Draghi: Free Vax
Il premier taglia corto sui vaccini: lui farà il mix. Ma fissa la libertà di scelta su seconda dose, sentiti i medici. Quasi 600 mila iniezioni nelle 24 ore. Tragedia nella logistica: ucciso un Cobas
Draghi ha tagliato corto. Ha convocato una conferenza stampa per dire due cose importanti sulla campagna vaccinale: farò personalmente la seconda dose di Pfizer o Moderna dopo la prima di AstraZeneca, il mix è sicuro. Per il milione di persone che ha già ricevuto la prima dose di AZ e deve fare la seconda c’è comunque libertà di scelta, sentito il parere di un medico. Doveroso soprattutto dopo le dichiarazioni dei responsabili Ema. La campagna vaccinale comunque non è in frenata. Anzi. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono stati iniettati 590 mila 668 vaccini.
Prima o poi andrà detto: in Italia c’è un enorme problema di comunicazione, di informazione corretta. Il vero pensiero mainstream, che ogni giorno grida di essere minoranza e che invece di fatto domina televisione e giornali, è stato ed è contro i vaccini. I veri “pecoroni” sono i sessantenni che non si vogliono far vaccinare, più di due milioni, la stragrande maggioranza di quelli che oggi finiscono intubati nelle rianimazioni. Gli altri sono i fragili, di tutte le età, che spesso loro stessi hanno infettato. I giovani non guardano la televisione e sono più smagati nell’accostarsi ai social. Oltre che spesso più responsabili nei comportamenti. Non esiste un solo talk show televisivo in Italia che abbia dato un’informazione corretta e scientifica sui vaccini. Le star della tv della pandemia sono i Meluzzi, i Gianni Rivera (no comment), i Crisanti, i Galli perché nel teatrino catodico ci va sempre uno pro e uno contro. Da Vespa come da Formigli. Ma ci sono argomenti che non dovrebbero essere il regno delle opinioni. Certo in Italia manca un Fauci. Ed hanno fatto tanti errori il secondo governo Conte e il governo Draghi. Ma la mancanza di responsabilità dei mass media ufficiali, quelli che dovrebbero avere credibilità e attendibilità, segna un declino epocale. Un rischio enorme per la nostra democrazia.
Qualche giorno fa c’erano stati scontri a Lodi. Qui avevamo parlato di “guerra degli invisibili”. Una realtà dimenticata, dove i lavoratori sono spesso di origine straniera e sono super sfruttati. I sindacati sono rappresentanze Cobas, lontane dal Cgil Cisl e Uil. I padroncini sono proprietari dei camion, che spesso falliscono e che entrano in conflitto coi “facchini”. Ieri a Biandrate è stato travolto e ucciso un sindacalista di origine marocchina che aveva organizzato un blocco di protesta davanti ad un grande magazzino. Marco Imarisio nel suo reportage sul Corriere racconta di un “neo proletariato” formato “quasi per intero da lavoratori extra comunitari”. Oggi a Roma sciopero nazionale dei lavoratori della logistica.
Brutte notizie da Teheran. Già all’alba si è appreso che a vincere le elezioni presidenziali è stato il candidato ultra conservatore e inflessibile giudice, Raisi, che rappresenta un passo indietro rispetto al moderatismo del Presidente uscente. I Vescovi cattolici Usa preparano un documento per scomunicare (impedire la comunione) al presidente Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca, dopo Kennedy. Esprimono una sensibilità molto lontana dalla nostra italiana. Il fondamentalismo puritano, fra i cattolici, sembra tanto una scimmiottatura dei protestanti. Impressionante rapporto dell’Onu sui profughi, mai così tanti nel mondo. Veltroni per il Corriere ricorda il grande Boniperti. Che pure fu europarlamentare di Forza Italia. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Due soprattutto i temi sulle prime pagine: il chiarimento personale di Draghi sui vaccini e la tragica morte del sindacalista di base a Biandrate. Per il Corriere della Sera la conferenza stampa del Presidente del Consiglio è la vera spallata di giugno: Spinta di Draghi sui vaccini. Ovviamente per Il Fatto è: L’autogol di Draghi. Il Giornale di Minzolini ha una certa euforia bellicista: Il bazooka di Draghi contro tecnici e Speranza. Il Messaggero correttamente sottolinea il credito dato alla volontà di chi si deve sottoporre alla seconda dose: Libertà di scelta sui vaccini. E l’Italia bianca si blinda. Repubblica gioca con i due significati della parola, che significa seconda dose ma anche sollecitazione d’aiuto: Il richiamo di Draghi. La Stampa: «Libertà di scelta sulla seconda dose». La Verità ha fantasia, se la prende con il Ministro della salute: Draghi commissaria Speranza: era ora. Il Mattino registra un altro ordine militare del Presidente della Regione Campania: Mascherine, altolà di De Luca. In rivolta il turismo campano. Sulla morte del sindacalista di base di origine marocchina, Il Domani: Ora più nessuno può ignorare la lotta degli schiavi invisibili della logistica. Il Quotidiano nazionale: Far west lavoro, muore sindacalista. Mentre il Manifesto scrive sulla foto della salma: Il delitto del lavoro. Il Sole 24 Ore va invece sui bilanci delle imprese: Debiti societari a 22mila miliardi $. Sui migranti Libero: L’Europa guarda a destra. Il Pd guarda ai barconi. Avvenire sottolinea il rapporto Onu sui profughi: In cerca di rifugio.
DRAGHI SI FARÀ INIETTARE IL MIX COME SECONDA DOSE
Dunque Mario Draghi ha tagliato il nodo gordiano dell’incertezza vaccinale. Ha spiegato che farà la seconda dose con Pfizer, fidandosi del mix di vaccini. Ma ha anche detto che c’è libertà di scelta per la seconda dose. Chi vuole avere ancora AstraZeneca può, dopo parere del medico. Michele Bocci per Repubblica.
