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Draghi e il dilemma del diavolo
Covid, se il premier prende misure drastiche si mette contro tutti. Se cede ai partiti, non incide sull'emergenza. Corsa al Colle: in spolvero Berlusconi e D'Alema. Un anno fa l'assalto a Capitol Hill
Ieri in Italia si sono registrati 259 morti di Covid. Il tasso di positività è al 13,9%, 170 mila i nuovi contagiati. Negli Usa in 24 ore i positivi sono un milione di positivi. In Francia 271 mila, in Gran Bretagna 218 mila. È un momento di crescita esponenziale del contagio. Omicron galoppa. Ma, come scrive Le Figaro in prima pagina, si rafforza ogni giorno di più la sensazione che si tratti della fase finale della pandemia. Continuano a ritenerlo i mercati, che furono i primi a dare l’allarme sulla variante. Stamattina Il Sole 24 Ore scrive che le Borse continuano nella loro crescita e scommettono sulla fine della pandemia. Un segno inequivocabile: tornano ad aumentare le quotazioni delle compagnie aeree. Un dato è certo: nessun Paese, a parte la Cina, sta bloccando le attività produttive e il commercio. Le uniche pesanti restrizioni riguardano chi non ha voluto vaccinarsi.
Da noi Mario Draghi, come scrive Bei su Repubblica, ha di fronte il “dilemma del diavolo”. Se decide oggi misure forti si espone alle pesanti critiche di Lega e 5 Stelle, se si accontenta di palliativi rischia di prolungare le difficoltà date dalla pandemia. La corsa al Quirinale poi condiziona molto e i giornali di opposizione non fanno mistero di approfittare dell’emergenza Covid per contrastare il premier. Il vertice del wishful thinking politico è nel titolo del Tempo: Draghi battuto dai contagi. In questo senso si capisce perché Il Giornale che ieri diceva L’Italia resta aperta, oggi dice: Servono nuove regole. E Il Fatto sostiene che Draghi ignora i suoi scienziati. Vedremo quali decisioni alla fine il governo prenderà. Sapendo già che il picco dei contagi arriverà fra 10-15 giorni.
Se Covid e scelta per il Quirinale si influenzano a vicenda, sono Berlusconi e D’Alema i protagonisti di questa fase, insieme ai parlamentari 5 Stelle che si sono dimostrati molto critici verso Conte. Allo stato attuale la scelta del successore di Mattarella è dunque nelle mani dei vari franchi tiratori. Carlin Petrini sul Fatto lancia il nome del costituzionalista Zagrebelsky, mentre La Stampa sostiene che gli Usa preferirebbero Draghi al Colle.
A proposito di America, alla vigilia del 6 gennaio, l’assalto a Capitol Hill divide ancora gli Stati Uniti. Fu vero golpe? O meglio: quanto Donald Trump appoggiò davvero l’irruzione violenta nella sede del Congresso? Ne parleranno sia Biden che lo stesso Trump nelle prossime ore. Per il resto le notizie dall’estero riguardano ancora i migranti. In 28 mila hanno cercato di attraversare la Manica. La Germania accetta lo schema europeo del nucleare come “scelta verde”. È stato reso noto il messaggio del Papa per la giornata mondiale dei malati, istituita da Giovanni Paolo II.
Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…
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LE PRIME PAGINE
Stamattina il governo dovrebbe prendere nuove decisioni. Il Corriere della Sera annuncia: «Super pass per gli over 60». Avvenire conferma: Super pass per età. Il Fatto critica: 259 morti. Ma Draghi ignora i suoi scienziati. Anche il Giornale, ieri era rassicurante, oggi è emergenziale: Record di contagi e morti. Ora servono nuove regole. Il Quotidiano Nazionale teme il caos burocratico più che quello sanitario: Quanto ci costano queste quarantene. Il Manifesto indovina un altro titolo, questa volta sulla scuola: Dad line. Il Mattino presenta la scelta sull'età come un inizio: Super pass obbligatorio, si comincia dagli over 60. Il Messaggero è più cauto: Super pass, stretta sugli over 60. La Repubblica sottolinea lo scontro nel governo: Covid, muro contro muro sul Super Pass per lavorare. La Stampa: Obbligo vaccinale per gli over 60. La Verità attacca: Pronti ad ammazzare il lavoro. Libero vede Omicron giocare un ruolo nelle scelte per il Colle: Allarme Covid sul Presidente. Il Sole 24 Ore ricorda a tutti gli obblighi che arrivano (insieme ai miliardi) da Bruxelles: Pnrr, la Ue vuole sette misure al mese. Ma Domani si chiede: Se non sappiamo ricostruire dopo i terremoti, come faremo col Pnrr?
LE NUOVE MISURE SUL TAVOLO DEL GOVERNO
Superpass, l'obbligo esteso a più lavoratori e agli over 60, la terza dose sopra i 12 anni, lo smart working, il rientro a scuola. Oggi il governo decide. Il punto di Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera.
«Estensione dell'obbligo di green pass rafforzato almeno a chi ha più di 60 anni e ad alcune categorie di lavoratori, via libera alla terza dose per chi ha più di 12 anni, nuove regole per lo smart working: è il pacchetto di misure che il governo potrebbe varare oggi al termine del confronto con i presidenti di Regione, ma soprattutto dopo aver trovato l'accordo tra i partiti. Il nuovo decreto per far fronte a un'ondata pandemica che non ha ancora raggiunto il suo picco, passa per nuove restrizioni che proteggano le categorie ritenute a rischio, in modo da scongiurare il pericolo che le strutture sanitarie, e le terapie intensive in particolare, vadano in affanno. Proprio come viene sollecitato da un documento della Conferenza delle Regioni inviato ieri a Palazzo Chigi. Sul tavolo rimane l'ipotesi di imporre il green pass rafforzato a tutti i lavoratori, ma proprio per evitare nuove tensioni tra i partiti alla fine è possibile che la mediazione porti a scegliere le categorie per le quali è ritenuto indispensabile. I governatori Nel documento trasmesso ieri i governatori sollecitano interventi immediati. E scrivono: «Le Regioni e le Province autonome ritengono che l'attuale andamento epidemico necessiti di una profonda rivalutazione complessiva di tutti gli aspetti di gestione della pandemia, rivalutazione che deve partire da un preciso punto della situazione, anche in termini di proiezioni e simulazioni degli scenari di breve, medio e lungo termine. A tale scopo sarà necessaria un'approfondita valutazione di livello scientifico del Comitato tecnico scientifico e dell'Istituto superiore di sanità, manifestando sin d'ora la disponibilità delle Regioni a collaborare. Le caratteristiche dell'attuale contingenza interessano moltissimi aspetti e sono inedite rispetto ad altre fasi della pandemia e necessitano, pertanto, di un approccio nuovo che miri a contenere le ospedalizzazioni, non limitando gli interventi alle sole misure di contenimento del contagio». Gli over 60 Imporre il green pass a chi ha più di 60 anni è il punto di partenza, non è escluso che alla fine la soglia di età possa partire dagli over 50. L'indicazione degli scienziati prevede di mettere in sicurezza chi rischia di avere maggiori conseguenze dal contagio. E in questo senso vanno i presidenti di Regione che sollecitano «una valutazione dell'obbligo vaccinale anche tenendo conto della fragilità dei soggetti più a rischio di ospedalizzazione nonché di una eventuale estensione dell'utilizzo del green pass rafforzato». La risposta del governo potrebbe essere appunto di imporre il green pass rafforzato - che viene rilasciato a vaccinati e guariti - seguendo il criterio delle fasce d'età. I lavoratori La discussione è aperta. Escluso al momento l'obbligo vaccinale per tutti i cittadini, si ragiona sui lavoratori. Il green pass rafforzato per i dipendenti della pubblica amministrazione e del settore privato mostra alcune «criticità nella realizzazione», come hanno fatto notare alcuni esperti di diritto. E dunque - se non ci sarà unanimità all'interno della maggioranza - l'intenzione è di procedere per categorie, proprio come già avvenuto per il personale sanitario e scolastico, per le forze dell'ordine e per i lavoratori esterni delle Rsa. A loro si potrebbero aggiungere gli allenatori delle squadre sportive e chi lavora nelle palestre e nei circoli, alcuni dipendenti che hanno contatti con il pubblico, gli altri lavoratori che hanno contatto diretto con le categorie più fragili. Terza dose ai ragazzi La decisione è presa: dal 10 gennaio i ragazzi tra i 12 e i 18 anni potranno prenotare la terza dose. Il provvedimento sana una situazione di incertezza che si era creata visto che l'adesione alla campagna vaccinale di questa fascia d'età è stata massiccia, ma i giovani rischiano di perdere il green pass alla scadenza dei sei mesi dall'ultima somministrazione. Dal 1° febbraio la validità della certificazione verde scende infatti dagli attuali nove mesi a sei mesi. Lo smart working Sarà una circolare del ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta a chiarire che «fino al 31 marzo 2022 la differenza fondamentale per lo smart working tra pubblico e privato sta nel l'obbligatorietà, per il settore pubblico, dell'accordo individuale, mentre nel settore privato è ancora ammessa la forma semplificata di smart working, senza necessità di accordo individuale». Nel settore pubblico per il lavoro da casa rimane il tetto del 49% dei dipendenti, mentre il privato può arrivare fino al 100%. Una strada che molte aziende hanno già deciso di seguire comunicando ai propri dipendenti la decisione, proprio sulla base della risalita della curva epidemiologica, di favorire il lavoro a distanza».
