La Versione di Banfi

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Draghi lavora per Meloni

alessandrobanfi.substack.com

Draghi lavora per Meloni

La transizione dal vecchio governo a quello nuovo è in armonia. Draghi lo spiega ai leader europei. Salvini nei guai. Terzo polo primo partito fra i giovani. Sabotato il gasdotto: venti di guerra

Alessandro Banfi
Sep 28, 2022
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Draghi lavora per Meloni

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Oggi la parola è transizione, non quella ecologica ma quella dei governi. Insomma, il passaggio di consegne. È questo il vero tema politico di queste ore mentre i partiti sono ancora alle prese con la valutazione dei voti. Le prime mosse di Giorgia Meloni confermano grande prudenza. Silenzio e idee chiare. Nessun ministero politico a Matteo Salvini, nessuno strappo traumatico sull’economia e con l’Europa. Una lista di ministri improntata alla serietà e l’offerta ai partner di governo, attraverso Antonio Tajani, di due cariche politiche, come il ruolo di vice premier, per Forza Italia e Lega. Non solo, Meloni avrebbe proposto anche di tornare a concedere all’opposizione una presidenza delle due Camere. Sono mosse importanti perché mettono l’esecutivo che sta mascendo al riparo delle turbolenze dei partiti alleati. Nella Lega, anche dopo l’esclusione di Umberto Bossi, c’è infatti una grande rivolta. La politica ha una logica ferra. Salvini non vuole accettare la sconfitta ed elaborarla e così rischia di perdere la guida.

Per il governo il capitolo più delicato è quello dei conti pubblici. Ieri il fondatore di Fratelli d’Italia Guido Crosetto, i lettori della Versione lo sanno, aveva mandato segnali precisi. Molti economisti hanno apprezzato l’idea di una Finanziaria “a quattro mani”. Mario Draghi da parte sua ha risposto, rinnovando in un pressing diplomatico coi leader europei l’endorsement per il nuovo governo. La Commissione europea ha annunciato ieri di avere dato il suo benestare al versamento all'Italia di una seconda tranche di denaro proveniente dal Fondo per la ripresa e la resilienza (il NextGenerationEU). In tutto 21 miliardi di euro. Insomma se questo è il quadro, si confermerebbe che Giorgia Meloni ha ben presente il peso della responsabilità in un momento difficilissimo per il nostro Paese e per l’Europa.

Tutti i partiti, intanto, non solo la Lega, sono in travaglio: devono elaborare un voto popolare che con l’eccezione di Fratelli d’Italia e Terzo polo ha punito pesentamente linee politiche e leadership. Nel dimezzamento dei voti, l’unico leader che si sente forte di una nuova prospettiva è Giuseppe Conte che vorrebbe, con i 5 Stelle, egemonizzare e svuotare il Pd. Intanto analisi dei flussi e dati numerici sul voto contengono verità molto più precise degli interessati commenti di parte. I giovani hanno votato in gran parte le forze emergenti: Fratelli d’Italia ma anche il Terzo polo di Calenda e Renzi. Interessante anche l’analisi dei flussi dell’istituto Cattaneo: Pd, Forza Italia e Lega sembrano destinati ad un declino irreversibile. Per certi versi sono il passato.  

Anche fra i cattolici nei commenti si ripropongono schemi vecchi, che non fanno capire molto. È emblematico che oggi contemporaneamente si pronuncino, per così dire, a sinistra il cardinal Matteo Zuppi, attuale presidente della Cei (che in una Nota sul voto invita il governo Meloni a non dimenticare i “fragili”) e a destra il suo predecessore, il cardinal Camillo Ruini, 91 anni. Prima delle elezioni si erano pronunciati due professori in qualche modo loro interpreti: Andrea Riccardi ed Ernesto Galli della Loggia. Personalmente avanzo questa ipotesi: i Movimenti nella Chiesa ma anche i semplici cattolici di parrocchia impegnati, come quelli ad esempio nel Forum delle Famiglie, e soprattutto Papa Francesco con il suo insegnamento sempre spiazzante, sono andati più avanti negli ultimi anni. Hanno di gran lunga superato lo schema destra/sinistra, in cui i vertici ecclesiastici (e politici) li vorrebbero sempre riportare e in qualche modo imbrigliare. Il mondo cattolico italiano è andato da tempo oltre il vecchio bipolarismo ed è nei fatti molto più vicino e in sintonia con Papa Francesco, che ha scardinato questa divisione, questa polarizzazione. È un tempo in cui la Chiesa stessa vuole archiviare l’etichetta cattolica, sentendola come arma di ricatto e di freno per la presenza della “minoranza attiva” dei credenti in un mondo secolarizzato. È un tempo in cui i credenti sentono il dovere di essere “ospedale da campo” per tutti, liberandosi di fortezze orgogliose e pregiudizi, monasteri identitari in cui rinchiudersi. Anche in politica.

Le notizie internazionali sono di nuovo molto preoccupanti. Tre clamorosi sabotaggi in due giorni dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 bloccano, forse in modo irrimediabile nei tempi brevi, il flusso di gas dalla Russia all’Europa. Chi ha sabotato? E perché? I Paesi baltici sospettano i russi. I russi insinuano che siano sabotaggi occidentali. Il dato oggettivo, lo spiega bene Luigi De Biase sul Manifesto, è che spezzare il collegamento fra Russia ed Europa converge con la contesa sui confini. Contesa ratificata con i referendum farsa conclusisi ieri col 96 per cento delle adesioni alla Russia (secondo i russi). Insomma la situazione spinge sempre più verso la guerra.

Le altre notizie dall’estero riguardano l’Iran, sempre mobilitato nelle proteste cootro gli ayatollah. Il Brasile, dove si vota domenica in una sfida referendum fra Lula e Bolsonaro. E il Giappone, dove c’è stato l’addio a Shinzo Abe. La Versione oggi si conclude colmando una mancanza di quella diffusa ieri: riproponiamo l’intervista al frate domenicano Adrien Candiard.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la grande bolla in superficie nel mar Baltico, provocata dal gas che fuoriesce dai gasdotti Nord Stream 1 e 2. Le due linee del gasdotto con la Russia hanno subito danni "senza precedenti".

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera coccola la neonata: Meloni, primi passi per il governo. Avvenire richiama la Nota dei Vescovi che chiedono: «Dignità alla politica». Il Domani segnala un passaggio morbido fra i due premier: Niente aiuti sulla legge di Bilancio. Ma Draghi fa metà Pnrr per Meloni. Per La Repubblica c’è addirittura: Il patto Meloni-Draghi. La Stampa è soddisfatta del veto sulla Lega: Meloni non cede su Salvini: “Non lo voglio, è filo-russo”. Il Quotidiano Nazionale delinea la strategia del governo: Flat tax e svolta bonus, la ricetta Meloni. Il Manifesto insiste su Salvini e la crisi nella Lega: Credito esaurito. Il Mattino ricorda che il decreto più urgente è quello sulle bollette: Meloni, prima mossa sul gas. Il Messaggero è sulla stessa linea: Attacco al gas europeo. Il Sole 24 Ore conferma il favore di Supermario per il nuovo esecutivo: Pnrr, arriva l’assegno da 21 miliardi. Draghi accelera sulla terza tranche. Il Fatto dà una mano a Conte che adesso vuole svuotare il Pd: Così Letta ha regalato il governo a Meloni. Il Giornale tema la speculazione finanziaria: Sciacalli in agguato. Anche La Verità è preoccupata: Tre trappole per il governo. Libero se la prenda con Scurati: L’uomo di M.

LA TRANSIZIONE SECONDO GIORGIA

Ancora silenziosa in pubblico, Giorgia Meloni studia con prudenza le prime decisive mosse. I problemi del Paese sono tanti e i rapporti con gli alleati (e con le opposizioni) vanno impostati nel modo giusto. Paola Di Caro per il Corriere della Sera.

«In pubblico Giorgia Meloni sceglie di mantenere il silenzio. Si lavora e si tace, il suo mantra imposto anche ai fedelissimi. Unica eccezione alla regola, la risposta agli endorsement ricevuti negli ultimi giorni. Ultimo, quello caloroso del presidente ucraino Zelensky, che si congratula per la vittoria, ringrazia per il «sostegno» e dice di contare su una «proficua collaborazione». La replica su Twitter è un'assicurazione: «Sai che puoi contare sul nostro leale sostegno alla causa della libertà del popolo ucraino». Ma Meloni ringrazia anche chi le ha mandato caldi messaggi di buon lavoro, come il premier polacco Morawiecki, quello ceco Petr Fiala e la britannica Liz Truss: «Pronti a collaborare». Grande attenzione ai rapporti internazionali insomma, e anche per questo nei tanti colloqui di ieri Meloni è stata chiara: «Voglio un governo con personalità anche politiche di alto profilo, inattaccabile, che mi faccia fare bella figura in Italia e all'estero. Che non mi crei problemi e non provochi censure e inutili scontri polemici di cui non abbiamo alcun bisogno». Anche perché la situazione è talmente difficile che non ci si può permettere «passi falsi», e tantomeno provvedimenti fuori linea rispetto allo stato dei conti pubblici. I soldi a disposizione «sono pochi» e presentarsi come primo atto del governo con una manovra che richieda uno scostamento di bilancio, se non come «extrema ratio», sarebbe «visto male all'estero». Parole pronunciate più volte nella prima giornata dopo il voto passata prima alla Camera poi alla sede del partito. Qui, da sola, ha fatto e ricevuto molte telefonate. Di chi magari chiedeva lumi o offriva disponibilità, mentre lei ha continuato a sondare possibili candidati e a tenere i rapporti informali con Palazzo Chigi in vista del passaggio di consegne. Nel pomeriggio, da Meloni è stato ricevuto anche Antonio Tajani, che non si sbottona: «Non abbiamo parlato di nomi, ma di metodo. Servono ministri di alto profilo e di prestigio. Noi siamo pronti a dare il nostro contributo, offrendo sostegno e competenze. Ho parlato con von der Leyen e Metsola assicurando che FI sarà al governo con un ruolo europeista e responsabile». Meloni - che prestissimo avrà un confronto con Salvini - vuole coinvolgere gli alleati in un clima di collaborazione, ma chiede che non le si presentino nomi non all'altezza della situazione: no a bocciati dalle urne da ripescare, no a figure di secondo piano a cui sono state fatte promesse, no a chi non abbia posture serie.  Vale per tutti, anche per i suoi, che certo non la seguiranno tutti al governo ma alcuni (forse Lollobrigida e Donzelli) resteranno a tenere le redini dei gruppi e del partito, altri potrebbero approdare alla guida di agenzie delicate (c'è anche l'ipotesi Crosetto a Leonardo), altri ai vertici istituzionali (La Russa possibile per il Senato). Il nodo più complicato però è il ministero dell'Interno. La volontà di Salvini di tornare al Viminale è nota, ma la resistenza di Meloni è forte. Non solo perché Mattarella non vedrebbe di buon occhio la proposta di un ministro che è sotto processo per il caso Open Arms, ma anche per quello che Salvini ha scandito in ogni comizio: tornare ai decreti Sicurezza (che il Colle promulgò ma con pesanti rilievi) e la promessa che in casi simili «sono pronto a rifare quello che feci con quella nave». La leader di FdI invece non vuole trovarsi sotto attacco su terreni così delicati con l'Europa, osservatore diffidente nei suoi confronti. Una buona notizia le arriva dall'opposizione. Dopo che Lollobrigida ha ribadito l'intenzione di riformare la Carta a partire dal presidenzialismo, arriva l'apertura di Matteo Renzi: «Faremo opposizione, ma se Meloni chiederà un tavolo per fare insieme le riforme, noi ci saremo». In un messaggio inviato alla leader, Carlo Calenda è andato oltre, offrendole la sua collaborazione e la sua esperienza «sulle emergenze» come «ho fatto con altri governi».»

DRAGHI AMBASCIATORE PER MELONI

Il retroscena è di Repubblica, che nel suo titolo d’apertura ipotizza un “patto” tra Draghi e Meloni. Il premier avrebbe personalmente fatto un giro di telefonate per rassicurare i partner europei. Tommaso Ciriaco.