«Troppa confusione in una fase delicatissima della campagna, tra Regioni che si concentrano troppo sui giovani, cittadini che protestano perché non vogliono un vaccino diverso come richiamo, esperti e ministero che si attorcigliano intorno ai pareri e soprattutto anziani non ancora abbastanza protetti. Il presidente del Consiglio Mario Draghi in pochi minuti cerca di raddrizzare una situazione che aveva iniziato a procedere in modo incerto e per farlo decide di convocare un incontro con la stampa in fretta e furia, al termine di una giornata di fibrillazione per la sanità nel corso della quale si è riunita la Cabina di regia che stabilisce i colori delle Regioni, il generale Figliuolo ha inviato una lettera a tutte le Regioni, il Cts ha discusso di richiami e discoteche, l'Istituto superiore di sanità e il ministero hanno spiegato qual è la situazione dell'epidemia. Intanto c'è il tema AstraZeneca agli over 60. Ci sono voluti giorni e diversi pareri, di Aifa e del Cts, per giungere, nella notte di venerdì scorso, a una circolare del ministero che ha imposto di non usare più quel vaccino per i più giovani, sia come prima dose che come richiamo. Intanto l'Italia ha imparato a conoscere la definizione "vaccinazione eterologa", cioè effettuata con un medicinale diverso, in questo caso o AstraZeneca o Moderna. Malgrado le parole perentorie del ministero, le Regioni, in particolare il Lazio, da tempo fanno notare che ci sono almeno un 10% di cittadini che devono fare il richiamo ma non vogliono cambiare. Le discussioni sono andate avanti per giorni e ieri il Cts ha affrontato la questione, rimandando la decisione a oggi. È iniziata la consueta scelta maniacale da parte dei tecnici delle parole da usare per far capire che in effetti, se c'è l'accordo del medico, è impossibile negare la scelta di un farmaco approvato come è quello di AstraZeneca, indicato sopra i 18 anni dalle agenzie del farmaco italiana ed europea. Draghi risolve la questione quando già in molti hub si sono presentati cittadini convinti di chiudere il ciclo vaccinale con AstraZeneca, possibilità tra l'altro concessa anche dall'Emilia- Romagna».
L’analisi di Roberto Gressi per il Corriere.
«La ribellione contro l'ordinanza del ministero aveva visto in prima fila la Regione Lazio, tradizionalmente tra le più collaborative con il governo, che ieri ha definito quella scelta «un disastro». Compiuto sulla comprensibile emozione per la vicenda di Camilla, la ragazza morta di trombosi dopo la prima iniezione di AstraZeneca. L'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato, evidentemente con il pieno accordo del suo presidente, Nicola Zingaretti, aveva insistito sulla assoluta necessità di non introdurre rigidità che potevano indebolire la campagna: «Noi abbiamo ricevuto segnali da duemila persone che sono pronte a rinunciare se non hanno la possibilità di scegliere». Ma una contrarietà forte, seppure sotterranea, era maturata anche nella squadra del generale Francesco Paolo Figliuolo. Se non esiste un obbligo di fare i vaccini, si sosteneva, tantomeno si può rendere obbligatorio, dividendo la popolazione per età, il tipo di farmaco da usare. Il «tu devi», a partire dalla Costituzione, non esiste in Italia sulla salute. Libertà di scelta quindi, su consiglio medico. E anche la lettera scritta ieri dal generale alle Regioni rifletteva il timore che il colpo di coda delle varianti potesse far ripiombare il Paese nel vortice dei decessi e delle terapie intensive al collasso. Scriveva Figliuolo: ci sono ancora due milioni e ottocentomila anziani da mettere in sicurezza, è necessario rintracciarli, anche ricorrendo alle liste elettorali. Sono loro i più fragili, quelli a rischio, priorità assoluta, ad esempio, a fronte della messa in sicurezza degli adolescenti. Ma è stato il tema della vaccinazione eterologa che ha tenuto banco in questi giorni nelle famiglie italiane. Fidarsi del mix tra AstraZeneca e Pfizer o Moderna? Cosa deve scegliere chi non ha fatto ancora la prima dose? Che fare con i ragazzi? Dubbi non aiutati da posizioni diverse nel mondo scientifico. L'Ema, l'agenzia europea, che dice di non avere ancora dati sufficienti per ritenere sicuro il mix vaccinale. Il presidente dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, Giorgio Palù, che è invece convinto che gli studi fatti in materia siano soddisfacenti e che la priorità sia bloccare la catena del contagio e le varianti».
Alessandro Sallusti nel commento in prima pagina su Libero conferma di essere uno dei commentatori più lucidi nel campo del centro destra.