GIORGETTI FA MURO CONTRO LE NUOVE MISURE
A sorpresa il ministro più critico verso le nuove misure si è dimostrato Giancarlo Giorgetti, l’unico che a Draghi dà del tu. Il retroscena di Tommaso Ciriaco su Repubblica.
«Non si aspettava una resistenza del genere. Non da Giancarlo Giorgetti, che di Mario Draghi è consigliere, sponsor, forse addirittura amico. E invece per un giorno intero il premier battaglia con il ministro leghista, attestato su posizioni salviniane: «No al 2G, no all'obbligo vaccinale!». Minaccia la diserzione del consiglio dei ministri di oggi. Mette a rischio la riunione che dovrebbe approvare il decreto. Ma che, fino a tarda sera, resta in bilico. La guerriglia si salda con gli sgambetti di Giuseppe Conte. Il 5S Stefano Patuanelli potrebbe assentarsi dal cdm in ogni caso. Ma c'è di più. Palazzo Chigi è venuta a sapere che il Movimento intende portare in Parlamento con una mozione il nodo dell'obbligo e del Super Green Pass. Una mossa pesante, che ha spinto il premier a rafforzarsi in una convinzione: tra l'obbligo per gli over 60 e il 2G sul lavoro, è preferibile la seconda opzione, ma gode di maggior consenso la prima. Potrebbe imporle entrambe, ma dovrebbe avere il coraggio di forzare la mano nella cabina di regia in teoria fissata per stamane. Sfidando Carroccio e 5S, rischiando astensioni multiple - o addirittura un voto contrario - in consiglio dei ministri. L'alternativa è un patto al ribasso, che sarebbe interpretato come dettato solo da ambizioni di Quirinale. Ore di elettricità e scontri, si diceva. Che lasciano il sapore amaro di un bivio comunque doloroso. Perché Giorgetti si mette di traverso? Intanto perché l'ultimatum ricevuto da Salvini pesa come piombo: «Attieniti alla linea del partito, altrimenti ti sconfesserò pubblicamente». Ma c'è altro a muovere il ministro. Di recente si sarebbe sfogato in Transatlantico, confidando di considerare ormai esaurita la spinta che ha portato alla nascita dell'esecutivo e la sua esperienza da responsabile dello Sviluppo economico. Un altro anno così, avrebbe spiegato, «sarebbe difficile e logorante». Ieri, però, è stata soprattutto una questione di merito, chiarita direttamente al premier: «Molte aziende non saprebbero come sostituire i lavoratori no-vax nella logistica. Sono ben organizzate con i tamponi, perché mandare tutto all'aria?». Il leghista sposa le ragioni di alcune associazioni confindustriali del Nord, che a differenza di Bonomi non tifano 2G. E Draghi, che ascolta sempre Giorgetti, rallenta per qualche ora. A metà pomeriggio gli uffici dell'esecutivo partoriscono soluzioni creative, ma assai soft: un 2G, ad esempio, valido solo per gli over 60. Di fatto, costringerebbe al vaccino solo i lavoratori no-vax dai 60 ai 67 anni. Forza Italia si oppone, come il Pd e Speranza: troppo poco, quasi nulla. E neanche una introduzione "progressiva" del Super Green Pass, estesa man mano anche a cinquantenni e quarantenni, è considerata sufficiente. Nel frattempo, si rafforza l'asse tra gli azzurri e i democratici: se deve essere obbligo, «che sia per tutti, o almeno per gli over 40». A sera, nel decreto fa capolino l'obbligo temporaneo di vaccino per gli ultrasessantenni e resta in sospeso il nodo del 2G sul lavoro. Il premier, però, si arrovella anche su questo scenario: che sanzioni comminare agli anziani, nel caso? Una multa ai pensionati? Terreno scivoloso, a tre settimane dal voto per il Colle. E si torna al 2G per tutti i lavoratori: ipotesi in campo, ma che potrebbe costare un grave strappo con il rinato fronte populista grillo-leghista. Sono ore anche di sbandamento, a dire il vero. La situazione epidemiologica allarma moltissimo. Un problema alla volta, però, questo è il metodo Draghi. E quindi la vigilia dello scontro serve almeno a risolvere un primo, gigantesco problema: la scuola. Il premier vede alcuni ministri a Palazzo Chigi e chiarisce: «Le lezioni riprendono il 10 gennaio. Uno slittamento non esiste». Tocca a Speranza illustrare il dilemma delle prossime ore: «Se vogliamo difendere la scuola in presenza, allora dobbiamo assumere altre decisioni per raffreddare la curva». Omicron è meno grave ma corre velocissima, le ospedalizzazioni avranno un picco: per mantenere le aule aperte, non resta che lo smart working. Riportare in remoto i dipendenti pubblici a casa è l'incubo di Renato Brunetta. Il ministro, avvertito, si precipita a Palazzo Chigi. Sfruttando il legame pragmatico con Draghi, sigla un compromesso: nessun decreto, che avrebbe il sapore chiaro di una marcia indietro, ma due circolari che ribadiscono le norme esistenti. «Le amministrazioni useranno questa modalità al meglio e nel modo più intelligente - dice l'azzurro - come già viene usato». E d'altra parte, si farà di tutto per evitare un possibile scenario drammatico che circola in queste ore: 400-500 mila contagiati attorno al 15 gennaio. Tre milioni di ammalati a settimana, ospedali in tilt, un pesante rallentamento della fornitura di beni e servizi. Bisogna agire. Lo smart working può dare benefici immediati. Per evitare lo scenario più estremo, che per adesso tutti escludono: un lockdown di 15 giorni per riportare contagi e ricoveri sotto controllo».
IL PUNTO SU OMICRON NEL MONDO
La pandemia da Omicron dilaga in tutto il mondo: negli Usa in 24 ore un milione di positivi. In Francia 271 mila infezioni, in Gran Bretagna 218 mila. Roberto Brunelli per Repubblica.
«La pandemia corre a velocità mozzafiato in tutto il globo. In appena ventiquattr' ore un milione di nuovi contagi negli Stati Uniti, quasi 300 mila in Francia e 200 mila in Gran Bretagna. La domanda che ci si pone a Londra come a Berlino, a Roma come a Parigi e Washington è sempre la stessa: come frenare la corsa del virus evitando di bloccare la vita pubblica. «Possiamo superare Omicron senza chiudere il Paese», assicura il premier britannico Boris Johnson, e lo strumento per riuscire in questo complicato «atto di bilanciamento» non possono che essere i vaccini. Le 218 mila infezione registrati ieri nel Regno Unito dimostrano che «la pandemia non è finita e chi lo pensa sbaglia profondamente», ha scandito il premier. Il punto è che ci sono alcuni fattori a cambiare lo scenario rispetto alle prime ondate di Covid- 19: innanzitutto, «Omicron appare più lieve delle varianti precedenti ». Il che, con il fondamentale contributo dei vaccini, porta ad un contenimento dei casi più gravi: vero che il Regno Unito assiste ad una crescita "significativa" dei ricoveri, così il capo di Downing Street, ma è decisamente inferiore l'impatto sulle terapie intensive. Dunque: niente nuove misure oltre a quelle attuali, in confronto al passato «abbiamo un significativo livello di protezione». È logico che per contrastare la furia di Omicron si continui a fare i conti sulla forza dei vaccini: è il premier israeliano Naftali Bennett a citare uno studio secondo il quale una quarta dose - per la quale in Israele si è data la via libera agli over 60 - fa sì che gli anticorpi, a sette giorni dalla sua somministrazione, vengano "quintuplicati". Ma il problema è che il coronavirus non rimane fermo: nel sud della Francia, a Marsiglia, è stata intercettata a fine novembre una nuova variante. Di origine africana e denominata B.1.640.02, provvista di 46 mutazioni e 37 soppressioni immunitarie, finora ne sono stati individuati solo 12 casi in tutto il Paese: pertanto, dicono gli scienziati, è ancora impossibile valutarne la pericolosità. Resta il fatto che la corsa dei contagi faccia paura, a cominciare dai 978.856 positivi segnalati ieri negli Stati Uniti: contengono anche alcuni conteggi relativi al weekend che alcuni Stati non avevano ancora provveduto ad inoltrare. Ma si tratta comunque del doppio rispetto al precedente record americano, pari a 505.109 casi, mentre è cresciuto del doppio il numero dei ricoveri (oltre quota 100 mila) e risulta ancora costante il numero dei decessi (circa 1800). E di record di contagi parla anche la Francia: oltre 271 mila contro il precedente di 230 mila. Con Macron che promette: «I non vaccinati, voglio davvero rompergli le scatole. Questa è la strategia. Non li metteremo in prigione, non li vaccineremo con la forza. E quindi bisogna dirgli: dal 15 gennaio non potrete più andare al ristorante, a prendere un caffè, a teatro, al cinema». Tra i vaccinati con tanto di booster ma comunque risultati positivi ci sono anche i reali di Svezia, Carlo XVI Gustavo e la regina Silvia. «Hanno sintomi lievi e si sentono bene», assicura una nota della Real Casa. Ma la parola lockdown è tutt' altro che bandita nel resto del mondo. Per fermare Omicron, le autorità di New Delhi hanno imposto una quarantena generale per sabato e domenica prossimi, con la sola eccezione dei beni di prima necessità. In Cina, nella metropoli di Xi' an, che conta 13 milioni di anime, il coprifuoco è talmente rigido che gli abitanti si sono visti costretti a ricorrere al baratto per assicurarsi beni alimentari: detersivi in cambio di un cesto di mele, sigarette per un'insalata, persino un tablet per due manciate di riso».