«Un compromesso per accreditarsi con l'Europa. Una capriola per sopravvivere a slogan bellicosi impossibili da rispettare. Poche ore dopo la fine della campagna elettorale, Giorgia Meloni archivia le carezze politiche a Orbán e la promessa di "spezzare le reni" all'asse franco-tedesco. E si affida a Mario Draghi. Al suo "ombrello" con le Cancellerie continentali. Secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche di Parigi, Berlino e Bruxelles, il presidente del Consiglio in carica ha contattato Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Garantendo per la leader di Fratelli d'Italia. E rassicurando i big dell'Unione sui tre pilastri che guideranno l'azione del futuro governo. Si tratta di tre condizioni che l'ex banchiere ha preventivamente sottoposto alla leader di Fratelli d'Italia. E che Meloni si è impegnata ad accettare. Primo: il nuovo governo continuerà a sostenere l'impegno - anche militare - per l'Ucraina e a tenere unito il fronte delle sanzioni contro Mosca. Secondo: l'ancoraggio stabile e indiscutibile alla Nato, senza tentennamenti o smarcamenti. Terzo: non approverà nuovi scostamenti di bilancio, in modo da tenere sotto controllo il debito pubblico. Il dialogo tra il premier e chi è destinata a succedergli va avanti da tempo, tra alti e bassi legati ad alcune sortite antieuropee di Meloni. Negli ultimi tre giorni si contano almeno due colloqui telefonici. Un'indiscrezione non confermata da fonti ufficiali parla anche di un faccia a faccia riservatissimo in una caserma a disposizione dell'esecutivo. Certa è, invece, l'operazione in corso. Che non è frutto di improvvisazione, ma figlia di un'esigenza politica vitale da cui dipendono i destini della leader: archiviare la piattaforma radicale sposata in campagna elettorale, virare verso i partner tradizionali di Roma. Sia chiaro: atlantismo, sanzioni contro la Russia e attenzione al debito pubblico rispondono a posizioni sostenute anche pubblicamente da Meloni. Ma è possibile garantire quei pilastri anche con Salvini e Berlusconi in squadra? È praticabile governare il Paese con chi predica spesa in deficit e tende la mano a Putin? E poi, è stata la stessa Meloni a contraddire l'approccio europeista, spaventando l'Europa. «A Bruxelles è finita la pacchia», aveva minacciato soltanto pochi giorni prima del voto. «Ho buoni rapporti con Orbán - aveva aggiunto - Credo che ci sia bisogno di un riequilibrio rispetto all'asse franco-tedesco». Meno Parigi e Berlino, insomma, e «dialogo anche con le nazioni dell'Est». Un'eresia, se si pensa alla stretta autocratica che si consuma da anni in Ungheria. E ancora: «C'è una sovranità europea da ridiscutere ». Fino al passaggio più sprezzante: «Non mi pare molto europeista l'idea di un'Unione in cui, tipo circolo del tennis, c'è un club di quelli più importanti, mentre gli altri sono secondari».  Ma un conto è lottare in campagna elettorale, altro prepararsi a guidare un Paese in piena crisi sfidando alleati storici in nome dell'internazionale sovranista. I danni sarebbero enormi, gli effetti sui mercati devastanti, l'isolamento totale. Per questo, Meloni si affida a Draghi. E per la stessa ragione, l'attuale premier si espone per lei con le Cancellerie. È una scelta dettata innanzitutto dalla volontà di difendere l'interesse nazionale, favorendo la collocazione europea e atlantica dell'Italia. Certo, Draghi non ha gradito i toni antieuropeisti di Meloni e ha giudicato un suicidio il voto di Fratelli d'Italia all'Europarlamento a favore di Orbán. Ma considera comunque doveroso fare il massimo per assicurare continuità al Paese, in nome di una transizione morbida. Non è un caso che proprio in queste ore stia prendendo forma il passaggio di consegne tra governi. Coinvolge Palazzo Chigi, il ministero dell'Economia e l'entourage di Meloni. Lo schema è quello dei "bilaterali". I protagonisti sono il capo di gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello, il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, il ministro dell'Economia Daniele Franco, il capo di gabinetto del Tesoro Giuseppe Chiné. Per Fratelli d'Italia, sono in prima fila - oltre a Meloni - il senatore Giovanbattista Fazzolari (che vestirà i panni di sottosegretario alla Presidenza nel prossimo esecutivo), Guido Crosetto e alcuni tecnici schierati dal partito. Non a caso, alcuni sherpa del centrodestra si sono recati proprio ieri a via XX settembre per studiare i numeri della Nadef. Non bisogna però sottovalutare anche un altro dato, assai più pragmatico, legato al futuro del premier. «Non escludo per lui incarichi internazionali», si è sbilanciato Crosetto. L'opzione più forte è quella di segretario generale della Nato, la cui nomina è in agenda per giugno 2023. Ha il vantaggio di una tempistica stretta. Sarebbe di certo gradita anche a Washington. E aprirebbe un ulteriore ombrello di protezione sull'esecutivo di destra, coprendolo sul fronte della collocazione internazionale. Altro che circolo del tennis da boicottare, la tessera di ospite è già in stampa».

IN EUROPA SI STUDIA DI ALLUNGARE IL RECOVERY

Intanto in Europa è sul tavolo l'ipotesi di allungare i tempi del Recovery. La modifica non riguarda le riforme previste dai piani nazionali, ma solo la spesa. Giuseppe Chiellino per il Sole 24 Ore.

«La corsa dei prezzi che si è scatenata in Europa dall'inizio dell'anno ha cambiato in modo radicale il contesto economico complessivo in cui era stato concepito il Recovery Fund. Gli investimenti previsti dai piani nazionali (Pnrr) sono diventati molto più costosi di quanto programmato inizialmente e più difficili da realizzare, anche a causa della rottura delle catene di approvvigionamento, della carenza di materie prime e dell'aumento dei costi per l'energia. Inoltre, la concentrazione in così poco tempo (entro il 2026) di investimenti così ingenti rischia di amplificare la spinta inflazionistica. Con queste argomentazioni il Portogallo nelle scorse settimane ha chiesto alla Commissione europea un «aggiustamento dell'RRF all'attuale contesto economico». La richiesta è contenuta nella lettera che il governo di António Costa ha inviato a Bruxelles per indicare quelle che ritiene debbano essere le priorità nel programma di lavoro della Commissione nel 2023. La rimodulazione del Recovery è quasi in cima alla lista, dopo la riforma del Patto di Stabilità e l'interconnessione delle reti energetiche. Va precisata subito una cosa: Lisbona non chiede di modificare i tempi delle riforme, milestones e target, ma solo di rendere flessibile la scadenza per la realizzazione della spesa, andando oltre il 2026. «Senza modificare la tabella di marcia fissata per le riforme previste nei Piani di ripresa e resilienza nazionali (Pnrr), né le milestones o gli obiettivi - si legge nel documento portoghese - il calendario per l'attuazione degli investimenti dovrebbe essere reso più flessibile, sia per quanto riguarda i ritmi di attuazione che per le relative scadenze per il completamento. Questo comporta implicitamente che gli investimenti finanziati dal Recovery (non le riforme) possano finire dopo il 2026». Secondo il governo portoghese, si tratta di una modifica «resa necessaria dalle nuove circostanze economiche, che non potevano essere prevedibili al momento dell'approvazione del Recovery». Il tema è emerso per la prima volta pubblicamente a Praga, il 9 settembre scorso, in occasione del Consiglio Ecofin. A parlarne con i giornalisti era stato il ministro delle Finanze, Fernando Medina e, sempre in quella occasione, il commissario europeo agli Affari economici, Paolo Gentiloni, aveva definito la proposta «molto interessante». Ma poi era calata la sordina e nella conferenza stampa finale il presidente dell'Eurogruppo Paschal Donohoe si era limitato a sottolineare la necessità di evitare che la spesa pubblica, per quanto necessaria, finisca per alimentare l'inflazione. La presidente Ursula von der Leyen non ne ha fatto cenno, pochi giorni dopo, nel discorso sullo stato dell'Unione, ma la questione è sul tavolo della Commissione europea e altri Stati membri potrebbero essere interessati, Italia compresa. Tuttavia «per il momento» è in stand-by. L'ostacolo principale ad una proposta che appare di buon senso è la necessità di modificare il regolamento del Recovery Fund, intervento per il quale serve l'unanimità dei 27. È vero che prolungare la scadenza non costringe nessuno a rinviare gli investimenti e prima o poi potrebbe far comodo a tutti, ma per ora la Commissione non sembra intenzionata a prendere l'iniziativa, senza la certezza di avere il consenso di tutti in Consiglio e con il rischio di aprire un altro fronte nei rapporti con gli Stati membri. È probabile, dunque, che l'argomento venga affrontato nelle prossime riunioni del Consiglio».

“Sì ALLA FINANZIARIA A QUATTRO MANI”

Gli economisti italiani promuovono l’idea di una legge Finanziaria scritta a quattro mani da Mario Draghi e da Giorgia Meloni. Il sito Formiche.net ha intervistato il docente di Economia Giuseppe Di Taranto .

«Il terreno dello scontro potrebbe essere quello dei conti pubblici. Tra meno di due anni tornerà in vigore il Patto di stabilità…

Meloni ha già detto di essere contraria, se non strettamente necessario, a nuovi scostamenti di bilancio. Questo depone a favore delle regole di bilancio, sotto il profilo economico l’Europa dovrebbe stare tranquilla. Faccio notare che, grazie a Draghi e questo va riconosciuto, noi nel 2022 avremo una crescita intorno al 3%. E non è poco di questi tempi. Dunque, restino sereni, a Bruxelles.

Capitolo energia. Cosa si aspetta che farà un ipotetico governo Meloni sul fronte dell’impennata dei prezzi?

La proposta di Fratelli d’Italia parte dal disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità. Così facendo, l’energia costerà molto meno per famiglie e imprese. Il ministro Cingolani ha già fatto un decreto in questo senso, ma solo inerentemente alla quota rinnovabili. La Meloni, invece, vorrebbe andare oltre estendendo il disaccoppiamento a tutta l’energia elettrica, non solo quella prodotta da fonti verdi.

Tra poco più di due settimane bisognerà consegnare a Bruxelles la manovra d’autunno. Un governo Meloni non avrebbe il tempo materiale di redigerla e Guido Crosetto, tra i fondatori di Fratelli d’Italia e consigliere fidato della leader, ha proposto di scriverla a quattro mani con Mario Draghi. Ci può stare?

Direi di sì. Draghi è comunque un uomo competente e stare all’opposizione, finché ovviamente ci si resta, non vuol dire doversi per forza rifiutare di beneficiare delle competenze altrui. Quindi, perché no…

Torniamo all’Europa. Germania e Italia non sempre sono andate d’accordo, anzi… Ora che a Berlino governa l’Spd e a Roma, forse, la destra, come si metteranno le cose?

La Germania una volta era profeta dell’austerità, ora ha cambiato rotta e sposato la causa della solidarietà. Una sterzata dovuta al fatto che Angela Merkel ha lasciato il governo. Ora, non dipende dall’Italia se in Europa ci sarà più austerità o più crescita ma da Berlino. Credo che se l’Italia rispetterà i parametri di stabilità e crescita, non ci saranno problemi con Berlino. A meno che…

A meno che?

Non venga fatto un uso politico dello spread. Che cioè venga usato come una clava sull’Italia».

RIFORMARE LA COSTITUZIONE DOPO 75 ANNI

Non solo l’economia e i conti pubblici. Ci sono riforme da fare. Per Meloni parla Francesco Lollobrigida, che si occuperà di quelle istituzionali. La nostra Costituzione il prossimo 27 dicembre compie 75 anni. Emanuele Lauria per Repubblica.

«È l'uomo delle riforme della destra. Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente di Fratelli d'Italia alla Camera, sta costruendo un dossier sulle proposte di modifica della Carta presentate dagli altri partiti. E intanto, in questa intervista, anticipa come il partito di Giorgia Meloni vuole cambiare la Costituzione.
«Senza stravolgerla - dice - e con la collaborazione di tutti». Ma non escludendo una "rivisitazione" della norma che limita la sovranità del diritto comunitario su quello nazionale.

Lei ha detto: "La Carta è bella ma ha anche 70 anni". Qualcuno l'ha letta già come una prova di forza.
«Il mio ragionamento è più articolato. Persino fra i padri costituenti ci fu un dibattito su come scrivere i principi del nostro ordinamento: si veniva da una dittatura e da una guerra sanguinosa. Il mondo era diviso in due blocchi, c'era chi voleva prendere le distanze dall'Urss e chi non troppo. Nessuno vuole stravolgere la Costituzione, non intendiamo toccare i valori fondanti contenuti nella prima parte. Non siamo i primi a chiedere che altre norme vengano riviste: basti pensare al titolo V o alla riforma di Renzi bocciata dal referendum. Noi crediamo che occorra una rivisitazione. A partire dal presidenzialismo».

Elezione diretta del Capo dello Stato o del premier?
«Serve una norma che dia stabilità, efficienza, potere di scelta ai cittadini. E stavolta bisogna fare presto: non vogliamo ripetere l'esperienza del gennaio scorso, quando Mattarella fu costretto al bis per l'incapacità di decisione dei partiti».