«A poche settimane dalla scadenza, si scalda la polemica per il rinnovo dei pieni poteri al premier sulla gestione dell'emergenza Covid; quei pieni poteri che Conte si era dato all'inizio della pandemia per accelerare - senza passare le forche caudine di governo e Parlamento - le decisioni più urgenti. Molti amici liberali so che già storcono il naso: basta, Draghi o non Draghi il potere torni nei suoi luoghi naturali, anche a costo di perdere efficienza e tempestività. Io, che pure liberale sono, sarei più cauto e meno dogmatico e anche a Conte ho sempre contestato non l'abuso di potere bensì il suo cattivo utilizzo. È vero che i famosi Dpcm, i decreti firmati in solitudine dal Presidente del Consiglio, sono forzature delle regole democratiche ma è altresì vero che sono previsti dalla Costituzione e che le azioni del premier rimangono comunque sotto il controllo della maggioranza e del Parlamento, che in ogni momento può sfiduciarlo. Per di più, ci muoviamo su un terreno, quello scientifico -sanitario, sul quale la competenza dei politici è di fatto pari a zero. Che ne sanno senatori e deputati di qual è il momento giusto per togliere la mascherina o di quanto sia pericoloso mixare i vaccini? Su questi temi non ha senso un dibattito tra libere opinioni, la scelta va presa dal responsabile in capo, sentiti gli esperti. Perciò non ritengo che sia un colpo di Stato prolungare i pieni poteri del premier. Tempi e riti della democrazia sono incompatibili con la rapidità d'azione che la situazione richiede sia nel limitare alcune libertà sia nello sbloccarle cessato l'allarme. Un amico esperto mi ha obiettato: basterebbe all'occorrenza convocare un Consiglio dei Ministri straordinario e il risultato sarebbe identico. Vero tecnicamente ma non politicamente, perché ogni volta inizierebbe un pericoloso braccio di ferro tra i partiti il cui esito sarebbe una mediazione al ribasso che non porterebbe agli effetti sperati. E poi diciamolo: a Salvini - per fare un esempio - fa certo più comodo accusare Draghi di non toglierci le mascherine che prendersi lui la responsabilità medica di farlo o quella politica di non farlo. Sono convinto che se Salvini, Meloni o Berlusconi fossero premier, si comporterebbero esattamente come Draghi: prima l'efficienza, poi i principi. Al presidente va poi riconosciuto un merito: oltre ai pieni poteri, si assume in pieno il dovere dell'esempio del capo. Ha porto il braccio ad AstraZeneca per la prima dose e ora lo offrirà a un altro vaccino, per tranquillizzare gli italiani sulla sicurezza del mix di profilassi».
MA PFIZER QUANTO PAGA DI TASSE?
Stefano Vergine del Fatto ha studiato il bilancio consolidato della Pfizer e si è chiesto: quanto pagano di tasse? Tenetevi forte: meno del 7 per cento.
«Quante tasse pagherà Pfizer sui vaccini che sta vendendo in mezzo mondo? Una risposta precisa ancora non c’è, ma qualche indizio lo ha fornito la stessa multinazionale nell’ultimo bilancio consolidato. Grazie alle decine di filiali off shore sparse per il globo, l’anno scorso i redditi societari di Pfizer sono stati tassati con un’aliquota effettiva del 6,4%. Tanto per fare un paragone, una normale azienda italiana paga un’Ires del 24%. Vale a dire quasi quattro volte di più. Quella guidata dal greco Albert Bourla è la più grande società farmaceutica attiva in questo momento nel business dei vaccini anti Covid. Insieme alla tedesca BioNTech (si spartiscono costi e ricavi al 50%), ha già firmato contratti con l’Ue per vendere fino a 2,4 miliardi di dosi. A queste si aggiungono quelle piazzate nel resto del mondo, principalmente negli Usa, dove Pfizer ha la sua sede principale. A quale indirizzo? Al civico 1209 di Orange Street, Wilmington, Delaware. Il principale paradiso fiscale degli Usa, lo Stato in cui è cresciuto il presidente Joe Biden, dove si applica un’imposta societaria dell’8,7%. L’anno scorso Pfizer ha fatturato 41,9 miliardi di dollari, con profitti netti pari a 9,6 miliardi e ha versato imposte per un’aliquota fiscale effettiva (effective tax rate) del 6,4%. Nel 2019 gli era andata ancora meglio: l’aliquota era stata del 5,4%. Come andrà nel 2021, a livello fiscale, Pfizer non l'ha ancora detto chiaramente. In compenso ha già fornito agli investitori finanziari alcune stime su quanto riuscirà ad incassare grazie ai vaccini. A inizio maggio la compagnia ha annunciato che le vendite del suo Comirnaty (i brevetti principali sono di BioNTech) quest’anno permetteranno di fatturare 26 miliardi di dollari. Cifra che si aggiungerà ai ricavi che Pfizer registrerà grazie alla vendita di tutti gli altri suoi farmaci, portando il fatturato totale a una cifra compresa tra i 71 e i 73 miliardi di dollari, ha detto la compagnia. Se il piano verrà confermato dai fatti, il gruppo Usa vedrà aumentare il suo fatturato di oltre il 70% rispetto al 2020. “Sulla base di ciò che abbiamo visto finora, è probabile che ci sia una domanda durevole per il nostro vaccino contro il Covid-19, simile a quella dei vaccini antinfluenzali", si è spinto a dire Bourla. Le stime annunciate si basano sui contratti di vendita di vaccini già firmati a metà aprile 2021, che porteranno il gruppo a consegnare 1,6 miliardi di dosi nel 2021. Una buona parte di questi finirà ai Paesi dell’Unione europea, che pagherà per ogni dose tra i 15,5 e i 19,5 euro, ha scritto Reuters. A differenza di alcune compagnie, come ad esempio Johnson & Johnson che ha detto di voler vendere i vaccini al costo di produzione, Pfizer non ha mai negato di voler ottenere profitti dalle dosi vendute. Ed è su questi utili che pagherà le imposte. Per capire come la multinazionale sia riuscita negli ultimi anni ad essere tassata così poco (l’aliquota effettiva nel 2020 è stata appunto del 6,4%) bisogna scorrere la lista delle sue filiali sparpagliate in giro per il globo. Delle 313 società controllate citate nel bilancio consolidato, 82 sono basate in quelli che l'organizzazione Tax Justice considera tra i 15 peggiori paradisi fiscali al mondo, cioè Paesi che aiutano le multinazionali ad eludere il pagamento delle imposte societarie. Pfizer ha 30 filiali in Olanda, 15 in Irlanda, 13 nel Regno Unito, 5 a Singapore, 8 in Lussemburgo, 4 a Hong Kong, 3 a Panama, 2 negli Emirati Arabi Uniti e 2 in Svizzera. A queste si aggiungono 82 filiali nel principale paradiso fiscale americano, il Delaware. Tirando le somme: su 313 filiali, 164 sono registrate in un Paese off shore. Ed è tutto legale. Ecco perché – in attesa della tassa minima globale, che se vedrà la luce entrerà in vigore tra almeno qualche anno – Pfizer potrebbe riuscire quest’anno a pagare pochissime tasse sui profitti derivati dai vaccini, scoperti anche grazie a ingenti finanziamenti pubblici».