Lanciato sin dal 2020 il piano Covax non ha consegnato neanche la metà delle dosi previste. È il fallimento del programma che doveva aiutare la vaccinazione dei Paesi poveri. Andrea Capocci per Il Manifesto.
«La diffusione della variante Omicron ha dimostrato al mondo l'importanza di allargare le vaccinazioni ai Paesi a basso reddito. Per riequilibrare le disuguaglianze vaccinali, l'Oms e le organizzazioni umanitarie Gavi e Cepi avevano lanciato sin dal 2020 il programma Covax. Covax raccoglie finanziamenti da Paesi ricchi e poveri e li usa per comprare dosi e redistribuirle in modo equo, alla maniera dei «gruppi di acquisto solidali» di quartiere. L'idea è stata fortemente caldeggiata dalla fondazione di Bill e Melinda Gates, assai influente nell'ambito della sanità globale e nella stessa Oms. L'obiettivo dichiarato - consegnare a Paesi a basso reddito due miliardi di dosi di vaccino entro il 2021 - è stato però clamorosamente mancato. Ad oggi le dosi consegnate sono circa 900 milioni, meno della metà del previsto. In gran parte dei Paesi poveri, la percentuale dei vaccinati rimane ancora molto bassa: meno del 10% della popolazione africana ha ricevuto due dosi di vaccino. Quello di Covax è forse il fallimento più cocente della cooperazione internazionale in tempi di pandemia. «Non parlerei di fallimento» dissente Nicola Magrini, direttore dell'Agenzia Italiana per il Farmaco. Magrini è stato a lungo responsabile della lista dei farmaci essenziali dell'Oms e conosce bene l'agenzia e i suoi problemi. «Covax ha raccolto notevoli finanziamenti. E avrebbe dovuto disporre di molte più dosi» spiega. «Le aziende farmaceutiche non sono state molto puntuali con le consegne. Anche all'Italia mancano parecchie dosi». In effetti, contrariamente al luogo comune, il problema di Covax non è la disponibilità economica. Sulla carta le dosi acquistate o donate a Covax sono oltre 3 miliardi, cui si aggiungono 2,1 miliardi di dosi «opzionate». In tutto, fanno 5,5 miliardi di dosi, sei volte più di quanto ricevuto. Nemmeno la capacità produttiva di vaccini a livello mondiale, di per sé, rappresenta un ostacolo alla vaccinazione dell'Africa. Certo, senza brevetti si sarebbe potuta avviare una produzione locale a basso costo, aumentando la disponibilità per tutti. Ma le dosi prodotte a fine 2021 sono circa 12 miliardi, secondo i dati Covax. Le previsioni parlano di 41 miliardi di dosi prodotte nel 2022, e 43 nel 2023. Quando domanda e offerta non si incontrano, pur avendo i mezzi per farlo, gli economisti parlano di «fallimento del mercato» a causa di monopoli e altre distorsioni del libero commercio. E quello dei vaccini è tutt' altro che libero, condizionato com' è da brevetti, interessi nazionali e autorizzazioni regolatorie. Se Covax non ha ricevuto tutte le dosi prenotate in gran parte è colpa del divieto di esportazione dei vaccini decretato dall'India per far fronte all'ondata della variante Delta nella scorsa primavera. Il Serum Institute of India, che produce il vaccino AstraZeneca su licenza, avrebbe dovuto fornire a Covax circa 500 milioni di dosi acquistate e opzionate. A dicembre, quando il governo indiano ha eliminato il blocco, ne risultavano consegnate solo 30 milioni. L'altro «buco» nelle consegne si chiama Novavax. L'azienda doveva fornire 1,1 miliardi di dosi a Covax. Tuttavia, garantire gli standard di qualità occidentali nella produzione su larga scala del vaccino si è rivelato più difficile del previsto. Questo ha rallentato le procedure di autorizzazione degli impianti. Perciò Covax, come tutti gli altri stati, aspetta ancora le prime consegne. Anche le consegne dei 650 milioni di dosi prenotate dalla Moderna, un altro fornitore di Covax, sono sostanzialmente ferme. Oltre ai ritardi nelle consegne dei fornitori, Covax non ha potuto contare nemmeno sulle dosi promesse dai governi sotto forma di donazione. Per esempio, secondo i dati di fine novembre, dei 308 milioni di dosi che l'Ue aveva annunciato di regalare a Covax meno di 60 erano arrivati ai Paesi destinatari. Per l'Italia, il data scientist Vittorio Nicoletta dell'università di Laval (Canada) ha censito 33 milioni di dosi consegnate finora, sui circa 55 milioni «assegnati» dal nostro governo. Meglio, ma sono numeri ancora lontani da quelli annunciati. Per di più, molte delle dosi consegnate ai Paesi a basso reddito non sono state somministrate e in qualche caso sono state rispedite al mittente. Solo il 56% delle dosi fornite ai Paesi africani è stato effettivamente utilizzato. Più che i movimenti no vax, secondo Saad Omer, direttore dell'Istituto per la salute globale dell'università di Yale (Usa), ha contato la difficoltà di organizzare campagne vaccinali con dosi che arrivano a singhiozzo e senza programmazione. «Un Paese a basso reddito non si può permettere di mettere in piedi un sistema di distribuzione e lasciarlo inattivo, non sapendo né la quantità né la tipologia dei vaccini che riceverà». La tara del programma Covax risiede proprio nella scelta originale di affidarsi al mercato, invece di puntare a riequilibrare le disuguaglianze strutturali tra ricchi e poveri. L'Oms e i suoi «filantrocapitalisti» hanno creato un soggetto dotato del potere contrattuale necessario per partecipare alla spartizione dei vaccini. Ma a quel tavolo il controllo delle frontiere nazionali, cioè delle esportazioni, delle autorizzazioni regolatorie e dei brevetti, ha contato più del denaro da spendere. Poteva funzionare se al meccanismo Covax avessero aderito tutti i Paesi, anche quelli ricchi, accettando di condividere i vaccini disponibili su base di equità: ma non lo ha fatto praticamente nessuno. Alla fine, con tanti soldi ma senza un territorio, Covax si è rivelato un gigante di argilla».
DRAGHI E IL DILEMMA DEL DIAVOLO
Sulle decisioni che vanno prese oggi, non pesano solo ragioni scientifiche o scelte di opportunità. Incombe infatti il futuro della coalizione di maggioranza e sullo sfondo l’elezione al Quirinale, che comincia fra tre settimane. Francesco Bei per Repubblica.
«Ritorno della Dad, chiusure degli Istituti scolastici, obbligo vaccinale, Super Green Pass per i lavoratori, smart working. Le decisioni che il governo si trova ad affrontare in queste ore delineano un collo di bottiglia dell'emergenza sanitaria. A dettare l'agenda politica non sono i partiti o il presidente del Consiglio ma, come spesso è avvenuto in questi due anni, è di nuovo il Covid. Un agente virale che diventa agente politico. Così le scelte che Draghi prenderà oggi in Consiglio dei ministri dispiegheranno i loro effetti in un arco temporale che coinciderà con l'inizio delle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica, in un gioco a catena che naturalmente influenzerà anche l'elezione per il Colle. Il conflitto a cui stiamo assistendo ha una doppia dimensione, orizzontale e verticale. Ed entrambe possono influenzarsi. ll terminale ultimo dove queste due dimensioni si scaricano è infatti sempre lo stesso: Mario Draghi, principale candidato per la successione a Mattarella. Lo scontro orizzontale è quello interno alla maggioranza, tra favorevoli e contrari a imporre ai lavoratori il Super Green Pass. Schematicamente, da una parte troviamo un redivivo asse populista giallo-verde che si oppone all'obbligo del 2G. Dall'altra il Pd, Speranza e la parte "brunettiana" di Forza Italia. Lo stesso schieramento dovrebbe replicarsi se, invece del 2G per i lavoratori, si optasse per l'imposizione del vaccino per legge agli over 60. Novità rilevante del braccio di ferro odierno rispetto al passato è che al premier viene a mancare un alleato prezioso, quel Giancarlo Giorgetti che aveva sempre interpretato un'altra Lega, pragmatica, orientata al buon governo, incline al compromesso. Sembra invece che stavolta sia proprio Giorgetti il capofila degli scettici, tanto da aver relegato Salvini in secondo piano. L'altra dimensione dello scontro, quella verticale, è tra Roma e le Regioni. Il terreno della battaglia è la scuola ed è interessante notare che, su questo piano, non ci sono distinzioni fra governatori di destra e di sinistra. Tutti, più o meno intensamente, pensano sia un errore riaprire il 10 gennaio. Con una battuta che circola nelle stanze del governo: i governatori preferiscono chiudere le scuole e tenere aperti i ristoranti. Al contrario, il presidente del Consiglio appare irremovibile sulla scuola in presenza, incontrando la sensibilità della maggioranza dei genitori contrari alla didattica a distanza. Dunque, qualsiasi cosa deciderà, qualsiasi strada sceglierà di percorrere sui vari dossier aperti, Draghi inevitabilmente dovrà scontentare qualcuno. Ma, a differenza di prima, gli sconfitti avranno subito a disposizione una potente arma di rivalsa nel voto segreto per il Quirinale. E stavolta anche le Regioni saranno della partita, con i loro 58 grandi elettori. Per il premier si tratta di un passaggio stretto. Prevarrà il metodo decisionista adottato in molti frangenti in questi 11 mesi? Oppure Draghi, come diceva di sé Berlusconi, saprà farsi "concavo e convesso" per cercare una mediazione a tutti i costi? La giornata che affrontiamo ci darà molte risposte. Ma appare sempre più evidente che "l'agente Covid" impatterà in maniera anche più pesante del previsto sul Colle. Anche perché le previsioni indicano proprio nei prossimi quindici giorni, ovvero a ridosso del fatidico 24 gennaio, il picco dell'ondata invernale. Le scelte o le non-scelte del Consiglio dei ministri determineranno i numeri dei contagiati delle prossime settimane. E questi numeri, a loro volta, diranno se l'emergenza sarà ancora così grave da impedire al premier di lasciare il fronte più esposto della guerra. Il bivio è chiaro. Se Draghi andrà allo scontro con i partiti più "lassisti" sul virus eviterà molti contagi ma, forse, si giocherà i voti per l'elezione al Quirinale. Se, al contrario, si mostrerà più accondiscendente, la curva degli ammalati scenderà più lentamente. E tuttavia, con gli ospedali pieni e la variante fuori controllo, come potrà abbandonare Palazzo Chigi? È un dilemma del diavolo. E la scelta dovrà essere presa oggi».
