirinale e ai tredici mesi che separeranno l'elezione del nuovo capo dello Stato dalla scadenza ordinaria della legislatura. Se si vuole che Draghi venga eletto al primo turno, è indispensabile che si garantisca un anno di stipendio alle centinaia di parlamentari che non saranno confermati. Difficilmente la Lega farà parte di un nuovo governo, che potrebbe essere presieduto da un uomo del Pd o da Di Maio. A quel punto il cerino sarà nelle mani di Forza Italia: attratta da un lato dalla maggioranza 'Ursula' in cui garantirebbe alla sinistra una copertura centrista, ma timorosa che lasciare da soli all'opposizione Salvini e Meloni indebolisca la coalizione di centrodestra alle elezioni del 2023 e non giovi elettoralmente a chi sta dentro rispetto a chi sta fuori. Si aggiunga la solidarietà promessa dalla coalizione a Silvio Berlusconi e si capirà che al confronto di Salvini gli equilibristi da circo fanno un gioco da ragazzi».
MACRON E GOLDMAN SACHS, CONSIGLI DALL’ESTERO
Il Presidente francese Macron dice che è una grande fortuna avere Draghi e Mattarella in Italia. Mentre Goldman Sachs teme l’incertezza se il premier lascia. Francesca Basso per il Corriere.
«Non li nomina per nome perché non ce n'è bisogno. «Abbiamo molta fortuna ad avere un presidente della Repubblica e un presidente del Consiglio così coraggiosi, europeisti e amici della Francia. È una opportunità per la Francia e per tutti noi». Il presidente francese, Emmanuel Macron, risponde a una domanda sul rischio di instabilità nei prossimi mesi in Italia durante la conferenza stampa congiunta a Parigi con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in occasione dell'avvio della presidenza francese di turno del Consiglio dell'Ue. «Non ho l'abitudine di commentare le situazioni di politica nei Paesi vicini e amici», è la premessa di Macron che si è soffermato sulla rinnovata amicizia con l'Italia suggellata dal Trattato del Quirinale. Da Parigi non trapela preoccupazione per la possibile instabilità che potrebbe crearsi nel nostro Paese per l'eventuale di Mario Draghi al Quirinale al termine del settennato di Sergio Mattarella e la scelta del suo successore a Palazzo Chigi. Nemmeno quando viene posto il problema del proseguimento dell'esecuzione del Pnrr. In Europa c'è chi vede il passaggio di Draghi al Colle come una garanzia di equilibrio ed europeismo per i prossimi 7 anni, con la consapevolezza che il suo incarico di premier è comunque a termine. È chiaro però che l'Italia è osservata speciale: il successo del maxi piano di aiuti Next Generation Eu da oltre 800 miliardi, raccolti emettendo debito comune, dipende in gran parte dalla capacità del nostro Paese, primo beneficiario, a rispettare gli impegni presi con l'Ue. E il Pnrr non lascia molto margine di manovra, gli obiettivi da raggiungere e i tempi sono chiari e andranno rispettati dai futuri governi. Tuttavia c'è chi manifesta dubbi come Goldman Sachs che, in un report dedicato all'Italia intitolato «Draghi: should I stay or should I go», ammette che l'elezione a presidente della Repubblica «rafforzerebbe l'ancoraggio dell'Italia e della sua politica all'Europa» ma allo stesso tempo «scatenerebbe incertezza circa il nuovo governo e l'efficacia della sua politica» a causa «degli interessi divergenti tra i partiti in Parlamento e dei tempi lunghi che tipicamente servono per formare un nuovo governo». Macron, che durante la presidenza francese intende promuovere la «sovranità europea» in tutti gli ambiti (dalla difesa comune all'autonomia tecnologica), ha spiegato che la Francia moltiplicherà le iniziative con l'Italia, come il documento congiunto sulla riforma del Patto di stabilità, e «moltiplicheremo ogni volta che sarà possibile le iniziative a tre» con la Germania. Il presidente francese ha ironizzato sul «triangolo del desiderio», riconoscendo che «le relazioni a tre sono sempre un po' complicate». «Ma io la voglio rendere semplice - ha detto -: penso che l'amicizia che abbiamo con la Germania non toglie nulla all'amicizia che abbiamo con l'Italia e viceversa. E più possiamo funzionare a tre per l'Europa e più saremo utili».
KAZAKISTAN, IPOTECA RUSSA (E CINESE)
Le raccomandazioni dall’estero sul nostro Paese introducono la pagina degli Esteri. Oggi dominata dalla tragica situazione del Kazakistan, dove la protesta popolare è stata repressa nel sangue. La cronaca di Francesco Battistini.