LO SPID TAGLIA FUORI IL 90 PER CENTO DEGLI ANZIANI
Come fare per ottenere il green pass o il certificato vaccinale? Ci vuole lo Spid. Ma ottenerlo è talmente complicato che solo il 10 per cento degli anziani lo ha attivato. Ne scrive il Messaggero con Roberta Amoruso:
«La rivoluzione digitale per certificati, bonus, servizi pubblici e concorsi, è in pieno svolgimento. Non c'è dubbio. Ma non ancora per tutti. Rimangono sempre in affanno i meno digitalizzati e soprattutto gli anziani, almeno finché non partirà il nuovo sistema di doppia delega per ottenere Spid, il Sistema pubblico di identità digitale inserito nell'ultimo decreto Semplificazioni. Se tutto va bene se ne riparla in autunno, ad ottobre, quando partirà il meccanismo di delega, seppure in via sperimentale, quindi a macchia di leopardo. Nel frattempo ci sono ancora dei nodi da sciogliere per il ministero per l'Innovazione tecnologica di Vittorio Colao, tra i paletti ai possibili delegati e le garanzie sulla sicurezza. Una volta innescati i corretti meccanismi anti-frode, sarà un Dpcm ad hoc ad indicare le modalità tecniche di implementazione. Modalità che verosimilmente ricalcheranno le linee guida dell'Agid e di cui dovrà tenere conto il Poligrafico dello Stato che entro settembre avrà pronta la piattaforma di gestione del nuovo sistema. A quel punto, i nonni potranno delegare i nipoti, figli o persone di «assoluta fiducia» per gestire comodamente da casa anche una modifica dell'Iban su cui accreditare la pensione, solo per fare un esempio tra i più delicati».
SINDACALISTA TRAVOLTO AD UN BLOCCO DI PROTESTA
Nuovo tragico episodio nella giungla della logisitica, “fondale del nostro benessere”. Il racconto di Marco Imarisio per il Corriere della sera.
«A mezzogiorno il corpo di Adil Belakhdim è ancora steso sul selciato, coperto da due teli viola dai quali spunta il piede sinistro. La scarpa ha una fibbia di metallo che brilla nella luce accecante di questo enorme piazzale chiamato Area produttiva di Biandrate, cresciuto negli anni intorno al casello dell'autostrada. Qualcuno finge di ignorare quel luccichio e quella scarpa in posizione innaturale. Ma è un dettaglio che attira lo sguardo, che disturba, sembra un'atroce dimenticanza. «E copritelo per Dio» urla M. mentre davanti ai cronisti rende omaggio all'amico e spiega i motivi che lo avevano portato qui alle sei del mattino. Usiamo una maiuscola di fantasia, perché si tratta di uno dei facchini che mesi fa avevano contattato Adil e il Sindacato intercategoriale dei Cobas, la sigla più a sinistra dei sindacati di base. Nessuno sembra ascoltare il suo grido. Polizia e carabinieri vagano per quest' area immensa, preoccupati di intercettare una rabbia che invece è già impregnata di rassegnazione. All'inizio non si capisce neppure cosa stia dando fastidio a quest' uomo sudato fradicio che piange e intanto parla, piange e si sforza di dire delle cose. Come se capisse che ora o mai più, a chi vuoi che interessi davvero questa morte assurda, avvenuta in un posto che è persino difficile da descrivere, asfalto e inferriate, asfalto e capannoni, il fondale del nostro benessere quotidiano. Adil Belakhdim era stato uno di loro. Con l'obiettivo di pagarsi gli studi, era entrato nella filiera nostrana della logistica, una specie di giungla dove non esiste legalità e tanto meno tutela. Era dipendente di una società cooperativa che lavorava per la Tnt di Peschiera Borromeo. Per risparmiare, le aziende si affidano a miriadi di subappalti, che pescano in un neo proletariato composto quasi per intero da lavoratori extracomunitari. «Nel 2014 si era fatto eleggere delegato sindacale». A quei tempi, Pape Ndyaie ricopriva lo stesso incarico alla Dhl di Settala. Viene dal Senegal, dove studiava matematica e fisica all'università. In Italia avrebbe voluto proseguire gli studi, ma era clandestino. «Lui aveva un contratto di formazione, senza obbligo di reintegro. Lo cacciarono. Ci siamo conosciuti così, aiutandoci tra noi». Adil aveva intanto conosciuto Lucia, una ragazza di Molfetta, che poi si era convertita all'Islam. Erano nati due figli. Dopo il licenziamento, aveva fatto due anni di volontariato sindacale nella zona sud dell'hinterland milanese. «Quello fu il periodo più difficile, perché faceva fatica a mantenere la famiglia» ricorda Mauro Tagliabue, l'avvocato che per lungo tempo ha seguito le sue vertenze. «Era un uomo duro, un compagno fedele alle sue idee e alla sua ideologia. Sognava di unire i lavoratori di ogni nazionalità nelle sue lotte. Credo che gli piacerebbe essere ricordato così». Quando lo SI Cobas decide di aprire un ufficio a Novara proprio per la costante crescita dei poli logistici nella zona, diventa coordinatore d'area, con la supervisione di Pape Ndyaie. Le regole interne del sindacato prevedono una retribuzione pari al salario di un operaio di quinto livello della logistica. Prendeva 1.540 euro al mese, senza indennità. «Gli bastavano. Non lo faceva per soldi, ma per sete di giustizia». Nel febbraio del 2018 organizza un picchetto davanti alla Dsv, colosso danese della logistica con quartier generale nell'area industriale di San Piero Mosezzo, appena quattro chilometri di distanza dai cancelli della Lidl. Era in corso una vertenza contro il pagamento in nero. Adil raccontò che i manifestanti furono caricati mentre stavano sciogliendo il presidio, mentre la polizia accusò Adil di resistenza a pubblico ufficiale. Comunque sia andata, finì al pronto soccorso, con lesioni alla testa, alle costole e al collo. L'ultima volta che si sono visti è stato giovedì notte, negli uffici milanesi del Cobas, in via Celentano. C'era da organizzare la trasferta di sabato a Roma, per lo sciopero nazionale dei lavoratori della logistica. Racconta Ndaye che ogni tentativo di contatto con Lidl si era trasformato in una porta chiusa. «Non rispondono neanche alle mail, non vogliono fare alcuna trattativa» diceva Adil. Per quello aveva deciso quasi all'ultimo momento di convocare via WhatsApp una ventina di lavoratori. «Non si