QUIRINALE 1. I 5 STELLE IN FERMENTO
Tormentata Assemblea dei parlamentari 5 Stelle. La cronaca di Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Mancanza di una linea chiara e al contempo un'aria pesante da resa dei conti, a cui si arriverà dopo lo snodo quirinalizio, soprattutto se le cose non dovessero andar bene: sono giornate complicate per il M5S e per Giuseppe Conte. L'uscita in chiaro del gruppo del Senato di lunedì sera con un appello per il Mattarella-bis, che nei fatti depotenzia le altre mosse dei vertici, è l'ultimo capitolo di una strategia generale caotica. È anche innegabile che un po' tutti, Pd compreso, si avvicinino all'appuntamento politico dell'anno con vari marasmi interni. Ma è impossibile non notare che in queste ultime settimane nei 5 Stelle si è passati dal sì a Mario Draghi al Quirinale, al no, ad una nuova cauta apertura; dall'avvio di un coordinamento con Pd e Leu all'offerta pre-natalizia di una candidatura d'area al centrodestra, al patto di togliere dal tavolo l'ipotesi Silvio Berlusconi; dal troviamo un nome di centrosinistra da contrapporre al Cavaliere, meglio se donna, concordata con Enrico Letta e Roberto Speranza, all'idea di una donna tout court , al di là degli schieramenti. E poi: forse la scelta finale passerà dalla base col voto online, forse no, chi lo sa. Per ultima, la richiesta di un nuovo mandato a Mattarella, opzione definita improvvisamente «la nostra prima scelta» dal vice di Conte, Michele Gubitosa, interpellato dopo l'uscita dei senatori. Insomma, destreggiarsi non è facile. Intanto va detto che chi lo conosce bene ha chiaro che il presidente della Repubblica non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi. Si racconta comunque che nella riunione tra i senatori di due giorni fa a un certo punto, dopo quasi tre ore, la vicepresidente vicaria del M5S Paola Taverna abbia provato a ribaltare metaforicamente il tavolo. Cioè a depotenziare il senso stesso dell'assemblea (ovvero chiedere maggiore peso e presenza nelle trattative che sta facendo Conte, quasi accompagnandolo passo passo) senza tirar fuori nomi o suggestioni. «Ma cos' è, un'autogestione? », è la battuta che gli è stata attribuita dall'Adnkronos, rivolta all'assemblea e alla capogruppo Mariolina Castellone. E pensare che sono due i senatori tra i cinque vice del presidente, l'altro è Mario Turco. Nonostante questo, da Palazzo Madama continuano ad arrivare aperti segnali di ribellione all'autorità, il primo dei quali fu la clamorosa bocciatura del supercontiano Ettore Licheri alla guida del gruppo. Le avvisaglie in questi giorni c'erano state eppure Taverna e Turco, e infine Conte, sono stati colti alla sprovvista dal passo in avanti dei compagni di partito. La risposta è stata comunque quella di abbozzare, vedi le parole di Conte stesso in riunione congiunta: «Saremo determinanti se compatti, questo non è il momento di fare nomi e comunque sarete coinvolti ». Il punto però è che se ogni giorno il Movimento ne dice una nuova e diversa - da manuale quanto accaduto al ministro Stefano Patuanelli: intervista lunedì al Piccolo di Trieste per dire che sarebbe meglio per tutti tenere Draghi a Chigi; nuova intervista ieri al Corriere della Sera con nuova virata e un sibillino «nessuna preclusione» a Draghi al Quirinale - diventa difficile per il resto dei partiti avere un interlocutore privilegiato nei 5 Stelle. I cui parlamentari temono che Conte abbia il desiderio di andare a elezioni anticipate, cosa che per la gran parte di loro significherebbe andare a casa anzitempo, per non tornare mai più nei palazzi che contano; Conte invece spergiura di avere a cuore più di ogni altra cosa la stabilità e teme che in questa partita i 230 voti sulla carta del M5S alla fine risultino ininfluenti. «Ma poi che senso avrebbe voler tornare al voto con queste percentuali nei sondaggi? Ci serve tempo per crescere», è il ragionamento che da giorni l'ex presidente del Consiglio va ripetendo ai suoi. L'unica cosa in comune tra i vari attori in campo in casa 5 Stelle, però, è un'altra: nessuno sembra fidarsi davvero dell'altro».
QUIRINALE 2. BERLUSCONI, CHI GLI DICE NO?
Ieri c’è stata una manifestazione del popolo viola contro la sua candidatura, anche se i suoi fanno notare che non è ancora sceso ufficialmente in campo. Il retroscena di Francesco Verderami per il Corriere.
«Ci sono cose che non si chiedono a una persona quando si parla di un suo amico. Il dirigente grillino l'ha capito nel momento in cui ha provato a chiedere a Fedele Confalonieri se dietro la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale ci fosse un «piano b». «Lui è l'uomo delle cose impossibili. E noi - che gli dobbiamo tutto - faremo per lui l'impossibile». La risposta offerta dall'amico di una vita del Cavaliere rende insieme l'idea della determinazione con la quale viene portato avanti il progetto e l'estrema difficoltà della missione. Così Berlusconi si pone ai nastri di partenza della Corsa, protagonista e strumento (consapevole) di quanti lo usano per bloccare l'ascesa di Mario Draghi al Colle. Tra questi ci sono molti autorevoli esponenti del Pd. Ed è soprattutto a loro che si rivolgeva l'altro ieri Enrico Letta, quando ha detto a Matteo Salvini che non siederà a nessun tavolo di trattative sulla presidenza della Repubblica, finché non verrà sgombrato il campo dalla candidatura del leader di Forza Italia. Quel nome è ingombrante per il segretario dei democratici, alle prese con compagni di partito che pesano e contano nei gruppi parlamentari. E che osteggiano il suo disegno. Quel nome è ovviamente ingombrante anche nel centrodestra, perché è complicato per Salvini e Giorgia Meloni dire no al fondatore della coalizione, pur comprendendo che la mossa potrebbe rivelarsi esiziale. Ma nessuno nell'alleanza è disposto a togliere per loro le castagne dal fuoco, perciò durante una riunione Gaetano Quagliariello ha detto che «se Berlusconi vuole davvero provarci, lasciamolo confrontarsi con la storia». E il Cavaliere ci sta provando davvero, per quanto la proiezione dei numeri al quarto scrutinio appaia avversa. Raccontano che Gianni Letta abbia cercato di farglielo capire. E che, non avendo ottenuto risultati, si sia sfogato a voce alta con un rappresentante della coalizione: «Avete idea del contraccolpo psicologico che subirebbe? E voi ne avreste la responsabilità». Il fatto è che Berlusconi non ci sente. Riempie tutti di chiamate e di quadri. Alla vigilia di Natale un parlamentare che invoca la privacy si è sentito chiamare dal portiere di casa: «Onorevole, c'è un pacco per lei». «Va bene, lo tenga lì. Poi passo a prenderlo». «Onorevole, è così grande che non riesco nemmeno a fotografarlo». «Ma cos' è?». «Sembra un quadro». Erano due enormi tele provenienti dalla quadreria del Cavaliere, custodite in un capannone industriale vicino ad Arcore: un migliaio di opere appese ai muri, raffiguranti Venezia, nudi e madonne con bambino. E in mezzo all'edificio disadorno un unico divano. Non è chiaro se con quelle opere pensi di arredarci il Quirinale, è certo che si immagina lì. «Ma non è un'ossessione la sua», spiega Bobo Craxi, che milita nel centrosinistra e gode di un rapporto di antica data con il Cavaliere: «Non è che lui pensi "o Colle o morte". Vuole giocarsi le sue chance, tutto qui. E se dovesse riuscirci, sarebbe il Pertini del popolo di centrodestra. Perciò non si convince alla prospettiva di fare il king maker». Di nomi in attesa di endorsement ne circolano parecchi nell'alleanza, a partire da quello di Elisabetta Casellati, presidente del Senato votata a suo tempo anche dai grillini. Casini non si fa irretire da certe voci: «Se Silvio non è andato fuori di testa, all'ultimo momento appoggerà Draghi». Quell'«ultimo momento» non è ancora arrivato. Anzi, al momento Berlusconi sostiene che il premier al Colle «non lo vuole nessuno». In realtà il leader del Pd lo vede come la via d'uscita per evitare danni al Paese e alla sua segreteria. A tal proposito, il Cavaliere non si capacita del veto che gli ha posto «il nipote di Gianni»: «Gli votai la fiducia da presidente del Consiglio, abbiamo fatto il governo insieme... Gianni potrebbe parlarci, no?». Ecco perché «Gianni» in questa fase fatica a mantenere il suo aplomb. E come lui, altri stentano a capire se quella di Berlusconi sia una manovra diversiva o se il leader di Forza Italia sia preda di un incantesimo. In ogni caso lui è lì, al bivio per il Quirinale. Complica le mosse di tattici e strateghi, di chi ambisce alla presidenza e di chi vorrebbe intestarsene l'elezione. Persino Matteo Renzi non sa cosa voglia davvero fare il Cavaliere, e per capirlo - poco prima di Natale - si era ripromesso di incontrare l'altro Matteo: «Perché se Salvini si mettesse finalmente a fare politica...». In realtà la politica mostra la corda. E non c'è capo di partito che possa fare completo affidamento sui propri gruppi. Quando un autorevole esponente della Lega dice che «stavolta conteranno i singoli parlamentari», ripete quanto sostiene un suo parigrado del Pd. Nel caos c'è chi scommette su Draghi, «ma non ai primi tre scrutini. Intanto perché c'è di mezzo Berlusconi. Eppoi perché nessuno controlla tutti quei numeri. Mettiamocelo in testa».