«È arrivato Sedov, il proconsole di Putin. L'eroe di tutte le Russie, dai tempi feroci della Cecenia passando per la campagna di Siria, dalla blitzkrieg in Crimea - dove riuscì a non sparare un colpo - al Donbass, dove da otto anni spara fingendo di non esserci. Il generalissimo Andrey Serdyukov, che i suoi chiamano soltanto Sedov, è l'uomo al comando della «missione di pace» in Kazakistan. Sbarca i 2.500 corpi d'élite dagl'Ilyushin e dagli Antonov, i soli aerei autorizzati a usare l'aeroporto di Almaty, e accoglie i 500 bielorussi, i 150 kirghizi, gli armeni, i tagiki e tutta la piccola Nato putiniana che si chiama Csto e in trent' anni, dalla caduta dell'Urss, è alla sua prima vera operazione. L'ordine per tutto il mese di gennaio è di pattugliare i ministeri, i palazzi dei ricchi di regime e la base spaziale russa di Bajkonur, possibilmente senza tirare un colpo, ma non sarà facile: la rivoluzione monta e i poliziotti kazaki, qua e là, se la squagliano. La fuga è cominciata. Prima i jet degli oligarchi, poi (si dice) quello di Nursultan Nazarbayev con tutta la famiglia al seguito, la moglie Sara e le tre figlie Dariga, Dinara e Aliya, le onnipotenti zarine con mariti e nipoti. A far la guardia al malloppo sarebbe rimasto solo Bolat, il fratello del sultano, ma anche qui non si sa per quanto: il presidente-travicello Tokayev prende ogni giorno di più le distanze dal clan e, dopo aver fatto fuori il Leader della Nazione dal Consiglio di sicurezza, accusandolo di non aver previsto le rivolte, ora comanda alla tv di non nominarlo proprio più. Nazarbayev aveva ribattezzato Astana col suo nome, Nursultan? Tokayev dispone che d'ora in poi, non potendo tornare subito alla vecchia denominazione, si dica semplicemente «la capitale». È dai dettagli che si vede il crollo. «Sparate a vista e senza preavviso», va in video a dire Tokayev: «Ci sono 20mila delinquenti che hanno attaccato i palazzi pubblici di Almaty. Non negoziamo con questa gente, è assurdo che dall'estero ce lo chiedano. Verrà creata una squadra speciale per dare la caccia a questi terroristi. Chi non s' arrende, sarà eliminato». Detto, fatto: si segnalano sparatorie furiose ad Atyrau, a Bolat, lontano dalle grandi città. Per ora, le spalle di Tokayev sono coperte dai russi. Ma anche gli altri attori dell'area non scherzano: il presidente cinese Xi Jinping elogia le misure prese dal presidente kazako, ovvero le stragi di piazza, e il turco Erdogan promette sostegno imperituro. La Turchia fu la prima a riconoscere il Kazakistan indipendente, in trent' anni ha scambiato una quarantina di visite di stato. E finché il bilancio ufficiale parla «solo» di 44 morti, quando tutti pensano che siano almeno dieci volte tanto, e in gran parte musulmani turcofoni, massì: perché togliere l'amicizia? ».
Anna Zafesova sulla Stampa cerca di interpretare i cambiamenti nell’ex Repubblica sovietica.
«Come si chiama la capitale del Kazakhstan? Domanda molto più a trabocchetto di quello che sembra, non solo perché in due secoli ha cambiato nome tante volte - Akmola, Zelinograd, Astana - da confondere chiunque, ma perché da ieri la Tv, riaccesa dopo due giorni di black out, ha evitato di menzionarla se non come «capitale dello Stato». Segnale più inquietante e imbarazzante del "Lago dei cigni" che, trasmesso fuori dal palinsesto alla Tv sovietica, stava a significare la morte di un leader, o un golpe. Dal 2019, la capitale del Paese asiatico porta infatti il nome di Nursultan, "governante luminoso", in onore del suo primo presidente e padre fondatore, Nazarbayev. Un cambio di nome che non era stato gradito da parecchi, simbolo di un culto della personalità di un autocrate che dopo 30 anni di governo si dimetteva dalla presidenza solo per rimanere a sorvegliare il suo delfino Kasym-Zhomart Tokyaev. Ma soltanto tre anni dopo questo tributo allo Yelbasi, "leader della nazione", Nazarbayev diventa all'improvviso innominabile, e non si sa nemmeno dove si trovi. Visto in pubblico l'ultima volta alla fine di dicembre, a Pietroburgo, al vertice dei