trattava di un blocco. Volevamo solo essere ricevuti. Nel giro di un'ora sarebbe finito tutto». Finirà presto comunque, anche dopo questa tragedia. I suoi compagni ripetono che non bisogna parlare di guerra tra poveri, facchini contro camionisti, quella è la vulgata dei padroni. «Vivono tutti sotto ricatto» afferma Ndaye. «Da una parte quello di non essere richiamati e restare a casa, dall'altra quello degli orari e della tempistica che prevede anche 50-60 consegne nell'arco di un solo giorno. Ma sono cose che riguardano quasi esclusivamente gli immigrati, a chi vuoi che interessino i loro diritti». Con il passare delle ore, con il caldo, la rabbia si stempera, diventa dibattito, mozione, chiamata dal prefetto, trasferta a Roma. Ormai tutto è accaduto, ormai sono parole vane. Il dipendente della Lidl ha fatto da solo. M. ha chiesto permesso agli agenti e si è chinato su Adil, coprendo la scarpa con un panno verde. Alle 15 i necrofori portano via la salma. I suoi compagni hanno avvertito la moglie, che all'inizio dell'ultimo lockdown si era trasferita in Marocco con i figli. L'Area produttiva di Biandrate si svuota, per un solo giorno. Sulla A4 rombano i Tir carichi di merci».
5 STELLE, TENSIONE FRA GRILLO E CONTE
Politica italiana dominata ancora dal dibattito all’interno delle forze politiche. A cominciare dai 5 Stelle, in attesa delle novità del leader Giuseppe Conte. Annalisa Cuzzocrea per Repubblica:
«Che dall'ambasciatore cinese sarebbe dovuto andare da solo, Beppe Grillo lo ha letto sulle agenzie. E non l'ha presa bene. Perché Giuseppe Conte non ha pensato di avvertirlo prima che aveva deciso di disertare la visita per l'imbarazzante concomitanza con il G7 in Cornovaglia. E perché sono tante le cose che in questo periodo, nel rapporto con l'ex premier, lo hanno amareggiato. Chi ha sentito il fondatore del Movimento 5 stelle, e sono tanti in queste ore, più che arrabbiato lo descrive come «molto deluso». Per una bozza del nuovo Statuto in cui il ruolo del Garante viene talmente annacquato da renderlo evanescente. Per una certa propensione dell'"avvocato del popolo" non solo a voler fare da solo, ma a non tener conto neanche della storia del Movimento. I dissidi principali sarebbero due: il primo riguarda la parte dello Statuto in cui le decisioni sulla linea politica vengono di fatto sottratte all'influenza del Garante. Che invece è stato protagonista di tutte le scelte fondamentali degli ultimi anni: dal governo con la Lega alla svolta verso il Pd fino al sì all'esecutivo Draghi. Il secondo, riguarda la scelta dei capi comunicazione del M5S, che Grillo vorrebbe restasse a lui e Conte avrebbe tenuto solo per sé. Non è solo una questione di conservazione del potere, dice il fondatore, ma anche di praticità: se metti nero su bianco che tutte le scelte devono essere condivise da due persone, getti le basi per possibili disaccordi e stalli. E nel documento presentato da Conte sarebbe quasi tutto così: o decide lui, il presidente, oppure la decisione è condivisa con il Garante. Che viene di fatto ridimensionato. Per questo, un po' per riaffermare il suo ruolo un po' per rassicurare i parlamentari preoccupati dall'arrivo di uno Statuto che nessuno di loro ha potuto ancora visionare, il fondatore M5S aveva in mente di venire a Roma nei prossimi giorni e di incontrare i gruppi di Camera e Senato. Che sono, ma questa non è una novità, a dir poco in subbuglio. Perché tra le ultime cose trapelate ci sarebbe un cambiamento riguardo alla composizione della segreteria. Che sarebbe diventata un organismo molto ampio con dentro i capigruppo di Camera e Senato, il capodelegazione al governo, i rappresentanti regionali, quello del Parlamento europeo. «Troppi - commenta un deputato - per contare davvero qualcosa. E quindi alla fine deciderà solo lui». Il punto è proprio questo: che oltre a questa segreteria ampia potrebbero esserci due vicepresidenti. E se si trattasse, come emerge da alcune indiscrezioni, di Vito Crimi e Alfonso Bonafede, molti parlamentari sarebbero pronti alle barricate. Perché nonostante il molto lavoro fatto da Crimi da reggente e il consenso avuto da Bonafede nella sua attività da ministro, a Conte si chiede discontinuità. E i nomi di quella che è considerata "la vecchia guardia", rischiano di infiammare ancor di più gli animi. Di certo, tra le persone a cui l'ex premier ha pensato ci sono alcune donne: la sindaca di Torino Chiara Appendino, a fine mandato; la sottosegretaria allo Sviluppo Economico Alessandra Todde; l'ex ministra della Scuola Lucia Azzolina. Nessuna di loro, però, conferma di aver avuto offerte. Anzi, perfino loro Conte - su questo - non l'hanno proprio sentito. Il che accresce la sensazione di un leader che sta lavorando troppo in solitaria. Ad esempio, con l'ex sottosegretario a Palazzo Chigi Mario Turco, tarantino e suo fedelissimo. Ma condividendo con gruppi di parlamentari troppo ristretti per non dare adito a malumori. Senza contare le minacce di ricorso di Casaleggio per le votazioni che avverranno su un'altra piattaforma. Resta ancora da capire quale dovrebbe essere il ruolo di Luigi Di Maio, che molti hanno consigliato a Conte di coinvolgere. Compreso il Pd, che considera il ministro degli Esteri oggi più vicino, forse anche dell'ex premier, soprattutto sulla politica estera. Non è un caso infatti che ieri il leader dem Enrico Letta si sia intrattenuto a colloquio un'ora con Di Maio a parlare di atlantismo. E che l'ex capo politico abbia commentato così l'incontro: «L'importante è continuare a lavorare insieme con lealtà». Resta misterioso anche il giorno della presentazione dello Statuto, perché - come Conte ha confermato negando dissidi con il Garante - i due ci stanno ancora lavorando insieme. E la data ipotizzata di martedì sembra destinata a slittare. Determinanti saranno gli incontri e gli scambi dei prossimi giorni. Non solo per via delle regole, ma del futuro stesso dei 5 Stelle. Perché il potere assoluto che più di tutti temono i parlamentari, è quello di fare le liste».