Non avete conquistato la maggioranza dei due terzi. Sarete comunque costretti a confrontarvi con gli altri partiti.
«Avevamo detto che volevamo farlo anche prima del voto. Una costituente, una bicamerale, si può trovare la formula. Basta che raggiungiamo l'obiettivo. Nella bicamerale di D'Alema, se non ricordo male, anche due esponenti dei Ds, fra cui Valdo Spini, votarono a favore del presidenzialismo. Mi sembra che una parte dell'opposizione - Renzi - sia favorevole al dialogo sulle riforme».

Nell'opposizione sarà il Terzo polo il vostro interlocutore privilegiato?
«Su alcuni aspetti è possibile. Ma non dimentichiamo che persino coi 5S abbiamo avuto convergenze, ad esempio sul taglio ai costi».

Quali altre riforme avete in cantiere?
«Vogliamo rafforzare il principio della sussidarietà, serve che i sindaci - elementi di prossimità con i cittadini - abbiano più poteri. E rivedere le Province: dopo la riforma Delrio sono creature ibride, restituiamo agli elettori la possibilità di scegliere i vertici. Oggi i presidenti nascono da intrugli fatti dai partiti. E la norma su Roma Capitale: occorre dare più competenze all'assemblea capitolina su materie come energia e rifiuti. Ripeto, cerchiamo la collaborazione di tutti. Ma senza pregiudiziali».

C'è poi il tema più delicato, quello della sovranità del diritto europeo. Un vostro ddl, presentato all'inizio della scorsa legislatura, subordina i Trattati e gli altri atti dell'Ue alla Costituzione italiana. Lo riproporrete?

«Il principio della sovranità del diritto comunitario su quello nazionale è oggetto di dibattito anche in altri Paesi. In Germania la Corte costituzionale ha affermato che, fra i due sistemi normativi, prevale sempre quello che più tutela la popolazione tedesca. È un concetto che dovrebbe essere oggetto di riflessione. Sì, la sovranità del diritto Ue va rivista: discutiamone. Anche perché nessuno pensa più, alla luce degli ultimi eventi, che l'Europa sia perfetta».

Cosa pensa dei timori delle cancellerie europee sulla destra al governo in Italia?

«Non credo che dobbiamo dare prova del nostro atlantismo, della collocazione occidentale, la nostra condanna all'invasione ucraina della Russia è stata più ferma rispetto a quella di tanti altri. Poi, non facciamo mistero che sia la Nato che l'Ue abbiano bisogno di riforme».

Farete asse con i Paesi di Visegrad?

«Faremo asse con chi può aiutarci a tutelare i nostri interessi. Noi non abbiamo un'idea elitaria dell'Ue, pensiamo a un'Italia che, su singoli dossier, si confronti con Paesi diversi: con la Polonia, che ha un modello di accoglienza dei rifugiati ucraini da imitare, come con la Francia sul patto di stabilità».

Lecito avere paura di un arretramento sul piano dei diritti? In un post Arianna Meloni, sua moglie, si sente di precisare che Fdi non ha alcuna intenzione di abolire la 194 sull'aborto.

«Noi siamo i più grandi difensori della legge 194, perché ne vogliamo l'applicazione piena. Anche nella parte che dà il diritto alle donne di non abortire, se questa scelta è dettata da condizioni particolari, come quelle economiche».

CALENDA. PRONTI A DIALOGARE SULLE RIFORME

Carlo Calenda è pronto ad affrontare la battaglia con il governo ma anche il dialogo sulle riforme. Dice: “Siamo l'unico caso di un partito che in meno di un mese è riuscito a prendere quasi l'8 per cento”. Niccolò Carratelli per La Stampa.

«La doppia cifra per il suo Terzo polo non è arrivata, Mario Draghi dovrà lasciare Palazzo Chigi, ma Carlo Calenda assicura di non essere deluso. «Zero, siamo l'unico caso nella storia italiana in cui un movimento politico nato in un mese ha preso quasi l'8%, 2 milioni e 200 mila voti». Il leader di Azione sta compulsando le analisi dei flussi elettorali, che dicono «che abbiamo sfondato in tutto il Centro-Nord e che siamo i più votati dai giovani».

Ma siete rimasti sotto il 10%, l'asticella che lei aveva fissato.

«Ci siamo andati vicino, finendo solo uno 0, 3% dietro Forza Italia e solo un punto sotto la Lega, non so se mi spiego. Per Forza Italia è la fine di un percorso di 30 anni, per noi il debutto dopo 30 giorni.
E abbiamo preso un quarto dei voti da elettori che nel 2018 non avevano votato, recuperando un pezzo di astensione».

Quasi solo nelle grandi città, però. È il vostro limite?
«Nelle città siamo arrivati quasi ovunque in doppia cifra. Ma al Nord e al Centro siamo andati bene anche a livello regionale. Ci manca il Sud ed è lì che bisogna lavorare. Come sui piccoli centri, dobbiamo radicarci sul territorio, serve tempo. Comunque, il dato da sottolineare è che siamo i più votati nella fascia tra i 18 e i 24 anni. Il Pd ha promesso ai 18enni la dote da 10 mila euro, ma loro hanno votato per noi».

Ecco, il Pd. Divisi avete favorito la destra nei collegi uninominali, Meloni ringrazia.
«Deve ringraziare Letta, che doveva scegliere tra agenda Draghi o comitato di liberazione nazionale con i 5 stelle. Ha provato a fare una cosa a metà, mettere insieme l'agenda Draghi con l'agenda Fratoianni: una follia, come i numeri hanno dimostrato».

Giusto che Enrico Letta si faccia da parte?

«Non sono affari miei, io ho espresso solidarietà a Letta e pure a Emma Bonino, che speravo venisse eletta, ovviamente nel proporzionale. Sono stato ripagato con gli insulti. La mia scelta non è stata fatta in odio al Pd, non ho come obiettivo politico la scomparsa del Pd, ma ormai è un partito in crisi irreversibile, non basterà cambiare il segretario».

E dire che ora dovreste fare opposizione insieme…

«Con chi? Come? Quelli parlano solo tra di loro, il dialogo è solo su cosa deve fare il Pd. Ma noi qui abbiamo un gran casino in vista, tra inflazione, crisi energetica, recessione. E una destra che non sarà capace di governare e che, secondo me, dura 4, massimo 6 mesi».

Hanno numeri solidi in Parlamento e un programma condiviso, perché non dovrebbero farcela?

«È una coalizione super litigiosa, con una classe dirigente inesperta e incompetente. Hanno fatto promesse che valgono più di 180 miliardi di deficit, con loro finiamo per spaccarci la testa. Abbiamo già rischiato nel 2011 e in questa legislatura: se ci ritroviamo in quella situazione, poi chi ci mettiamo, visto che il più autorevole lo stiamo mandando via?» .

Lo dice ai milioni di italiani che hanno votato a destra?
«Se finiamo a carte 48, non potranno dire "io non c'ero". Bisogna essere consapevoli delle proprie scelte. Hanno votato come se fossero a una kermesse teatrale o al televoto. Prima o poi si renderanno conto che bisogna scegliere chi promette cose praticabili e ha l'esperienza per realizzarle».

Lei e Renzi, presumo. Ora come andate avanti insieme?

«Faremo gruppi parlamentari unici, come già previsto nell'accordo tra Azione e Italia Viva. E poi apriremo un cantiere per allargare il nostro spazio politico, accogliendo tutti gli elettori che presto scapperanno da Forza Italia e dalla Lega, dal Pd e da +Europa. L'obiettivo è arrivare pronti, con un partito strutturato, fra due anni alle elezioni europee».

Intanto, Meloni potrebbe cambiare la Costituzione, voi che farete?

«Se proporrà una bicamerale, sarà un dovere per tutti partecipare e discutere. Poi io sono contrario al presidenzialismo, perché nel caos di questi anni Mattarella è stato il solo che ha tenuto unito il Paese. Non possiamo avere in futuro istituzioni tutte divisive. Comunque, a occhio, non credo ci sarà il tempo di fare una riforma costituzionale».

SALVINI SEMPRE PIÙ NEI GUAI

Nonostante la tregua siglata da Matteo Salvini nel Consiglio federale prosegue la rivolta nella Lega. La vecchia guardia è sul piede di guerra. Andrea Montanari per Repubblica.

«L'onda lunga del flop elettorale della Lega si abbatte ancora su Salvini. Stavolta pesano le parole della vecchia guardia. Da Umberto Bossi, rimasto fuori dal parlamentno dopo 35 anni, a Roberto Maroni il coro è unanime: «Bisogna cambiare segretario». Con una postilla non da poco: «E bisogna tornare a pensare al Nord». Che signiifca una pietra tombale sul brand della Lega nbazionale, del "prima gli italiani" sul quale Matteo Salvini aveva costruito le sue fortune recenti e l'ancora più recente crollo elettorale. Nel giorno in cui la contestazione si fa più aspra, però, il leader leghista riesce a restare in piedi. Offrendo al Consiglio federale del partito l'avvio immediato dei congressi locali, in cambio di un temporaneo stop alle ostilità. La giornata però era cominciata con l'affondo di Roberto Maroni: «E' ora di un nuovo leader per la Lega», attacca l'ex ministro tra i fondatori del partito, dalle colonne del Foglio sul quale tiene una rubrica. «Ora si parla di un congresso straordinario della Lega. Ci vuole. Io saprei chi eleggere come nuovo segretario, ma per adesso non faccio nomi». Ma la stoccata più dolorosa per il Capitano arriva dalle parole di Umberto Bossi secondo il quale dalle urne è arrivato un messaggio «chiaro ed inequivocabile» e cioè «il popolo del Nord va ascoltato». Un altro ex ministro della Lega, Roberto Castelli, è netto: «Il voto segna la fine della stagione della Lega nazionale e centralista. Salvini non farà nulla per il Nord». Poi la frase più sferzante: «Adesso Salvini - conclude - dovrebbe cambiare nome al partito. Lega Salvini premier è démodé». In questo clima, Salvini è arrivato alla riunione del consiglio del federale, dove però il redde rationem non c'è stato: nessuna richiesta di dimissioni del segretario e la decisione di avviare la stagione congressuale. Prima quelli provinciali, poi quelli regionali che dovrebbero partire all'inizio del 2023. «Ripartendo dall'ascolto del territori e dalla valorizzazione degli amministratori locali a partire dai governatori». Nella convinzione che «la Lega potrà recuperare il consenso grazie ai risultati che otterrà con il governo di centrodestra».  Quattro ore di confronto in via Bellerio, partoriscono la formula del compromesso:, almeno per il momento, «la piena fiducia a Salvini». A patto «di contare di più nel nuovo governo e che Salvini abbia un ruolo importante». La prossima settimana, invece, ci sarà un nuovo Consiglio federale «per costruire insieme il governo di centrodestra». Nonostante questa rassicurazione, in Lombardia, è già partita una raccolta firme promossa dall'ex parlamentare Paolo Grimoldi per chiedere la convocazione del congresso della Lega Lombarda e la sostituzione del coordinatore regionale salviniano Fabrizio Cecchetti. Diversi consiglieri regionali lombardi, inoltre, chiedono a gran voce sui social «un cambio di passo» e «un maggior ascolto della base». Anche se tutti i presenti al Federale assicurano che nessuno ha messo in discussione la fiducia nel numero uno della Lega. L'unico momento di tensione c'è stato quando una parte del Consiglio federale ha insistito perché i congressi regionali si tenessero entro la fine dell'anno. «C'è rammarico per la percentuale raggiunta dal partito, che si sperava migliore e che molti hanno spiegato con la convivenza forzata con Pd e Cinquestelle nel governo Draghi - è quanto emerso durante la discussione - ma la Lega conta di recuperare il consenso perduto grazie ai risultati del nuovo governo». Il processo al segretario al momento è congelato. Na da ieri su di lui grava anche l'anatema della vecchia guardia».

L’OPPOSIZIONE IN NOME DEL REDDITO: CONTE VUOLE SVUOTARE IL PD

Antonio Padellaro sul Fatto avanza una proposta organica di opposizione comune al nuovo governo Meloni da organizzare fra Pd, sinistra italiana, Verdi e 5 Stelle. Il disegno strategico di Giuseppe Conte è quello infatti di egemonizzare e svuotare il Pd.

