La Versione di Banfi

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Draghi dipende dal patto

alessandrobanfi.substack.com

Draghi dipende dal patto

Il governo è appeso alle trattative con sindacati e imprenditori. Conte verso l'astensione, lasciando i ministri. Nel Donbass l'ultima trincea. Putin e Biden in Medio Oriente. Zuppi a Rimini

Alessandro Banfi
Jul 13, 2022
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Draghi dipende dal patto

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È il titolo geniale del Manifesto di stamattina (“Divergenze parallele”) che induce a pensare che comunque finisca questa crisi di governo, sarà un insuccesso. I casi infatti sono due: o davvero Mario Draghi proseguirà la sua esperienza di governo. E “Conte deciderà per l'astensione ma senza ritirare i ministri”, come scrive oggi Il Fatto. Oppure ci sarà una rottura e si andrà al voto in autunno. Nel primo caso, che oggi appare il più probabile, sarà comunque arduo mantenere efficacia e compattezza ad un governo destinato ad essere in balia dei malumori e delle divisioni dei partiti (come nota oggi Romano Prodi nell’intervista ad Avvenire). Appunto un governo di divergenze. Nel secondo caso, la campagna elettorale comincerà subito, ancor prima di avere la data stabilita per le elezioni anticipate. Certo, c’è il fattore Quirinale: negli ultimi anni è stato Sergio Mattarella a svolgere una funzione di responsabilità ed equilibrio nelle più diverse e accidentate circostanze. Non a caso Draghi, in conferenza stampa, dopo l’accenno al rifiuto degli ultimatum, ha consigliato ai cronisti di rivolgersi al Capo dello Stato.

La soluzione verso cui Mattarella ha spinto il premier è quella del patto sociale con sindacati e imprenditori. Le difficoltà economiche sono molto serie (e lo saranno ancora più nei prossimi mesi) e se davvero si arrivasse ad un risultato concreto su questo terreno, ci sarebbe un motivo solido per proseguire nell’azione di governo. Il primo incontro ieri a Palazzo Chigi non ha destato grandi entusiasmi, ma può essere un inizio. Oggi il premier vede la Confindustria. Da questa trattativa dipende il destino dell’esecutivo.

La guerra prosegue e le notizie dal campo bellico raccontano la crudele fase finale della conquista del Donbass da parte dei russi (anche oggi bel reportage di Francesca Mannocchi). Oggi parla all’Avvenire il sindaco di Kiev che ha accolto i “pacificatori” italiani del MEAN. Pacificatori di ritorno in queste ore nel nostro Paese. Il sindaco dice che ora attende Papa Francesco nella capitale ucraina. Bergoglio da Roma in un’intervista ha confermato il desiderio del viaggio (in agosto?) e ha detto fra l’altro che al momento non ha intenzione di dimettersi. Ma se lascerà, farà «il vescovo emerito di Roma». Intanto la diplomazia si snoda sul Medio Oriente: Putin sarà a Teheran dove incontrerà anche Erdogan. Mentre Biden sarà a Gerusalemme e Riad. In un tempio buddhista nel centro di Tokyo si è celebrato il funerale dell’ex premier Shinzo Abe. Migliaia di giapponesi gli hanno reso omaggio. Mentre è mistero sul tentativo di fuga del presidente dello Sri Lanka.

Ieri è stato presentata la prossima edizione del Meeting di Rimini prevista fra il 20 e il 25 agosto: fra gli ospiti illustri invitati il premier Mario Draghi e il cardinal Matteo Zuppi, presidente della Cei. Per concludere la Versione di oggi due incursioni culturali. Parla uno dei più grandi violinisti viventi alla Verità e c’è una bella recensione del Domani di uno dei migliori libri da portarsi in vacanza questa estate: Un amico di Kafka di Isaac B. Singer per la Adelphi.  

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LA FOTO DEL GIORNO

La foto del giorno ritrae una star dello sport la cui storia sta sconvolgendo l’Inghilterra e il mondo. Si chiama Mo Farah, è stato insignito nel 2017 del titolo di baronetto: si tratta di una leggenda dello sport britannico come campione olimpico nei 5 mila e 10 mila. Finora si pensava fosse nato a Londra, da un padre britannico con radici somale. Ma non è così, è il suo nome vero non è neanche Mo Farah. In un documentario della Bbc ha raccontato che da bambino vide il padre morire decapitato e fu mandato in Gibuti da parenti, per sfuggire alla guerra civile. Loro però lo vendettero schiavo a una famiglia somala che viveva a Londra. Si salvò solo grazie ai professori di scuola.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

La parola ultimatum rimbalza sulle prime pagine di oggi per raccontare la crisi politica. Il Corriere della Sera è sicuro: Draghi respinge gli ultimatum. Il Giornale interpreta: Contro-ultimatum di Draghi. Il Quotidiano Nazionale attribuisce la fermezza al premier: Lo stop di Draghi: ora basta ultimatum. Il Mattino usa le virgolette: Draghi: «No agli ultimatum». Così come Il Messaggero: «Non lavoro con gli ultimatum». La Stampa non ha bisogno della citazione, sintetizza: Draghi: No al governo degli ultimatum. Come spesso accade, titolo geniale del Manifesto, che cita indirettamente uno strepitoso ossimoro inventato da Aldo Moro (le “convergenze parallele” per giustificare il centro sinistra). Qui fra Conte e Draghi sono: Divergenze parallele. La Repubblica mette a fuoco il cattivo: Appesi a Conte. Avvenire cerca di essere ottimista: Patto anticrisi. Il Domani spiega: Draghi toglie a Conte ogni argomento per aprire la crisi. Il Fatto attacca di brutto il premier, soprattutto per l’incontro con i sindacati: La proposta che non c’è del governo che non c’è. La Verità legge i no agli ultimatum al contrario: La tentazione di Draghi: Mollo tutto. E anche Libero fa lo stesso: Draghi: Occhio, me ne vado. Wishful thinking della destra? Il Sole 24 Ore celebra una novità nel campo dell’istruzione: Its academy, la riforma è legge.

DRAGHI: CONVERGENZE COI 5S, MA NO AD ULTIMATUM

Mario Draghi traccia la rotta del suo governo: sì a convergenze con i 5 Stelle ma basta ultimatum. Il presidente del Consiglio annuncia un nuovo patto sociale sui salari e sulle pensioni. Niente bis, si va avanti finché si può. Serenella Mattera per Repubblica.

«Non c'è governo senza i Cinque stelle. Non ha senso di esistere se deve subire continue minacce di «sfracelli» dalla Lega. Non può continuare «sotto ultimatum». Ma non c'è «altro governo che l'attuale». Ecco le regole d'ingaggio di Mario Draghi, ecco le sue condizioni per andare avanti. Sono le ore più delicate, perché sulla formula di unità nazionale gravano «fibrillazioni importanti » che mettono in discussione la ragion d'essere dell'esecutivo. Il premier spera che rientrino, tende una mano a Giuseppe Conte, in una conferenza stampa con al centro temi cari ai Cinque stelle come il salario minimo e nuovi aiuti alle famiglie contro l'inflazione. Prova a placare gli ardori di Matteo Salvini, che annuncia il raduno di Pontida a settembre come fosse il giorno del giudizio. Ma non si spinge fino a rinnegare quanto detto appena dieci giorni fa, agli inizi della crisi pentastellata: delude chi spera che da una rottura con il Movimento possa uscire un "Draghi bis", tendente un po' più a destra. «Se il governo riesce a lavorare continua, se non riesce a lavorare non continua», dice tranchant. E rinvia al presidente della Repubblica chi vuol sapere che succederà domani se in Aula al Senato il Movimento 5 stelle non voterà la fiducia, si asterrà o uscirà dall'Aula per marcare il dissenso rispetto ai contenuti del decreto Aiuti. Ci sarà la verifica di governo auspicata da Silvio Berlusconi, l'esecutivo si presenterà alle Camere per un nuovo voto di fiducia? «Chiedete a Mattarella», risponde Draghi. Sarà il Quirinale a gestire la liturgia della crisi, se crisi sarà. Non si mostra arreso, il presidente del Consiglio. Anzi, che il suo governo esista ancora prova a dimostrarlo con un'immagine. Al tavolone della Sala verde di Palazzo Chigi convoca al suo fianco quattro ministri per i quattro grandi partiti della sua maggioranza: il cinquestelle Stefano Patuanelli (proprio lui che ipotizzava il non-voto sulla fiducia), il leghista Giancarlo Giorgetti, il dem Andrea Orlando, il forzista Renato Brunetta. È tarda mattina, hanno di fronte i diffidenti leader di Cgil, Cisl e Uil convocati dal premier per riprendere il filo di un «patto sociale», declinare una proposta di salario minimo, annunciare un decreto «corposo» a fine luglio per «proteggere» il potere d'acquisto delle famiglie piegate dall'inflazione. Introduce Draghi. Propone ai sindacati - come farà oggi con gli imprenditori - un metodo comune: tavoli su diversi temi - Pnrr, precariato, manovra - e una convocazione a fine luglio, per illustrargli il decreto, prima che vada in Cdm.
L'urgenza è evitare che i consumi si contraggano e il Pil freni, perché l'economia italiana ora «continua a crescere», ma l'inflazione rappresenta un «rischio» anche nei mesi a venire, più a lungo di quanto si immaginava. Poi si lavorerà per misure «strutturali» in legge di bilancio a partire dal taglio del cuneo fiscale, stando attenti a non creare una spirale prezzi-salari. È un piano d'azione che il premier presenta alle parti sociali, ma vuole che la sua fibrillante maggioranza senta. E infatti lo illustra nel pomeriggio in conferenza stampa, rimarcando i dati «drammatici» sulla contrazione dei redditi degli italiani, ribadendo più volte l'urgenza di agire. Il convitato di pietra è Conte, quel documento in nove punti che il leader M5s ha portato una settimana fa a Palazzo Chigi come condizione per restare in maggioranza. Tra quei punti c'è il salario minimo, ecco perché quando Draghi cita la proposta fatta ai sindacati sembra lanciare un segnale al Movimento. È così?, gli domandano. «Nella lettera - il premier allarga un sorriso conciliante - ho trovato molti punti di convergenza con l'agenda di governo». Un intervento era comunque «necessario», puntualizza. Ma «se coincide con le esigenze di Conte sono contento, sarà forse contento anche lui». Non si farà lo scostamento di bilancio che chiedono M5s e Lega, però. Perché «per ora» non serve, si sono già trovati 33 miliardi per i decreti di aiuti e se ne troveranno ancora, evitando di innervosire i mercati. Ma il tema non sono le singole richieste, il problema - spiega Draghi - è politico. «Se si ha la sensazione che è una sofferenza straordinaria» restare in maggioranza, «bisogna essere chiari, no?». Finora il governo ha retto «abbastanza bene» le fibrillazioni, ma sia chiaro al M5s e «ad altri», alla Lega che «minaccia sfracelli a settembre », che «un governo con gli ultimatum non lavora, perde il suo senso di esistere». Salvini, mai citato, è avvertito. Conte ha ancora poche ore per decidere cosa fare. Ma se crolla tutto, chiedono a Draghi, il Paese è in grado di reggere il voto in autunno? «Non commento scenari ipotetici, sono parte di quel che succede», risponde. Lui il bis continua a escluderlo».

MA IL PREMIER NON SI SENTE MESSO ALL’ANGOLO

L’interpretazione della conferenza stampa di Draghi è nel retroscena che propone Francesco Verderami per il Corriere della Sera.