BERLUSCONI-SALVINI, SPOSI PROMESSI
La federazione di centro destra va avanti. E l’intenzione di Berlusconi e Salvini non è cambiata. La cronaca del Giornale.
«Si rivedranno a breve, quasi certamente ad Arcore, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Invocata, temuta, amata, contrastata, da settimane la federazione tra Lega e Forza Italia, più o meno estensibile alle altre formazioni del centrodestra, è diventato l'argomento principe di ogni conversazione a queste latitudini politiche. Naturalmente non l'unica. Gli scogli da evitare non mancano in entrambi i partiti, e anche con Fratelli d'Italia, che Berlusconi vorrebbe come parte della federazione, nonostante la riottosità di Fdi. In più la contrapposizione tra i due leader, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, è evidente, anche se non mancano i momenti che li uniscono: ieri si sono ritrovati insieme nello stadio di Rosà, nel Vicentino, ai funerali del ventottenne cantante di Amici, Michele Merlo, stroncato da una leucemia fulminante e amato da milioni di spettatori. Salvini proprio ieri ha ancora accelerato sulla federazione «con chi ci sta». Per ripartire, la tesi del segretario della Lega, «gli italiani ci chiedono velocità, efficienza e concretezza, quindi invece di parlare in cinque, sei o sette in Europa e in Italia, una voce unica significa avere più forza». Il centrodestra? «Sono al lavoro perché voti e parli con una voce sola» dice al Tg2 Post. Vale dentro la maggioranza Draghi così come per le proposte da portare insieme a livello europeo. Da qui la proposta di «collaborazione» a tutti quelli che ci stanno. La sintonia con Berlusconi è nei fatti, come rivela il prossimo incontro a breve, ma anche ciò che ha detto il leader di Forza Italia, affiancato dal coordinatore azzurro Antonio Tajani, parlando con alcuni dei sindaci del Viterbese. Se Salvini dice «Avanti con la federazione», gli fanno da contrappunto le parole di Berlusconi: «Vedrò presto Salvini e ci confronteremo su come aumentare la collaborazione ed essere ancora più protagonisti». Il problema è tutto ciò che sta intorno al duetto».
PRIMARIE, TOCCA A ROMA E A BOLOGNA
Si vota per le primarie del centro sinistra, a Roma e a Bologna. La paura è che vada a votare poca gente. Norma Rangeri sul Manifesto:
«Probabilmente ha ragione chi le ritiene un rito stanco, ripetitivo, senza passione. E forse ha ragione anche chi cerca di trasformarle in un momento di confronto e di incontro, magari attraverso la musica in piazza. Ma il rischio di un fiasco delle primarie è concreto, reale, come ha dimostrato la scarsa partecipazione a quelle del Pd a Torino. E a Roma, dove vengono presentati più nomi di "area Pd", quindi non strettamente di partito, hanno così paura del fallimento, da fissare una soglia minima di votanti (almeno 50 mila). Il timore di non centrare l'obiettivo è alto e spiega la mossa dell'apertura delle urne telematiche, molto complicate per chi ha scarsa dimestichezza con il web. In ogni caso sembrano davvero lontani i tempi in cui le primarie marcavano una vasta presenza di popolo, quando chi andava a votare aveva almeno la sensazione di contribuire alla scelta del candidato sindaco. Ma appunto era una sensazione: i nomi venivano comunque calati dall'alto della segreteria del partito. Tuttavia il decisionismo centralizzato, era compensato da un'ampia partecipazione, ancora a sei cifre, che avvalorava il significato dell'iniziativa. Oggi non è più così, ed è evidente che un coinvolgimento aperto, non tanto agli iscritti ma alla società, alle persone che si riconoscono nei temi, nei principi dello schieramento progressista, di sinistra, può riempire di significato un appuntamento importante».