«"Adesso mi aspetto per prima cosa che mia figlia tolga il reddito di cittadinanza ai 18enni e dia quei soldi agli invalidi, ai malati, a chi ne ha bisogno". Anna Paratore è più morbida di sua figlia Giorgia, favorevole all'abolizione del reddito punto e basta. Ma, evidentemente, in casa Meloni il tema è sentito. Del resto, non è un mistero che per avere un po' di agibilità sui conti pubblici, al fine di rispondere alle emergenze di famiglie e imprese (caro bollette, proroga dei bonus varati da Draghi, eventuali interventi sulle pensioni), in assenza di uno scostamento di bilancio le risorse necessarie da qualche parte dovranno pur saltare fuori. Sull'amputazione da parte del nuovo governo di Rdc e Superbonus edilizio (pilastri del successo elettorale 5Stelle) Giuseppe Conte ha già fatto sapere che il Movimento "sarebbe pronto a forme di ostruzionismo in Parlamento tali da mettere a rischio l'approvazione della Finanziaria entro fine anno con la prospettiva di arrivare all'esercizio provvisorio" (Corriere della Sera). Ci sarebbe un'altra strategia in grado di mettere alle corde le controriforme sociali della destra: un patto dell'opposizione tra quegli stessi partiti che, incapaci il 25 settembre di fare fronte unico, sono stati sbaragliati dagli avversari. Perché allora Pd, M5S, Verdi e Sinistra Italiana non sottoscrivono un'intesa parlamentare partendo, per esempio, da quei nove punti presentati da Conte e a cui Mario Draghi non diede risposta accelerando la caduta del suo governo? Salario minimo legale a 9 euro lordi l'ora. Per i giovani eliminazione di stage e tirocini gratuiti. Stabilizzazione degli sgravi fiscali per l'acquisto della prima casa. Garantire alle donne un'effettiva parità salariale. Per le aziende taglio del cuneo fiscale, eliminazione dell'Irap e potenziamento del Fondo di salvaguardia. Sulla Salute, riportarla alla gestione diretta dello Stato aumentando le retribuzioni del personale sanitario. Sui diritti civili, introdurre il matrimonio egualitario, la legge contro l'omotransfobia e lo ius scholae. Su scuola, università e ricerca, l'aumento dei fondi e degli stipendi degli insegnanti a livelli europei. Poteva essere un eccellente programma di governo. Perché non farne la Carta dell'opposizione?».

LETTA SE NE VA MA NON SUBITO

Monica Guerzoni per il Corriere della Sera analizza il dibattito all’interno del Partito democratico.

«Enrico Letta non sarà un traghettatore, né un reggente. Dalle ore amare della grande sconfitta fino al congresso per la scelta del nuovo leader, l'ex premier sarà un segretario a tutti gli effetti. E come tale, guidando il secondo partito italiano, anche il capo dell'opposizione. Al Nazareno si cerca una linea netta e chiara per il dopo-25-settembre. Letta non è intenzionato ad abbandonare la nave in tempesta, vuole restare al timone e guidare il processo che porterà alle assise. «Resterò neutrale e sarò il garante di tutti», sono le sue parole d'ordine. Prima prova di neutralità, il silenzio del leader alla notizia che la ex ministra Paola De Micheli è pronta a candidarsi alla guida del partito. Un silenzio che d'altronde Letta ha opposto al coro dissonante di voci, critiche e possibili autocandidature che si è alzato dopo la sconfitta.
Il segretario ha apprezzato che i capicorrente abbiano evitato scene da «lunghi coltelli» e si augura che il congresso non si trasformi in un Palio di Siena, o in un referendum su Conte. Sente con forza l'urgenza di una «rigenerazione» del partito e vorrebbe accelerare i tempi, ma le scadenze imposte dall'insediamento del nuovo Parlamento e del governo di centrodestra potrebbero far slittare il congresso fino a febbraio inoltrato. Lo schiaffo del 19% ha risvegliato il Pd, la battaglia di posizionamento è iniziata e assieme alle prime candidature è partito il bombardamento. Parlando con Huffpost, Andrea Orlando ha invocato la nascita di un partito nuovo, che nasca da un «momento di profondo ripensamento». La parola rifondazione il ministro del Lavoro non vuole scandirla, ma sottolinea che il senso della «grande costituente» che ha in mente è quello: un progetto di cambiamento radicale. La reazione del Nazareno è un secco «no comment», gelido come le facce con cui nell'entourage del segretario hanno letto le riflessioni di Goffredo Bettini. Il grande sponsor di Giuseppe Conte è convinto, in direzione ostinata e contraria a quella di Letta, che senza il M5S il Pd non abbia altra prospettiva politica che l'isolamento. Conte sì o Conte no sarà uno dei temi chiave del congresso, mentre il leader (quasi) uscente pensa a un congresso «fatto non solo di confronto sui nomi, ma di profonda riflessione sul futuro del Pd». Un congresso di allargamento, che «completi il percorso unitario cominciato con la lista dei democratici e dei progressisti». E quindi prima le idee, poi i nomi, come avverte Walter Verini quando osserva che il Pd «va rifondato, anche perché è percepito come il partito dell'establishment». In gioco c'è l'esistenza stessa del Pd, il cui elettorato fa gola al M5S quanto al Terzo polo di Calenda e Renzi, che in realtà alle elezioni si è piazzato sesto. Chi è rimasto leale a Letta ha fiutato il rischio: qualcuno lavora dietro le quinte per far saltare il Pd. I sospetti, in queste ore di frustrazione e veleni, cadono sugli ex renziani e su quel che resta della «ditta» Pci-Pds-Ds. Questa tesi fa capolino nelle parole di Enrico Borghi, neo-senatore e membro della segreteria di Letta, il quale denuncia «il tentativo orchestrato da Renzi e da D'Alema di mettere fuori gioco il Pd, svuotandolo per interposta persona attraverso Conte». Il bottino dei seggi nei collegi è a dir poco scarno, gli animi sono gonfi di rabbia. Antonio Decaro invoca lo «smantellamento del modello su cui si fonda il Pd» e Francesco Boccia lo attacca, non a caso pizzicando lo zampino di Renzi: «Smantellamento mi sa tanto di rottamazione». I nomi veri devono ancora venire allo scoperto. Ci sono i sindaci, da Dario Nardella a Matteo Ricci. C'è Stefano Bonaccini, che avrebbe i voti di Base riformista. E potrebbe essere in corsa anche la sua vice alla presidenza dell'Emilia-Romagna, Elly Schlein, temuta dall'ala sinistra che la vede come una «papessa straniera».

I GIOVANI HANNO VOTATO TERZO POLO E FDI

L’analisi scientifica e numerica del voto. Azione-Italia Viva è il primo partito tra i giovani under 24. Gli impoveriti votano 5S, Lega e Fi. Alla destra mancano 23 senatori e 30 deputati per arrivare ai due terzi necessari per cambiare la Carta.

«I giovanissimi, tra i 18 e i 24 anni, alle elezioni del 25 settembre hanno votato soprattutto il Terzo Polo e Fratelli d'Italia. È quanto emerge da un'analisi dell'istituto di ricerca Ixè. Un dato che Carlo Calenda non si è lasciato sfuggire rilanciandolo sui social: «Questo è importantissimo per me, i giovani capiscono meglio di tanti altri l'inconsistenza di una politica che promette e non realizza», ha scritto in un tweet. Secondo lo studio di Ixè, Azione e Italia viva hanno ottenuto il 17,6% degli under 24, Fratelli d'Italia il 15,4% e il Movimento 5 stelle il 13,6%. Seguono il Pd al 13,5%, +Europa al 12, 3% e Sinistra-Verdi al 10, 5%. Nella classe d'età tra i 25 e i 34 anni, invece, sul podio ci sono Giorgia Meloni, Giuseppe Conte ed Enrico Letta rispettivamente con il 23, il 20 e il 15%, mentre Calenda scende al 9%. Se si guarda oltre i 65 anni, rileva Ixè, è il Partito democratico a ricevere le preferenze degli anziani: il 26%. Due punti sotto c'è Fdi. In un altro studio di Ixè si mettono a confronto le classi di reddito: chi vive in «condizioni economiche inadeguate» ha espresso la propria preferenza per il Movimento 5 Stelle (il 27%) e il Carroccio (il 21%). Le classi agiate scelgono Fratelli d'Italia e Pd, che riscuotono il 25 e il 22%.
Intanto, anche l'Istituto Cattaneo continua ad esaminare i flussi, e nell'ultimo report si è concentrato sui cambiamenti di voto in nove grandi Comuni: Torino, Brescia, Genova, Padova, Bologna, Napoli, Salerno, Catanzaro, Catania. In queste città, spiegano Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, «il centrodestra ha visto Fdi cannibalizzare l'elettorato dei partner di coalizione, e in particolare quello della Lega». Ma al partito di Giorgia Meloni sono arrivati pure i voti di ex elettori di Forza Italia e in alcuni casi del centrosinistra, soprattutto al Sud. L'Istituto Cattaneo fa l'esempio di Catanzaro, dove ha avuto effetto la candidatura al parlamento del governatore calabrese Nello Musumeci. In sostanza, nelle città del Centro-Nord l'elettorato di Fdi è formato per più dell'80% da elettori che alle europee avevano scelto già il centrodestra: la parte restante si divide in misura variabile tra recuperi dall'astensione e passaggi dall'elettorato di centrosinistra. Nei Comuni del Sud la fluidità elettorale è maggiore, perciò la quota di voti arrivata a Meloni dal bacino del centrosinistra è più consistente (circa il 30%). La percentuale di voti conquistata dal Pd alle politiche di domenica scorsa, sottolinea l'Istituto Cattaneo, è molto simile a quella del 2018. Dalle stime dei flussi, l'elettorato dem appare abbastanza stabile. Chi ha votato per i democratici nel 2022 lo aveva fatto anche nel 2018 e nel 2019. Tra i flussi in uscita il più rilevante è quello verso Azione, che ha coinvolto fra il 10 e il 20% degli elettori del Pd. Tuttavia, Calenda e Renzi sono riusciti a pescare pure nel centrodestra, con una quota significativa di preferenze che è risultata pari al 40% dell'elettorato del Terzo polo. E il Movimento 5 stelle? Rispetto a quattro anni fa, quando ottenne quasi il 33%, «perde ovunque a favore dell'astensione. Una quota considerevole di voti si dirige verso il centrodestra: si tratta di un consenso che oggi, dopo aver verosimilmente premiato la Lega alle europee, alimenta in prevalenza Fdi. Il Pd rosicchia qualcosa ai pentastellati, ma in misura più modesta rispetto al centrodestra». L'astensionismo toglie e dà: i flussi, infatti, sono bidirezionali. «In tutte le città il partito di Conte ha ingenti perdite, ma in alcuni casi ha elevati recuperi da questo bacino: entrambi i flussi sono indice di una forte contiguità con l'area della protesta e della disillusione», aggiunge l'Istituto Cattaneo. Oltre al Movimento, i partiti che hanno alimentato di più l'area del «non voto» sono Lega e Forza Italia. Grazie ai risultati delle urne, il centrodestra avrà 237 seggi alla Camera su 400, in sostanza sei deputati su dieci sono andati alla coalizione di Meloni, Salvini e Berlusconi. A Palazzo Madama, il centrodestra potrà contare su una maggioranza di 112 senatori su 200. Nonostante i numeri delle Camere che si riuniranno il 13 ottobre siano chiari, i parlamentari sicuri del posto sono 491, mentre ci sono ancora 109 seggi da assegnare: si tratta di 38 senatori e 71 deputati che andranno a sostituire i «plurieletti» al proporzionale, o che hanno conquistato il seggio vincendo il collegio uninominale. È il caso, ad esempio, proprio della leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, che è stata eletta nel collegio uninominale Abruzzo 3 e al proporzionale in Lombardia, Lazio, Puglia e Sicilia».

CATTOLICI E VOTO 1. PARLA ZUPPI

Mimmo Muolo per Avvenire intervista il capo dei vescovi italiani, il cardinal Matteo Zuppi di Bologna. Dice Zuppi: «Conosco Giorgia Meloni. È attesa da una grande responsabilità, soprattutto dare dignità alla politica e affrontare in maniera alta le grandi sfide che abbiamo davanti, nella difesa dell'interesse nazionale ed europeo. Ue, Mediterraneo e scenari atlantici sono nel dna dell'Italia». L’integrale è nei pdf.

«Cardinale Matteo Zuppi, dopo il voto esultano i vincitori, ma c'è anche chi ha detto che - visto il risultato elettorale - il 25 settembre è stato un brutto giorno per l'Italia. Qual è il suo pensiero al riguardo?
«Quando gli italiani scelgono il loro futuro non è mai un brutto giorno. È sempre l'esercizio della democrazia. E noi dobbiamo credere alla forza e alla bellezza della democrazia e ascoltare le domande che questo voto contiene, in un momento così importante per tutti». (…)
Dunque, eminenza, nessun allarmismo preventivo, pare di comprendere...
Gli italiani hanno esercitato il loro diritto e il loro dovere. Quindi ci si interroghi su che cosa l'espressione del voto chiede - ed è una domanda che dobbiamo farci tutti, anche la Chiesa - e si guardi con responsabilità al nostro futuro, come del resto è scritto nella nota pubblicata oggi (ieri per chi legge, ndr). Servono tante idee e poca ideologia.