leader post sovietici convocato da Vladimir Putin, da allora l'81enne leader ha mantenuto un assordante silenzio, mentre il suo Paese esplodeva in una rivolta sanguinosa. Voci ad Almaty e Nursultan (che forse non si chiama più così) lo danno per morto, e anzi spiegano che la protesta è stata innescata proprio dalla sua dipartita, tenuta segreta dai clan al potere per spartirsi il bottino. Varie gole profonde l'hanno dato ricoverato in una clinica a Mosca, fuggito in una base militare in Tagikistan, emigrato a Dubai e riparato a Zurigo (città dove la famiglia dell'ex presidente possiede svariati immobili di lusso, così come a Londra e in altre destinazioni prestigiose). L'unico che dice di avergli parlato, ieri, è Aleksandr Lukashenko, non proprio la fonte più affidabile. Ma se esistono dubbi sulla salute fisica dello Yelbasi, le sue condizioni politiche appaiono pessime. Tre giorni fa il suo delfino Tokayev gli ha strappato la carica di capo dell'apparato di sicurezza della repubblica - che l'astuto Yelbasi si era riservato a vita - per subentrargli, ma da ieri il canale televisivo Khabar lo accusa di fatto di essere un «traditore dello Stato». Per ironia della sorte, Khabar è stato fondato dalla potente figlia di Nazarbyaev, Dariga, ed era cruciale nella propaganda del regime di suo padre. Ora trasmette le dichiarazioni di un ex consigliere del presidente su una "congiura" ordita dal Comitato per la sicurezza nazionale - il potentissimo erede del Kgb sovietico - contro Tokaev, con tanto di "campi di addestramento di terroristi nelle montagne" di cui l'intelligence avrebbe nascosto l'esistenza. La sicurezza era appannaggio di Nazarbyaev anche dopo che aveva smesso di essere presidente, e il Comitato era guidato dal suo fedelissimo Karim Massimov e da suo nipote Samat Abish, entrambi licenziati da Tokyayev tre giorni fa e sostituiti dai suoi uomini. I media kazaki ieri hanno annunciato l'arresto di Abish, successivamente smentito, ma la stagione della caccia alla famiglia non solo politica dell'ex presidente appare ormai aperta. Uno scenario che spiega tanti interrogativi dei giorni scorsi, in primo luogo quello sul perché Tokayev ha infranto la regola di tutti i dittatori postsovietici di non chiamare in soccorso i russi: non si fidava degli apparati di sicurezza ancora fedeli al suo ex mentore. Si capisce anche perché all'inizio era sembrato andare incontro alla protesta, invece di aprire il fuoco come aveva fatto Nazarbayev: in molte piazze, richieste economiche e sociali erano state affiancate dallo slogan «shal ket», cacciate il vecchio, e lo scontento può essere stato cavalcato come pretesto per disfarsi dell'anziano leader (e dei suoi oligarchi). E si capisce perché Xi Jinping ha applaudito a quello che sembra sempre più un golpe di Tokayev, ritenuto molto filocinese rispetto a un Nazarbaev attento ad avere amici a Est come a Ovest. Una neutralità che una Cina sempre più assertiva non vuole più accettare, commenta Aleksandr Baunov di Carnegie Moscow. Trovandosi in singolare sintonia con Putin, che nel frattempo sta sfidando Washington per riavere le sue sfere d'influenza ex sovietiche».
Franco Venturini per il Corriere della Sera analizza invece la linea tenuta da Vladimir Putin.
«Nemmeno nel più bello dei suoi sogni Vladimir Putin avrebbe potuto immaginare un Occidente distratto e confuso come quello di oggi. L'America è lacerata dalle sue contrapposizioni interne e ha un Presidente che non è riuscito a risalire la china dopo l'onta di Kabul. La Germania ha un nuovo governo che deve ancora definire sul campo i suoi orientamenti. La Francia è immersa in una campagna elettorale per l'Eliseo che si annuncia rischiosa anche per Macron. L'Italia, lo sappiamo bene, è alla vigilia di scelte istituzionali difficili. La Gran Bretagna paga cara la Brexit. L'Europa di Bruxelles è divisa più che mai. L'Occidente, insomma, attraversa una di quelle fasi di incertezza e di debolezza che inevitabilmente si ripercuotono sulle scelte strategiche, o sulle risposte alle scelte strategiche