ELEZIONI IN IRAN: VINCE IL DURO RAISI
Involuzione conservatrice dell’Iran nel cambio del suo Presidente. Vince al primo turno l’ultraconservatore e autorità giudiziaria inflessibile Ebrahim Raisi. Dalla rassegna stampa internazionale di Oasis, Claudio Fontana analizza le posizioni prima dei risultati, arrivati questa mattina (le urne si sono chiuse a mezzanotte):
«Si è votato in Iran per scegliere il successore di Hassan Rouhani alla Presidenza della Repubblica. Sarà eletto il candidato che raggiungerà il 50% +1 dei voti espressi. Se nessuno dei candidati otterrà la maggioranza assoluta, si procederà ad un ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto la maggioranza relativa. Nei giorni immediatamente precedenti alle operazioni di voto, tre dei sette candidati ammessi dopo le squalifiche operate dal Consiglio dei Guardiani hanno ritirato la loro candidatura (il riformista Mohsen Mehralizadeh e i conservatori Alireza Zakani e Saeed Jalili).Restano dunque in corsa quattro candidati, ma il potente capo del sistema giudiziario, Ebrahim Raisi, è da tutti considerato il grande favorito nella gara contro l’unico moderato rimasto in corsa, l’ex banchiere centrale Abdolnaser Hemmati. Nelle precedenti elezioni le sorprese alle urne non sono mancate, come in occasione della prima vittoria di Rouhani, ma questa volta sembra che tutto sia stato “apparecchiato” perfettamente per favorire Raisi. Tra i fattori che dovrebbero concorrere a questo risultato, i più evidenziati sono l’affluenza – unanimemente prevista molto bassa – e i fallimenti dell’amministrazione Rouhani, che si era presentata con ambizioni molto elevate, basate soprattutto su un nuovo modello di relazioni con l’Occidente. Ma se la firma dell’accordo sul nucleare del 2015 e la parziale rimozione delle sanzioni aveva fatto ben sperare gli iraniani, il ritiro unilaterale degli Stati Uniti deciso da Donald Trump ha rovinato i piani del duo Rouhani-Zarif. Un approfondimento del Financial Times elenca gli ambiti in cui il governo uscente non è riuscito a mantenere le promesse: dalle esportazioni petrolifere al crollo del PIL, passando per la disoccupazione, l’inflazione e la svalutazione della valuta locale. Non è un caso, ha scritto Bijan Khajehpour su Al-Monitor, che durante la campagna elettorale tutti i candidati abbiano fatto grandi proclami riguardo all’economia iraniana. Il problema è che il presidente della Repubblica non ha realmente il potere di mettere in atto i cambiamenti strutturali che sarebbero necessari, conclude Khajehpour».
NUOVO RECORD: 82 MILIONI DI PROFUGHI NEL MONDO
Domani è la Giornata Mondiale dei rifugiati e l’Alto commissariato Onu per i profughi pubblica un rapporto choc. L’editoriale di Avvenire firmato da Maurizio Ambrosini.
«Le guerre occupano sempre meno spazio nei titoli di testa e nei notiziari dei principali media. Troppo pochi giornali continuano a tenere desta l'attenzione su conflitti sempre più relegati ai margini dei flussi informativi, come quelli che insanguinano il Tigrai etiope e il Myanmar. Anche i profughi sono finiti in un cono d'ombra, a parte qualche episodico allarme in occasione di sbarchi, salvataggi in mare, e anche tragedie della chiusura e dell'indifferenza. Purtroppo, invece, guerre e conflitti armati proseguono, con il loro carico di atrocità, vittime e umane sofferenze. Non cessano neppure le persecuzioni di minoranze etniche e religiose, le condanne di oppositori, gli attacchi ad attivisti dei diritti umani. Tutto questo si traduce in un dato: un numero crescente di rifugiati, pure nei lunghissimi mesi del Covid e delle tante limitazioni alla mobilità. Anche quest' anno, in occasione della Giornata mondiale del 20 giugno, l'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr/Acnur) pubblica il suo Rapporto e prova a scuotere le coscienze. Concentriamo l'attenzione su alcuni aspetti essenziali del testo. Prima di tutto, il numero di rifugiati nel mondo ha toccato un nuovo record, con 82,4 milioni di persone in cerca di scampo, costrette a vivere lontano dalla propria casa, tra le quali oltre 11 milioni entrate nel 2020 in questo dolente girone infernale. Tra i rifugiati internazionali, quelli che hanno valicato un confine di Stato (più di 34 milioni, contando anche i richiedenti asilo e i venezuelani fuggiti all'estero), si conferma un secondo dato: l'86% è accolto in Paesi in via di sviluppo, perlopiù confinanti con quello da cui provengono (73%). Quasi sette milioni sono accolti in Paesi poverissimi, nelle ultime posizioni secondo l'indice di sviluppo umano dell'Onu. In realtà, i rifugiati raramente dispongono di risorse adeguate per lunghi viaggi e rischiosi attraversamenti di diverse frontiere. In genere fanno poca strada, e molti neppure vorrebbero farne di più, giacché sperano di poter tornare presto nei luoghi da cui sono fuggiti. A limitarne le aspirazioni ci pensano poi gli Stati più ricchi, che finanziano campi profughi e altre soluzioni precarie - ma in realtà di lunga durata - , pur di non doverli accogliere entro i loro confini. Raramente nella storia della comunicazione pubblica una narrazione come quella di un sovraccarico incontenibile di rifugiati diretti verso le nostre frontiere ha riscosso un successo così diffuso e prolungato, pur essendo clamorosamente contraddetta da dati accessibili a tutti coloro che desiderino leggerli. Il dramma s' incupisce considerando un terzo aspetto: più di quattro su dieci rifugiati internazionali sono minorenni, e nell'Africa sub-sahariana il dato supera il 50%. Circa un milione di bambini, inoltre, sono nati tra il 2018 e il 2020 in un contesto di migrazione forzata».
I VESCOVI USA VOGLIONO SCOMUNICARE BIDEN
Riunione dell’episcopato americano che sta preparando un documento per vietare la comunione al secondo Presidente cattolico della storia nord americana, dopo Kennedy. Gina Guido Vecchi per il Corriere della Sera.