Nella nota si afferma tra l'altro che la Chiesa «continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l'interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità». Ma certe posizioni della coalizione vincitrice non sempre sono in linea con la Dottrina sociale. Come si immagina il dialogo con queste forze politiche?
Come sempre. Sarà un dialogo che avrà sempre al centro la bellissima Dottrina sociale della Chiesa, che ha tanto da dire oggi nelle sfide cui dobbiamo far fronte. E ciò significa la difesa della persona, la difesa dei diritti individuali e dei diritti della comunità, come è scritto nella nota.

Lei conosce personalmente Giorgia Meloni?
Sì, la conosco.

E che cosa si sente di dire alla presidente di Fdi che potrebbe diventare il primo premier donna d'Italia?
Che ha una grande responsabilità e tante attese. E che deve dare - come chiunque sia chiamato a rivestire quel ruolo - dignità alla politica e quindi saper affrontare nella maniera più alta le grandi sfide che ci attendono, nella difesa dell'interesse nazionale ed europeo, che è poi la vera domanda dell'elettorato. Forse anche l'astensionismo, sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato, alla fine è una richiesta, sia pure in negativo, di una politica che torni a essere attraente e sappia trovare le risposte. È un momento difficile, ma anche straordinariamente importante per mantenere le radici del nostro Paese, della Costituzione, e per guardare avanti con una visione non piccola e miope, ma lungimirante.

A proposito di Costituzione, lei che alla Carta fondamentale ha dedicato un libro, che cosa pensa dell'ipotesi di cambiarla, come è scritto nel programma della nuova maggioranza parlamentare?
Sappiamo che ci sono i meccanismi per cambiare la lettera della Costituzione. Ma ciò che non dobbiamo cambiare è lo spirito e la visione che animarono i padri costituenti, spirito alto di grande idealità e di grande convergenza comune, nato dall'esperienza della mancanza di libertà del fascismo e degli anni terribili della guerra.

Ma in uno scenario politico in cui, in fin dei conti, tutte le forze politiche sono minoranza (anche quelle che per effetto della legge elettorale sono maggioranza in Parlamento), che cosa può unire gli italiani?
Le sfide. Come disse il premier Draghi al Meeting di Rimini, l'Italia è stata grande quando non si è pensata da sola. Abbiamo l'Europa, con i suoi limiti ma anche con la straordinaria eredità che rappresenta. Dunque dobbiamo cercare di radicarci sempre più in Europa e guardare con responsabilità al nostro futuro.

Prima del voto, si è parlato molto di un'agenda Draghi per affrontare i problemi più urgenti del Paese. Nella nota post elettorale lei, a nome dei vescovi, li ha elencati. Possiamo dunque parlare di un'agenda della Chiesa italiana?
No, ma la Chiesa fa sue le sofferenze e le aspirazioni della popolazione. E non soltanto dei nostri fedeli. Cerchiamo di avere sempre un orizzonte largo. La vera agenda è questa. E l'altra agenda è l'amore politico. La Fratelli tutti di papa Francesco contiene una visione alta, che il documento consegna a tutti e anche alla politica italiana. L'amore politico ci libera dalla distorsione delle ideologie e ci restituisce il valore più nobile che è quello di cercare ciò che unisce e di risolvere quello che divide.

All'estero i primi commenti ai risultati elettorali non sono stati entusiastici. Il rapporto con l'Ue e la politica estera saranno fra i banchi di prova del prossimo governo?
Di questo come di ogni governo. L'Italia ha un dovere che viene dalla geografia. È la radice dell'Europa e del Mediterraneo. E quindi non può non avere una politica europea e mediterranea. L'Europa inoltre è una straordinaria possibilità. Abbiamo bisogno di più Europa, di un'Europa che funzioni di più. Per esempio per ciò che riguarda i flussi immigratori. L'Europa qui non ha funzionato, ha lasciato sola l'Italia in questo campo e perciò c'è bisogno di più solidarietà europea.

E per la guerra in Ucraina quale deve essere il ruolo del nostro Paese, dato il nostro inserimento nella Nato?
La nostra è la storia di un Paese che ha saputo essere cerniera tra i diversi mondi. Non dobbiamo dimenticare questo ruolo. E questo richiede tanta identità italiana e anche tanta capacità di dialogo. È il ruolo naturale dell'Italia e dell'Ue, ma credo che per la pace tutti dobbiamo fare molto di più. La guerra è un abominio e non dobbiamo mai abituarci all'intossicazione di odio da cui è prodotta e che produce.
Non dobbiamo aspettare l'atomica per muoverci. Ecco perché dicevo che serve un'Europa più forte, anche con aspetti come il fisco, la politica estera comune e un esercito europeo.

La rappresentanza dei cattolici in Parlamento sembra essersi ulteriormente assottigliata. Dopo la fine del partito unico, questa presenza è avviata verso l'irrilevanza?
Spero proprio di no. Soprattutto il vero banco di prova saranno i problemi del Paese, da affrontare con quel surplus di consapevolezza e di amore che viene dalla Dottrina sociale della Chiesa. E poi c'è anche il ruolo del Terzo settore, per tradurre in cultura politica, quindi in visione e capacità di comprendere i problemi, la vicinanza al prossimo. Certamente dobbiamo fare di più.

Ma i vescovi hanno una loro strategia al riguardo o tutto è demandato all'iniziativa dei laici?
Certamente è demandato all'iniziativa dei laici. Ma i vescovi, insieme ai laici (questo fa parte anche del cammino sinodale in atto), cercheranno di capire le domande e di tradurre in cultura e in scelte concrete la grande solidarietà laica cristiana, che è uno dei tesori maggiori della nostra realtà, per combattere il grande e pericoloso virus dell'individualismo.

Lei è reduce dal Congresso Eucaristico di Matera, dove ha detto che si è pregato anche per il bene del Paese. Che cosa ha da offrire una 'Chiesa eucaristica', secondo la definizione del Papa, al futuro dell'Italia?
Tanta speranza e tanta attenzione ai più fragili. La fragilità che diventa forza come abbiamo constatato durante il Covid, quando abbiamo capito che non possiamo salvarci da soli, ma che abbiamo bisogno della vera forza che è l'amore. Anche in politica.

Questo vale anche per il rapporto tra maggioranza e opposizione?
Anche. La dialettica sia severa e forte, ma esca dalle derive ideologiche che paralizzano, che complicano inutilmente le cose semplici e che risultano anche incomprensibili alla gente, generando l'astensionismo. L'appello dei vescovi è a evitare queste dinamiche deleterie e a essere tutti protagonisti del futuro. Non ci si può accontentare di risolvere i problemi della pancia, ma bisogna saper guardare oltre, perché senza questo sguardo non si risolvono neanche i problemi della pancia». 

CATTOLICI E VOTO 2. RUINI SPONSORIZZA MELONI

Aldo Cazzullo intervista il cardinal Camillo Ruini  in una paginata del Corriere. Anche qui l’integrale è in pdf.

«Il cardinale Camillo Ruini - 91 anni, per sedici presidente dei vescovi italiani, vicario di Roma con Wojtyla e Ratzinger - ha attraversato molte stagioni della nostra vita pubblica.

Cardinale Ruini, è davvero un risultato storico?
«Se per storico intendiamo che troverà posto nei libri di storia, italiana e anche europea, risponderei di sì. Aspetterei invece a parlare di "storico" in senso forte. È presto per dire quanto profondamente inciderà il risultato del 25 settembre».

Alla fine, quando si vota, moderati e conservatori sono quasi sempre maggioranza.
«La cultura politica prevalente è a sinistra; ma il Paese è in buona parte a destra, anche se in maniera meno netta».

Come mai, secondo lei?
«È una contraddizione che esiste in tutte le democrazie: gli intellettuali spesso sono progressisti; la gente bada agli interessi concreti e tende a essere più conservatrice. Ora il distacco tra élites e popolo si è fatto più evidente; anche se poi, come sta accadendo anche in questi giorni, le élites tendono ad allinearsi...».

La prima donna presidente del Consiglio viene da destra, non da sinistra. Se l'aspettava?
«Sì. Me l'aspettavo perché vedevo l'ascesa di Giorgia Meloni. Mentre a sinistra non mi pare ci siano oggi donne di grande rilievo politico».

Lei ha mai incontrato la Meloni?

«Tre volte. La prima parecchi anni fa, quando ancora molto giovane era ministro nell'ultimo governo Berlusconi. Le altre due volte l'ho incontrata in questi ultimi anni».

Che tipo è? Come spiega il suo successo?
«Per me è una persona simpatica e "tosta", come si dice a Roma. Una chiave del suo successo è la chiarezza e la coerenza delle sue posizioni. Mi è sembrata molto perspicace, rapida nell'inquadrare i problemi».

Ma è preparata a governare? Ha una squadra? Sa di economia?
«Ha esperienza politica, ma poca esperienza di governo. In questo dovrà imparare molto. In previsione del successo, ha provveduto a rinforzare la sua squadra con personalità e competenze anche esterne al suo partito, e penso che continuerà su questa linea. Non saprei quanto sia competente in economia. L'importante è che scelga i ministri "giusti", in una situazione economica estremamente difficile per l'Italia e per l'Europa».

Quello per la Meloni è più un voto di protesta, o è il voto dei moderati che hanno visto in lei la leader che poteva riportare la destra a Palazzo Chigi?
«Non penso che sia un voto di protesta. La protesta si è sfogata nell'astensione. È vero invece che in lei molti hanno visto un leader».

Alcuni giornali stranieri parlano di ritorno al fascismo, che non è ovviamente all'ordine del giorno. Ma che la fiamma tricolore, il simbolo storico del postfascismo italiano, abbia oltre un quarto dei voti, non è una cosa che può stupire all'estero?
«Senza dubbio può stupire, come già si è visto da certe reazioni. Alla prova dei fatti penso e spero che Giorgia Meloni sappia dissipare queste preoccupazioni. Al di là del simbolo, la scommessa è che sappia rappresentare le istanze dei moderati, non quelle della destra estrema».

(…)
Il primo partito è l'unico di opposizione, l'altro vincitore è Conte che ha fatto cadere Draghi... Anche il bilancio di Draghi esce ridimensionato?
«Mario Draghi ha reso un grande servizio all'Italia. Spero che tra il nuovo governo e quello di Draghi ci sia per molti aspetti una sostanziale continuità».

Ma cosa si aspetta dal nuovo governo il mondo cattolico, o almeno quella parte che non ha mai flirtato con la sinistra?

«Preferirei dirle quello che mi aspetto io. Mi limito a un punto solo, ma decisivo e con un sacco di implicazioni. Il nuovo governo metta al centro dell'attenzione il crollo demografico, che dura da molti anni e che solo da poco tempo la politica ha preso in considerazione, ma in maniera radicalmente insufficiente».

Sull'aborto cambierà qualcosa?

«Spero che la legge 194 sia finalmente attuata anche dove dice che lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».

Cosa significa in concreto?

«Aiutare le donne, spesso straniere, che vorrebbero portare avanti la gravidanza ma sono molto povere e temono di non riuscire ad allevare il figlio. I centri di aiuto alla vita, con meno di tremila euro per ogni donna incinta e con l'impegno personale dei volontari, salvano molti bambini».

E sulle unioni civili?

«Vale un discorso analogo. Le unioni civili dovrebbero essere differenziate realmente, e non solo a parole, dal matrimonio tra persone dello stesso sesso. Devono essere unioni, non matrimoni».

L'ONU: "REFERENDUM ILLEGALI"

Veniamo alle cronache sulla guerra. I militari russi fermano i disertori, preso d'assalto il confine con la Finlandia. I risultati dei referendum nelle regioni occupate, secondo i russi "il 95% vuole diventare russo". Fissata al 4 ottobre l'annessione. Giovanni Pigni sulla Stampa.