altrui. Non è escluso, anzi è probabile, che Putin abbia voluto sfruttare questo stato di cose quando ha inviato più di centomila uomini al confine con l'Ucraina, esigendo da Joe Biden, che per lui è l'unico Occidente che conta, un virtuale smantellamento della Nato in tutta l'Europa orientale. Soltanto così, avverte il Cremlino, rimettendo in discussione per la prima volta dopo il crollo dell'Urss l'architettura della sicurezza europea, e sottoscrivendo di fatto una nuova versione delle intese di Yalta del febbraio '45, le divisioni russe torneranno in caserma e l'Ucraina sarà risparmiata. Putin ha dimostrato altre volte, in Georgia e poi in Crimea, di saper usare lo strumento militare per ottenere vantaggi territoriali o politici. E se i suoi rapporti con l'Occidente sono peggiorati, la colpa è delle sue scelte sempre più autoritarie contro oppositori e difensori dei diritti civili. Anche a costo di contraddirsi, mettendo fuori legge le testimonianze storiche di Memorial proprio mentre tenta di usare la storia a suo favore. Oppure facendo intervenire il patto di mutua alleanza tra sei repubbliche ex-sovietiche per porre fine alla violentissima rivolta in Kazakistan. Dove l'ordine di sparare ha già fatto molte decine di morti, e questo mentre sotto accusa viene messa la Nato. Al negoziato Usa-Russia che si apre domani a Ginevra, i delegati americani faranno bene a non abbassare la guardia. Ma sarebbe un errore, loro e nostro, credere che Putin voglia soltanto sfruttare una congiuntura internazionale favorevole. Putin, certo, è un nazionalista. La missione che si è dato è quella di restituire alla Russia, sconfitta in quanto erede dell'Urss, almeno una parte della sua passata grandezza. Ma il dopo-guerra fredda è andato in direzione opposta. Uno dopo l'altro dieci Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia o dell'Urss sono stati ammessi nella Nato. Una alleanza che per noi è difensiva, ma che per i russi è un organismo che schiera armamenti offensivi sempre più vicini ai confini della patria. Nella distanza tra queste due concezioni della Nato risiede forse l'ostacolo più difficile da superare nel negoziato russo-americano. Putin e Biden hanno entrambi le loro «linee rosse». Il capo del Cremlino afferma che un ingresso dell'Ucraina (e della Georgia) nella Alleanza completerebbe l'accerchiamento della Russia e renderebbe impossibile la sua difesa in caso di attacco missilistico. A corredo di questa esigenza centrale vi è poi l'inaccettabile volontà di ricreare una zona d'influenza russa in Europa dell'est, allontanandone la Nato. Biden risponde che gli ucraini devono essere liberi di decidere, e minaccia Putin di sanzioni economiche e finanziarie mai viste finora. Può esistere un compromesso che salvi l'Europa da una guerra ulteriore dopo quella che già si trascina nel Donbass, e che eviti conseguenze irreparabili tra le due potenze nucleari più armate del mondo? Forse sì, ma a una condizione. Che le richieste troppo arroganti di Putin vengano rispedite al mittente. E che nel contempo venga riconosciuto il diritto della Russia a difendere la sua sicurezza e l'Ucraina non entri nella Nato fino a nuovo ordine. Non accadde la stessa cosa a ruoli invertiti, malgrado le molte diversità tra le due situazioni, quando l'Urss provò a piazzare i suoi missili a Cuba nel 1962? Il compromesso non sarebbe una nuova Yalta. Sarebbe una conferma del documento Nato emesso al vertice di Bucarest del 2008, con qualche tacita garanzia. Gli europei devono sperare che le armi russe tacciano, mentre gli Usa hanno già detto che non difenderanno militarmente l'Ucraina. La partita che comincia si giocherà sul filo del rasoio. Ma intanto l'assenza dell'Europa in un negoziato che discute della sicurezza europea non può che risultare avvilente. L'ha voluta Putin, ma Biden l'ha accettata».
PER L’ASSALTO DEL 6 GENNAIO PAGA SOLO LO SCIAMANO
Un anno dopo l’attacco a Capitol Hill, la giustizia americana appare molto clemente con i quasi 800 assalitori riconosciuti. Massimo Gaggi per il Corriere.