«Draghi non ha «l'impressione di essere messo in un angolo». Che è anche un modo per avvisare che non si farà mettere all'angolo: se le basi sulle quali il suo governo era nato dovessero venire meno, considererebbe «terminata la mia esperienza a Palazzo Chigi». Il messaggio è rivolto ai partiti della maggioranza, ma l'eco arriva fino al Colle: perché l'ex presidente della Bce non sarebbe disposto a farsi rinviare alle Camere e men che meno accetterebbe di formare un altro esecutivo. Conosce le preoccupazioni del capo dello Stato, ma c'è un motivo se in queste ore continua a citare Guido Carli: «Lui diceva che anche al servizio militare c'è l'obiezione di coscienza». La sua non sarebbe una forma di renitenza alla leva, semmai una scelta dettata da un profondo convincimento: il Paese non può essere guidato da un governo che verrebbe percepito anche dai cittadini come un «non governo», paralizzato dai conflitti nella maggioranza. E Draghi non intende diventare il premier di un «non governo». In quel caso sarebbe meglio andare alle urne, lasciando al prossimo esecutivo il compito di varare la Finanziaria. Al massimo si potrebbe redigere un bilancio d'emergenza per mettere in sicurezza i conti, prima di dar spazio al voto. Comunque toccherebbe a Mattarella gestire la crisi che si aprirebbe. Ai vertici dei partiti di maggioranza c'è già chi giudica questa postura come un mero strumento di pressione. Cioè solo tattica. In realtà, se il presidente della Repubblica è impegnato a preservare la stabilità e ritiene ci siano gli spazi politici per continuare a garantirla, Palazzo Chigi prevede che l'eventuale strappo dei grillini aprirebbe la strada a successivi strappi di altre forze della coalizione. Una spirale che porterebbe appunto al «non governo». Draghi ha percepito i timori del Pd per l'eventualità di una crisi che in prospettiva lo esporrebbe alla (quasi) certa sconfitta elettorale con il centrodestra. Ha letto anche il rilancio immediato di Salvini, che ha il sapore della sfida. Ma il punto è che il premier non ammette deroghe e considera «i comportamenti più importanti delle parole», deciso com' è a «risolvere tutte le vertenze entro luglio. O ne trarrei le conseguenze». Il primo passaggio importante sarà quello di domani al Senato, dove confida che Conte possa garantire il sostegno di M5S al governo. Altrimenti Draghi andrebbe al Colle e si dimetterebbe. Un segnale alle richieste grilline lo ha dato dopo l'incontro con i sindacati, annunciando un decreto che sarà pronto «entro fine mese». Non è un braccio di ferro, quello con il suo predecessore, e non c'è astio verso di lui «come sostengono i media». Ricorda il giorno dell'incontro a Palazzo Chigi per lo scambio della campanella, quando gli chiese come avesse fatto a reggere le critiche della stampa. «È una cosa che mi è pesata, non sai quanto», gli rispose Conte.
Insomma, l'uomo che da Francoforte è arrivato a Roma si attiene alla regola politica in base alla quale «non esistono questioni legate ai rapporti personali». E si è persuaso che il leader grillino non voglia rompere e nemmeno andare al voto. Ma ha anche avvertito quanto debba essere difficile gestire le spinte interne al Movimento. Se Conte ci riuscisse e il governo ottenesse la fiducia al Senato con il voto favorevole di M5S sul decreto Aiuti, è certo che si arriverebbe a una «conciliazione». Ma non considererebbe ultimata l'opera di chiarimento nella maggioranza.
A quel punto il rendez vous decisivo sarebbe con Salvini. Intanto ha fatto sapere al centrodestra che la verifica si fa in Parlamento, non con incontri al tavolo. Dove magari emergerebbe anche la richiesta di un rimpasto. E soprattutto vuole capire se il leader della Lega è determinato a portare a compimento l'azione del governo di larga maggioranza. Perché «non aspetterò settembre», quando è previsto l'appuntamento di Pontida: mira a prevenire un ennesimo innalzamento della tensione e un altro gioco al rilancio a ridosso della Finanziaria. L'ultimo patto, che accompagnerebbe l'ultimo tratto della legislatura con il varo della legge di Stabilità, va stretto «entro luglio». O sarà rottura. È un problema di congiunzioni astrali: se Conte rientrasse e Salvini capisse, si potrebbe andare avanti. E dopo l'estate - mentre l'esecutivo si troverebbe impegnato sulla legge di Bilancio e il Pnrr - il Parlamento potrebbe discutere della riforma elettorale. Semmai le Camere riuscissero a trovare un'intesa. Tocca quindi ai partiti di maggioranza decidere: d'altronde «i risultati raggiunti dal governo sono merito loro». Non si capacita del fatto che non li rivendichino. Sebbene mostri insofferenza, Draghi vorrebbe «portare a termine la missione» dentro un orizzonte temporale sufficiente per dare poi voce al Paese entro marzo».

I 5 STELLE VOGLIONO ASTENERSI

I 5 Stelle vogliono astenersi al prossimo voto del Senato. La lettura sul Fatto, giornale vicino a Conte, è di  Wanda Marra e Paola Zanca.

«Mario Draghi ripete di essere stanco, logorato dall'esperienza di governo. È disposto a continuare a guidare quest' esecutivo, ma non a mettersi a capo di altri tentativi. Sergio Mattarella non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere, qualsiasi cosa accada, non ha mai interrotto il pressing sul premier perché rimanga al suo posto, ma sa di non poter dar vita a un Draghi-bis se l'interessato non è disponibile. Giuseppe Conte, stamattina, riunisce il Consiglio nazionale: il non voto di domani sul decreto Aiuti è praticamente certo. Molto meno probabile il ritiro della delegazione dei ministri, subito dopo: bisogna dare un segnale forte, sì, ma non drammatizzare. Si gioca intorno a questi tre protagonisti la crisi di governo di metà luglio. Sulla quale nessuno scommette, ma nessuno si sente di negare. Perché i protagonisti si moltiplicano. C'è Silvio Berlusconi, che ha già chiesto una verifica di governo. E Matteo Salvini, che è pronto a seguirlo su questa strada. E allora, non c'è niente di scritto, niente di definitivo: una crisi senza un copione, con un finale ostaggio di equilibri fragilissimi.
Per questo guardano tutti all'insù, al Colle più alto, che in questi anni ha traghettato con destrezza una ampia varietà di maggioranze. "Chiedete a Mattarella", risponde Draghi a chi gli domanda se tornerà alle Camere, in caso di astensione dei 5Stelle sulla fiducia al decreto Aiuti domani in Senato. Sul piano istituzionale, la risposta è non solo corretta, ma perfino banale. Calata nel contesto, però, assume altri significati. È stato il presidente della Repubblica il kingmaker di questo governo, sta a lui trovare una soluzione. "Il governo con gli ultimatum non lavora e non ha senso", tiene a chiarire il premier. Il riferimento è evidentemente a Giuseppe Conte e alla lettera in 9 punti che gli ha consegnato la settimana scorsa. Qualche apertura l'ha pure fatta, ma solo a (vaghe) parole che non hanno convinto per primi i sindacati. "Non abbiamo sentito nulla di concreto", è la versione che risuona dentro Palazzo Madama, dove i senatori grillini ragionano in vista dell'appuntamento di domani. Qualcuno, come il sottosegretario Carlo Sibilia, si sente quasi preso in giro: "Da giorni ci definiscono irresponsabili perché chiediamo con forza il salario minimo. Oggi Draghi annuncia un provvedimento sul salario minimo...".
Non si tratta però solo di Conte. "Se si ha la sensazione che è una sofferenza straordinaria stare in questo governo, che si fa fatica, bisogna essere chiari", aggiunge. E rimarca: "Lo dico anche per tanti altri che a settembre minacciano sfracelli e cose terribili". Il riferimento è al leader della Lega Matteo Salvini, che ieri tornava a minacciare: "Se Conte non vota la fiducia è grave". Insistendo sulle sue richieste: scostamento di bilancio, pace fiscale e stralcio della liberalizzazione dei taxi. Diventa esplicito Draghi: "Se il governo riesce a lavorare, continua. Se non riesce a lavorare, non continua". Certo, l'urgenza riguarda il Movimento e Draghi torna a ribadire che "non c'è un governo senza 5stelle" e "non c'è un governo Draghi bis". Una presa di posizione che i contiani faticano a digerire: "Avrebbe potuto ricordarsi di noi negli ultimi sette o otto mesi - si infervorano -. Anche perché dire che senza di noi non si governa, oggi non è nemmeno più vero: i numeri li ha". C'è la scialuppa creata da Luigi Di Maio ad aver reso "ininfluente" il Movimento. Che però chiede attenzione e segnali concreti. E si domanda perché l'astensione di domani debba essere vissuta dall'intero arco costituzionale come un affronto irricevibile: "La Lega si è tirata indietro su un sacco di provvedimenti, Italia Viva non ha votato la riforma del Csm, non esattamente un dettaglio... Eppure nessuno ha chiesto verifiche e rimpasti: perché con noi bisogna drammatizzare in questo modo?".A dire il vero, la linea "attendista" dei Cinque Stelle può non essere così scomoda per le altri parti in causa. Domani, dopo il voto del Senato, il premier tornerà al Colle. Se - come sembra al momento ipotizzabile - Conte deciderà per l'astensione ma senza ritirare i ministri, per Mattarella non ci sarà alcun motivo istituzionale di rinviare Draghi alle Camere: la fiducia passa anche senza i voti dei Cinque Stelle. E se anche il centrodestra - come è altrettanto probabile - insisterà per una verifica di maggioranza, al Colle confidano che Draghi, la fiducia, la riotterrà. E che dunque, l'esperienza - per quanto barcollante - andrà avanti. A Palazzo Chigi sono un po' più dubbiosi. La mossa finale di Conte è tutta da verificare. Così come la reazione degli altri partiti e di Draghi medesimo. Non a caso, nei palazzi gira insistente la voce di un governo balneare a guida di Daniele Franco, che dovrebbe fare la legge di Bilancio e portare il Paese al voto in febbraio. Ieri sera a cena con l'Associazione della stampa estera, sono stati i giornalisti stranieri ad allontanare lo spettro: "Dopo la separazione tra Ilary e Totti, l'Italia non può sopportare un altro colpo"».

IL PATTO PROPOSTO AI SINDACATI

Mario Draghi ha incontrato i sindacati e ha offerto loro “un patto sociale contro il lavoro povero”. Ma la reazione dei sindacalisti non è entusiasta. Alessandro Barbera per La Stampa

«Decontribuzioni per il lavoro stabile, salario minimo partendo dai contratti collettivi più rappresentativi, premi fiscali per i rinnovi mai firmati negli ultimi otto anni. Come un cammello dentro la cruna di un ago, Mario Draghi tenterà così di superare i problemi interni alla sua maggioranza. «È il tempo della responsabilità, non del conflitto», ha detto ieri mattina al leader della Cgil Maurizio Landini, che ha incontrato a Palazzo Chigi insieme a Cisl e Uil. Oggi vedrà i rappresentanti delle imprese, il 26 o il 27 luglio di nuovo i tre maggior sindacati. «È importante introdurre misure strutturali per incrementare il netto salariale, e ridurre il carico fiscale sui redditi a partire dai più bassi», dirà in conferenza stampa nel pomeriggio. Dal patto sociale firmato da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 sono passati quasi trent' anni, ma l'ispirazione è la stessa. Allora il sistema politico usciva squassato dalle inchieste di Tangentopoli, oggi ci sono la guerra in Ucraina, l'inflazione galoppante, partiti altrettanto incapaci di guidare gli effetti di una crisi inaspettata. Nell'agenda di Draghi i giorni cerchiati sono quelli a cavallo fra la fine di luglio e i primi di agosto. Ci sarà un decreto da almeno dieci miliardi di euro, la cifra necessaria a evitare il peggio agli italiani in autunno. A precisa domanda, il premier nega si tratti di una Finanziaria anticipata, ma di questo si tratta. «Dobbiamo dare risposte agli italiani, inutile aspettare, perché nel frattempo il potere dei salari sarebbe eroso dalle conseguenze degli aumenti dei prezzi». Di più: «Occorre evitare che tutto ciò produca effetti sui consumi, che sono la parte più importante della domanda». (…) Alla sua destra in conferenza stampa c'è il ministro (leghista) dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, alla sinistra quello (del Pd) del Lavoro Andrea Orlando. Il primo, nonostante le sollecitazioni di Draghi, resta in silenzio. Il secondo espone l'ipotesi grazie alla quale garantire l'applicazione di salari minimi. L'atteggiamento del partito di Enrico Letta è l'assicurazione sulla vita di Draghi. E non è un caso se, prima di incontrare i giornalisti, il premier si vede a quattr' occhi con il leader della sinistra. «Stiamo dimostrando anche in queste ore di essere seri, attenti e consapevoli della posta in palio. Perdere l'occasione di riscrivere le politiche pubbliche contro il lavoro povero e la precarietà sarebbe un paradosso incomprensibile ai cittadini», dice il segretario Pd. All'ora di cena, fra una barzelletta sui banchieri centrali e un accenno all'importanza di combattere le disuguaglianze, Draghi garantisce ai rappresentanti della stampa estera che «il momento è difficile ma l'Italia resta forte». La cintura di sicurezza attorno al governo delle larghe intese è ancora stretta. Resta da capire se per Conte e Salvini terrà fino a primavera».

Oggi l’appuntamento del presidente del Consiglio sarà con la Confindustria. Carlo Bonomi dice alla  vigilia: «Bene il premier sulla necessità di rilanciare un grande patto sociale». Nicoletta Picchio per il Sole 24 Ore.

«Bene l'impostazione del presidente del Consiglio, Mario Draghi, sulla necessità di un grande patto sociale. E, di conseguenza, «Confindustria è pronta a rispondere positivamente all'appello del Presidente Draghi, puntando sulla competitività delle imprese, che rappresentano un fattore strategico di sicurezza nazionale e di crescita del paese». Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha seguito da Parigi, dopo l'incontro con la Confindustria francese, Medef, (su veda pagina 7) gli sviluppi della cronaca italiana. E il messaggio arrivato da Mario Draghi, nella conferenza stampa, della necessità di un patto sociale coinvolgendo le parti sociali per la crescita del paese. Di fatto, quel patto per l'Italia che Bonomi aveva lanciato appena nominato presidente di Confindustria e che oggi rilancerà nell'incontro fissato a Palazzo Chigi. «Apprezziamo molto l'impostazione illustrata dal presidente del Consiglio sulla necessità di un grande patto sociale che unisca insieme la complessa transizione di essenziali filiere industriali, come richiediamo da molto tempo, e la necessità di preservare il potere d'acquisto dei lavoratori», ha detto Bonomi in una nota di ieri pomeriggio.
«I pesanti sovraccosti a carico oggi della manifattura e la perdita del potere d'acquisto dei lavoratori, come ha detto il presidente Draghi, concorrono ad abbattere la crescita dell'Italia e vanno affrontati insieme». Proprio per questo, perché bisogna lavorare insieme, ha ricordato Bonomi, «abbiamo chiesto da due anni un "patto per l'Italia" costruito sulla base di riforme strutturali, di carattere fiscale, contributivo, industriale e del lavoro e coopereremo con il massimo dello spirito costruttivo».
Il presidente del Consiglio ha preannunciato un intervento sul cuneo fiscale e anche di volersi muovere verso il salario minimo, considerando comunque la contrattazione un pilastro. Nella nota Bonomi si è soffermato su quest' ultimo aspetto: «Il presidente del Consiglio conosce la nostra posizione e apprezziamo molto che il focus dichiarato oggi sia sui lavoratori che non beneficiano di contratti come quelli dell'industria o sono sottoposti a contratti pirata». Sul salario minimo Bonomi ha sempre sottolineato che il problema non riguarda i contratti firmati da Confindustria, tutte le proposte avanzate in Parlamento parlano di 9 euro lordi l'ora, mentre i contratti di Confindustria sono al di sopra. Anche il livello più basso dei metalmeccanici è sopra 11 euro l'ora. Una eventuale normativa, è la sua preoccupazione, non dovrebbe rovinare quel «valore aggiunto- ha detto ieri nella conferenza stampa a Parigi - che abbiamo nella contrattazione nazionale italiana». E ha sottolineato che la direttiva europea non impone per i paesi l'obbligo di fissare un salario minimo, ma il suo obiettivo è spingere per una contrattazione collettiva nazionale».