«Papà, cosa facevi durante la terza guerra mondiale?». «Me la davo a gambe verso la Georgia su una moto d'acqua»: è uno dei meme che girano in questi giorni nelle chat Telegram dei russi che scappano dal Paese. Il meme ironizza sulla situazione di decine di migliaia di giovani che si rifiutano di rispondere alla chiamata alle armi del presidente Vladimir Putin. La settimana scorsa, Putin ha annunciato la mobilitazione «parziale» del Paese con l'obiettivo di reclutare 300,000 riservisti per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina. Il risultato fino ad ora: oltre 260,000 uomini in età di leva avrebbero lasciato la Russia secondo quanto riportato da Novaya Gazeta Europe. Mentre i prezzi dei biglietti aerei sono schizzati alle stelle, decine di migliaia di russi hanno deciso di lasciare il Paese via terra. Sul confine con la Georgia ormai da giorni si è formata una coda impressionante di automobili: ieri la fila al valico di Verkhniy Lars superava i 20 chilometri di lunghezza secondo le autorità locali. Circa 50,000 russi avrebbero attraversato il confine con la Georgia nell'ultima settimana. Preoccupate dall'esodo dei potenziali coscritti, le autorità locali hanno iniziato a introdurre misure restrittive: i cittadini soggetti alla mobilitazione vengono fermati al valico e indirizzati verso gli uffici di reclutamento. I servizi di sicurezza (FSB) hanno persino posizionato un veicolo militare sulla frontiera per monitorare la situazione e impedire la fuga illegale dei coscritti dalla Russia. Ancora relativamente libero da restrizioni è il confine con il Kazakistan, attraversato da circa 100 mila russi dall'inizio della mobilitazione. «Non tutti sono disposti a immolarsi come carne da cannone in questo teatro dell'assurdo», esclama Andrey, un giovane ingegnere di San Pietroburgo, spiegando il motivo della sua fuga verso il Kazakistan. Dopo aver salutato amici e famiglia in tutta fretta, il ragazzo ha preso un volo fino alla città siberiana di Novosibirsk e sta per attraversare in macchina la frontiera kazaka. A consolarlo, il fatto di aver trovato una possibilità di lavoro oltre il confine. Ma non tutti hanno la fortuna di avere un piano come Andrey.
Molti russi fuggono dal Paese senza prospettive chiare, mossi dalla paura che a momenti potrebbero essere reclutati e inviati al fronte a combattere. Verso l'Europa, l'unica via di fuga rimasta è la Finlandia. Qui il flusso in uscita è minore - solo i russi muniti di un visto Schengen possono attraversare il confine - ma comunque notevole: nell'ultimo fine settimana le autorità finlandesi hanno registrato un aumento dell'80% di ingressi provenienti dalla Russia. Non mancano anche i tentativi di fuga rocamboleschi: ieri le autorità estoni hanno catturato un uomo che aveva illegalmente attraversato il fiume Narva, demarcante il confine tra Estonia e Russia, su uno stand up paddle. In generale, la sensazione è quella di una finestra che si sta rapidamente chiudendo. Secondo diverse fonti, agli uomini in età di leva potrebbe essere presto vietato di lasciare il Paese. Il Cremlino, cercando di calmare le acque, ha negato che sia stata presa una decisione in tal senso. Mentre migliaia di russi fuggono, continuano le proteste contro la mobilitazione. Almeno una ventina i casi di uffici di reclutamento dati alle fiamme nell'ultima settimana. Lunedì, un uomo ha aperto il fuoco in un centro di reclutamento nella regione di Irkutsk, ferendo gravemente un commissario militare. Chi scende in piazza a protestare, invece, si scontra con la repressione dell'apparato di sicurezza: sono circa 2400 i cittadini russi arrestati fino ad ora durante le manifestazioni contro la mobilitazione, secondo il monitor OVD Info. Intanto, nei territori ucraini occupati da Mosca, si sono conclusi ieri i referendum per l'annessione alla Russia, bollati come una «farsa» dalla comunità internazionale: «Non possono essere definiti espressione genuina della volontà popolare», ha detto il capo degli Affari Politici dell'Onu, Rosemary DiCarlo. Secondo i risultati preliminari annunciati dalle autorità russe, nelle quattro regioni di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia i voti a favore dell'annessione superano il 95% per cento. Putin potrebbe annunciare l'integrazione dei territori alla Russia il 30 settembre, secondo quanto riportato dell'agenzia Tass. Secondo altre fonti, il Consiglio della Federazione russa, la Camera alta del Parlamento, potrebbe votare il 4 ottobre l'annessione dei territori ucraini. L'esito dei referendum «non cambia nulla», ha detto ieri il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, ribadendo l'intenzione di Kyiv di riconquistare i territori occupati. Ma intanto, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev scrive su Telegram: «I referendum sono finiti. I risultati sono chiari. Bentornati a casa, in Russia!».

TRE SABOTAGGI (IN DUE GIORNI) DEI GASDOTTI CON LA RUSSIA

Le perdite di gas nel mar Baltico sono frutto di un "atto deliberato" contro i gasdotti. La Danimarca apre un'inchiesta. Scambio di accuse tra Russia e Ue. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«Tre indizi fanno una prova, recita il vecchio adagio. E per i Paesi che si affacciano sul Mar Baltico le tre falle improvvise che si sono aperte lunedì nei gasdotti Nord Stream 1 e 2, quelli che collegano direttamente la Germania e la Russia, non possono certo essere un caso. Prima che le immagini delle bolle di gas che increspavano il mare davanti alle coste dell'isola danese di Bornholm facessero il giro del mondo, i sismografi svedesi e danesi avevano rilevato alcune anomalie sui fondali legate sicuramente ad esplosioni. E a metà del pomeriggio di ieri la premier danese Mette Frederiksen già non escludeva un'azione di sabotaggio: «Ci sono tre falle ed è molto difficile che si possa trattare di una coincidenza ». A stretto giro anche il ministro dell'Energia tedesco, Robert Habeck, ha parlato di «un attacco all'infrastruttura», ma senza fare ipotesi precise sui colpevoli. In serata la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha avvertito che «qualsiasi interruzione deliberata delle infrastrutture energetiche europee attive è inaccettabile e porterà alla risposta più forte possibile». E da Washington non si è fatta attendere la reazione americana: «Le fughe di gas dal Nord Stream sono sotto indagine, i primi report indicano che siano state causate da un attacco», ha commentato il segretario di Stato americano, Antony Blinken, aggiungendo tuttavia che le falle non avranno un impatto significativo sulle forniture di gas in Europa (essendo entrambi già bloccati). I mercati, però, hanno reagito agli attacchi facendo schizzare nuovamente il prezzo del gas fino a 207 euro al megawattora. Un balzo del 19%. Già nella notte tra domenica e lunedì i gestori delle pipeline avevano notato un crollo di pressione in uno dei tubi di Nord Stream 2 e in entrambi i tubi di Nord Stream 1. L'area delle bolle misura un chilometro di diametro e le autorità danesi hanno invitato le navi a evitare tutta l'area. Il ministro dell'Energia danese, Dan Jorgensen, ha ammesso che sarà difficile riparare i gasdotti adagiati a 80 metri di profondità sul fondale, insomma che «non sappiamo quanto la falla resterà aperta». Il gas, infatti, non è stato bloccato. E non ci sono indicazioni su quando il metano russo smetterà di essere pompato nel gasdotto. Ma per qualcuno l'attacco alle due pipeline chiuse ma ancora piene di gas (Nord Stream 2 non è mai entrata in funzione e Nord Stream 1 è ferma da agosto) ha anche il sapore di un avvertimento ancora più sinistro. Ieri la Norvegia e la Polonia hanno inaugurato il nuovo gasdotto Baltic Pipe che collegherà i due Paesi direttamente. E una delle falle di Nord Stream 2 è avvenuta «molto vicino alla nuova pipeline», ha notato ieri l'esperto di energia Tom Marzec- Manser, intervistato dal Financial Times. Un avviso alla Ue: gli attentatori possono colpire ovunque.
I primi a puntare il dito apertamente contro la Russia sono stati i polacchi: il premier Mateusz Morawiecki ha dichiarato che «non conosciamo ancora tutti i dettagli, ma è chiaramente un atto di sabotaggio che segna un nuovo grado di escalation nella situazione in Ucraina». E il viceministro degli Esteri, Marcin Przydacz, ha aggiunto che se Mosca è capace di invadere l'Ucraina, «non possiamo più escludere alcuna provocazione, neanche nell'Europa occidentale ». Da Kiev è intervenuto il consigliere del presidente Zelensky, Mykhailo Podolyak, che ha parlato di un «atto terroristico pianificato dalla Russia» e di «un atto di aggressione contro la Ue». Ma la Danimarca, che insieme alla Svezia ha aperto un'inchiesta sull'incidente, ha dichiarato attraverso la premier Frederiksen che «è ancora presto» per trarre conclusioni sui responsabili. Intanto il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov, ha parlato di «notizie molto preoccupanti», e di «un danno di natura nucleare al gasdotto situato nell'area economica della Danimarca», e ha invocato un'indagine nel tentativo di allontanare da sé i sospetti di un attentato di matrice russa».

GASDOTTI E CONFINI: ROTTO L’ASSE TRA EUROPA E RUSSIA

Gasdotti e confini: tensioni convergenti. L’analisi di Luigi De Biase per il Manifesto.

«Il 22 febbraio il governo tedesco ha comunicato ai russi l'intenzione di sospendere il lungo procedimento burocratico necessario perché il gasdotto Nord Stream II entrasse in funzione. Il giorno seguente, a Washington, il capo della Casa Bianca, Joe Biden, ha firmato un documento con pesanti sanzioni al consorzio che lo aveva costruito. «Ora Nord Stream è soltanto un tubo di ferro in fondo al mare», ha detto subito dopo un funzionario della sua Amministrazione ai giornalisti che gli chiedevano un commento. Poche ore più tardi l'esercito russo ha rotto l'assedio ai confini che durava da mesi. Sia chiaro: Putin con ogni probabilità aveva già assunto quella decisione. La settimana prima la Duma aveva affrontato la possibilità di riconoscere le due regioni ribelli di Donetsk e di Lugansk come stati indipendenti, e lui stesso aveva riunito al Cremlino il Consiglio di sicurezza per un lungo confronto sulla questione trasmesso quasi per intero alla tv di stato. A volte, però, esistono segnali che separano una fase dall'altra. Oggi sembra di essere tornati esattamente a quel punto. Gli elementi sono ancora pochi per ricostruire con esattezza quel che è accaduto lunedì al largo dell'isola danese di Bornholm, in pieno Mar Baltico. L'unica certezza è che Nord Stream e Nord Stream II sono stati distrutti da due potenti esplosioni, la seconda delle quali, secondo gli esperti dell'Università di Uppsala, aveva un potenziale pari a cento chili di dinamite. Un attacco in piena regola, un sabotaggio che diversi governi potrebbero considerare come un atto di guerra. Ogni passo successivo corrisponde a una ipotesi. La Russia ha certamente le capacità militari per portare a termine questo genere di azione. La superiorità della sua flotta di sottomarini nel Baltico è cosa nota. Bloccare le forniture di gas all'Europa significherebbe aprire già da ora una pesante crisi energetica in quelli che il Cremlino considera paesi ostili. Gli eserciti della Nato non hanno, tuttavia, nulla da invidiare a quello russo. Distruggere i due gasdotti vorrebbe dire chiudere con la forza e in modo definitivo uno dei più grandi equivoci ancora in piedi dentro all'Alleanza, i cui effetti condizionano anche gli equilibri della guerra in Ucraina, ovvero l'asse dell'energia fra Berlino e Mosca. Insomma, a febbraio, alla vigilia dell'invasione, in Europa e negli Stati uniti si discuteva la fine politica del progetto Nord Stream. Ora siamo passati dalle parole ai fatti. È un segno di cui tenere conto. Anche la situazione sul terreno, in Ucraina, è per molti versi simile. Allora la Russia era nel bel mezzo del pomposo processo istituzionale che avrebbe portato Putin a riconoscere Donetsk e Lugansk come due Repubbliche indipendenti, stringendo poi con i loro leader accordi di cooperazione militare. Eventi simili si verificano adesso. I russi hanno concluso ieri i loro referendum in quattro province occupate dell'Ucraina, oltre a Donetsk e Lugansk ci sono quelle di Zaporizhzhia e Kherson, referendum che secondo le autorità locali sono terminati con il sostegno di massa alla richiesta di integrazione. Putin sarà in Parlamento dopodomani. Molti si aspettano l'annuncio di nuovi confini. In un certo senso questi due fattori, da una parte l'espansione territoriale della Russia in Ucraina, dall'altra il blocco dei canali energetici verso l'Europa, convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta. È naturale chiedersi quale sarà la prossima fase. I rischi oggi sono se possibile ancora più elevati rispetto a febbraio. Americani e britannici sembrano sempre più coinvolti nelle operazioni di guerra in Ucraina. Da Mosca la minaccia del ricorso all'arsenale atomico è ormai quotidiana. Ieri è stato l'ex premier ed ex presidente Dmitri Medvedev a ripetere che la Russia ha tutto il diritto di usare «alcune delle sue armi più terribili contro il regime ucraino», nel caso in questo lanci «un'aggressione su larga scala». Lo spazio per la diplomazia sembra minimo. Tutti i fattori si allineano sul risultato più pericoloso».

BOLLETTE: PIÙ 60 PER CENTO NEGLI ULTIMI 3 MESI

Le stime di Nomisma Energia sui rincari: negli ultimi tre mesi dell'anno balzo del 60% per l'elettricità e del 70% per le tariffe del gas. Gli stoccaggi salgono al 90%  ma il razionamento non è escluso. Giuliano Balestreri per La Stampa.