«Alla fine a pagare con una qualche severità per l'assalto di un anno fa al Campidoglio di Washington è, per ora, solo Jake Angeli (vero nome Jacob Chansley) lo sciamano dei QAnon: l'irruzione nelle Aule parlamentari e la celebrità planetaria guadagnata grazie al suo suggestivo abbigliamento gli è costata 41 mesi di carcere. Per il resto, dei 733 americani arrestati per l'assalto al Congresso (170 dei quali rei confessi) solo poco più di 70 sono stati fin qui processati. Le condanne a pene detentive sono state una trentina (durata media 45 giorni). Solo sette le pene detentive superiori a un anno e tutte (salvo il caso di Angeli, condannato per resistenza alla forza pubblica) comminate per violenze contro i poliziotti. La sentenza più dura (5 anni e 3 mesi) l'ha avuta Robert Palmer che ha ammesso di aver colpito gli agenti che difendevano il palazzo con l'asta di una bandiera, con un estintore e con tavole di legno. Sulla Fox , sulle altre reti televisive e sui social network della destra schierata con Donald Trump, i protagonisti dell'assalto al Congresso, inizialmente dipinti come criminali, forse addirittura infiltrati della sinistra radicale Antifa, mese dopo mese sono stati trasformati in patrioti. E quelli finiti dietro le sbarre ora vengono venerati come prigionieri politici. La minaccia più grave mai subita dalla democrazia americana, l'attacco al palazzo del Campidoglio difeso da 140 agenti, un'irruzione costata cinque vite umane (ma sarebbe andata molto peggio se deputati e senatori dei due partiti non fossero riusciti a fuggire nei sotterranei) ora viene derubricata dai repubblicani a manifestazione di rabbia di cittadini esasperati, convinti che davvero quella di Biden sia stata una «elezione rubata». Così a destra l'aver partecipato alla marcia sul Congresso promossa dallo stesso Trump diventa una medaglia da esibire, addirittura credenziali da spendere davanti agli elettori. Il sito Politico ha individuato almeno 57 partecipanti a quell'assedio (non incriminati per essere entrati illegalmente nella sede del Parlamento) che hanno già partecipato a elezioni nei Parlamenti statali o in altri organismi pubblici nel 2021 o che quest' anno si candideranno ad alte cariche: ce ne sono già 24 che puntano a seggi nel Congresso di Washington e 5 aspiranti governatori di Stati importanti, come Doug Mastriano in Pennsylvania e Ryan Kelley in Michigan. Reazione troppo dura di uno Stato che, scampato il pericolo, si vendica facendo prigionieri politici anche tra attivisti entrati in parlamento senza intenzioni violente come dicono tanti a destra? O baldanza favorita dalla mano troppo leggera dei tribunali nel punire i rivoltosi come sostengono i progressisti che condannano anche Biden per una reazione del governo non abbastanza energica? Beryl Howell, chief justice di Washington, la donna che è capo dei magistrati della Procura distrettuale della capitale, ha considerato schizofrenico l'atteggiamento del ministero della Giustizia e quello dei giudici: hanno definito gravissimo quanto accaduto il 6 gennaio di un anno fa, ma poi, non solo le pene fin qui comminate sono molto blande, ma gran parte degli imputati sono stati lasciati a piede libero in attesa del processo, a differenza di quanto accade per altri reati penali meno gravi. L'85% degli arrestati e incriminati di Capitol Hill è stato subito rilasciato rispetto al 42% medio dei reati penali in genere. C'è chi, anche a sinistra, pensa che sia meglio così: convinto che calcare troppo la mano potrebbe portare a reazioni ancor più violente e che una crisi di credibilità della politica non si cura col carcere. Ma per i più il rischio è quello di diffondere una sensazione di impunità: Joseph Hackett, il miliziano degli Oath Keeper che ha guidato uno degli assalti è stato rilasciato quando la moglie ha promesso al giudice di farlo rigare dritto, bloccando i suoi istinti estremisti. Ma la signora ha dimenticato di informare il magistrato di essere titolare di un podcast politico nel quale descrive Joseph come un perseguitato politico. Mentre Yevgeniya e Kristina Malimon (madre e figlia), organizzatrici di parate di motoscafi trumpiani in Oregon, hanno evitato il carcere anche grazie al loro avvocato: uno di quelli che ha difeso The Donald durante la procedura di impeachment».
TIGRAI, NUOVI ATTACCHI
Nuovi attacchi delle forze militari nella regione del nord Etiopia. È stato un Natale di sangue: droni e aiuti negati hanno fatto strage. Paolo Lambruschi per Avvenire
«Un bombardamento di droni sul campo Onu di profughi eritrei di Mai Aini in Tigrai ha ucciso tre persone, tra cui due bambini, il 6 gennaio. L'uccisione di due piccoli profughi inermi alla vigilia del Natale ortodosso è l'ultima barbarie del conflitto nel nord dell'Etiopia avviato dal governo centrale 14 mesi fa. La conferma è dall'Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi. Mai Aini è vicino alla città di Sciré, colpita giovedì dai droni di Addis Abeba. Secondo alcune Ong negli ultimi tre mesi le bombe dei piccoli killer volanti forniti al governo federale da Emirati Arabi, Cina e Turchia hanno provocato almeno 143 morti e 243 feriti. Il premier Abiy nel discorso natalizio alla nazione ha aperto giovedì a colloqui di pace mentre continua la strage degli innocenti. Da Macallè giungono le urla nel silenzio dei medici dell'ospedale Ayder, il principale del Tigrai con 500 posti letto. Da giugno non ricevono più farmaci e strumenti. A ottobre avevano denunciato ad Avvenire la gravissima situazione provocata dal blocco degli aiuti. «Ora è una catastrofe umanitaria - ripete al telefono dal capoluogo tigrino il dottor Mohamed, del quale non diamo le generalità per motivi di sicurezza - il 90% delle strutture ospedaliere non funziona più, vengono tutti qui. Le comunicazioni sono interrotte, siamo senza medicinali, laviamo garze e guanti per riutilizzarli. Vediamo