SALLUSTI: MEGLIO CAMBIARE PREMIER

Alessandro Sallusti su Libero interpreta un sentimento diffuso nel centro destra: da questa crisi non possono che venire vantaggi. O si indebolirà il peso della sinistra nel governo o quello dello stesso Draghi, con probabili elezioni in autunno.  

«Il Covid è tornato, la guerra non finisce, il gas scarseggia e il prezzo va alle stelle, la siccità decima l'agricoltura, l'Euro precipita e le borse pure, l'inflazione galoppa, e per non farci mancare nulla sono pure crollate le Dolomiti e la Sardegna è invasa da cavallette. Mi immagino Mario Draghi toccare ferro ogni volta che gli suona il telefonino, fosse pure la chiamata della moglie. Diciamo che non ha dalla sua la fortuna, che la sorte non gli è favorevole, condizione che depotenzia non di poco il suo essere "il migliore". Io non credo agli oroscopi ma stadi fatto che l'annus horribilis di Mario Draghi era scritto nelle stelle - anche oggi le Stelle (Cinque) gli sono avverse - con precisione profetica. Data di nascita: 3 settembre, segno zodiacale: vergine. E allora rileggiamo il suo oroscopo dell'anno trasmesso a fine dicembre 2021 dalla prestigiosa emittente Sky e ancora presente sul sito ma che sembra scritto da Giuseppe Conte, uno che con le stelle ha buoni rapporti: "Non sarà propriamente un annodi enormi soddisfazioni... ecco un anno davvero insolito per le vostre finanze. Da una parte minaccia spese e altre situazioni inaspettate, dall'altra potrebbe cambiare le carte in tavola in un solo momento". Ma la precisione millimetrica arriva quando il mago indovino parla dei soldi: "Vi converrà quindi essere non prudenti, di più, specie su faccende legate al fisco, alla burocrazia, alle multe, alle scadenze di bollette e altri pagamenti e tutti gli argomenti simili perché sarà qui, in uno di questi settori che nascerà l'inghippo irritante". Avete letto bene: il problema sarebbero state le bollette, e attenzione "che un singolo passo falso potrebbe farvi retrocedere come quando pescate una carta sbagliata dal mazzo del Monopoli".
Questo astrologo avrebbe dovuto essere assunto a Palazzo Chigi come capo consulente. E dire che per certi versi si era autocandidato: "Dovrete sapervi affidare alle professionalità giuste... per il semplice motivo che non potete fare tutto voi".
E sembra scritta oggi - con la crisi di governo incombente - anche questa: "Aggiornare la vostra figura professionale, potrebbe risultare la chiave vincente, sia per cambiare ruolo che per trovare impiego. Considerate però che molto probabilmente per vederne gli effetti dovrete aspettare un po'". Già, ma la domanda è: un po' quanto? Perché qui o cambiano le stelle o meglio cambiare premier».

PRODI: COI PARTITI DIVISI È DURA ANDARE AVANTI

Sulla crisi politica (e internazionale) Avvenire intervista Romano Prodi. Che sulla crisi dice: «Con i partiti divisi è arduo proseguire».

«Professor Romano Prodi, stiamo ai calci di rigore per questa maggioranza o ancora ai supplementari? “Guardo con un certo distacco a queste fibrillazioni che durano d'altronde già da settimane - risponde l'ex premier e fondatore dell'Ulivo - . Ho sempre ritenuto che si arrivasse alla regolare fine della legislatura e ritengo ancora che sia un interesse comune. Salvo però 'incidenti', che in politica possono sempre capitare: si fanno errori che possono portare a un suicidio politico. Con me, a esempio, Bertinotti fece un errore”.

Quale giudizio dà delle osservazioni del M5s di Conte, condensate nei 9 punti del documento dato a Draghi?
Non ho ancora capito se quella del M5s sia tattica o strategia. Marcare differenze rispetto alla linea del governo è un conto, procedere a una rottura vuol dire però mandare a un elettorato, già sbandato per la situazione globale che stiamo vivendo, un messaggio che disorienta ancora di più gli elettori stessi.

Anche quelli 5 stelle?
Mi pare che gli elettori del M5s non vedano più il Movimento come lo strumento del cambiamento. Senza contare che, dopo la scissione, le stelle non sono più 5, ma se ne contano almeno 10.

Vede margini per un 'ripensamento' dei pentastellati?
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da polemiche e contrasti personali fra i leader politici più che da analisi nel merito dei temi. Diventa difficile fare previsioni.

Per Draghi è difficile guidare un governo di larghe intese con spinte simili?
Lo dice a me? Io contavo su una maggioranza meno ampia, eppure ho avuto le mie belle difficoltà. È un'arte complicata che si impara adagio adagio. Il problema è anche che, quando cominciano le divisioni, diventa difficile continuare a tenere tutti dentro e a costruire. Le divaricazioni oggi ci sono in quasi tutti i partiti, anche dentro Lega e Forza Italia. E tutto questo porta anche a un possibile, ulteriore aumento dell'astensione nelle urne. Per paradosso il Pd, che è sempre stato un simbolo di lotte e di divisioni, è oggi quello più granitico.

Il fenomeno astensione la preoccupa?
Molto. Proprio per questo penso che ci siano grandi spazi per chi saprà dialogare con gli elettori, perché oggi non c'è dialogo fra governanti e governati. Ci rendiamo conto che si è stati capaci di fare un referendum sul sistema elettivo dei membri del Csm, non certo un tema di cui si parla a tavola? Non si può replicare il modello partecipativo dell'Ulivo, era un'epoca diversa, ma l'obiettivo deve essere lo stesso. Il Rosatellum è il peggior sistema elettorale possibile, almeno cerchiamo di riavvicinare i cittadini.

L'ha colpita Berlusconi che chiede una verifica?
Appunto. È un'altra conferma che siamo in momenti di assoluta incertezza. Dove l'improbabile diventa possibile.

Hanno fatto discutere le sue frasi sul campo largo che, secondo alcuni, lei avrebbe dato per 'sepolto'. Qual è la giusta interpretazione?
Si tratta di un gioco che la destra ama fare da sempre, ma restano delle interpretazioni interessate che puntano a seminare fra me ed Enrico Letta una zizzania che non esiste. Io ho detto semplicemente che gli ultimi avvenimenti hanno rimescolato tutto e che occorre ridisegnare cornice e contenuti delle alleanze. Il campo 'senza confini' di cui ho parlato non è altro che il campo largo di Letta alla luce dei nuovi fatti.

Ma si sente ancora una 'riserva della Repubblica'?
Ma neanche per sogno. Io ho finito l'impegno politico nel 2008 e dopo non ho mai fatto passi avanti per avviarne uno nuovo. Ho sempre dato, sì, la mia disponibilità a servire il Paese se necessario, mai è stata accolta. Quindi, un impegno non lo valuto e non lo ritengo possibile.

Nei momenti di svolta torna spesso d'attualità il taglio del costo del lavoro.
Le ricordo però che il primo forte taglio l'ho fatto io. Prima, avevamo un peso delle tasse sui salari superiore alla media europea, ora invece siamo già al livello medio. Dato il livello miserevole delle retribuzione di oggi, ogni taglio è benvenuto. Si tenga presente però che l'esigenza non è uguale per tutti e che bisogna occuparsi anche di chi non ha un contratto regolare.

Per farlo servono però tanti soldi. Serve uno scostamento del bilancio, in deficit?
Io ho sempre dato grande attenzione al debito pubblico, oggi esso è ancora alto e non possiamo dimenticare che questo ci mette sempre a rischio nei mercati, ancor più se salgono molto i tassi d'interesse. Eviterei, quindi, uno scostamento.

Veniamo all'Ucraina. Come vede la situazione dopo quasi 5 mesi di guerra?

Estremamente rischiosa. La guerra sta durando tanto, troppo. E ora, sul fronte energetico, Putin sta giocando come il gatto col topo con i Paesi europei, con un'interruzione del gas addebitata a motivi tecnici, ma che arriva proprio quando si tenta di aumentare gli stoccaggi.

E il governo si muove bene?

Vedo molto ottimismo da parte del governo, spero che sia motivato. Riterrei comunque utile preparare un piano, non obbligatorio, di consigli ai cittadini su come risparmiare energia: una forma di 'persuasione amicale'.

C'è attesa per l'annunciata telefonata fra i presidenti di Usa e Cina, Biden e Xi Jinping.

È difficile che si arrivi a quella pace giustamente invocata da papa Francesco se non c'è un accordo fra questi due grandi Paesi. Si può far poco senza di loro. Per ora non vedo però passi avanti».

L’ULTIMA TRINCEA DEL DONBASS

La guerra in Ucraina: ecco gli aggiornamenti dal terreno bellico. Sulla prima linea di Siviersk i soldati ucraini hanno l'ordine di resistere il più a lungo possibile ma la domanda ricorrente è: "Quando arriveranno le armi che ci avete promesso?". Reportage  per La Stampa di Francesca Mannocchi dall’ultima trincea del Donbass.

