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Draghi parla. C'è da fidarsi?

alessandrobanfi.substack.com

Draghi parla. C'è da fidarsi?

Alle 9,30 l'intervento del premier al Senato. Dal suo discorso dipende il voto di fiducia e il destino della legislatura. Se non passa, voto il 2 ottobre. Storico vertice fra Putin, Raisi ed Erdogan

Alessandro Banfi
Jul 20, 2022
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Draghi parla. C'è da fidarsi?

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Fra poco, subito dopo l’apertura della seduta fissata alle 9.30, Mario Draghi parlerà in Senato. Dalle sue parole si potranno capire i destini della legislatura. È arrivato “il giorno della verità” per dirla con Avvenire. O, come spera Enrico Letta, una “bella giornata”. Ieri c’è stato ancora tanto nervosismo: le cinque giornate, volute da Sergio Mattarella per decantare la crisi, sono servite a chiarire le varie posizioni fino ad un certo punto. Stamattina i giornali sono ancora incerti su tre posizioni: quella dei 5 Stelle (e di Giuseppe Conte), così come quella di Matteo Salvini e dei tanti governisti di Lega e Forza Italia. Ma soprattutto cronisti e commentatori sono incerti sul principale nodo che sta per essere sciolto: che cosa dirà il Presidente del Consiglio? Sarà davvero “meno rigido”, come si augurano al Quirinale? Concederà qualcosa ai partiti e alle tante richieste, a cominciare dai nove punti dei 5 Stelle? I tanti colloqui di ieri hanno fatto pensare che il premier sia diventato più pragmatico rispetto a cinque giorni fa. Il Corriere scrive che la telefonata più importante è stata quella di Volodymyr Zelensky, arrivata da Kiev. C’è un “impegno geopolitico” che prevarrebbe su tutto…

Certo i partiti e i loro leader sembrano i cavalli al canapo del Palio di Siena. Sentono arrivare le elezioni, al più tardi nella prossima primavera, e scalciano in attesa della corsa vera e propria. Il leader più sopra le righe in questi giorni è Giorgia Meloni, alla quale i sondaggi promettono un primato nelle urne, che a volte sembra farle perdere lucidità. Attacca i sindaci, manda a quel paese gli alleati del centro destra, sembra aver dimenticato l’aplomb atlantista delle ultime settimane. Anche Salvini e Conte non sembrano in palla, ma il loro problema è più radicale: erano i vincitori delle ultime elezioni, e i padroni delle Camere, ed ora sentono battere l’orologio della loro inesorabile scadenza.

Intanto la scena economica ed internazionale appare sempre più complicata. C’è stato uno storico vertice a Teheran fra il presidente russo Vladimir Putin, il presidente iraniano Ebrahim Raisi e il «mediatore» Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia. Il disegno russo è quello di un’alleanza anti occidentale. La contraddizione è che la Turchia fa parte della Nato. Ma non partecipa alle sanzioni e infatti sono stati firmati accordi per aggirare le misure contro Mosca. Sulle fonti energetiche Russia, Iran e Turchia hanno poi stretto un patto importante, che preoccupa l’Europa.

Europa che proprio oggi annuncia il suo piano da “economia di guerra”. Se saranno confermate le ultime indiscrezioni, infatti la Commissione Ue oggi proporrà un regolamento per una riduzione obbligatoria complessiva del consumo di gas già dal prossimo 1° agosto e fino al 31 marzo 2023. «Risparmiare gas per un inverno senza rischi» è il titolo del documento: la decisione diverrà operativa al Consiglio Energia del 26 luglio. Il ministro Cingolani dice: per ora in Italia niente razionamenti. Vedremo.  

A proposito di guerra, dal campo bellico le notizie sull’offensiva russa riguardano i due fronti: il Donbass ad Est e la direttrice nel Nord del Paese che passa per Kharkiv. Da segnalare i reportage di Brera (su Repubblica) e Mannocchi (su La Stampa) da queste due zone. Aumenta intanto il nervosismo ucraino sullo spionaggio interno, dopo la purga di Zelensky. Da Washington fanno sapere comunque che continuano a fidarsi dei servizi e delle informazioni di Kiev.  

L’Italia e l’Europa sono in una morsa di caldo senza precedenti, con incendi e grandi disagi sui trasporti: record di temperatura in Inghilterra (vedi Foto del Giorno). Mentre Libero tira fuori una pagina dei quotidiani del 1964 con le stesse temperature di questi giorni: come dire non sempre e non tutto è dovuto all’inquinamento.

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LA FOTO DEL GIORNO

La foto del giorno ritrae un cartello nelle strade di Londra che mette in guardia sull’allarme caldo. La scritta dice: “Caldo estremo, viaggiate solo se è indispensabile”. Ieri il termometro in Gran Bretagna ha raggiunto la temperatura record di 40,2 gradi centigradi.

Foto Sebastian Gollnow/Picture Alliance per il New York Times.