impotenti le madri morire di parto per mancanza di disinfettanti, donne e bambini uccisi da carenza di ossigeno e sangue, i diabetici non sopravvivere senza insulina». Mancano anche medicine anticancro e cibo terapeutico per i bambini sotto i 5 anni malnutriti, il 40% dei piccoli ricoverati. «Stilare certificati di morte è la nostra principale attività », hanno dichiarato i sanitari in un rapporto inviato il 4 gennaio alle agenzie umanitarie nel quale denunciano che 12 mesi fa la struttura disponeva dell'82% dei farmaci essenziali, oggi calati al 17,5. Secondo l'Onu, dovrebbero entrare in Tigrai 100 camion al giorno di aiuti per 4,5 milioni di persone cui serve tutto. In sei mesi ha superato i controlli federali il 12%, da un mese tutto si è fermato. La mancanza di elettricità rende inservibili i macchinari. Il report racconta le tragedie esemplari di due bambine. Una, malnutrita, era arrivata da Abi Adi con polmonite e problemi renali. L'ospedale non ha potuto salvarla con la dialisi per esaurimento dei liquidi endovenosi. Un'altra, otto anni, ferita alla testa nel bombardamento della sua abitazione, è stata ricoverata il 12 dicembre. I medici hanno cercato di arrestare l'emorragia a mani nude, ma non c'era sangue per la trasfusione. È morta in braccio alla mamma. L'ultimo allarme di questo Natale insanguinato in Etiopia lo ha lanciato ieri Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale Onu. Le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, ha avvertito, rischiano di sospendere le operazioni in Tigrai «se non si garantirà molto presto la consegna di rifornimenti, denaro e carburante».
POLITICI INCRIMINATI NELLA TUNISIA DEL DOPO GOLPE
19 politici tunisini sono stati incriminati per le elezioni di tre anni fa. Matteo Garavoglia per il Manifesto.
«In un anno cruciale per la Tunisia che si prepara a vivere un profondo cambiamento istituzionale, il 2022 ha già riservato il primo grande colpo di scena. Il 5 gennaio, verso sera, l'agenzia di stampa nazionale Tap ha chiuso la giornata lavorativa dei tunisini con una notizia accolta con soddisfazione da più parti: 19 personalità politiche di primissimo piano sono state deferite al Tribunale di prima istanza di Tunisi per crimini elettorali risalenti alle consultazioni popolari del 2019. Si tratta di ex candidati alle presidenziali e alle legislative che hanno segnato il percorso di transizione democratica negli ultimi dieci anni. Notizia che era nell'aria da tempo e che nasce da un rapporto della Corte dei conti di due anni fa. Ciò non ha impedito alla popolazione di prendere positivamente l'apertura ufficiale di un processo. La classe politica nata dopo la Rivoluzione della dignità e della libertà del 2011 è stata sfiduciata da tempo. La speranza tiepidamente nascosta è di vedere tradotti un giorno in prigione i colpevoli dei reati di violazione di silenzio elettorale, pubblicità politica e illegale via social relativi agli articoli 57, 69, 154 e 155 della legge n°2014-16 sulle elezioni e i referendum. Non sarà così. «La pubblicità politica e la violazione del silenzio elettorale sono punite con ammende che variano dai 3 ai 20mila dinari (da mille a 7mila euro circa, ndr)», ha detto Néjib Ktari, presidente della Corte dei conti. Quello che rimane di una vicenda prettamente finanziaria è l'impatto della notizia, un vero e proprio scossone politico. Davanti ai giudici dovrebbero comparire figure come Rached Ghannouchi, leader del partito di formazione islamica Ennahda e uno dei protagonisti assoluti della scena politica post 2011; Nabil Karoui, magnate tunisino arrivato al ballottaggio alle presidenziali del 2019; Moncef Marzouki, primo presidente della Repubblica democraticamente eletto nel 2011 e oggi condannato a quattro anni di carcere in absentia per cospirazione contro lo Stato; Hamma Hammami, terzo alle presidenziali del 2019 e uno dei leader della sinistra tunisina; Youssef Chahed ed Elyes Fakhfakh, ex primi ministri. Questo potrebbe avere degli effetti diretti sui fragili equilibri istituzionali su cui si regge la Tunisia in questo momento. Dopo il colpo di mano del presidente della Repubblica Kais Saied il 25 luglio scorso con cui ha congelato il parlamento, sciolto il governo e dimissionato di fatto i deputati sulla scia di una pesante crisi economica e politica (e giocando sulla sfiducia generalizzata dei tunisini), il paese nel 2022 è chiamato a due importanti appuntamenti: il primo il 25 luglio prossimo con un nuovo referendum costituzionale, il secondo a dicembre con le elezioni anticipate. A oggi non è chiaro se le personalità coinvolte, nel caso dovessero risultare colpevoli, potrebbero perdere il diritto di candidarsi. Lo scenario è in continuo mutamento e Saied non è nuovo a sorprese. Grazie al decreto presidenziale n. 2021-117 del 22 settembre 2021 con cui di fatto si è autoconsegnato i pieni poteri, da qui a undici mesi tutto potrebbe cambiare, inclusa la partecipazione alle prossime elezioni. «Non ho commesso nessun crimine elettorale e sfido Saied a togliersi l'immunità per rispondere delle informazioni su di lui all'interno del rapporto della Corte dei conti», la reazione di Hamma Hammami. Chi ha già perso è Ennahda. Dal colpo di forza di Saied il partito islamico guidato da Ghannouchi vive uno dei momenti più bui della sua storia recente. L'ultimo tassello di una crisi interna, a cui vanno aggiunti l'incendio alla sede del partito a Tunisi il 10 dicembre scorso e l'arresto dell'ex ministro della Giustizia Noureddine Bhiri, uno dei più vicini a Ghannouchi. «Si temeva un atto terroristico che mettesse a repentaglio la sicurezza del paese. Era necessario reagire», la spiegazione del ministro dell'Interno Taoufik Charfeddine. Arrestato il 31 dicembre, Bhiri è stato ricoverato in ospedale due giorni dopo e ha intrapreso uno sciopero della fame. Le sue condizioni sarebbero critiche».