«In guerra i civili cercano risposte. Dove nascondersi, cosa mangiare, come salvare i propri figli, la casa. I soldati, invece, dimostrano insofferenza di fronte alle domande. Alla più comune, soprattutto: quando finirà? È la domanda sbagliata, dice Dmytro, nome di battaglia Bison, appena arrivato con la sua unità a Siviersk, nella regione di Donetsk. Quella giusta è: quando arriveranno le armi che ci avete promesso? I soldati scaricano i mezzi, le coperte, i sacchi a pelo, le torce e le scorte d'acqua e cibo in scatola. Le brandine e le armi. Yaroslav, il suo compagno di stanza, responsabile delle armi anticarro, i Javelin, è già sulla zero line, la prima linea del fronte. Dmytro ha ventisei anni e pare avere una spiegazione per tutto. In Donbass, dice, abbiamo difficoltà perché i russi conoscono la zona, perché qui combattono da otto anni e perché coglierli di sorpresa per noi è più difficile. È la sua spiegazione della battaglia che si è spostata nella provincia di Donetsk, dopo che le truppe del Cremlino controllano ormai la limitrofa Lugansk. A nulla vale replicare che anche l'esercito ucraino combatta lì dal 2014. È la sua logica e non ammette obiezioni. All'unità con cui combatte è stato assegnato un edificio per metà distrutto, un istituto tecnico colpito la settimana scorsa da un attacco missilistico russo. All'esterno restano faldoni di libri bruciati, registri, attrezzature dei laboratori e lo stemma della scuola.
A casa, nella regione di Sumy, lo aspettano sua madre, i fratelli più piccoli, la fidanzata. Anche per loro, che vivono lo sforzo quotidiano di tirare avanti, l'unico quesito è quello dell'impazienza: quando finisce? Dmytro, centinaia di chilometri lontano da casa, allontana il miraggio del futuro: «La vita al fronte funziona così, pensi al compito che ti è stato assegnato - colpire le posizioni nemiche - e torni alla base».
Il resto non conta, non conta il futuro. La preoccupazione per il domani, in guerra, è un lusso che possono permettersi i civili. Non i soldati soprattutto se, come lui, hanno perso un amico proprio a Severodonetsk. L'unità con cui combatteva è stata colpita, decimata, metà dei soldati sono tornati a casa nelle bare. Nel Donbass il conflitto non si ferma e quello intorno Siviersk è il settore più attivo. I russi hanno conquistato tutte le sacche di resistenza intorno a Lysychansk, caduta dieci giorni fa, e sono avanzati nel fondovalle conquistando Bilohortivka e puntando sulla zona di Yampil.
L'obiettivo della lenta avanzata è chiaro: attaccare Siviersk da Nord, conquistare posizioni a Ovest prima di puntare su Sloviansk. Il Cremlino, raggiunti gli obiettivi nella provincia di Lugansk, aveva dichiarato una pausa operativa ma è chiaro che il tempo serva a riorganizzarsi a riposizionarsi in vista di battaglie che si annunciano ancora più feroci.
La campagna russa per conquistare la parte orientale dell'Ucraina, fatta di uso massiccio dell'artiglieria e conquista di un villaggio dopo l'altro, ha dimostrato di funzionare. Non importa quanto ci vorrà. Anche per loro, per i soldati del Cremlino, quando finirà non è una domanda pertinente, d'altronde le ambizioni degli imperi non hanno fretta. Dall'altra parte, quella di Dmytro e dei suoi, è sempre più forte la pressione delle perdite di uomini e della parziale ritirata.
Di responsabilità i soldati non vogliono parlare, soprattutto davanti ai superiori, ma mentre cammina nei campi adiacenti alla scuola distrutta, Dmytro-Bison dice che continuare a combattere per Severodonesk è stato un errore, che avevano capito tutti che era persa, che accanirsi era inutile. Bisognava spostarsi prima, avere rinforzi, schierarsi più massicciamente sulla linea difensiva di Donetsk. In una parola, bisognava ritirarsi prima, come è stato fatto poi per Lysychansk. A guardarla dagli occhi di chi combatte sul lato ucraino, la guerra in Donbass è tesa e racconta le difficoltà delle forze armate: tanti volontari pronti alla guerra e pronti a morire, è vero, ma poco addestrati. Troppe le perdite di uomini e mezzi, troppe le decisioni dei vertici dello Stato Maggiore che i comandanti sul campo giudicano sbagliate pur dovendole eseguire. Oggi, con la provincia di Lugansk caduta, è chiaro che l'obiettivo di rendere la conquista dei territori il più difficile e dolorosa possibile per l'esercito russo è stata, da parte di Kiev, una decisione superficiale e rischiosa, che ha provocato troppi danni e che rischia, alla lunga, di favorire Mosca. Il mandato per l'esercito ucraino, dall'inizio della guerra, è stato: resistere al fronte il più possibile anche a costo di grandi sacrifici in attesa che arrivino le armi occidentali. Armi di precisione come i sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità- gli Himars - che consentono di colpire anche a lunga distanza e che due giorni fa hanno distrutto un deposito di munizioni nella regione di Kherson. La settimana scorsa gli Stati Uniti hanno annunciato che ne invieranno altri quattro che andranno a unirsi agli otto già inviati e che secondo alti funzionari della difesa statunitense saranno particolarmente utili in Donbass dove la guerra è e sarà principalmente una guerra di artiglieria. Iaroslav, nome di guerra Staf, ha 23 anni, fa parte dell'Artillery Unit della Guardia Nazionale Ucraina, addetto ai cannoni semoventi. È in una posizione, che l'unità chiede di non rivelare, nella regione di Donetsk. Prima di arrivare in Donbass ha combattuto due mesi nella regione di Kiev e per lui, dice, nonostante le differenze di strategia la natura del conflitto è sempre la stessa: gli ucraini combattono un invasore, i russi combattono contro i civili. Nascosti tra gli alberi quattro mezzi semoventi in attesa di muoversi dopo aver ricevuto le posizioni russe, e colpire. In attesa, con il timore di essere un obiettivo, col rischio che loro, dall'altra parte, stiano aspettando altre coordinate, le sue. Si vive e si muore così, nella guerra d'artiglieria. Coi droni che volano sopra la testa, la paura di essere i prossimi. Iaroslav/Staf non è spaventato dall'idea di morire sul campo. Non ha la posa dell'eroe e non ostenta coraggio perché, «io sono al fronte ma dietro di me ci sono i civili, c'è la mia famiglia, ci sono i miei amici. E anche loro, come me, sono un obiettivo. Però non possono difendersi». Lungo la strada che conduce fuori Siviersk una settimana fa è stato colpito un magazzino con le scorte di grano. Il proprietario prima di lasciare la città ha detto alla gente del paese di andare a raccogliere quello che riuscivano a salvare. Così ieri Anatoly ha preso la sua bicicletta, i sacchi e ha pedalato fin lì, per recuperare qualcosa con cui sfamare almeno i suoi animali perché non resta più niente nemmeno per loro, in zona non ci sono più mangimi da almeno tre mesi. Anatoly aveva due maiali che ha ucciso, un po' per avere di che nutrirsi e un po' perché non avrebbe potuto dar loro da mangiare. Gli restano i polli, è venuto per loro. Se i missili non avessero colpito il magazzino non avrebbero nemmeno questo grano che ormai è da buttare. I campi intorno sono bruciati, in mezzo alla cenere i resti dei razzi e delle bombe a grappolo. Anatoly, che ha speso la vita a seminare e raccogliere, dice che qui, a Siviersk, a luglio tutti si dedicano al grano. Quest' anno prevedevano di raccogliere tre tonnellate e invece niente. Ha settant' anni, il corpo scarno e il viso stanco: «La gente di qui è abituata alla fatica e ai guai, ma a questo non eravamo preparati». Intorno la gente raccoglie i resti di casa dai crateri dei missili della notte precedente. Mentre lasciamo la città un razzo colpisce un campo che va in fumo, una donna corre fuori di casa, grida la domanda dell'impazienza: «Quando finirà?».

PUTIN IN IRAN, CUI SARÀ ANCHE ERDOGAN

La diplomazia. Vladimir Putin chiede droni all'Iran e spinge la Turchia a frenare l'ingresso degli scandinavi nella Nato. Sarà a Teheran martedì, vertice con Erdogan e Raisi. Giordano Stabile per La Stampa.

«Joe Biden ha il dilemma di stringere la mano a Mohammed bin Salman. Vladimir Putin non avrà alcun problema a riabbracciare Recep Tayyip Erdogan. A celebrare la riconciliazione sarà l'ayatollah Ebrahim Raisi, padrone di casa nel summit a tre previsto martedì prossimo a Teheran.È il controvertice mediorientale che seguirà la visita americana, e che il Cremlino vuole utilizzare come prima vetrina nel nuovo "mondo multipolare" annunciato dallo Zar. E' un ordine globale fatto di molte triangolazioni, su tutte quella con la Cina e con l'India, e appunto quella con Turchia e Iran. Erdogan ha indispettito Putin al vertice della Nato di Madrid, quando ha ritirato il veto sull'ingresso nell'Alleanza di Finlandia e Svezia. Ma il Parlamento turco dovrà dare il via definitivo e il Sultano gioca con questa ambiguità. I due hanno già litigato per anni in Siria e Libia e poi hanno trovato un punto di equilibrio.Il "formato Astana", nella gestione della crisi siriana, li ha rodati. L'invasione dell'Ucraina ha posto Ankara e Teheran in una posizione di forza. La Turchia sorveglia il Bosforo, da dove escono le navi con il grano russo (e ucraino rubato) da esportare nel mondo. Fornisce droni a Kiev, ma a singhiozzo, in un gioco di equilibri con Mosca. E, soprattutto, non impone nessuna sanzione e importa gas russo a rubinetti spalancati, oltre il suo fabbisogno. In cambio vuole il via libera da Putin e Raisi per una nuova operazione contro i guerriglieri curdi nel Nord della Siria, un'operazione che solletica gli spiriti nazionalisti in patria e può fargli guadagnare la rielezione a presidente il prossimo anno. L'Iran è ancora più felice. È corteggiato dall'Occidente come mai negli ultimi 40 anni. Ha le capacità produttive di riserva più importanti al mondo nel campo energetico e serve Washington per sostituire quelle russe. America ed Europa sono pronte a offrire un nuovo accordo sul nucleare. Putin, l'alleato storico nei momenti di difficoltà, è ora costretto a chiedere. Ha bisogno dei droni d'attacco iraniani, come i Kaman 22, perché la sua industria bellica ha snobbato per decenni questa nuova arma e si trova scoperta. E non vuole che l'Iran inondi di petrolio il mercato, con conseguente crollo dei prezzi e dei suoi introiti. Le parti si sono invertite. Il "nuovo mondo" è anche questo».

E BIDEN VUOLE RIAD CON ISRAELE

La missione in Medio Oriente del presidente Usa. Joe Biden vuole che Riad sia alleata con Gerusalemme, ma con il sì dei palestinesi. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Anche se non lo dice apertamente, l'obiettivo principale del presidente Biden durante la sua visita in Medio Oriente è allargare gli Accordi di Abramo, oltre naturalmente a sollecitare i paesi del Golfo ad aumentare la loro produzione petrolifera per frenare l'inflazione e contrastare Vladimir Putin che usa l'energia come arma di ricatto.  Non è un risultato che spera di ottenere già nel viaggio iniziato ieri sera, con la partenza da Washington, ma la sua intenzione è porre le basi e avviare il dialogo affinché ciò possa avvenire. E se riuscisse a coinvolgere l'Arabia Saudita e l'Autorità Palestinese in questo progetto, avvierebbe la costruzione di un'alleanza per contrastare l'Iran, che rappresenterebbe il contraltare della coalizione che invece Putin punta a formare con la sua prossima visita a Teheran.
La sequenza di questa strategia, di cui ha parlato anche Bishara Bahbah in un editoriale su Haaretz, è abbastanza chiara. Come prima cosa, Biden ha bisogno di ricucire i rapporti con l'Arabia, dopo l'omicidio di Jamal Khashoggi. Il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha detto che il presidente non rimpiange le critiche fatte e solleverà la questione dei diritti umani durante la visita a Gedda, però è anche venuto il momento di andare oltre, nell'interesse stesso degli Usa. Da una parte infatti gli americani hanno bisogno di un aumento della produzione del petrolio, che chiederanno a tutti i paesi del Golfo, ma in cambio devono offrire più sicurezza dalla minaccia iraniana, che intanto vuole anche vendere droni alla Russia da usare in Ucraina. A questo scopo il Pentagono ha già avviato i colloqui per creare una difesa aerea e missilistica comune con Israele e paesi arabi. La riuscita del progetto di protezione militare, attraverso un sistema di avvistamento delle minacce e allarme condiviso, metterebbe le basi anche per iniziare a discutere con i sauditi il loro ingresso negli Accordi di Abramo. Finora Riad ha sempre detto che non riconoscerà Israele fino a quando non verrà risolta la questione palestinese, ma Washington non sembra intenzionata ad avviare subito una nuova tornata di negoziati, perché non avrebbe molte speranze di produrre risultati. Proprio gli Accordi di Abramo, però, potrebbero offrire il contesto per riaprire la trattativa, se Biden offrisse anche ad Abbas di entrare nel loro incontro di venerdì, o se l'Autorità Palestinese lo chiedesse. A quel punto si aprirebbe la porta pure per l'ingresso dei sauditi, creando quindi un forte blocco antagonista a quello iraniano, a cui ora si vuole aggiungere Putin. L'operazione avrebbe senso proprio grazie all'interesse comune alla sicurezza da Teheran, che potrebbe diventare la molla per realizzare questo progetto, da cui ci guadagnerebbero tutti, Usa, Arabia, paesi del Golfo e palestinesi, che attraverso l'adesione agli Accordi di Abramo avrebbero una nuova leva per riaprire il dialogo sulla soluzione dei due stati. E pazienza per l'accordo nucleare con l'Iran, che finora non è stato resuscitato proprio per l'intransigenza degli ayatollah e i progressi fatti verso la costruzione dell'atomica. Forse Teheran, isolata, avrebbe un incentivo a riprendere il discorso in maniera seria. In caso contrario, sarebbe già pronta l'alleanza per contenerla».

MA GLI ITALIANI VOGLIONO LA PACE

Avvenire mette insieme le rilevazioni dei maggiori istituti di ricerca sulle opinioni degli italiani riguardo alla guerra. In pochi vogliono più armi, mentre vorrebbero tutti un'Italia mediatrice  Francesca Farruggia.

«Sin dall'inizio della guerra i giornalisti e gli analisti politici si sono interrogati su che cosa pensano gli italiani dell'aggressione russa dell'Ucraina, se sono favorevoli o contrari a un maggiore coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto e se ritengono opportuno o meno l'invio di armi per favorire la resistenza. Alcuni hanno esternato il proprio stupore riguardo alla contrarietà espressa dai cittadini verso un maggiore coinvolgimento dell'Italia nel conflitto (ad esempio attraverso l'invio di armi), ipotizzando che le domande dei sondaggi fossero mal poste e fuorvianti, oppure che fattori contingenti ed emotivamente coinvolgenti influenzassero i rispondenti a esprimere un parere piuttosto che un altro. Per verificare che cosa effettivamente pensano gli italiani in relazione alla guerra e alle sue conseguenze per il nostro Paese, abbiamo messo a confronto i sondaggi effettuati dall'inizio del conflitto da tre accreditati istituti: Ipsos, Swg e Emg Different. La preoccupazione degli italiani per la guerra è sempre molto elevata (mai inferiore all'80%) ma registra nel tempo la tendenza verso una lieve riduzione. Difficilmente essa può essere attribuita a prospettive di soluzione del conflitto, il quale al contrario va aumentando di intensità. Comunque il fattore tempo riveste un peso importante nelle guerre e si manifesta sul campo sotto forma di 'attrito' e nell'opinione pubblica internazionale sotto forma di assuefazione. Le stesse oscillazioni della preoccupazione appaiono abbastanza limitate, tranne che in concomitanza di singoli eventi che suscitano un eccezionale scalpore, quali l'eccidio di Bucha. Per quanto riguarda le motivazioni della preoccupazione, l'opinione pubblica dichiara la sua inquietudine anzitutto per le ripercussioni economiche del conflitto, seguìta dal timore per la sua possibile estensione. La gestione dei profughi, invece, viene citata per ultima come un problema relativamente gestibile. A proposito poi del cruciale tema dell'invio di armamenti a sostegno della resistenza ucraina, il consenso dell'opinione pubblica italiana è tutt' altro che trascurabile, ma comunque minoritario. Pur variando leggermente da una rilevazione all'altra, la percentuale dei fautori dell'invio delle armi non supera mai quella dei contrari, neppure nella più favorevole delle rilevazioni, quella di Swg che da marzo a maggio si attesta intorno al 40%, con una punta del 49% il 15 aprile. Particolarmente interessante l'approfondimento di Ipsos circa le opzioni del nostro Paese. L'Istituto di sondaggi chiede infatti ai propri intervistati cosa dovrebbe fare l'Italia rispetto alla guerra in Ucraina. La percentuale di chi auspica l'intervento diretto della Nato nel conflitto è bassa, con il minimo del 5% registrato il 20 maggio. Non sono poi molti gli italiani (con un picco del 17% nella stessa data) che ritengono che il nostro Paese debba proseguire a inviare armi all'Ucraina. Con maggiore favore (+5 punti percentuali) è vista l'opzione di mantenere le sanzioni ma smettere di mandare armi. Al netto della percentuale di chi non esprime la propria opinione, la maggioranza relativa degli intervistati auspica (tranne che nella rilevazione del 20 maggio) il ritiro delle sanzioni e l'assunzione da parte dell'Italia di un ruolo di mediazione».