QUIRINALE 3. D’ALEMA COME IL CONTE DI MONTECRISTO
Antonio Polito sul Corriere dipinge il ritratto del Gran Maestro del risentimento: Massimo d’Alema. Insieme a Berlusconi è lui a tenere la scena in vista del Colle.
«Il Gran Maestro, il vero Obi-Wan Kenobi del Partito del Risentimento è naturalmente Massimo D'Alema. La sua ultima uscita è un piccolo capolavoro del genere. Per poter rientrare nel Pd chiarisce subito che ha fatto bene ad uscirne. E non maltratta solo Renzi e i renziani, definiti una «malattia», seguendo uno stile che applica le categorie della psichiatria alla lotta politica e che risale ai bolscevichi. Ma aggiunge anche che la malattia si è curata da sola, così da mettere in chiaro che non solo i renziani erano una tabe, ma anche gli anti-renziani rimasti nel Pd erano dei fessi. Tra costoro, ovviamente, include l'attuale segretario del Pd. L'unico che aveva capito tutto era lui. Si deve dunque solo a un destino cinico e baro se il successo elettorale del suo partitino è tale da consigliare di ri-scioglierlo nel Pd. Un trionfo del risentimento capace perfino di suturare per un istante quello storico tra Letta e Renzi, che si odiano sì fraternamente, ma non quanto tutti e due odiano D'Alema. Intendiamoci: il risentimento non è mai stato qualcosa di estraneo alla politica. Ne è anzi una componente fondamentale. Nella patria della democrazia, gli Stati Uniti, è anzi diventato l'anima di una guerra vigile strisciante chiamata «polarizzazione». Ma forse è per questo che furono inventati i partiti di massa, proprio per metabolizzare il desiderio di rivalsa che inevitabilmente avvelena le personalità in conflitto. E niente come la storia delle grandi battaglie per il Quirinale sta lì a dimostrare che invece, in quella arena, devi proprio «secolarizzare» gli odii del passato e sublimarti in un'altra dimensione, che è per l'appunto politica. Per esempio: non dev' essere stata cosa da poco per Craxi, alfiere del partito della trattativa durante il caso Moro, eleggere nel 1985 come presidente Francesco Cossiga, che invece della linea della fermezza era stato l'inflessibile esecutore dalla postazione di ministro dell'Interno. E così il Psi votò per l'uomo il cui nome la sinistra parlamentare scriveva sui muri con la K e le SS. E il Pci votò per l'ex premier che aveva aperto la porta di Comiso agli euro-missili americani, puntati contro l'Urss. Perché sia Craxi sia Natta capirono che era il male minore. Risultato: 752 voti al primo scrutinio, su 977. Né deve essere stato facile, qualche anno prima, nel 1964, per Pietro Nenni, candidato delle sinistre lanciato in testa alla gara dalla faida democristiana, mettersi da parte a un certo punto e chiedere sia al suo partito che ai comunisti di votare per Giuseppe Saragat, fratello-coltello della scissione socialista, l'uomo che se n'era andato per fondare un partito concorrente, il Psdi, e togliergli i voti. Eppure Nenni lo fece. Perché per la sinistra era meglio Saragat che Leone (il quale poi si prese la rivincita sette anni dopo). E invece oggi che i partiti non ci sono più, o sono simulacri alquanto vuoti di quelli di un tempo, nessuno appare più in grado di «secolarizzare» il conflitto, e la politica sembra diventata un sequel di «The last duel», un insieme di piccole mischie personali che formano insieme una grande zuffa collettiva, la cui polvere copre ancora ogni previsione possibile sull'elezione del presidente della Repubblica a gennaio. Oggi le ripicche motivano la politica, invece che il contrario. E si vede a occhio nudo che Giuseppe Conte non vuole Draghi al Quirinale perché in fin dei conti è l'uomo cui ha dovuto cedere Palazzo Chigi, e la «promozione» dell'uno farebbe risultare ancor di più la «bocciatura» dell'altro, finora non riscattata nella nuova veste di capo politico dei Cinquestelle (dove entra in scena il risentimento di Di Maio, a sua volta ex). E si vede a occhio nudo che Goffredo Bettini non l'ha ancora digerita quella fine del governo giallo-rosso (o rosa), e vorrebbe tanto aiutare il suo compagno di cordata di allora, anche se aiutare Conte è davvero difficile. Però Bettini, che una storia con i partiti di un tempo ce l'ha avuta, è tra i pochi che sembra ancora capace di «politicizzare» il risentimento. E infatti per quanto lavori anche lui contro Draghi per ragioni non molto diverse da quelle di D'Alema, e cioè «non è uno di noi», «non è un politico», sarebbe anche disposto a lasciar perdere se solo Draghi facesse un atto di sottomissione e di ossequio alla politica dei partiti, ed entrasse nella compagnia da Presidente. Il risentimento, ovviamente, alligna a sinistra molto meglio che altrove. Vi trova il suo brodo di coltura ideale, perché la sinistra è talmente carica di storia, di ideologie, di correnti, e dunque di duelli, da aver avuto il tempo di sedimentare risentimenti cosmici. Il centrodestra molto meno. In Italia, poi, il centrodestra si identifica fin dalla sua nascita con Berlusconi, si potrebbe dire che «è» Berlusconi. Dunque il risentimento non si può manifestare sotto forma di lotta politica. Potrà venir fuori solo come nuova ed estrema personalizzazione: e cioè sotto forma di un centinaio di franchi tiratori al momento del voto per il Cavaliere».
QUIRINALE 4. IDEA ZAGREBELSKY
Il Fatto, con Tommaso Rodano, intervista Carlin Petrini, che cita come possibile candidato il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky.
«"Mi pare che nella corsa al Quirinale l'unica evidenza sia la confusione", dice Carlin Petrini, scrittore e fondatore di Slow Food. "Il Parlamento - sostiene - non sembra più in grado di rappresentare i bisogni del Paese. Gli eletti sono preoccupati dalle prossime elezioni, dove il loro numero sarà tagliato. Non è un caso che ora nelle Camere ci sia il più grande Gruppo misto della storia repubblicana". Incombe il nome di Mario Draghi, crede sia l'uomo giusto? «Ho l'impressione che il mandato da premier e la missione assunta da Draghi non siano affatto compiuti, al contrario di quello che sostiene lui. Ha buon gioco chi gli dice di finire il lavoro che ha cominciato. Mi sembra che l'insistenza su Draghi sia un elemento che complica le cose, invece di semplificarle. Un Paese bloccato su un singolo nome, per la carica più alta, non è che sia messo tanto bene». Quale profilo dovrebbe avere il prossimo presidente della Repubblica? «Vorrei una figura come quella di Sergio Mattarella, per me è stata una sorpresa. Se mi avesse fatto la stessa domanda sette anni fa, non le avrei fatto il suo nome e non mi sarei aspettato da lui una presidenza di così alto profilo. Serve una personalità che abbia competenze costituzionali e che possa rappresentare tutti. Anche se essere sopra le parti è molto difficile, glielo dico da uomo di sinistra». Chi le viene in mente, quando elenca queste caratteristiche? «Penso a una persona come Gustavo Zagrebelsky. Avrebbe tutte le qualità per essere un eccellente capo dello Stato. In ogni caso, bisogna iniziare a guardare fuori dalla solita cerchia di nomi ripetuti da giornali e tv». Ha letto l'appello di Dacia Maraini e di altre intellettuali per una donna al Colle? Che ne pensa? «È un'istanza giusta, un argomento che merita attenzione. Ci sono molte donne con esperienza politica ad alti livelli e prestigio internazionale». A chi pensa? «Per esempio a Emma Bonino o a Rosy Bindi». L'elefante nella stanza (a destra) è la candidatura di Silvio Berlusconi. «Non ci voglio nemmeno pensare. Preferisco credere che sia un gioco delle parti, una candidatura di bandiera che fa comodo soprattutto a lui. Non scherziamo, su: anche a livello internazionale sarebbe uno smacco incredibile. Esporrebbe l'Italia all'incredulità del resto del mondo. È un'ipotesi assurda, divisiva, senza etica. Mi preoccupa anche solo l'ostentazione del nome di Berlusconi e l'associazione con il ruolo di chi deve rappresentare tutti gli italiani».