L’AGENDA DI PAPA FRANCESCO
Gianni Cardinale su Avvenire passa in rassegna appuntamenti, visite e e impegni di Papa Francesco per il 2022. È l’occasione per fare il punto sul suo pontificato.
«Nonostante le ombre della pandemia continuino ad aleggiare, il 2022 si presenta ricco di appuntamenti per papa Francesco, che ha appena compiuto 85 anni portati con un rinnovato vigore dopo l'operazione subita lo scorso anno. Alcuni già fissati, altri in corso di definizione. Nei prossimi giorni il Pontefice, come di consueto, celebrerà i Battesimi nella Cappella Sistina (domani) e incontrerà il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (lunedì). Domenica 27 febbraio sarà a Firenze per l'incontro dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo promosso dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. In precedenza, il 17 febbraio, terrà il discorso introduttivo al Simposio internazionale di tre giorni "Per una teologia fondamentale del sacerdozio" organizzato dalla Congregazione per i vescovi. Francesco non farà mancare la sua presenza al decimo Incontro Mondiale delle famiglie che si terrà a Roma dal 22 al 26 giugno. Sarà poi lui a presiedere, in Urbe, il rito di canonizzazione di Charles de Foucauld e di altri sei beati, fissato per il 15 maggio, e quello di beatificazione di papa Giovanni Paolo I, programmato per il 4 settembre. Il Pontefice inoltre seguirà con attenzione l'evolversi del Cammino sinodale, con il passaggio dalla fase diocesana a quella continentale (ad agosto è fissato il termine ultimo per la consegna delle sintesi da parte delle Conferenze episcopali, cui seguirà la compilazione del primo Instru-mentum laboris ad opera della Segreteria generale). Questi sono gli appuntamenti già resi pubblici. A cui si possono aggiungere quelli in cantiere, riguardanti la riforma della Curia, i viaggi apostolici, le nomine in Curia e nella Chiesa italiana. Sembra essere in dirittura di arrivo l'attesa Costituzione apostolica "Praedicate Evangelium' che ridisegnerà la struttura del governo "centrale della Chiesa cattolica. Tra le novità previste e già annunciate da Francesco la nascita di un Dicastero per l'evangelizzazione che unisca Propaganda Fide e il Consiglio per la nuova evangelizzazione, nonché l'accorpamento della Congregazione per l'educazione con il Consiglio per la cultura. Una prima bozza vedeva anche la creazione di un Dicastero per il servizio della carità e l'istituzione di un'Area per la Diaconia della giustizia di cui farebbero parte i tribunali della Curia. Intanto è corposo il numero di capidicastero che hanno superato (come i cardinali Ladaria, Sandri, Ouellet, Versaldi, Piacenza, Ravasi, nonché l'arciprete liberiano Rylko) o che quest' anno si accingono a superare (Braz de Aviz, Czerny, Farrell, Semeraro) l'età pensionabile di 75 anni. Francesco comunque tende a mantenere in carica i suoi collaboratori più fidati fino alla soglia degli 80 anni. Età che in questo 2022 viene superata da dieci porporati, il che farà scendere a 110 il numero degli elettori. Quindi nel corso dell'anno potrebbe essere convocato un Concistoro per la creazione di una decina di nuovi cardinali, o forse più (il tetto di 120 stabilito e rispettato da Paolo VI è stato più volte superato dai suoi successori, Francesco compreso). Per quanto riguarda i nomi non si possono fare previsioni, papa Bergoglio infatti ha rotto - anche se non del tutto con la tradizione delle cosiddette "sedi cardinalizie". Nella Curia Romana ci sono comunque tre ecclesiastici in incarichi che prevedono la porpora: l'inglese Roche (Culto divino), il coreano You Heung-sik (Clero) e lo spagnolo Vergez Alzaga (Governatorato). Nell'ambito della diplomazia pontificia ci sono poi una ventina quasi di nunziature che attendono un nuovo capo missione. O perché