IL SINDACO DI KIEV: “ORA ASPETTIAMO IL PAPA”

Tornano in Italia i marciatori della pace organizzati dal MEAN. Mentre il sindaco di Kiev, che li ha ospitati e incontrati, dice ora ad Avvenire: «Il Papa è benvenuto, lo attendiamo». Giacomo Gambassi per Avvenire.

«Lo si capisce dal fisico imponente che è stato un pugile. Ed è curioso pensarlo accanto a papa Francesco mentre lo accoglierà nella capitale dell'Ucraina. Perché il sindaco di Kiev, Vitalii Klitschko, immagina già il Pontefice nella sua città. Anzi, spinge per una visita. «Vorrei che il Papa venisse in mezzo a noi - spiega -. Faccio mie le parole di Francesco con cui ha espresso la forte intenzione di raggiungere Kiev per toccare con mano il dolore della nostra gente e per far cessare le ostilità. È il benvenuto qui. Non solo. Lo attendiamo». Sindaco al suo secondo mandato, 50 anni, con un passato anche da parlamentare, Klitschko è un po' lo "Zelensky di Kiev" con il suo approccio deciso, lo stile comunicativo efficace, l'aurea di consenso che lo circonda. Il suo volto è sta- to trasformato in un fumetto nelle gigantografie che avvolgono la principale sala del municipio. Un palazzo dove sulla facciata uno striscione dice il sogno, ormai infranto, di "Mariupol libera" ed esalta i "difensori di Azovstal", l'acciaieria simbolo della resistenza della città. «Occorre fare di tutto per fermare questa guerra che la Russia ha scatenato - avverte -. Ma c'è bisogno di un impegno attivo, propositivo di tutti: dai governi alla società civile».

C'è spazio per aprire i negoziati?
L'Ucraina è pronta al dialogo. Ma non al compromesso, se compromesso significa rinuncia a una parte del territorio. Se qualcuno arrivasse in Italia e occupasse una o due regioni, poi vi proponesse un accordo che prevede la loro cessione, vuoi accettereste? No di sicuro. Tuttavia la Russia non desidera la pace, bensì la guerra.

Che cosa c'è all'origine dell'invasione delle truppe di Mosca?
La volontà dell'Ucraina di essere parte della grande famiglia europea. Sì, condividiamo i valori intorno a cui la Ue è stata costruita: il rispetto dei diritti umani, la democrazia, la libertà di espressione. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che cos' è una dittatura negli anni dell'Unione sovietica. Ecco, il Cremlino che ancora oggi governa con metodi autoritari vuole riportare l'Ucraina dentro i confini di un tempo: quelli dell'Urss. Perciò ci sentiamo di affermare che per difendere i capisaldi dell'Europa stiamo pagando un prezzo altissimo.

«Vittoria all'Ucraina», si ripete in ogni angolo del Paese. Ma di fronte c'è il ciclope russo.

È vero che stiamo affrontando un esercito che forse è il più potente del mondo. Ma da ex lottatore posso assicurare che la sola forza fisica, materiale non è sufficiente. Servono volontà e determinazione. Cose che la nostra resistenza sta dimostrando.

Si può essere accanto all'Ucraina solo con le armi?

L'Europa e quindi anche l'Italia possono sostenere il nostro Paese in più modi: con gli aiuti umanitari che ancora sono fondamentali perché in troppi, soprattutto sfollati, hanno perso tutto; con la generosa accoglienza delle nostre donne e dei nostri bambini all'estero, come state già facendo; con la pressione politica; e anche con l'invio di armi. La gente d'Ucraina è sempre stata pacifica. Il supporto militare è vitale per arginare l'aggressore. Inoltre è un errore pensare che questo conflitto sia lontano dall'Italia. Siamo il Paese più esteso d'Europa: è quindi una guerra nel cuore del continente.

Lei ha accolto lunedì in municipio la prima manifestazione italiana di cittadinanza attiva con sessanta "pacificatori" del Mean. Perché?

Perché considero amici chi è a fianco del nostro Paese e, come noi, ambisce alla pace. Apprezzo chi ha il coraggio di venire qui: solo vedendo con i propri occhi la distruzione di oltre trecento edifici soltanto a Kiev o il terrore che si vive, è possibile capire quanto sia necessario spendersi per fermare gli scontri. Ed è anche il miglior modo per annientare un'altra arma che Mosca sta usando: la disinformazione. Ci descrive come nazionalisti esaltati. Io stesso sono la prova che si tratta di una menzogna. Mia mamma è russa. In me scorre sangue russo. Lei vive qui senza aver mai imparato l'ucraino. È stata discriminata? È stata offesa? Mai. Nel nostro Paese la convivenza di nazionalità e lingue diverse è una realtà. E anche una ricchezza da preservare».

ELICOTTERI ITALIANI IN VENDITA

Fra cinque giorni comincia in Inghilterra la fiera dell’areospazio e difesa di Farnbourough. Ci saranno anche le aziende italiane. Giulio da Silva per Il Fatto.

«Alla fiera dell'aerospazio e difesa di Farnborough, cittadina a 50 chilometri a Sud-Ovest di Londra, in cui dal 18 al 22 luglio si svolgerà uno dei due grandi saloni mondiali del settore, oltre all'esposizione di aerei, elicotteri e droni ci sarà un padiglione dedicato allo spazio in tutte le sue applicazioni, inclusa la guerra. Dopo la chiusura per pandemia nel 2020, ripetuta nel 2021 per l'altro grande salone (Le Bourget), Farnborough riapre con una massiccia presenza delle industrie. Oltre ai colossi americani Lockheed Martin, lanciatissima per le nuove commesse di armi in seguito alla guerra della Russia in Ucraina, Boeing (un po' ammaccata per i problemi nei jet commerciali), Northrop, al campione britannico Bae Systems, a Airbus, ci sarà l'ex Finmeccanica, Leonardo. Azienda italiana che ha fatto della Gran Bretagna la seconda patria per le acquisizioni, perfezionate quando il numero uno era Pier Francesco Guarguaglini, dell'azienda di elicotteri Westland e delle fabbriche di radar e sensori vendute da Bae Systems. Il gruppo guidato da Alessandro Profumo ha un ampio padiglione con i suoi prodotti, un enorme chalet in cui accoglie gli ospiti. Leonardo è anche "official media registration sponsor", in passato spesso questo ruolo (costoso) l'ha avuto Boeing. Leonardo sta facendo una lobby fortissima per aggiudicarsi una commessa della Difesa britannica di 44 elicotteri da guerra, del valore stimato sui 2,5 miliardi di euro, con l'Aw 149 (ne ha appena venduti 32 in Polonia). Il fiore all'occhiello di Profumo è la partecipazione al programma del nuovo cacciabombardiere Tempest, lanciato da Londra nel luglio 2018. Leonardo è riuscita a convincere anche il governo italiano a stanziare 2 miliardi, ai tempi del Conte-bis, con la legge di Bilancio per il 2021, la spesa è spalmata fino al 2035. Per fare lobby, Leonardo ha organizzato a Londra un evento all'Oxo Tower Restaurant il 19 luglio. Gli inviti sono diretti anche a politici italiani. Oltre agli affari, Profumo pensa alle nomine. Il suo mandato, il secondo, scade a maggio 2023».

LA UE: AIUTI A KIEV PER UN MILIARDO

L'Europa annuncia un nuovo sostegno economico per Kiev: offrirà un miliardo in prestiti. Francesca Basso per il Corriere da Bruxelles.

«La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina si fa sentire sull'economia europea. I ministri delle Finanze degli Stati membri sono preoccupati dell'impatto di un eventuale taglio totale del gas da parte del presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe conseguenze sulla crescita e sull'inflazione. Non viene meno però il sostegno a Kiev anche se i governi non riescono a trovare l'accordo sulla formula da adottare. E così ieri è stato sbloccato solo uno dei 9 miliardi di euro annunciati a metà maggio per aiutare nel 2022 l'Ucraina. Servono ingenti finanziamenti non solo per ricostruire il Paese ma anche per mandare avanti la macchina statale in questi mesi di guerra. Il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, nella conferenza stampa finale ha ricordato che quest' anno l'Ucraina, secondo le stime, avrà bisogno di 39 miliardi di dollari. Intanto gli Stati membri continuano a negoziare tra loro: Germania e Olanda, ma non solo, non sono favorevoli alla prospettiva di garanzie pubbliche degli Stati membri per i prestiti a lungo termine da accordare a Kiev, tenuto conto dell'altissimo livello di rischio. E infatti Berlino nelle scorse settimane ha donato 1 miliardo di euro all'Ucraina. Appena scoppiata la guerra, l'Ue aveva accordato a Kiev 1,2 miliardi di prestiti nell'ambito del piano di assistenza macro-finanziaria, che si sono aggiunti ai 5 miliardi concessi fra il 2014 e il 2021. La Commissione Ue conta di presentare entro la fine dell'estate una proposta per gli 8 miliardi di euro, che dovrà poi essere discussa dal Consiglio. Una cosa è certa: il bilancio dell'Ue è già sotto pressione perciò difficilmente potranno arrivare da lì le garanzie. I ministri finanziari hanno ribadito la necessità di coordinare tra gli Stati membri le misure da mettere in campo per affrontare la corsa dei prezzi dell'energia, questo non solo per evitare distorsioni al mercato interno ma anche tensioni politiche nei Paesi per le diverse scelte. Il problema è che lo spazio fiscale di manovra è diverso da Stato a Stato e dunque anche l'ampiezza delle misure che possono essere adottate. L'Ecofin ha ribadito la necessità di passare ad aiuti targettizzati per sostenere le persone vulnerabili e le imprese, piuttosto che attuare interventi generali ad esempio sui prezzi. Ma soprattutto ha invitato a una maggiore prudenza nelle politiche fiscali per una graduale riduzione del debito. Richiamo emerso anche all'Eurogruppo. Il vicepresidente Dombrovskis ha invitato ad «adottare strategie più prudenti in materia di bilancio ma contemporaneamente - ha detto - bisogna ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili russi e per questo serviranno investimenti supplementari». La Commissione sta liberando delle risorse per finanziare RePowerEu, il piano che ha l'obiettivo di eliminare la dipendenza europea dalla Russia. Ma «questi investimenti dovranno essere combinati - ha detto - a controlli più rigorosi sulla spesa corrente in altri ambiti. Non possiamo più continuare con stimoli di bilancio troppo ampi, servono interventi più mirati». Il ministro ceco Zbynek Stanjura, presidente di turno dell'Ecofin ha ricordato che «in tempi difficili non dobbiamo dimenticarci della disciplina di bilancio» e che «alcuni strumenti, come Next Generation EU, sono unici e non si ripeteranno mai più».

L’EUROPA È A CACCIA DI GAS

Per gli analisti del settore è "impossibile" sostituire il metano russo con il Gnl, il gas liquefatto, mentre l’Unione Europea comincia a prevedere il razionamento. L'Olanda vuole riaprire un giacimento a rischio. Marco Bresolin per La Stampa.