«Non sono serviti a nulla gli ultimi appelli dei vescovi più vicini al Papa, come il cardinale di Newark Joe Tobin: «Qualsiasi sforzo a sostegno dell'esclusione categorica dei leader politici cattolici dall'Eucaristia, spingerà i vescovi della nostra nazione nel cuore della lotta partigiana tossica che ha distorto la nostra stessa cultura politica». L'assemblea online della conferenza episcopale Usa, a maggioranza conservatrice, ha deciso ieri di tirare diritto nonostante il Vaticano, con una lettera dell'ex Sant' Uffizio, avesse invitato i vescovi a fermarsi: con 168 sì e 55 no, hanno scelto di mettere ai voti, a novembre, una «dichiarazione sull'Eucaristia» che sarà preparata nel frattempo e richiederà una maggioranza di due terzi. Non è, o almeno non è ancora, il divieto a fare la comunione che i vertici dei vescovi meditano da mesi: un'esclusione mirata ai cattolici favorevoli alle leggi sull'aborto, anzitutto al presidente Joe Biden ma anche alla speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi. E non è nemmeno lo «scisma» della destra cattolica Usa, ostile a Bergoglio e ricca di finanziamenti e di network , che da anni aleggia come uno spettro con le sue «guerre culturali», una minaccia alla quale Francesco aveva già risposto sereno ma secco, nel 2019, parlando con i giornalisti: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura: nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». Ma certo il clima nella Chiesa Usa non è dei migliori. Il vescovo Kevin Rhoades, presidente del «comitato dottrinale» che preparerà il testo, ha detto che il documento «didattico» sarà aperto a emendamenti, non farà nomi e offrirà «linee guida» anziché imporre obblighi ai vescovi. Precisazione superflua, del resto: nella Chiesa, nessuna conferenza può imporre nulla a un vescovo che governa la sua diocesi in quanto successore degli apostoli e risponde solo al Papa».
BONIPERTI, CALCIATORE E PRESIDENTE
Walter Veltroni per il Corriere della Sera ricorda la figura di Giampiero Boniperti, scomparso ieri a Torino a 92 anni. Presidente onorario della Juventus, squadra di cui è stato grande calciatore e poi per molti anni dirigente capace ed apprezzato, fino ai massimi livelli, Boniperti è stato anche europarlamentare di Forza Italia dal 1994 al 1999.
«È stato un calciatore eccezionale, con una visione del gioco e un fiuto per il gol che raramente si incontrano insieme. Ha giocato nella Juve 468 partite e ha segnato 188 gol. Ha cominciato quando c'erano le macerie dei bombardamenti per strada e ha finito quando l'autostrada del Sole era quasi completata. Ha attraversato tre decenni e vinto cinque scudetti e una Coppa Italia. Gli ultimi titoli nazionali, nella società rilanciata da Umberto Agnelli, coabitando, nel reparto di attacco, con Omar Sivori e John Charles. Il primo piccolo, geniale, cattivissimo e il secondo, un gallese gigantesco, buono come il pane. Memorabile la scena dello schiaffo che Charles diede a Sivori in campo per farlo calmare. Quel Charles che quando Boniperti annunciò il suo ritiro disse solamente, commosso, «Io non credere». In quattro anni, insieme, quel trio aveva vinto tre scudetti. Boniperti era nato punta ma diventato centrocampista, con l'età. Smise presto, a 33 anni, ma aveva cominciato a sedici nel Barengo e in bianconero aveva esordito contro il Milan a 19. Quando smise diede al magazziniere Crova gli scarpini «Non gioco più». Quello stupito gli rispose «Vai via, falàbrac» e lo stesso Gianni Agnelli gli telefonò alla ripresa della preparazione, in estate, e gli disse di andarsi ad allenare perché «c'è la Coppa dei Campioni», eterno incubo bianconero. Ma la moglie lo convinse a non cambiare idea e gli scarpini Boniperti se li andò a riprendere solo un giorno per metterli nella sua stanza di presidente. Disse il giorno del ritiro: «Se proprio si vuol scrivere di me, vorrei che dicessero che stamane il signor Boniperti anziché ad allenarsi va al lavoro come un qualsiasi cittadino torinese». E ci andrà al lavoro, ma da presidente della squadra i cui colori aveva tatuati nel cuore, dove non si vedono ma restano per sempre. Eccezionale presidente della Juve forse più bella di sempre, quella di Trapattoni e di Scirea, Rossi, Tardelli, Cabrini, Causio, Zoff, Bettega, Capello, Gentile, Boniek, Furino, Boninsegna, Brady Quasi venti anni da presidente con nove scudetti vinti e tutte le coppe possibili in bacheca. E nel 1985 visse con dolore la tragedia dell'Heysel. Non sopportava la tensione delle partite e andava via dallo stadio a fine primo tempo. Grande giocatore, grande presidente, persona ferma e gentile, educata e combattiva. Juventino fino al midollo ha solo sofferto per aver giocato, nei Cinquanta, in una Nazionale che era segnata dalla tragedia del Grande Torino. Fu dando la mano - alla fine di una contestata partita con i ragazzi dell'Inter, a Sandro Mazzola, figlio di quel Valentino con e contro il quale aveva giocato - che si concluse la prima carriera di Giampiero Boniperti. La seconda, non meno entusiasmante, sarebbe iniziata dieci anni dopo. Gli sarebbe piaciuta oggi questa Nazionale, che si diverte per vincere ed è tosta in campo. Proprio la sua filosofia. Nel calcio e nella vita. I ragazzi azzurri, scendendo in campo, gli rivolgano un pensiero grato. Giampiero Boniperti è stato tanto, per il calcio e lo sport italiano».