QUIRINALE 5. CHI VORREBBERO GLI USA
Dario Fabbri, “coordinatore America” della rivista Limes scrive un’opinione sulla Stampa a proposito delle preferenze americane per Mario Draghi al Colle.
«Meglio Mario Draghi a Palazzo Chigi o al Quirinale? Nelle cancellerie internazionali ferve il dibattito sulla collocazione dell'attuale premier. Con posizioni diverse tra i principali interlocutori di Roma, per proprio tornaconto, per ampia o ristretta conoscenza della struttura nostrana, per considerazione antropologica del Belpaese. L'amministrazione statunitense denota idee molto chiare. Per gli apparati d'Oltreoceano Draghi dovrebbe migrare al Colle. Abituati a ragionare sul piano strategico, gli americani lo vorrebbero al Quirinale per evitare che finisca scalzato da manovre surrettizie o dall'umoralità dei partiti. Da decenni stanziati in Italia come potenza di riferimento, conoscono nel profondo gli italici meccanismi istituzionali, sanno che la Presidenza della Repubblica è in grado di imporre l'indirizzo generale, spesso trascendendo la lettera della Costituzione. Specie in assenza di statisti tra i leader dei partiti, come nel periodo attuale. Negli ultimi anni Washington ha lavorato proficuamente con la massima carica dello Stato, soprattutto con Giorgio Napolitano, meno con la presidenza del Consiglio. Molto noto alle agenzie washingtoniane, Draghi è giudicato funzionale alla politica estera americana e la sbandierata inclinazione anti-cinese di questi mesi conferma tale convinzione. La sua eventuale ascesa al Quirinale garantirebbe gli Stati Uniti da azioni dei prossimi governi ritenute improvvide, come capitato con la firma nel 2019 del memorandum sulle nuove vie della seta. Simile è la posizione della politica francese. Per Parigi il trasferimento di Draghi assicurerebbe la tenuta del trattato del Quirinale, intesa bilaterale recentemente siglata a Roma, pensata per inibire il ritorno all'austerity da parte di Berlino. Nell'interpretazione d'Oltralpe, soltanto la definitiva conversione dell'economista in deus ex machina corroborerebbe la fiducia dei tedeschi nei confronti del nostro Paese e dunque dell'intera Eurozona, probabilmente sopravvalutando la risolutezza della Germania. Proprio Berlino sembra molto indecisa su cosa augurarsi. Da sempre alla ricerca di una narrazione per salvare l'Italia nonostante la ritrosia dell'opinione pubblica locale, la dirigenza tedesca ha trovato in Draghi un escamotage perfetto. Considerato estraneo allo stereotipo di inaffidabile fannullone che i teutonici tendono ad affibbiarci, di recente la Cancelleria ha potuto giustificare internamente l'approvazione del Next Generation Eu con la supposta non italianità del presidente del Consiglio. La sua eventuale dipartita da Chigi potrebbe minare tale fragile rappresentazione. A digiuno dei nostri ingranaggi istituzionali, gli osservatori tedeschi riconoscono al Quirinale un peso eccessivamente ridotto, mentre temono che i futuri esecutivi non siano in grado di attuare le riforme necessarie a raccontare di un'Italia prossima al cambiamento. Ancora diversa la posizione del Regno Unito, sebbene meno rilevante. Storicamente Downing Street e la City faticano a comprendere cosa accade nella Penisola e in queste ore schizofrenicamente alternano entusiasmo per Draghi al Quirinale o a Chigi, non solo per la sopravvivenza finanziaria del Belpaese, anche per l'attitudine del presidente del Consiglio ritenuta eccessivamente russofila e turcofoba. Inclinazioni altrui, interessate e maliziose, puntualmente valutate alle nostre latitudini come asettiche pagelle incapaci di incidere sugli eventi, per questo utilizzate da questa o da quella fazione per sostenere la propria posizione. In realtà destinate ad avere sulla corsa al Quirinale un effetto assai superiore alla percezione generale».
DIE ZEIT ACCUSA RATZINGER
La stampa tedesca solleva un nuovo caso contro il Papa emerito. L’accusa è questa: "Ratzinger da vescovo coprì un prete pedofilo" ma il Vaticano smentisce. Paolo Rodari per Repubblica.
«L'ombra delle coperture dei preti pedofili tocca anche Joseph Ratzinger. Il Papa emerito è infatti accusato di non aver messo fine agli abusi perpetrati da un sacerdote tedesco quando era arcivescovo di Monaco e Frisinga. È quanto riferisce la testata Die Zeit , anche se l'attuale segretario particolare di Ratzinger, Georg Gänswein, smentisce categoricamente: Benedetto XVI non era a conoscenza degli abusi commessi dal religioso. A sostenere la tesi del settimanale tedesco c'è un decreto extragiudiziale del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Monaco datato 2016. Qui si critica il comportamento delle gerarchie ecclesiastiche che non avrebbero fermato l'operato di padre Peter H., accusato di ventitré casi di abusi sessuali su minori tra gli 8 e i 16 anni commessi tra il 1973 e il 1996. Tra questi alti prelati c'è appunto anche Ratzinger, arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982. Nel 1980, Peter H. venne trasferito dalla diocesi di Essen a Monaco e, come avveniva spesso in quel periodo in diverse diocesi del mondo, nessuno avrebbe adempiuto al dovere di proteggere bambini e giovani perseguendo il religioso. In sostanza, pur di non sollevare scandali, le gerarchie di entrambe le diocesi avrebbero preferito non parlare e semplicemente spostare il religioso da una sede all'altra. Il decreto della diocesi menziona direttamente il Papa emerito spiegando che, sebbene conoscesse la storia del sacerdote che aveva commesso le violenze, «lo accettò e lo insediò nella propria arcidiocesi». Per Gänswein , tuttavia, la ricostruzione del Die Zeit è «errata»: Ratzinger non sapeva dei crimini commessi dal sacerdote. Il 17 gennaio prossimo verrà pubblicato un rapporto sugli abusi del clero commessi nell'arcivescovado di Monaco e Frisinga e redatto dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl su commissione del cardinale Reinhard Marx, titolare dell'arcidiocesi dal 2007. Sarà probabilmente in quest' occasione che molto verrà chiarito. Il rapporto, infatti, prende in esame gli anni che vanno dal 1945 al 2019. Lo scorso giugno, per le inadempienze della Chiesa nel trattare gli abusi, Marx si era dimesso dal suo incarico di arcivescovo. Evidentemente si era accorto di mancanze che non hanno scuse. Ma Francesco respinse le sue dimissioni. Per Papa Bergoglio il modo con cui la Chiesa ha affrontato gli abusi in passato è stata una catastrofe. Ma «dobbiamo assumerci la proprietà della storia, sia personalmente che come comunità. Non puoi rimanere indifferente di fronte a questo crimine. Assumerlo significa mettersi in crisi». Il Papa ha sempre messo al primo posto le vittime. Anche Benedetto XVI ha agito in questo modo da Pontefice. Ma quanto avvenuto in passato dovrà essere presto chiarito. La Chiesa, oggi, vuole fare luce e nelle sue più alte autorità non ammette insabbiamenti».
WASHINGTON 6 GENNAIO, FU VERO GOLPE?
È passato un anno, ma sembra ieri. Le ferite alla democrazia americana aperte dall’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 non sono per nulla rimarginate. Anzi: Trump e Biden ne parleranno apertamente nelle prossime ore. La questione di fondo è: fu davvero il Presidente Usa uscente a ordinare l’insurrezione violenta nel Parlamento? Giuseppe Sarcina per il Corriere.