«L'obiettivo raggiunto sul fronte degli stoccaggi non frena la corsa della bolletta della luce che negli ultimi tre mesi dell'anno potrebbe salire del 60%: un incremento che, senza interventi del governo, potrebbe arrivare al 100%. Più 70%, invece, per il gas. Sono le previsioni di Nomisma Energia in attesa della comunicazione di Arera, l'autorità pubblica che fissa le tariffe energetiche, in arrivo entro venerdì prossimo. E nonostante gli stoccaggi pieni al 90% non è ancora escluso il rischio razionamento. Se l'inverno sarà rigido e se la Russia ridurrà ulteriormente le forniture all'Europa, da febbraio potrebbe essere necessario tagliare le forniture a imprese e famiglie. «Dopo due trimestri in cui le bollette sono rimaste ferme grazie ai forti interventi del governo, l'Arera è costretta a rivederle al rialzo da ottobre, almeno per quelle dell'elettricità - spiega il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli - Per quella del gas, occorre aspettare la fine del mese di ottobre, perché con il nuovo meccanismo approvato la scorsa estate, le variazioni saranno mensili e si determineranno con i prezzi effettivi del mese concluso». Il prezzo dell'elettricità potrebbe quindi aumentare 66,6 centesimi per kWh, 25 centesimi in più rispetto al trimestre precedente. Sul fronte del gas, si arriverebbe a 210 centesimi per metro cubo «immaginando - spiega Tabarelli - che sul mercato italiano all'ingrosso Psv si stabilizzi per tutto il mese di ottobre un prezzo molto più basso del Ttf di Amsterdam». Per quanto riguarda gli stoccaggi, intanto, il database Agsi+ di Gas Infrastructure Europe (Gie) indica che le riserve nazionali di metano sono a 173,36 terawattora, l'89,62% della capacità complessiva. Un dato migliore di quello medio della Ue fermo all'87,73%. Abbastanza per considerare raggiunto l'obiettivo del 90% entro l'autunno fissato dal ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. «Che gli stoccaggi nazionali di gas siano arrivati quasi al 90% è una buona notizia - spiega ancora Tabarelli -, ma non ci permette di essere completamente tranquilli per l'inverno. Non potremo ancora contare sul nuovo rigassificatore di Piombino e sull'aumento della produzione nazionale. Se la Russia dovesse chiudere del tutto i rubinetti, la situazione sarebbe ancora più difficile». Per evitare il razionamento, il governo ha varato un piano di risparmi del gas per questa stagione fredda: meno 1 grado di riscaldamento negli edifici, 15 giorni in meno di accensione delle caldaie e 1 ora in meno al giorno (3,2 miliardi di metri cubi risparmiati); spinta alla produzione di energia da fonti diverse dal metano (2,1 miliardi); una campagna per promuovere comportamenti virtuosi da parte dei cittadini (2,9 miliardi)».

IN IRAN “USO SPOPORZIONATO DELLA FORZA”

Non si ferma la protesta popolare in Iran, per la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla “polizia morale” perché non portava bene il velo. Luca Geronico per Avvenire.

«La repressione delle forze dell'ordine e il blackout semi- totale della rete non arginano la rabbia popolare in Iran per la morte di Mahsa Amini - arrestata perché non indossava correttamente il velo - e di Hadis Najafi, uc-cisa domenica durante un corteo. Le proteste, nonostante le 75 vittime ufficiali e i quasi 3mila arresti, sono proseguite anche questa notte mentre lunedì notte si protestava a Teheran, Karaj, Yazd e nelle città curde di Sanandaj e Sardasht con le tv di stato che mostravano il lancio di lacrimogeni sui «rivoltosi». Sui social, intanto, si moltiplicano i video di cortei che avanzano cantando «Donne, vita, libertà» mentre le donne sventolano i loro hijab che poi danno alle fiamme. Nella città di Tabriz i canti dei manifestanti, diffusi sul web, chiedono la «morte del dittatore» con un chiaro riferimento alla Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei mentre le critiche arrivano fino al Parlamento: Jalah Rashidi Kuchi della Commissione affari interni ha affermato che finché il Paese non gestirà la questione in modo obiettivo «nulla nel Paese funzionerà». E cresce di ora in ora la solidarietà internazionale dopo l'appello del regista Asghar Farhadi: Mahsa, ha detto il segretario di Stato Usa Blinken, non è più viva «per colpa del brutale regime iraniano ». Intanto gli studenti di molte università iraniane hanno iniziato a disertare le lezioni chiedendo ai professori di unirsi alle proteste. Reazioni che non fermano la linea dura contro la stampa: almeno venti, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpg) quelli arrestati, tra cui Nilufar Hamedi, la reporter che ha denunciano il caso di Mahsa andando all'ospedale dove la ragazza era in coma. L'Onu ha chiesto alle autorità iraniane «di garantire i diritti a un giusto processo e di rilasciare le persone arbitrariamente » arrestate. «Molti iraniani sono stati uccisi, feriti e detenuti durante le proteste», ha affermato a Ginevra la portavoce dell'Alto Commissario Onu per i diritti umani, Ravina Shamdasan e «siamo molto preoccupati per la risposta violenta delle forze di sicurezza alle proteste», ha aggiunto evocando «l'apparente uso non necessario e sproporzionato della forza». 

BRASILE, DOMENICA SI VOTA

In Brasile si vota domenica per le presidenziali. L'ex presidente sindacalista Lula è in vantaggio nei sondaggi. Ma il populista Bolsonaro dice: «Sarò io a vincere». Sara Gandolfi per il Corriere della Sera.

«La platea del grande Auditório Celso Furtado, a San Paolo, lunedì sera era un tripudio rosso fuoco. Il colore che il Partito brasiliano dei lavoratori non ha alcuna intenzione di abbandonare, soprattutto ora che è ad un passo dalla riconquista della presidenza. Erano vestite in scarlatto le signore, guidate dall'aspirante first lady «Janja» Silva, mentre gli uomini sfoggiavano magliette e berrettini dalle mille sfumature cremisi. A un certo punto, si sono alzati tutti in piedi a ballare la «Lula Dance», con tanto di spericolate mosse di bacino. L'ex presidente-sindacalista, che compirà 77 anni a fine ottobre, è rimasto seduto in galleria, tranquillo e sorridente. Lula sente il profumo della rivincita. Il voto di domenica è una sfida a due, che spera di chiudere al primo turno conquistando la metà più uno dei voti validi. L'ultimo sondaggio di Pesquisa Atlas lo dà al 48,3% contro il 41 dell'attuale presidente di destra Jair Bolsonaro. Il giorno prima, Ipec lo dava al 48% contro il 31. Scartando schede bianche e nulle, Ipec stima che il duello si potrebbe chiudere subito: 52 a 34. Lo staff di Bolsonaro sfodera sondaggi interni molto diversi. Fiato sospeso fino allo spoglio. È qui, nella grigia megalopoli da 12 milioni di abitanti che i duellanti stanno giocando le ultime carte, con una girandola di incontri, eventi live, parate. Oggi Bolsonaro risponderà con una cavalcata in moto sul lungomare della Baixada Santista, appoggiandosi allo zoccolo duro dei rider . Lula invece insegue il voto dei giovani. Ieri mattina ha incontrato gli sportivi in un hotel del centro, lunedì si è affidato a cantanti, attori e infuencer per il «super-live della speranza». Sono sfilati in video i cantori storici della sinistra brasiliana come Caetano Veloso - che ha recitato i versi della sua canzone «Gente» - e Gilberto Gil, l'ex ministro della Cultura. Il difficile compito di scaldare la platea è toccato a «Janja», la sociologa che Lula ha sposato in terze nozze. È comparsa sul palco con gli occhialoni da professoressa e il sorriso aperto, iniziando con una canzonatura al marito, seduto lassù: «Sono qui amore, mi stai cercando?». L'applauso più lungo è stato per l'ex presidente Dilma Rousseff, l'emozione più forte l'ha scatenata però la bellissima e giovane indigena Txai Surui che ha letto l'elenco delle ultime vittime della violenza in Amazzonia: «Spero che il mio nome non sia mai in questa lista, ma vengo da Roraima, il posto più pericoloso per i difensori dell'ambiente», ha detto, quasi in lacrime. Dopo oltre quattro ore di musica, canzoni, cabaret e interventi, è salito sul palco Lula, che con la voce sempre più roca, ha iniziato il suo consueto discorso-fiume - «avrei tante cose da dire ma non riuscirò mai ad eguagliare Fidel Castro» - e ha ribadito le sue promesse di un Brasile migliore: investimenti, nuovi posti di lavoro, salario minimo, una rivoluzione digitale che connetta tutto il Paese e perfino un ministero per i Popoli originari. «Riporterò la pace, l'unione, l'amore e la speranza», ha detto e, senza mai citarlo, ha tuonato contro Bolsonaro, «presidente incompetente e disumano». Spera di convincere i moderati, e lancia appelli al «voto utile» per vincere al primo turno, ma quando è il momento della foto di rito, mentre gli altri alzano indice e pollice a formare la L di Lula, lui non si trattiene e alza il pugno chiuso. Non dimentica mai nei comizi di ricordare i 580 giorni trascorsi in carcere dopo le condanne per corruzione, poi annullate. È arrivato a paragonarsi al sudafricano Mandela, ha avvertito che chiederà i danni allo Stato. E parla di una «nuova primavera», per il Brasile e per se stesso. Gli elettori che erano neonati quando lui entrò per la prima volta al Planalto, il palazzo presidenziale di Brasilia, nel lontano 2003, cosa pensano? «Lula è il meglio che abbiamo per contrastare la minaccia alla democrazia - dice Bruno Galvão, 21 anni -. Bolsonaro ha fatto sanguinare il Brasile, Lula sarà un cerotto, ma non è di certo la cura». Studia giornalismo all'università Casper Libero, milita nel Partito di sinistra Psol, alleato del Pt di Lula, e si tura il naso, come direbbe Montanelli, anche se «è tragico che la sinistra non sia riuscita a proporre un altro candidato forte». L'importante è fermare Bolsonaro, incalza il compagno di studi Arthur Guimaraes, 22 anni: «Qualche anno fa avrei detto che sognavo riforme e giustizia sociale, oggi mi accontento di sperare in un presidente democratico». Lula però è per loro un leader anziano, che non avrà la stessa forza del passato. Cauti gli staff dei candidati. Un coordinatore della campagna di Lula ammette: «Abbiamo grandi possibilità di vincere al primo turno, ma dobbiamo evitare di smobilitare la militanza e non generare un clima di frustrazione se le elezioni andranno al secondo turno». Da parte sua i coordinatori di Bolsonaro ammettono di puntare tutto sul ballottaggio del 30 ottobre. «La nostra sfida è entrare più forti nella fase decisiva».».

GIAPPONE, I FUNERALI DI ABE

Leader da tutto il mondo a Tokyo per i funerali di stato del premier più longevo e controverso della storia giapponese. Proteste per i costi faraonici, Kishida ora rischia. Serena Console per il Manifesto.