«La situazione è sotto controllo», continua a ripetere il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, convinto che la riduzione dei flussi di gas russo degli ultimi giorni sarà compensata dalle forniture alternative già contrattate. Ma con il passare delle ore cresce il timore di uno stop totale, o comunque significativo delle consegne di metano in arrivo da Mosca. Uno scenario che non lascerebbe molte soluzioni: secondo uno studio del think tank Bruegel, in Europa «la sostituzione del gas russo con quello liquefatto ha raggiunto il suo limite. Le minori importazioni dalla Russia possono essere colmate soltanto riducendo la domanda». Per la commissaria europea all'Energia, il razionamento dovrebbe iniziare già oggi. Kadri Simson lo chiama «risparmio preventivo» e dice che dovrebbe riguardare sia l'industria che le famiglie «per evitare carenze in inverno e una situazione in cui sarà necessario ridurre alcuni settori industriali». Se da un lato i singoli possono dare un contributo riducendo la temperatura dell'aria condizionata, sul fronte industriale per Bruxelles è fondamentale «dare la priorità alle attività che permettono un risparmio energetico». «Se l'Ue lavora insieme, possiamo superare l'inverno senza utilizzare il gas russo» sostiene il premier sloveno Robert Golob, che ieri ha incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Le parole del primo ministro vogliono dire una cosa: gli Stati dovranno aiutarsi tra di loro con misure di solidarietà. È su questo che si concentrerà gran parte del piano al quale sta lavorando la Commissione europea in vista del 20 luglio. Finora la Russia ha tagliato totalmente le forniture a Polonia, Paesi Bassi, Grecia, Bulgaria, Danimarca e Finlandia, mentre le ha ridotte significativamente a Germania, Italia, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Austria. Nel mese di giugno la Spagna ha invece incrementato (rispetto a maggio) l'import di gas (liquefatto) dalla Russia per compensare il calo dei flussi dall'Algeria in seguito alle tensioni diplomatiche. Ma il governo di Madrid ha chiesto agli operatori di ridurre gli acquisti da Mosca. La Commissione sta monitorando il riempimento degli stoccaggi e i Paesi che avranno i serbatoi pieni, come l'Italia, saranno chiamati a condividere il gas con chi è più in difficoltà. In parallelo sta aumentando il pressing sui Paesi Bassi per riprendere le estrazioni in caso di emergenza. Nel Nord, al largo di Groningen, c'è il giacimento più grande d'Europa, dentro il quale ci sono ancora 450 miliardi di metri cubi di gas. Esattamente il triplo di quanto l'intera Ue ha importato lo scorso anno dalla Russia. Attivo dagli Anni '60, dal 2013 il governo ha deciso di ridurre drasticamente l'attività estrattiva e ha previsto di interromperla nel 2023 perché causa di piccole scosse di terremoto che hanno danneggiato le case della zona: l'Aia ha già versato 1,5 miliardi di euro ai residenti per i danni subiti. L'esecutivo ha ribadito la sua intenzione di chiudere il giacimento, ma in una situazione d'emergenza le cose potrebbero cambiare. «Se fosse in gioco la sicurezza delle persone e ci troveremmo costretti a non avere più il gas per riscaldare gli ospedali o per cucinare - ha detto il segretario di Stato per l'industria estrattiva, Hans Vijlbrief - allora dovremmo riparlare del possibile utilizzo del giacimento di Groningen».

LIBANO, LA CRISI DIMENTICATA

Le altre notizie dall’estero. Il Libano è un Paese in crisi, dimenticato dalla politica internazionale. Prezzi in dollari e salari in lire. La situazione economica è catastrofica. E le elezioni non hanno mosso di una virgola lo stallo politico. Da Beirut Pasquale Porciello per il Manifesto.

«La guerra in Ucraina ha sottratto risorse e attenzione al Medio Oriente. Il Libano è balzato dalle cronache internazionali sulla thaura, la rivolta dell'ottobre 2019, l'esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020 e la crisi economica più profonda della sua storia, all'oblio. Beffa oltre il danno per un paese in caduta libera da quasi tre anni, che mai come ora avrebbe bisogno della pressione internazionale affinché il governo dia segni di vita. L'attesa approvazione della legge di bilancio sarebbe uno di quelli: il governo Mikati è ormai in carica da un anno. Il Fondo monetario internazionale ad aprile ha approvato un accordo di tre miliardi di dollari in 46 mesi per riformare il sistema bancario, ma al momento niente ancora di concreto. Le politiche del 15 maggio, che hanno visto qualche leggero cambiamento soprattutto nella rappresentanza cristiana che esprime il presidente della repubblica, neanche hanno sbloccato una situazione che ormai ha perso ogni aspetto emergenziale per diventare cronica. Ma andiamo con ordine: le crisi nella crisi sono molteplici e le principali sono quelle della benzina, dell'energia e del grano. La quasi totale dipendenza dall'estero dell'economia libanese per risorse primarie e secondarie assieme a un'impostazione neoliberista che ha privatizzato sanità, educazione e quasi tutti i servizi sociali, privilegiando dalla fine della guerra civile (1975-'90) a oggi il terziario, fa in modo che a oggi il Libano sia completamente alla mercé dei mercati e soprattutto dei pochi gruppi/famiglie che hanno il monopolio delle importazioni. Il prezzo del petrolio è ai massimi storici: i trasporti sono su gomma e l'elettricità pubblica e privata (la partecipata Edl, Elettricità del Libano, non riesce a soddisfare il fabbisogno e quindi un sistema capillare privato, detto «la mafia dei generatori», produce e vende energia nelle varie aree) è prodotta interamente a diesel.
Oltre ai prezzi proibitivi e nonostante i generatori, le ore di assenza totale di energia sono in media 12-14 ore al giorno. Il grano: il Libano importa oltre il 60% del fabbisogno da Russia e Ucraina, come quasi tutto l'olio di semi. L'esplosione al porto ha distrutto proprio i più grandi silos del paese, anche un minimo stoccaggio è oggi impossibile. La crisi del pane può scoppiare in maniera devastante da un momento all'altro e già adesso la produzione è diminuita e i prezzi sono alle stelle. La lira libanese è agganciata dal 1997 al dollaro a un tasso fisso di 1.507 lire, che tale rimane ancora oggi formalmente, ma dalla fine del 2019 ha subito una svalutazione nei fatti: al mercato nero un dollaro viene scambiato per 30mila circa. L'intera economia, dopo un paio d'anni di incertezza e speculazione, è al momento totalmente dollarizzata, motivo per cui le categorie che vengono ancora pagate in lire, specie il settore pubblico (o privato che offre servizi pubblici come sanità e scuola), sono state e continuano a essere quelle su cui la crisi ha avuto un impatto maggiore. Dal primo luglio anche le tariffe telefoniche non sono più calcolate in lire, ma in dollari. In tal senso vanno intesi gli scioperi dei giorni scorsi. «A livello personale capisco tutto ciò che gli impiegati fanno e perché scioperano. Ma scioperare non risolverà proprio niente. Lo sciopero non avrà risultati, se non quello di lasciar sfogare agli impiegati la loro frustrazione». Così il ministro ad interim della cultura Mohamad Wissam Mortada sugli scioperi dei giorni scorsi della pubblica amministrazione, una delle categorie maggiormente colpite dalla crisi economica più feroce della storia del Libano. La settimana scorsa gli agenti di terra dell'aeroporto di Beirut hanno annunciato che non faranno più i turni notturni dal primo agosto. Al collasso anche le prigioni per il sovraffollamento e per la lentezza dell'intera macchina amministrativa. Non si trovano psicologi che vogliano andare nelle carceri, perché pagati appena due dollari l'ora. Tragico che rasenta il ridicolo, non si possono rinnovare i passaporti, per cui i libanesi pagano l'equivalente di oltre 100 dollari e su cui lo Stato guadagna: mancano materialmente i libretti da stampare, segno di un degrado e di una disorganizzazione nella cosa pubblica che è specchio di un sistema clientelare e corrotto completamente inefficiente. Gli uffici pubblici hanno letteralmente finito carta e inchiostro. E a Sud continua il braccio di ferro con Israele sulla questione del confine marittimo sul quale i due Stati non concordano e che definirebbe l'accesso ai giacimenti di gas a largo delle coste. La tensione tra Hezbollah e Israele dei giorni scorsi sembra essersi allentata, ma serve da promemoria: un'escalation è possibile da un momento all'altro. La povertà è a cifre impensabili qualche anno fa, ma il dato più inquietante è l'immobilità politica nella quale la tragedia si consuma».

SRI LANKA, LA FUGA DEL PRESIDENTE

Rumor sui tentativi del presidente Rajapaksa di lasciare lo Sri Lanka, dopo l’assalto al suo Palazzo. Il Presidente dovrebbe dimettersi oggi. Piazze presidiate, fuga impossibile. Emanuele Giordana per il Manifesto.

«Wanniarachchige Samanalee Fonseka è un'attrice televisiva molto famosa nello Sri Lanka. Ma è anche un'attivista assai nota che spopola su Instagram, Facebook e Youtube. Ieri, racconta il sito locale NewsWire, si è fatta portavoce del movimento GotaGoGama (Gotabaya vai a casa) che è un po' la sigla dietro cui si raccoglie la protesta popolare. Samanalee ha scritto sulla sua pagina Fb che il popolo ha dato un ultimatum al presidente Gotabaya Rajapaksa e al primo ministro Ranil Wickremesinghe perché si dimettano entro le 13 di oggi. Samanalee ha poi chiamato la gente a riunirsi davanti ai palazzi del potere. Non ce n'è bisogno, sono presidiati ormai da sabato scorso da migliaia di srilankesi inferociti. Rajapaksa dovrebbe dimettersi oggi e, a seguire, toccherebbe a Wikremeshinghe. Il passaggio, secondo la Costituzione, aprirebbe la strada al governo di unità nazionale che, con tutti i partiti rappresentati, dovrebbe portar fuori il Paese dalla crisi istituzionale e ricominciare il negoziato col Fondo monetario. Ma i manifestanti non si fidano. Al Jazeera ha pubblicato ieri un documento del movimento che disegna uno scenario «sudanese»: reso noto il 5 luglio, è un piano d'azione composto di sei richieste fondamentali. Tra queste, oltre alle dimissioni dei vertici, c'è la formazione di un Consiglio popolare di Janatha Aragalaya (Lotta popolare) per controllare la transizione politica. In sostanza, la piazza teme che un governo di unità nazionale dia ancora una possibilità al partito dei Rajapaksa, lo Sri Lanka Podujana Peramuna (Sri Lanka People' s Front), guidato da Mahinda Rajapaksa, fratello di Gotabaya ed ex premier dimessosi il 9 maggio sull'onda della protesta. Lo vogliono fuori. Che della famiglia Rajapaksa non ci sia di che fidarsi lo si evince dal giallo che continua a circondare i due fratelli fuggiti dalla furia popolare. Dove sia Mahinda non si sa; quanto a Gotabaya, secondo l'indiano The Hindu, avrebbe trovato rifugio in una base della marina che ha il controllo militare di una parte delle piste di volo dell'aeroporto della capitale. Da cui Gotabaya avrebbe voluto prendere il largo. Dopo un via vai di dichiarazioni contraddittorie, ieri il quotidiano ha scritto di aver informazioni sul fatto che Gotabaya avrebbe chiesto il visto americano. Gli sarebbe stato rifiutato. Per la verità il presidente in caduta libera non ne avrebbe avuto bisogno, già aveva doppia cittadinanza. Ma quando è diventato presidente ha dovuto rinunciare al passaporto Usa. Ma che lui voglia scappare all'estero o meno (in passato lo ha già fatto) si dovrebbe capire oggi, se Gotabaya rispetterà quanto fatto filtrare dal suo ufficio già sabato sera e cioè che le sue dimissioni verranno ufficializzate. Ma potrebbe anche decidere per un messaggio telematico evitando di fare la scelta in presenza anche perché recarsi in parlamento potrebbe davvero essere rischioso. Secondo il Times of India, Gotabaya avrebbe già tentato la fuga con destinazione Dubai ma allo scalo non lo avrebbero fatto salire a bordo. Stessa sorte per Basil Rajapaksa, altro rampollo del clan e già ministro della Finanze. Le ricostruzioni abbondano ma sembrano far capire che Gotabaya oggi eviterà la piazza e una presenza nei palazzi del potere che potrebbe trasformarsi in arresto. La famiglia deve aver accumulato una fortuna e potrebbe correre il rischio di vedersi i conti bloccati. Se il denaro del clan non ha già preso il volo per altri lidi».

IL PAPA TORNA SULLE SUE DIMISSIONI

Francesco ribadisce che in questo momento non ha la minima intenzione di dimettersi. Mimmo Muolo per Avvenire.

«Il Papa ribadisce che non ha la minima intenzione di rinunciare: «Al momento non sento che il Signore me lo chieda. Se sentissi che me lo chiedesse, sì». Ma rispondendo ad alcune domande, spiega che nel caso ciò succedesse, non andrebbe in Argentina: «Sono il vescovo di Roma, in quel caso sarei il vescovo emerito di Roma». E sulla possibilità che in quel caso stia a San Giovanni in Laterano, risponde che «potrebbe essere» così. Francesco ha rilasciato una nuova intervista dopo quella della scorsa settimana, questa volta al canale streaming ViX della tv Televisa Univision, toccando diversi temi. Tra gli altri anche quello della posizione di politici cattolici pro choice sull'aborto, rimandati a un esame di coscienza. Papa Bergoglio conferma anche che il ginocchio va meglio e che non si poteva non rimandare il viaggio in Congo e Sud Sudan. «Non avevo la forza - sottolinea -. Ora, venti giorni dopo, c'è questo progresso». Ma niente a che vedere comunque con l'ipotesi dimissioni fatta circolare da alcune testate. È stata «una casualità» il fatto che andrà a L'Aquila dove è sepolto Celestino V (il Papa che fece la famosa rinuncia nel XIII secolo), nei giorni del prossimo Concistoro a fine agosto. Quanto poi alla scelta di Benedetto XVI, ne mette in luce «il grande esempio» che lo aiuterà a «prendere una decisione» qualora fosse necessario. Parla inoltre della sua «grande simpatia» per il Papa emerito, «un uomo che sta sostenendo la Chiesa con la sua bontà e il suo ritiro» di preghiera. E confida che prova gioia ogni volta che lo va a visitare al monastero Mater Ecclesiae. In merito poi alla necessità di normare questa figura, secondo Francesco «la storia stessa aiuterà a regolamentare meglio». Ma «la prima esperienza è andata molto bene», perché Benedetto XVI «è un uomo santo e discreto ». Per l'avvenire, comunque, «conviene delimitare meglio le cose o spiegarle meglio». Sul piano personale il Pontefice ricorda che, prima del Conclave, aveva già preparato il suo ritiro come arcivescovo emerito di Buenos Aires. Avrebbe voluto «andare a confessare e a visitare i malati». Il suo «apostolato », dunque, sarebbe stato quello di «stare al servizio della gente dove si può». «Questo è quello che pensavo a Buenos Aires», ha aggiunto. E questo in sostanza gli piacerebbe fare se sopravvivesse a una eventuale rinuncia. Diversi altri temi sono entrati nelle domande delle due giornaliste Maria Antonieta Collins e Valentina Alazraki. La guerra in Ucraina, ad esempio. Francesco ribadisce che intende parlare del «Paese che è aggredito piuttosto che degli aggressori». Quindi fa riferimento alla sua volontà di incontrare il patriarca russo Kirill a settembre nell'evento interreligioso che si terrà in Kazakhstan. Non dimentica però le altre nazioni in guerra - come lo Yemen, la Siria - e torna martellare sul concetto di «Terza Guerra Mondiale a pezzi» che il mondo sta vivendo e sull'immoralità delle armi nucleari, anche il loro possesso non solo l'utilizzo. Sull'aborto il Papa ripete la sua ferma condanna. Quindi a proposito della situazione venutasi a creare negli Stati Uniti, dopo la decisione della Corte Suprema, Francesco nota che i pastori devono curare sempre la dimensione pastorale, altrimenti si crea un problema politico. Ma nel caso di uno statista cattolico che appoggia l'aborto, gli chiedono, che cosa fare? «Lo lascio alla sua coscienza - è la risposta -. Che parli con il suo vescovo, con il suo pastore, con il suo parroco riguardo a questa incoerenza». Infine il Papa parlato anche delle attese per il prossimo viaggio in Canada all'insegna del perdono per il male compiuto in passato, si sofferma sul dramma dei femminicidi, delle nuove forme di schiavitù e in particolare sulla piaga della pedofilia nella Chiesa. Francesco accenna agli scandali negli Stati Uniti, citando in particolare il Pennsylvania Report. «Si è scoperchiata la pentola», ammette. «Oggi la Chiesa è diventata sempre più consapevole» sugli abusi sessuali, un crimine mostruoso. E c'è «la volontà di andare avanti » e di non essere più «complice» di simili crimini».