«Indizi, documenti, testimoni. Ma non abbiamo ancora risposte definitive alle domande chiave sull'assalto del 6 gennaio. A cominciare dalle più importanti: c'era un piano concordato con la Casa Bianca? Fu una manovra sovversiva concepita da Donald Trump o la situazione sfuggì di mano anche all'ex presidente? I filoni di indagine sono due. Da una parte il lavoro investigativo dell'Fbi e della magistratura. Dall'altra la ricostruzione dei fatti e del contesto politico a opera della commissione parlamentare insediata il 24 giugno 2021 dalla speaker della Camera, Nancy Pelosi. Ne fanno parte nove deputati: sette democratici e due repubblicani, Liz Cheney e Adam Kinzinger, che si sono dissociati dal boicottaggio deciso dalla leadership trumpiana. A che punto sono le indagini della magistratura? Venerdì 31 dicembre, il procuratore generale di Washington, Matt Graves, ha fatto il punto sui risultati raggiunti finora. Il 6 gennaio 2021 una folla di almeno 30 mila persone ascoltarono prima il comizio di Trump e poi marciarono verso Capitol Hill. Possiamo riferire, per esperienza diretta, che tra i manifestanti c'era di tutto: sostenitori trumpiani arrabbiati, ma innocui e inquietanti gruppi organizzati, attrezzati con elmetti, giubbotti anti proiettile, bastoni, spray urticante. L'Fbi ha stimato che circa duemila militanti parteciparono attivamente all'assalto del Congresso. L'attenzione si è concentrata su tre formazioni: «Proud Boys», «Oath Keepers» e, da ultimo, «1st Amendment Praetorian». I tumulti causarono la morte di un poliziotto e di quattro manifestanti. Ci sono state condanne? Il procuratore Graves ha precisato che, al momento, «sono stati incriminati 725 individui con diverse accuse». Di questi 225 dovranno rispondere di «aggressione o resistenza a pubblico ufficiale»; 75 avevano con sé «armi potenzialmente letali». Oltre 140 agenti furono feriti. Circa 165 imputati si sono dichiarati colpevoli di vari reati. Per il momento i tribunali ne hanno giudicati 70: 31 sono in prigione; 18 agli arresti domiciliari; 21 in libertà vigilata. Quali sono le complicità politiche? Oggi il ministro della Giustizia, Merrick Garland, spiegherà pubblicamente come proseguirà l'inchiesta penale. Molto probabilmente ripeterà che i giudici «andranno fino in fondo». In altre parole: verificheranno quali siano state le responsabilità di Trump, dei suoi ministri e dei suoi consiglieri. In parallelo si sta muovendo la commissione di inchiesta della Camera che ha già raccolto la versione di 300 testimoni ed esaminato 35 mila documenti, nonostante le cause intentate dagli avvocati trumpiani e il rifiuto di collaborare di personaggi come lo «stratega» Steve Bannon e l'ex capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows. La commissione ha mobiliato 40 specialisti che stanno esplorando tre piste: i possibili collegamenti tra le frange più violente e gli organizzatori dei comizi; il legame tra questi organizzatori sul campo e i consiglieri dell'ex presidente, compresi i parlamentari; il ruolo della Casa Bianca, cioè di Trump e della sua famiglia. Qual è stato il ruolo di Trump? Ed eccoci al punto cruciale. Tutta l'attività investigativa a un certo punto potrebbe bussare alle porte di Mar-a-Lago, la residenza dell'ex presidente. Trump è sfuggito all'impeachment grazie al voto dei repubblicani al Senato, il 13 febbraio 2021. Ma la ricostruzione dei fatti lascia pochi dubbi: il leader della Casa Bianca ha incoraggiato l'assalto. La commissione parlamentare ha diffuso le mail, gli sms inviati dai consiglieri al presidente, compresi quelli del figlio Donald Jr. Tutti, anche Ivanka Trump, gli chiedevano di bloccare i disordini con un appello pubblico. Trump lo fece con grande ritardo, quando ormai il Campidoglio era in balia di veri miliziani e di altre presenze grottesche, come lo «Sciamano». Gli aspetti da chiarire sono tanti. Trump, per esempio, ignorò per ore la richiesta, che a un certo punto divenne una supplica, di mandare rinforzi. La commissione presenterà un rapporto finale nei prossimi mesi. È molto probabile che raccomanderà al dipartimento di Giustizia di perseguire l'ex presidente per aver ignorato il suo dovere numero uno: garantire la sicurezza delle istituzioni nazionali. Tanto più che, dopo il 6 gennaio, continuò a vessare i funzionari statali per sovvertire il risultato elettorale».
MIGRANTI, I DISPERATI DELLA MANICA
Nel 2021 oltre 28 mila migranti hanno attraversato il Canale della Manica diretti verso il Regno Unito a bordo di piccole imbarcazioni, il livello più alto mai registrato: è quanto emerge da uno studio dell'agenzia di stampa "PA" basato su statistiche ufficiali. Daniele Zappalà per Avvenire.
«Sognavano di fare il giro del mondo in bici alla scoperta delle altre culture, al di là di ogni frontiera. Ma alla fine, è restando fermi per ben 38 giorni, dall'11 ottobre al 17 novembre, che hanno compiuto il loro viaggio più importante, alla ricerca di un sentimento chiamato «fratellanza». E non è l'unico bel paradosso della coppia composta dai francesi Anais Vogel e Ludovic Holbein, rispettivamente 35 e 38 anni, capaci di scuotere le coscienze a Calais con uno sciopero della fame di solidarietà verso i migranti. Loro che si dicono non credenti, si sono lasciati catturare dal carisma di un sacerdote dall'impegno di lungo corso, il gesuita 72enne Philippe Demeestère, cappellano della Caritas di Calais, accettando di "protestare" pacificamente nella sagrestia della centralissima chiesa intitolata a san Pietro. Un modo anche per saldare simbolicamente l'impegno delle tante associazioni d'ispirazione cristiana e laiche che si battono da anni contro le condizioni di sopravvivenza drammatiche dei migranti, giunti nell'estremo Nord francese con la speranza di approdare sulle coste britanniche. Quando li abbiamo incontrati, proprio nella sagrestia dell'Eglise Saint-Pierre, qualche giorno prima che cessasse il loro sciopero della fame, Anais e Ludovic recavano sul volto i segni profondi della prova estrema. Lui, la barba lunga, ma curata. Con padre Philippe, hanno intrapreso il loro primo sciopero della fame in assoluto, sconvolti dalla morte del 20enne Yasser Abdallah, di padre sudanese e madre eritrea, precipitato da un camion il 28 settembre, sullo sfondo delle evacuazioni di accampamenti mai cessate. Anais e Ludovic non cercano di apparire come eroi, definendosi come «due umani in cerca di quella fratellanza negata a chi arriva come esule da contrade in preda a guerre o carestie ». Pur confermando la loro distanza dalla pratica religiosa, dicono di credere «In qualcosa di più grande che ci supera». Con semplicità, ci hanno parlato del primo viaggio italiano che ha schiuso loro l'orizzonte in direzione dell'Africa. Una lunga galoppata in bici da Ventimiglia alla Sicilia. Una sorta di viaggio iniziatico, non solo per assaporare le meraviglie paesaggistiche del Bel Paese. Un viaggio seguito da un altro in Sudafrica, laboratorio estremo di una fratellanza ancora tutta da costruire su una montagna di ferite. Per loro, «il problema dell'accoglienza potrà essere risolto solo a livello europeo». E in vista delle prossime Presidenziali francesi di aprile, Ludovic teme di finire per disertare le urne, avendo perduto «la fiducia nella politica», anche se non quella nelle capacità di un sussulto popolare: «Non credo che i francesi siano razzisti, ma è divenuto alla moda dimenticare il sentimento di fratellanza, che dovrebbe invece essere uno dei nostri capisaldi. Per coesistere, dobbiamo riscoprire l'umanesimo, non abbiamo scelta». Adesso che lo sciopero della fame è finito, Anais e Ludovic proseguiranno il loro impegno per i migranti in altri modi. «Abbiamo avuto l'energia per batterci durante questi 38 giorni, allora adesso immaginate ciò di cui saremo capaci quando mangeremo», ha dichiarato Anais, molto commossa. Pur esprimendo «delusione» per la «svolta della fratellanza» sempre attesa a Calais, i due ex globetrotter possono misurare i primi effetti dell'azione accanto a padre Philippe. Le autorità hanno ad esempio accettato il principio di luoghi al chiuso di riparo provvisorio invernale per i migranti rispettivamente adulti e minorenni: un passo in avanti che prima pareva ad alcuni irraggiungibile. Il tragico naufragio nella Manica dello scorso 24 novembre, nel quale sono morti 27 migranti, ha di nuovo acuito la tensione. Ma come dimostrano pure i tanti messaggi di solidarietà ricevuti da Anais, Ludovic e padre Philippe, lo sciopero ha almeno contribuito a riaccendere la fiamma della speranza: un avamposto d'umanità è sempre possibile, anche in fondo al peggiore incubo. Tutti i loro amici hanno vissuto così feste illuminate da un esempio di umanità semplice, sperando che ciò possa propiziare lo sboccio di un impegno su grande scala per trasformare lo scenario ancora fosco dell'accoglienza in Francia».
UE E SCELTA NUCLEARE, LA LINEA DELLA GERMANIA
Il nucleare come “scelta verde” spacca l'Unione Europea ma ora la Germania smorza i toni. Vincenzo Savignano per Avvenire.