vacanti (come quelle in Australia, Bosnia, Bulgaria, Congo, Giordania, Messico, Paesi Bassi, Panama, Rwanda, Slovacchia, Trinidad, Unione Europea, Ungheria, Venezuela), o perché il titolare ha superato i 75 anni (Bangladesh, Siria, Stati Uniti, e, dal prossimo 3 febbraio, Italia). Per quanto riguarda i viaggi apostolici, ancora non c'è alcun annuncio ufficiale. Tante le ipotesi, non tutte realizzabili in un anno su cui oltretutto incombe sempre l'incognita Covid. Papa Francesco in una intervista all'agenzia Telam ha detto comunque di avere in programma di visitare la Repubblica democratica del Congo e l'Ungheria e di voler recuperare il viaggio annunciato per il 2020 in Indonesia, Papua Nuova Guinea e Timor Est. Rimane sospesa ma facilmente recuperabile la visita a Malta già fissata ma poi annullata per il 31 maggio 2020, domenica di Pentecoste (che quest' anno cade il 5 giugno). Mentre rimane il desiderio del Papa di recarsi in Libano e in Sud Sudan (quest' ultimo viaggio sarebbe associato a quello in Congo e a tal proposito ci sarebbe già una ipotesi di data: i primi di luglio). Senza contare che il presidente indiano ha finalmente invitato il Papa, il quale ha dato poi la sua disponibilità a visitare il Canada nel contesto della questione indigena legata alle cosiddette scuole residenziali (ma prima dovrà esserci l'incontro a Roma con le associazione dei nativi, in programma prima di Natale ma rinviata causa Covid). Il blog Il Sismografo ha riferito che al termine dell'udienza generale del 15 dicembre il Papa ha espresso all'arciabate di Pannonhalma in Ungheria il suo desiderio e la sua intenzione di recarsi lì, probabilmente alla fine del 2022. Proprio in questa storica abazia, ha raccontato il cardinale Re, nel 1997 era in programma un incontro, storico, tra Giovanni Paolo II e il patriarca di Mosca Alessio, poi sfumato per l'opposizione del Santo Sinodo russo. Questo può far pensare che proprio lì si possa svolgere il secondo summit tra Francesco e il patriarca Kirill che si sono già incontrati a Cuba nel 2016. Come dichiarato dal metropolita Hilarion, 'ministro degli esteri' del patriarcato, dopo un udienza con il Papa, un nuovo incontro è in cantiere per dopo Pasqua, in "territorio neutro" come fu L'Avana, cioè non in Italia né in Russia. Pannonhalma potrebbe essere la location giusta. Per quanto riguardo l'Italia papa Francesco dovrà nominare un nuovo presidente della Cei (il cardinale Bassetti termina il suo quinquennio il 24 maggio e compie 80 anni il 7 aprile) dopo che l'Assemblea dei vescovi avrà votato una terna di ordinari da sottoporgli. Nel corso dell'anno poi il Pontefice potrà provvedere ad un cospicuo numero di provviste ecclesiastiche. Ci saranno, tra l'altro, le nomine di nuovi pastori a Reggio Emilia, Torino, Catania, Pesaro, Perugia. Nel corso dell'anno poi compiranno 75 anni quelli di 16 diocesi (tra cui Arezzo-Cortona- San Sepolcro, Firenze, Verona, Viterbo, Vicenza, Brindisi, Rimini, Trieste). Da segnalare infine che a novembre, dopo le elezioni politiche di midterm dell'8, ci sarà la votazione dei nuovi vertici della Conferenza episcopale statunitense nel corso dell'Assemblea fissata per il 14-17. Mentre ad ottobre scadrà l'accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi tra Cina e Vaticano stipulato il 22 settembre 2018 e rinnovato per un ulteriore biennio nel 2020. Un Accordo, ha scritto l'autorevole rivista statunitense America, dai frutti al momento «inferiori » rispetto a quelli «sperati » dalla Santa Sede. Ma che ha visto comunque la nomina concordata di nuovi vescovi a Hanzhong, Jining, Qingdao, Hongdong, Pingliang, Hankou/Wuhan. E il riconoscimento da parte governativa di vescovi 'non ufficiali' a Nanyang, Fuzhou, Fengxiang, Shouzhou, Ningbo».
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