AL MEETING CI SARANNO DRAGHI E ZUPPI

Presentazione ieri del prossimo Meeting di Rimini. È stato diffuso il programma dell’edizione 2022, molto fitto di incontri, mostre e testimonianze. Tanti gli ospiti invitati: fra gli ecclesiastici il neo presidente della Cei cardinal Matteo Zuppi. Fra i personaggi istituzionali il presidente del Consiglio Mario Draghi e quello della Corte Costituzionale Giuliano Amato. La cronaca di Avvenire.

«Un invito a condividere la passione per chi soffre, per la libertà, una rinnovata passione per l'educazione». Così Bernhard Scholz, presidente della Fondazione Meeting, ha presentato nell'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, dopo i saluti dell'ambasciatore Di Nitto, la 43ª edizione del Meeting dell'Amicizia tra i popoli, in programma a Rimini dal 20 al 25 agosto. «Una passione per l'uomo» è il tema scelto, tratto «da un discorso del 1985 di don Giussani, di cui ricorre il centenario della nascita. Pace, educazione, lavoro, famiglia, giovani sono tra gli argomenti principali che saranno affrontati al Meeting. A portare il punto di vista della politica italiana sarà il presidente del consiglio Draghi, il cui intervento è previsto il 24 agosto. Il premier torna a Rimini dopo aver inaugurato l'edizione di due anni fa con un discorso che fu una scossa per l'opinione pubblica italiana. Tra gli altri ospiti, il commissario europeo all'Economia Gentiloni che parlerà dell'azione dell'Unione per contrastare le crisi, il presidente della Corte Costituzionale Amato e la ministra della famiglia Elena Bonetti. E proprio Bonetti ha ricordato ieri come il family act abbia «rimesso al centro la speranza di uomini e donne che sono l'anima della nostra società». Una riforma che «non darà frutti in pochi mesi ma che rappresenta un cambio di tendenza strutturale ». Sulle fibrillazioni in corso nella maggioranza, la ministra ha detto che «ogni azione che ostacola il governo è un ostacolo alla ripresa. Le forze parlamentari che non intendono sostenerlo per questioni interne eventualmente se ne assumeranno la responsabilità». La riflessione sul tema centrale sarà del presidente della Cei e arcivescovo di Bologna cardinale Matteo Zuppi. «Prendendo spunto dal libro del Papa 'Il coraggio di costruire la pace' - ha detto ancora Scholz - avremo testimonianze dall'Ucraina, dalla Russia, dall'Africa e dal Medio Oriente». E sulla guerra si è soffermato il segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, Paul Richard Gallagher. «Sono andato in Ucraina in un momento di relativa pausa dei bombardamenti, ma ho visto con i miei occhi la devastazione. «È un popolo coraggioso, determinato a vincere - ha aggiunto - ma di fronte a persone traumatizzate, tante giovani vite perse, famiglie separate con donne e bambini in fuga o sfollati, come diplomatico, e di fronte a tanti diplomatici, devo riconoscere che la diplomazia non ha funzionato. Ma non dobbiamo desistere nel nostro impegno. Quando Papa Francesco mi chiamò, mi disse che non voleva una diplomazia di reazione ma preventiva. Non è facile. Ma quanto è successo in Ucraina è l'indicazione che dobbiamo essere vigilanti, vedere la gravità di quanto accade in Europa e nel mondo». E fin da ora occorre pensare «a ricostruire il tessuto sociale e alla riconciliazione, come accadde tra Francia e Germania dopo la II Guerra mondiale ». Il programma del Meeting è disponibile sul sito www.meetingrimini.org. Da segnalare la mostra sul beato Livatino e due padiglioni, allestiti in collaborazione con il ministero degli Esteri sul tema 'C'è un'Italia che coopera'».

GIUSTIZIA PER ANDREA SOLDI

La Cassazione conferma la sentenza d'Appello di Torino sul caso della morte di Andrea Soldi. “Ucciso dai vigili urbani chiamati per un Tso". La sorella dice: "Si dimostra che non sono una visionaria". Lodovico Poletto per La Stampa.

«Andrea teneva un diario segreto. Sessanta pagine in tutto, trovate soltanto dopo la sua morte. Scriveva di se e della sua famiglia. Delle sue paure, della sua vita, dei suoi istanti di felicità. Andrea scriveva anche lettere alla famiglia: a suo padre, a sua madre, a sua sorella. Ma le teneva lì, con il diario, senza mai spedirle. Ed erano pagine zeppe di affetto, di amore. Di gioia di stare con loro. Andrea era affetto da schizofrenia paranoide. Era un uomo grande e grosso. Buono come il pane, dicono. Poi un giorno - era passato molto tempo da quando aveva smesso di prendere le medicine - arrivarono in quattro nel parco dov' era seduto. Il posto è piazza Umbria, a Torino. C'erano tre vigili urbani e un medico. Un agente lo immobilizzò alle spalle con una mossa al collo. Lo gettarono a terra. Fu ammanettato, e caricato a faccia in giù sull'ambulanza che lo portò in ospedale per il Tso. Andrea Soldi morì pochi minuti dopo il ricovero. Per quella morte, così assurda, senza senso e violenta, quattro persone sono state condannate a 18 mesi. Sono gli agenti della polizia municipale di Torino che eseguirono l'operazione e lo psichiatra che la ordinò. Ieri, a quasi sette anni da quella morte, la Corte di Cassazione ha confermato le condanne, rigettando tutti i ricorsi. E Maria Cristina, sua sorella, quasi s' è messa a piangere. «Ora finalmente Andrea avrà un po' di pace. La giustizia c'è stata. Le condanne sono risibili, è vero. Ma ciò che conta è la condanna morale per ciò che hanno fatto a mio fratello quel giorno. Quella adesso c'è» si sfoga al telefono questa donna che per sette anni ha combattuto in tribunale. Ieri con un gruppo di amici di Amnesty ha atteso la sentenza davanti a palazzo Calderini. Dice: «Io guardavo questo stabile che sembra così imponente e solido. E pensavo: se la giustizia è come questo palazzo, allora non devo avere paura. Qui ci sarà anche quella che si merita mio fratello Andrea. Ecco, adesso sì, sono contenta. Non me lo hanno ucciso. Non odio nessuno. Gli hanno purtroppo fatto cambiare residenza». «Adesso serve una riforma dei servizi dedicati alla salute mentale» dice Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto, la Onlus fondata da Luigi Manconi, che in questi anni è stata al fianco della famiglia Soldi nella battaglia per ottenere la verità. «Il Tso è e deve rimanere un presidio a tutela di chi ha bisogno di cure. Non può tramutarsi mai in uno strumento violento con cui agire controllo sociale. Per questo è necessario un profondo cambiamento dei servizi dedicati alla salute mentale, affinché ci si prenda veramente cura della persona nella sua interezza». E Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International aggiunge: «Questa sentenza restituisce alla famiglia di Andrea un minimo senso di giustizia e afferma una grave violazione dei diritti umani». Intanto da Torino arriva la notizia che il numero dei trattamenti sanitari obbligatori in città è in aumento: quasi uno al giorno. Un dato che la Maria Cristina Soldi conosce bene e che le fa dire: «È enormemente sbagliato misurare le questioni legate alla salute mentale con il numero di Tso che si fanno. Occorre cambiare il tipo di approccio, così da aiutare in modo più concreto le persone fragili». Come? « Il medico deve interagire di più con il paziente, conquistare la sua fiducia. Se accade si lascerà convincere a prendere i medicinali che gli servono, senza bisogno di adoperare la forza». Ma oggi, con la sentenza della Cassazione, è il momento di iniziare a guardare più in là. Ma Cristina Soldi ha ben impressi nelle memoria i racconti di chi vide quel Tso: «Un uomo vide tutto dalla finestra di casa. E intanto urlava di lasciarlo stare, che in quel modo al suo paese non trattavano neanche gli animali. Se penso a questo capisco che di strada da fare ce n'è ancora tanta. Ecco perché devo continuare a battermi per tutti i fragili. Per tutte le persone come mio fratello Andrea».

IL VIOLINISTA LETTONE: ANCHE L’OCCIDENTE RISCHIA IL TOTALITARISMO

Carlo Melato ha intervistato per La Verità a Ravello (dove c’è il prestigioso Ravello Festival) Gidon Kremer, artista lettone e grandissimo violinista, secondo Herbert von Karajan «il più grande al mondo».

« Gli spartiti sventolano come bandiere, le mollette da bucato che avvinghiano i pentagrammi sono sul punto di cedere, ma il Maestro va avanti a suonare indomito. È totalmente immerso nel Concerto di Schumann e non ha tempo di pensare al meteo. Al massimo, durante le pause, tiene ferme le pagine della partitura con abili colpi d'archetto. Mentre l'orchestrale più vicino intercede per lui un secondo prima che sia tutto il leggio a spiccare il volo. Non siamo sul Titanic ma a Ravello, dove il palcoscenico è una terrazza a strapiombo sul mare e alla scenografia ci pensa direttamente la natura, tra raffiche di vento, arcobaleni improvvisi e banchi di nubi minacciose, pronti a spuntare dalle montagne. La magia di Villa Rufolo, che domina dall'alto la Costiera amalfitana, non è un mistero. Nel 1880 riuscì a stregare persino Richard Wagner, che qui trovò «il giardino incantato di Klingsor» per il suo Parsifal, dopo un drammatico litigio con Friedrich Nietzsche a Sorrento. Questa volta - ed è la prima, a 75 anni - ha rapito Gidon Kremer, gigante lettone del violino (secondo Herbert von Karajan «il più grande al mondo») con un repertorio sterminato (da Astor Piazzolla a Luigi Nono) raccolto in 120 album e una lista di premi difficilmente eguagliabile (due su tutti, il Paganini di Genova nel 1969 e il Ciajkovskij di Mosca nel 1970).
Nemico dichiarato della routine e amico delle contraddizioni, Kremer non riesce - o non vuole - trovare pace. Per lui la musica è ricerca continua, che non contempla soddisfazione per ciò che si trova o si raggiunge. La sua carriera, che ha attraversato sul filo dell'equilibrista le tragedie del Novecento, è dominata dall'ansia di restituire, da quando ha realizzato di vivere «la seconda vita» di suo padre - violinista, come il nonno e il bisnonno di Gidon - che vide sterminare la sua famiglia dai nazisti, nel ghetto di Riga. «Quello che dai indietro vive, quello che tieni per te muore», ama ripetere l'artista, che dopo aver studiato con David Oistrakh a Mosca ha sofferto la mancanza di libertà in Unione sovietica, diventando poi un cittadino del mondo - per necessità - in Occidente. «Non sono un politico e fortunatamente non lo sarò mai», confida Kremer alla Verità dopo il concerto al Ravello Festival, «ma come uomo non sopporto l'indifferenza davanti alle ingiustizie del mondo. Per questo ho dedicato il bis alle infinite sofferenze del popolo ucraino».

Maestro, lei dice spesso che dietro a un'esecuzione ciò che conta non è la tecnica, ma il messaggio che il compositore vuole trasmettere. Qual è quello nascosto dietro alle note del Concerto per violino in la minore, op. 129 di Robert Schumann?
«Si tratta di una pagina stupenda, piena di nervi e sangue, che parla d'amore. Nel finale si può sentire chiaramente Schumann che chiama la sua amata Clara. Sono stato molto felice di suonarlo con Christoph Eschenbach - da 40 anni uno dei miei direttori preferiti perché ha la musica dentro - e con l'Orchestra filarmonica della Slovenia. Anche perché con Schumann ho una relazione molto intima. È uno dei compositori più sinceri in assoluto».