«Shinzo Abe, l'ex premier giapponese ucciso lo scorso 8 luglio, ha ricevuto ieri l'ultimo saluto in una Tokyo commossa, ma anche arrabbiata. Tra imponenti misure di sicurezza, il Nippon Budokan - il palazzetto nella capitale - ha accolto circa 4mila persone, compresi 700 ospiti stranieri e leader arrivati da tutto il mondo, per omaggiare durante il controverso funerale di stato il primo ministro più longevo del Giappone. È toccato alla vedova Akie Abe portare le ceneri del marito, poi consegnate al premier Fumio Kishida che a sua volta ha dato agli ufficiali militari l'urna da porre davanti al grande altare arricchito di fiori sotto la gigantografia di Abe. Il primo ministro in carica, che ha voluto questa cerimonia senza però proclamare lutto nazionale, ha rotto il silenzio nel palazzetto rivolgendosi direttamente al suo mentore politico: «Abe-san, la tua vita avrebbe dovuto essere molto, molto più lunga. C'era bisogno di te per molto più tempo. Hai lavorato instancabilmente e hai esaurito tutte le tue energie per il Giappone e per il mondo». Nel suo elogio funebre durato quasi 12 minuti e trasmesso in diretta tv, Kishida ha parlato dell'incomparabile eredità di Abe, glorificando le sue politiche che hanno garantito al Giappone di crescere economicamente e diventare un cruciale attore internazionale.
La parola è poi passata al successore di Abe, Yoshihide Suga, che per un anno ha guidato con difficoltà il paese nella lotta contro il Covid. Suga, considerato il delfino dell'ex premier con il quale ha lavorato per sette anni, ha celebrato l'impegno di Abe a migliorare le relazioni con la Corea del Nord e a garantire il ritorno dei giapponesi rapiti dal regime di Pyongyang.
Prima dell'offerta dei leader stranieri, tra cui la vicepresidente Usa Kamala Harris (che oggi sarà nella zona demilitarizzata tra le due Coree), l'ex premier britannica Theresa May, il primo ministro indiano Narendra Modi, e la delegazione taiwanese (la cui presenza è stata condannata dalla Cina), c'è stato il tributo dei rappresentanti della famiglia imperiale del Giappone: all'appello mancavano però l'imperatore Naruhito e l'imperatrice Masako, assenti perché simboli neutrali della nazione e figure super partes della politica. Una delle principali ragioni di contestazione della cerimonia è il suo costo, circa 11 milioni di dollari, coperto per metà dallo Stato e per la restante parte dal Partito liberaldemocratico al potere. Per gli oppositori, che secondo un recente sondaggio dell'agenzia di stampa Kyodo rappresentano il 60% dei giapponesi, quei soldi andavano utilizzati invece per aiutare la popolazione piegata dalla crescente inflazione. In Giappone i funerali di Stato sono una pratica poco frequente e generalmente sono riservati ai membri della famiglia imperiale. L'ultimo evento solenne è stato organizzato dal premier Sato Eisaku nel 1967 per omaggiare Yoshida Shigeru, primo ministro per sette anni tra il 1946 e il 1954 e negoziatore della fine dell'occupazione americana con la firma del Trattato di San Francisco. Ma a causa delle critiche allora scoppiate per lo svolgimento delle esequie senza alcuna base legale, i governi successivi hanno evitato di organizzare funerali per altri importanti leader politici.
NONOSTANTE I GIAPPONESI abbiano imputato a Kishida l'«incostituzionalità» della cerimonia, il premier ha voluto concedere un ultimo solenne saluto ad Abe per il suo ruolo politico in patria e all'estero. Ma secondo diversi osservatori politici, Kishida ha voluto organizzare la cerimonia nel tentativo di compiacere i legislatori liberaldemocratici al governo e i membri della fazione conservatrice di Abe, rafforzando la propria presa politica».

CANDIARD: DALLA POLITICA AGLI STUDI ISLAMICI

Sul Corriere della sera di ieri bella intervista al frate domenicano Adrien Candiard . Il pdf lo trovate qui.

«Adrien Candiard ricorda quella sera nella sua casa di Parigi. Aveva 9 anni. A cena disse ai genitori: «Avrei pensato di farmi frate». Il padre Bernard, che è stato capo del Servizio d'informazione governativo con il premier Lionel Jospin e poi consigliere politico del presidente François Mitterrand, trasalì: «Ma che cosa dici, sei impazzito? È ridicolo!». Identica la reazione della madre Catherine Garandeau, docente d'inglese. «S' incazzarono», non ricorre a perifrasi padre Adrien («frère, fratello, suonerebbe meglio»), dal 2006 divenuto per davvero un religioso domenicano, che oggi vive al Cairo, dove si occupa di islam nell'Ideo (Institut dominicain d'études orientales). Avrebbe potuto seguire le orme paterne, questo giovanotto che farà 40 anni il 31 ottobre. Quando decise di abbracciare il noviziato, era uno dei più apprezzati ghostwriter di Dominique Strauss-Kahn, in corsa per le primarie presidenziali francesi. Mollò Dsk a metà della corsa, quasi presago dello scandalo sessuale che nel 2011, a New York, avrebbe costretto l'economista socialista, divenuto nel frattempo direttore generale del Fondo monetario internazionale, a dimettersi. Padre Candiard non ha tuttavia smarrito la sua capacità di scrittura, anzi. È un autore di grande successo. La sua pièce Pierre et Mohamed , in cui immagina un dialogo fra il domenicano Pierre Claverie e il suo autista Mohamed Bouchikhi, assassinati insieme in Algeria nel 1996, è andata in scena più di 1.700 volte in teatri, cattedrali e moschee di mezzo mondo. Claverie, vescovo di Orano, fu beatificato nel 2018. Di padre Candiard la Libreria editrice vaticana ha da poco pubblicato lo spiazzante Tolleranza? Meglio il dialogo e in questi giorni ha acquistato i diritti di Qualche parola prima dell'Apocalisse, che esce in Francia giovedì prossimo e che affronta un tema assai scomodo: i segni della fine del mondo.

Quindi la sua famiglia non è religiosa.
«No. Mi reputo fortunato: nelle generazioni venute cinque anni dopo la mia, la frequenza al catechismo è crollata dal 75 al 25 per cento. Ho genitori battezzati, ma che definirei postcattolici».

Anche dopo che lei è diventato frate?
«Sì, sono rimasti uguali. Papà crede in Dio, però non so se si definirebbe cattolico. Quando divenni novizio, prese ad andare a messa tutti i giorni. Poi tornò a essere sé stesso: non lo considero un male.
Mamma forse si dichiarerebbe cattolica, ma fa più fatica a credere in Dio».

Ha studiato a Sciences Po, l'Istituto di studi politici. Con quale obiettivo?
«Diventare un politico. Mi pareva un lavoro nobile. Ero senz' altro ambizioso».

Infatti non ha scelto i francescani. (Ride)

 «L'ambizione in politica è una virtù. Nella Chiesa non solo è un vizio, ma anche una cosa comica, triste. Fa pena».

Perché frate anziché prete diocesano?
«Mi attraeva la radicalità della vita religiosa. Noi emettiamo tre voti: povertà, castità, obbedienza. I sacerdoti no. Se avessi scelto il clero secolare, qualcosa sul conto corrente oggi lo avrei».

E perché proprio domenicano?
«Ci sono arrivato da adolescente. Leggendo i libri di storia, mi sono imbattuto in Bartolomé de Las Casas, il missionario spagnolo difensore degli indios. Ho pensato: ma questa è casa mia!».

Credevo c'entrasse il vescovo Claverie.
«Avevo 13 anni quando fu straziato da una bomba. Non ricordo nulla della sua morte né dei sette monaci trappisti di Tibhirine decapitati dal Gruppo islamico armato. Mi vergogno a dirlo».

In che modo avvertì la vocazione?
«Vado a messa dall'età della prima comunione. Sono il contrario di un convertito. Ho vissuto con Dio accanto a me».

Com' è visto un frate dalla società?
«In Francia con curiosità e simpatia. È una figura esotica, medievale, sconta meno pregiudizi del prete diocesano. E questo è ingiusto. Invece la suora viene presa in giro. E anche questo è ingiusto».

Che ci fa al Cairo?
«Mi ci hanno mandato. Avevo altri progetti. Pensavo di diventare biblista».

Che cosa la affascina dell'Islam?
«Non i concetti. M' interessano i musulmani. Difficile ignorare 1,9 miliardi di persone. In Egitto le cinque preghiere quotidiane sono un richiamo continuo».

Ma gli egiziani pregano davvero?
«Non entro nelle case. È un clima sociale pio. Chi non prega, non lo dice».

Allah è più presente di Dio in Italia?
«Usciamo da un equivoco: stiamo parlando dell'unico Dio. I cristiani di lingua araba lo chiamano Allah. Non hanno un'altra parola per dire Dio. Quando celebro in arabo, sul messale leggo Allah».

Allora la differenza qual è?
«L'ambiente di pietà. Se salgo sul taxi al Cairo, la prima domanda è: "Di che religione sei?". A Parigi non si fa, sarebbe come chiedere: "Qual è il tuo stipendio?". Qui la maggioranza crede in Dio. I pochi atei si dichiarano stufi della religione».

Si sente al sicuro nella capitale in cui Giulio Regeni fu rapito, torturato, ammazzato e i suoi carnefici sono liberi?
«Sì. I religiosi, anche cristiani, sono rispettati e non mi occupo di politica».

Il compianto islamista Sergio Noja Noseda mi diceva: «Basta passeggiare per le strade di Algeri e ci si accorge che la maggioranza dei musulmani vuole portare i figli a scuola, mangiare in famiglia, far spesa nei centri commerciali e guardare un po' di tv la sera». È così?

«È così. Però non va dimenticata l'identità. Se a un italiano togli ogni riferimento religioso, incluso il campanile, gli mancherà qualcosa nel paesaggio. Il salafismo, che invoca il ritorno alla purezza originaria dell'islam, fa entrare la religione in ogni aspetto della vita, ma così ne prepara la distruzione. Non puoi dire a un credente tiepido: "O sei musulmano al 100 per cento o non lo sei". Quello alla fine ti risponderà: "Ok, non lo sono"».

Sull'islam lei scrive: «Non sappiamo neppure se dobbiamo avere paura e questo è forse ancor più inquietante».
«Alcuni affermano: "L'islam è tolleranza e pace". Altri: "L'islam è jihad". Usano versetti del Corano. Se non conosci, non sai a chi credere. Questo mette paura».

Dai jihadisti come ci si difende?
«L'Illuminismo voleva aiutare la gente a liberarsi dalle religioni. Ha portato frutti di convivenza, ma ora siamo alla fine: dobbiamo aiutare i credenti a essere più intelligenti. Serve un islam accademico, sicuro di sé, non influenzabile da personaggi senza istruzione che si autoproclamano predicatori».

Che risposta dà a chi pensa che l'islam punti a sottomettere l'Occidente?
«Se lo dicessi a un egiziano, strabuzzerebbe gli occhi: "Noi invadervi? Voi avete mandato i vostri eserciti in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria. Noi vestiamo all'occidentale: voi vestite all'orientale? Noi guardiamo Batman e le vostre americanate: voi vedete i nostri film? È l'Occidente che minaccia la nostra identità"».

Perché a 20 anni mandò in libreria il saggio «L'anomalia Berlusconi»?
«M' interessava l'Italia, ero pieno di ideali e preoccupato da ciò che vedevo».

In che consisteva questa anomalia?
«La prescrizione vale anche per me, eh!». (Ride) . «Consisteva nella confusione fra interessi pubblici e privati».

Lo ripubblicherebbe?

«Da frate no di certo».

Che cosa scriveva per Strauss-Kahn?

«Discorsi, articoli, lettere. Dsk dettava la linea, io ci mettevo un po' di cultura».

Fu reclutato attraverso suo padre?

«No. Pur sapendo, non so come, che andavo a messa, mi cercò lui all'École nationale supérieure, dove avevo fondato una sezione del partito socialista». Come mai lasciò Dsk e si fece frate? «Non voglio atteggiarmi a veggente, ma avevo capito che aveva un problema personale. E poi ero deluso dal suo rapporto con le idee: se ne innamorava e subito le lasciava cadere. Non era l'eroe di cui volevo diventare il paladino».

Però l'accusa di aver stuprato una cameriera in albergo venne archiviata.

«Solo perché indennizzò la vittima».

«Vanity Fair» scrisse che gli rimproverava la posizione sull'omogenitorialità.

«Non condivisi la sua prefazione a un libro su come essere genitori dello stesso sesso. All'epoca in Francia era illegale».

L'episcopato tedesco chiede che sia rivista la dottrina della Chiesa sulla morale sessuale. Lei è d'accordo? «Serve meno ossessione in materia. Ci sono cose che non fanno bene alle persone. Ma i dogmi valgono solo per la fede. La morale non va dogmatizzata. Sarebbe un errore teologico, non solo strategico. Di definitivo esiste unicamente il comandamento dell'amore verso il prossimo».

Ha mai avuto una fidanzata?

«Seriamente? Una sola».

Perché un libro sulla fine del mondo? «La gente non vuol sentirne parlare, ma l'Apocalisse le entra in casa con la tv. "Il Covid se ne andrà" ed è ancora qui. "La guerra in Ucraina finirà" e invece si avvicina un conflitto nucleare. "Il clima si aggiusterà" ma non si torna indietro. È solo l'inizio delle catastrofi future. Il tragico è entrato nel mondo. I credenti non sono a loro agio se gli ricordi Matteo, capitolo 13. Preferiscono le Beatitudini». Sta preconizzando la fine del mondo? «Non sono un profeta di sventura. Nessuno conosce la data. Ma Apocalisse in greco significa rivelazione. Ci dice che andiamo di crisi in crisi, non verso il progresso. E ci pone una scelta: accettare o rifiutare l'amore di Dio. Il che può migliorare o peggiorare il mondo». In futuro il Papa sarà italiano? «Non m' interesso di gossip ecclesiastico. Non conosco i nomi dei cardinali». Ha mai incontrato Francesco? «Mi ha ricevuto in udienza privata nel marzo scorso. Impressiona vedere la sua semplicità a confronto con l'apparato vaticano. Una persona mi aveva chiesto: "Digli che preghiamo per lui". Gliel'ho riferito. Mi è sembrato molto colpito».».

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