«Dopo il no dei Verdi al documento sugli investimenti sostenibili (con "atomo" e gas) di Bruxelles, la ministra dell'Ambiente tedesca ha detto: «Dubito che la proposta possa essere modificata o bloccata» Berlino Per l'Ue l'energia nucleare è poco inquinante e va sostenuta, ma Berlino continua a chiudere le centrali. In questi primi giorni dell'anno i media tedeschi hanno ipotizzato una riapertura da parte dell'esecutivo tedesco all'energia atomica. «È stato uno dei principali temi di discussione tra il nuovo cancelliere Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron », ha sottolineato Der Spiegel, ma per ora il capo di governo dell'esecutivo di coalizione rosso-giallo- verde, socialdemocratici, liberali e verdi, resta fedele alla linea tracciata dalla ex cancelliera Merkel nel 2011 che, dopo il disastro di Fukushima, convinse i tedeschi a dire addio all'atomo. «Riteniamo che la tecnologia nucleare sia pericolosa », spiegò Merkel al Bundestag il 14 marzo del 2011 e oltre un decennio dopo, il 3 gennaio del 2022, lo stesso concetto è stato espresso dal portavoce del governo di Berlino, Steffen Hebestreit: «Non consideriamo l'energia nucleare sostenibile come altre forme di energia e respingiamo la valutazione dell'Ue sull'energia atomica e stiamo valutando i prossimi passi da compiere». La bozza sulla classificazione delle attività economiche considerate sostenibili, che ha aperto al nucleare, è stata spedita dalla Commissione Europea agli Stati membri il 31 dicembre scorso dopo numerosi rinvii. Gli esperti e le capitali avranno tempo fino al 12 gennaio per esprimersi. A calmare le acque nella giornata di ieri è stata la ministra dell'Ambiente tedesca, Steffi Lemke, che ha ammesso: «Dubito che la proposta possa ancora essere modificata o bloccata». Intanto Berlino prosegue nella sua graduale eliminazione del nucleare. Negli ultimi giorni del 2021 tre centrali sono state tolte dalla rete di fornitura. Una di queste è il sito di Brokdorf nello Schleswig- Holstein, che negli anni '80 divenne un simbolo degli attivisti e degli ecologisti. Ogni volta che dalla centrale partiva un treno con le scorie radioattive, in centinaia si stendevano sulle rotaie per impedire al convoglio di raggiungere le cave di sale di Gorleben, in Bassa Sassonia, dove le scorie vengono conservate. Tra i manifestanti anche rappresentanti dei Grünen, il partito dei verdi tedeschi, sempre contrari al nucleare. L'obiettivo dell'attuale esecutivo è raggiungere l'80% di produzione energetica riconducibile alle fonti rinnovabili entro il 2030. Entro la stessa data è prevista anche l'uscita dal carbone, ma in realtà l'obiettivo è quello del 2038. Ad oggi ancora il 40% dell'energia prodotta in Germania arriva dal carbone mentre le energie rinnovabili coprono il 30%. In un programma a tappe, già da quest' anno, e entro la fine del 2038, chiuderanno tutte le centrali a carbone ancora attive. In teoria la strada è percorribile ma a quale costo? La rivoluzione energetica, che prevede un rinnovamento totale della rete elettrica, secondo i media tedeschi, potrebbe costare fino a 1.000 miliardi. Costi insostenibili per la Germania e soprattutto per l'Europa, impegnata a risollevarsi dalla pandemia che non vuole abbandonare il Vecchio Continente. La Commissione europea anche per questo motivo ha ritenuto necessario rivalutare l'energia nucleare e quella riconducibile al gas naturale. Entrambe sono state considerate sostenibili e poco inquinanti. Una presa di posizione che potrebbe sbloccare definitivamente il gasdotto russo Nord Stream 2 pronto a trasportare 55 miliardi di metri cubi di gas all'anno dalla Russia alla Germania. E Bruxelles è pronta anche a sostenere la strategia energetica del presidente francese Emmanuel Macron, il suo Paese ottiene dal nucleare oltre il 70% del fabbisogno energetico. Secondo i media tedeschi il cancelliere Scholz non giudica negativamente la strategia francese, ma nel suo governo ci sono i Verdi, votati alle elezioni di settembre 2021 da milioni di tedeschi soprattutto per il loro NO deciso a carbone e nucleare».
IL PAPA: COMPETENZA E CARITÀ VERSO I MALATI
Papa Francesco riflette sulla malattia e dice: le cure non siano un lusso, verso i malati ci siano competenza e carità. Lo fa nel Messaggio per la XXX Giornata mondiale del malato che ricorre l'11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes. Giornata istituita da Giovanni Paolo II. Ecco alcuni passi dal testo pubblicato integralmente da Avvenire:
«Cari fratelli e sorelle, trent' anni fa san Giovanni Paolo II istituì la Giornata mondiale del malato per sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie cattoliche e la società civile all'attenzione verso i malati e verso quanti se ne prendono cura. (…) Il tema scelto per questa trentesima Giornata, « Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso » ( Lc 6,36), ci fa anzitutto volgere lo sguardo a Dio "ricco di misericordia" (Ef 2,4), il quale guarda sempre i suoi figli con amore di padre, anche quando si allontanano da Lui. La misericordia, infatti, è per eccellenza il nome di Dio, che esprime la sua natura non alla maniera di un sentimento occasionale, ma come forza presente in tutto ciò che Egli opera. È forza e tenerezza insieme. Per questo possiamo dire, con stupore e riconoscenza, che la misericordia di Dio ha in sé sia la dimensione della paternità sia quella della maternità (cfr Is 49,15), perché Egli si prende cura di noi con la forza di un padre e con la tenerezza di una madre, sempre desideroso di donarci nuova vita nello Spirito Santo. Gesù, misericordia del Padre Testimone sommo dell'amore misericordioso del Padre verso i malati è il suo Figlio unigenito. Quante volte i Vangeli ci narrano gli incontri di Gesù con persone affette da diverse malattie! Egli «percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» ( Mt 4,23). Possiamo chiederci: perché questa attenzione particolare di Gesù verso i malati, al punto che essa diventa anche l'opera principale nella missione degli apostoli, mandati dal Maestro ad annunciare il Vangelo e curare gli infermi? (cfr Lc 9,2). Un pensatore del XX secolo ci suggerisce una motivazione: «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all'altro, l'invocazione all'altro». (E. Lévinas, «Une éthique de la souffrance»). Quando una persona sperimenta nella propria carne fragilità e sofferenza a causa della malattia, anche il suo cuore si appesantisce, la paura cresce, gli interrogativi si moltiplicano, la domanda di senso per tutto quello che succede si fa più urgente. Come non ricordare, a questo proposito, i numerosi ammalati che, durante questo tempo di pandemia, hanno vissuto nella solitudine di un reparto di terapia intensiva l'ultimo tratto della loro esistenza, certamente curati da generosi operatori sanitari, ma lontani dagli affetti più cari e dalle persone più importanti della loro vita terrena? Ecco, allora, l'importanza di avere accanto dei testimoni della carità di Dio che, sull'esempio di Gesù, misericordia del Padre, versino sulle ferite dei malati l'olio della consolazione e il vino della speranza. (Messale Romano, Prefazio Comune VIII, Gesù buon samaritano). Toccare la carne sofferente di Cristo L'invito di Gesù a essere misericordiosi come il Padre acquista un significato particolare per gli operatori sanitari. Penso ai medici, agli infermieri, ai tecnici di laboratorio, agli addetti all'assistenza e alla cura dei malati, come pure ai numerosi volontari che donano tempo prezioso a chi soffre. Cari operatori sanitari, il vostro servizio accanto ai malati, svolto con amore e competenza, trascende i limiti della professione per diventare una missione. Le vostre mani che toccano la carne sofferente di Cristo possono essere segno delle mani misericordiose del Padre. Siate consapevoli della grande dignità della vostra professione, come pure della responsabilità che essa comporta. Benediciamo il Signore per i progressi che la scienza medica ha compiuto soprattutto in questi ultimi tempi; le nuove tecnologie hanno permesso di approntare percorsi terapeutici che sono di grande beneficio per i malati; la ricerca continua a dare il suo prezioso contributo per sconfiggere patologie antiche e nuove; la medicina riabilitativa ha sviluppato notevolmente le sue conoscenze e le sue competenze. Tutto questo, però, non deve mai far dimenticare la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità. ( Discorso alla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, 20 settembre 2019). Il malato è sempre più importante della sua malattia, e per questo ogni approccio terapeutico non può prescindere dall'ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia. Per questo auspico che i percorsi formativi degli operatori della salute siano capaci di abilitare all'ascolto e alla dimensione relazionale. I luoghi di cura, case di misericordia La Giornata mondiale del malato è occasione propizia anche per porre la nostra attenzione sui luoghi di cura. La misericordia verso i malati, nel corso dei secoli, ha portato la comunità cristiana ad aprire innumerevoli "locande del buon samaritano", nelle quali potessero essere accolti e curati malati di ogni genere, soprattutto coloro che non trovavano risposta alla loro domanda di salute o per indigenza o per l'esclusione sociale o per le difficoltà di cura di alcune patologie. A farne le spese, in queste situazioni, sono soprattutto i bambini, gli anziani e le persone più fragili. Misericordiosi come il Padre, tanti missionari hanno accompagnato l'annuncio del Vangelo con la costruzione di ospedali, dispensari e luoghi di cura. Sono opere preziose mediante le quali la carità cristiana ha preso forma e l'amore di Cristo, testimoniato dai suoi discepoli, è diventato più credibile. (…) Cari fratelli e sorelle, all'intercessione di Maria, salute degli infermi, affido tutti i malati e le loro famiglie. Uniti a Cristo, che porta su di sé il dolore del mondo, possano trovare senso, consolazione e fiducia. Prego per tutti gli operatori sanitari affinché, ricchi di misericordia, offrano ai pazienti, insieme alle cure adeguate, la loro vicinanza fraterna. Su tutti imparto di cuore la benedizione apostolica».
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