Cosa intende dire?
«Non perde mai la spontaneità. A differenza ad esempio di Johannes Brahms, grande architetto del suono, modello assoluto in termini di struttura, eppure, a mio parere, compositore per compositori.
Brahms tende a riempire tutti gli spazi vuoti. E il suo punto debole, come mi disse una volta un collega, è la ricerca della perfezione. A differenza di quanto si possa credere, non è sinonimo di bellezza».

La vastità del suo repertorio, dai classici ai romantici, fino all'avanguardia, senza disdegnare minimalismo e musica popolare, ha sempre destato curiosità. Sembra che la musica non le basti mai. E in questo caso è andato persino a «rubare» un Concerto che era stato scritto per violoncello...
«È lo stesso Schumann a scrivere che la parte per violoncello va benissimo anche per il violino. La differenza tra le due versioni consiste solo in alcuni minimi passaggi. Per questo alle mie orecchie non suona come una trascrizione. Ciò detto, non voglio mettermi in competizione con i violoncellisti e ammetto che l'esecuzione del Concerto con il loro strumento resta l'ideale. Anche se, sotto sotto, l'idea di soffiare qualcosa dalla letteratura violoncellistica mi diverte. Dopotutto, anche loro hanno attinto a piene mani dalla nostra» (ride). «Il repertorio, invece, è in costante espansione: continuo a scoprire cose nuove e questo processo non deve mai fermarsi se si vuole rimanere autentici. La musica non è un museo delle cere».

Nel finale ha eseguito il Requiem di Igor Loboda per non far dimenticare al pubblico che nel cuore dell'Europa è tornata la guerra. Come si sente un musicista come lei davanti a ciò che sta accadendo in Ucraina?
«Questa guerra è terribile, brutale e criminale. Vedo che alcuni giornalisti fanno dei paralleli storici con Adolf Hitler che io eviterei. Di certo però, in questo momento, la dignità umana viene negata e calpestata. Per quanto mi riguarda, non posso che stare dalla parte degli invasi, anche se non credo che l'opinione di un musicista interessi a qualcuno. Nascondermi dietro alla bellezza dei suoni però non fa per me. Il mio compito è trasmettere il messaggio della musica. E spero che l'amore di Schumann l'altra sera abbia generato come minimo empatia e umanità. Nessuno può pensare che ciò che sta accadendo non riguardi ciascuno di noi».

Lei nel 1997 ha fondato la Kremerata Baltica, un'orchestra da camera capace di unire i giovani musicisti di Lettonia, Estonia e Lituania. Crede ancora che la musica possa aiutare il dialogo?
«Può sicuramente costruire ponti laddove sembra impossibile. In quegli anni ho sentito che non dovevo limitarmi a cercare gli applausi, ma piantare un seme. Questa formazione piena di giovani talentuosi è il mio piccolo albero».

Oggi però sembra difficile veder suonare insieme musicisti ucraini e russi. Anzi, questi ultimi, soprattutto i meno famosi, sono stati costretti a cancellare molte date a causa del loro passaporto.

«Escludere musicisti, scrittori e sportivi in base al sangue è sempre sbagliato. È razzismo. Lo dico io che non sono russo e non mi considero più un rappresentante della vecchia scuola sovietica. Anche se sarò sempre grato a Oistrakh e mi sento vicino alla cultura e alla mentalità russa. Questo tipo di esclusioni non sono motivate da ragioni nobili, ma da interessi di basso livello. Un altro discorso è la reazione degli ucraini - comprensibile, ma credo anche temporanea - che in questo momento rifiutano tutto ciò che è russo».

La sua famiglia ha sofferto sotto il nazismo e lei ha visto da vicino il comunismo. Cos' ha imparato sulla libertà?

«I regimi totalitari sono terribili. E quando un politico decide cosa sei autorizzato a dire o a pensare è la fine. Non illudiamoci però, perché anche l'Occidente non è esente da tentazioni totalitarie e la libertà non va mai data per scontata. Da questa parte del mondo regna il totalitarismo commerciale, che coinvolge anche la cultura. Se l'unico problema è vendere, la superficialità domina. Ma la musica esiste per essere servita e non per il proprio tornaconto».».

IL FASCINO IMMORTALE DI ISAAC B. SINGER

Grande ritorno nelle librerie italiane di Isaac B. Singer (premio Nobel per la letteratura del 1978) con una riedizione e nuova traduzione dei suoi racconti, riproposta ora dalla Adelphi col titolo Un amico di Kafka. Ne scrive oggi lo scrittore Alberto Riva per il Domani, che giustamente nota come la comunità dei lettori affezionati di questo grande autore non è mai sazia delle sue opere.

«Un ex attore in disarmo, un'anziana emigrata a New York costretta a passare la notte fuori casa perché ha rotto la chiave nella serratura, o l'enigmatica frequentatrice di una tavola calda, si chiama Esther, che un bel giorno svanisce e poi ricompare. Così come l'ex allieva, oggi dottoressa di fama, che si ripresenta dinnanzi al professore in visita in Israele. E poi, nelle sue infinite variazioni, il personaggio ricorrente: lo scrittore yiddish che a New York campa scrivendo a puntate sul giornale della sua comunità, vive solo, finché un suo racconto attrae una coppia di teatranti che vogliono metterlo in scena, ma non se ne fa nulla. Poi svaniscono, e quando ricompaiono la storia prende pieghe inaspettate. Ecco, grossomodo, il campionario umano sul quale Isaac B. Singer ha composto una delle sue maggiori raccolte di racconti, Un amico di Kafka, che torna ora per Adelphi con una nuova traduzione di Katia Bagnoli e la cura di Elisabetta Zevi (come tutte le riedizioni adelphiane dello scrittore). Una raccolta emblematica dell'autore nato in Polonia nel 1904, Premio Nobel 1978, e scomparso nel 1991 a Miami. In questi racconti c'è tutta la sua varia umanità e la sua problematica di fondo. Quale? La solitudine dell'uomo di fronte a sé stesso. E insieme a questa solitudine una sfrenata, a tratti mistica, a tratti oscena, vitalità. Ci si domanda quale sia il segreto della longevità di un autore come Isaac B. Singer. Le risposte sono tante. La principale è che il nocciolo del suo problema è alla base di interrogativi universali. Nei racconti di Singer non esistono eroi, e forse nemmeno antieroi. Esiste la Storia e il peso che esercita sulla vita dei singoli. I personaggi di Singer sono sempre profughi alla riconquista di uno spazio dove esistere. Nello stesso tempo, il profugo singeriano sa che non c'è davvero un luogo dove riparare. È un profugo metafisico, non geografico. I luoghi sono spazi immateriali; la memoria, innanzitutto. E poi la propria coscienza, dove si svolge la battaglia campale tra desiderio e dannazione. La coscienza, per Singer, è un ring in costante attività, il motore di tutte le nevrosi moderne. Potrebbe essere, in questo senso, il grande erede novecentesco di Dostoevskij. Ma la questione non è così semplice.  Figlio del rabbino chassidico di un villaggio della Polonia orientale che sarà spazzata via da Hitler - insieme alla quasi totalità degli ebrei che l'abitavano - si potrebbe pensare alla sua come a una letteratura di impianto religioso (egli stesso studiò al seminario rabbinico), infarcita com' è di dialettica teologica. Invece non è così. Per Singer la questione di Dio è un armamentario tecnico da usare fondamentalmente in senso umoristico. Singer è un autore comico e insieme convintamente drammatico; se avesse scritto per il teatro sarebbe stato il Pirandello americano. Molti anni dopo, l'impronta di Singer si ritroverà quasi intatta nelle grandi scene/battaglie familiari di Woody Allen e in certi suoi personaggi (Harry a pezzi, ad esempio). Negli anni Trenta, seguendo il fratello Israel anch' egli scrittore, Isaac scappa dalla Polonia prima del disastro e diventa, a tutti gli effetti, cittadino statunitense. E non solo in senso burocratico, ma in primo luogo in senso artistico. Anche in Un amico di Kafka, molti racconti da un lato ci riportano alla Varsavia ante-guerra, ci riportano Alla corte di mio padre, com' era intitolata una famosa silloge in cui Singer narrava l'interno familiare dove si cucinava e si celebrava la legge rabbinica; dall'altro lato - e sono sempre i più accattivanti, se vogliamo conturbanti - abbiamo i racconti della diaspora, quello scenario newyorchese di profughi appunto, emigrati, scampati, gente che si è rifatta i nomi, il colore dei capelli, gli abiti, le abitudini, e che molte volte è solo la lingua - lo yiddish - a tenere uniti, a fare per loro da carta d'identità. Singer stesso, come il suo personaggio più ricorrente - che di fatto è autobiografico - non ha mai abbandonato la sua lingua madre, lo yiddish, quel sonoro dialetto degli ebrei dell'Europa orientale dove si mischiano il tedesco, l'ebraico e una miscela di microidiomi locali pieni di inflessioni e di formule intraducibili. Lingua come specchio di una civiltà che il nazismo ha tentato di cancellare e invece è sopravvissuta, tenacemente, grazie all'opera degli scrittori e dei poeti, e dei musicisti (il klezmer ne è il corrispettivo musicale, remixato anche da molti jazzisti ebrei, basti pensare alla pronuncia popolare e idiomatica del clarinetto di Benny Goodman). Lo scrittore viveva in un appartamento dell'Upper West Side di Manhattan, scriveva in yiddish, revisionava insieme alla moglie Alma i racconti che uscivano regolarmente sulle pagine del The Jewish Daily Forward e poi li faceva tradurre in inglese da un nipote. Quasi tutte le traduzioni estere prendono avvio da quelle versioni inglesi, che lui stesso controllava. La sua carriera parte in sordina, quasi clandestinamente, spesso sotto pseudonimi. Il fratello, scrittore già abbastanza noto nel loro ambiente, muore improvvisamente nel 1944 dopo aver prodotto una lunga serie di opere che però non hanno la scintilla geniale del fratello minore. Eppure, Singer non si stancava di ripetere - forse con una modestia un tantino forzata - che il vero scrittore era il fratello, non lui. Quando però cominciano ad apparire, a puntate, le storie de La famiglia Moskat, Shosha, Il mago di Lublino, i racconti di La luna e la follia, comincia a emergere il profilo di un narratore universale. C'è sullo sfondo Dostoevskij, certo, ma c'è anche il sublime orecchio di Cechov per l'assurdo, e c'è il senso drammatico di Strindberg. È da Cechov che gli viene il senso del comico, un comico che risulta proprio dalla vitalità (e dall'innocenza) con cui i suoi personaggi si scontrano con la tragedia della storia, tradotta in figure perennemente in conflitto con il proprio passato, le proprie decisioni, il senso di inadeguatezza, lo shock culturale, il desiderio di sopravvivere e di amare. Quella di Singer è una letteratura della sete di vita, rappresentata in una gamma vastissima di sfumature - la tenerezza, la menzogna, il sesso, l'utopia delle promesse eterne, e l'inevitabile caduta a terra (Chaplin e Buster Keaton non gli erano, probabilmente, così sconosciuti) Singer ha una tecnica formidabile sui personaggi, che scolpisce a tocchi graduali, contrastanti, in modo da non lasciarli mai finiti, mai risolti e confezionati. In questi racconti ne abbiamo innumerevoli esempi, ma è in quello intitolato Shloimele che ne abbiamo un campionario nelle giovani attrici - Sylvia, Bonnie, Beatrice - che si susseguono nella vita di un fallito manager teatrale impegnato a inseguire un drammaturgo anche lui fallito (la voce narrante) - che ha scritto il racconto di una ragazza che si traveste da uomo per frequentare la scuola talmudica. Qualcuno avrà riconosciuto, forse, la trama di Yentl, il celebre film diretto da Barbara Streisand nel 1983 e tratto da un racconto singeriano della raccolta Gimpel l'idiota. Qui invece la storia è rappresentata da Singer come una finzione, infatti il protagonista è Shloimele, l'ex-attore, regista, produttore che alla fine, quella storia, non la riesce a mettere in scena. Pirandellianamente, abbiamo dei personaggi ma non abbiamo i loro autori: «I nostri incontri, per quanto casuali, cominciarono a mettermi a disagio. Io non avevo un copione, Shloimele non aveva un teatro». Eppure, il drammaturgo che non crede nel suo copione e il teatrante che non ha mai trovato un palco né una protagonista che gli andasse a genio, continuano a incrociarsi nella tavola calda di una zona caotica di New York, mentre gli anni passano inesorabili. La tavola calda - con le sue pietanze che rimandano a sapori di terre perdute, i suoi odori, il senso di provvisorietà - è il grande palcoscenico di Singer. D'altra parte, quando il comitato del Nobel chiamò per annunciare il premio, rispose la moglie: lo scrittore non c'era, era alla tavola calda. Da quell'angolo anonimo di mondo Isaac Singer ha raccontato come forse a nessuno è riuscito uno dei grandi dilemmi del Novecento. Come si sopravvive all'orrore? Tra il drammaturgo e Shloimele è cresciuto un fantasma: lo spettacolo che hanno sognato e che non sono riusciti a realizzare. Non sono riusciti o non hanno voluto? C'è, con ogni probabilità, anche Freud tra i modelli letterari dello scrittore, ma questo viene in mente solo dopo, quando si è girata l'ultima pagina».

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