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Anche oggi grande titolo del Manifesto: Slalom gigante. Per Avvenire oggi è: Il giorno della verità. Per Il Mattino invece: Draghi, il giorno del giudizio. Tutti, o quasi, scelgono in apertura la crisi politica. Il Corriere della Sera è ancora incerto: Draghi in aula, tensioni e spiragli. Anche La Repubblica vede incertezza: Draghi in aula, incognita Salvini. La Stampa si tiene le due possibilità aperte: Draghi, fiducia o dimissioni. La Verità invece ha deciso che è finita: Mattarella ha fregato ancora Draghi. Così come Libero, che ironizza: Hanno scherzato. Il Fatto si rifugia in una polemica col Sole 24 Ore di ieri: La voce dei Padroni: prendere o lasciare. Il Domani inverte i termini della questione, è il premier che può sconfessare la coalizione: Le mosse di Mattarella per evitare che Draghi sfiduci la maggioranza. Il Messaggero è didascalico: Crisi, resta l’incognita M5S. Il Sole 24 Ore si occupa della Lagarde e titola: Bce pronta a un rialzo fino a 50 punti. Tanto per ricordarci che là fuori, nel mondo reale, non sta andando benissimo.

STAMATTINA SI CAPISCE COME FINISCE LA CRISI

Che cosa succederà? È stata una vigilia di spiragli ma non di risposte definitive. Ieri il premier ha incontrato Sergio Mattarella al Quirinale. A Palazzo Chigi ha visto Enrico Letta e in serata, per un’ora, anche i rappresentanti del centrodestra, che si erano lamentati di non essere stati interpellati. Non escluso un contatto con Giuseppe Conte.

«Una vigilia di spiragli, ma non ancora di risposte, precede il giorno del giudizio sul governo guidato da Mario Draghi. Ricomporre, è l'estremo tentativo. Enrico Letta bussa alle nove del mattino alla porta del presidente del Consiglio per convincerlo che ci sono i margini per andare avanti, in nome delle emergenze del Paese e della stabilità. Subito dopo Draghi sale al Quirinale, perché la gestione di una fase «così delicata» passa dal confronto con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma l'equilibrio è fragile, la travagliata maratona assembleare del M5S non ha ricomposto la frattura interna, non ha sciolto i dubbi di Giuseppe Conte sulla fiducia. E Matteo Salvini e Silvio Berlusconi riuniti per l'intera giornata con gli alleati a Villa Grande dettano le loro pretese, su tutte una: fuori i 5S dall'esecutivo. Solo oggi una seduta fiume del Senato dirà se, come nelle ultime ore appare più probabile, Draghi guiderà ancora il Paese fino alle elezioni del 2023, magari con una maggioranza un po' diversa. O se, a dispetto della frenata, questa volta ci si sia spinti troppo oltre, al punto di non ritorno verso il voto a ottobre. È la riunione dei capigruppo del Senato, a metà giornata, a dare ai parlamentari il segno che si sta provando a ricucire. Con la decisione di non contingentare il dibattito in Aula: le comunicazioni del premier sono previste alle 9.30 di oggi, il voto di fiducia poco prima delle 19 (domattina alla Camera). In mezzo, ancora lo spazio per mediare, evitare che nella replica Draghi debba prendere atto che non ci sono più le condizioni per andare avanti. Il terreno è stato sgombrato da possibili mine e infatti quando dal Copasir trapela la convocazione di un'audizione (poi annullata) del ministro Lorenzo Guerini sul quinto invio di armi all'Ucraina, che sarebbe polvere negli occhi dei 5S, arriva subito la correzione: «L'audizione è su altro, il decreto si farà ma è chiaro che la crisi politica ha rallentato tutto», spiegano dal governo. Il principale sponsor della continuità è Letta, col Pd tutto. Dopo aver parlato con Conte lunedì sera, il segretario si presenta da Draghi: «Andiamo avanti con l'agenda del governo», è il pressing su entrambi. L'inflazione morde, la Bce sta per alzare i tassi, l'autunno fa spavento. E Draghi, racconta Letta a sera, gli è apparso «molto determinato sulle cose da fare». Ecco dal premier l'apertura sperata. Ma non è semplice per i partiti rimangiarsi ultimatum e veti. Salvini e Berlusconi, accomodati nel giardino della villa romana del Cavaliere con Antonio Tajani, Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa, leggono del colloquio di Letta con Draghi ed esprimono addirittura «sconcerto», per una trattativa tutta sbilanciata a sinistra. È stato il segretario Pd a chiedere l'incontro, filtra da Palazzo Chigi. Poi nel pomeriggio squilla il telefono di Berlusconi: «Caro Mario, come stai?», risponde, con gli altri attorno che ascoltano. Si fissa l'incontro, per la sera. Salvini, Tajani, Lupi, Cesa vanno a chiedere a Draghi un cambio di metodo e di passo per il governo. E soprattutto, di tenere fuori quel Conte. Non sembrano volersi assumere la responsabilità del voto anticipato ma vogliono che l'asse si sposti più a destra. Ma - in questo a Chigi leggono un segno di disponibilità - non chiedono l'auspicio espresso in pubblico: sostituire Luciana Lamorgese e Roberto Speranza, richiesta inaccettabile per il premier. Nel M5S parlano solo le chat, dopo lo sfogatoio delle assemblee. Conte tace. «Ha già deciso di non votare la fiducia», dice Luigi Di Maio. Non tutti però seguirebbero l'ex premier su quella via: «Se Draghi aprirà ai nostri temi è ingiustificabile non votare», afferma il capogruppo alla Camera Crippa. Il tentativo di convincere il leader del Movimento a virare sul sì va avanti, il Pd insiste: a sera non risulta aver sentito Draghi, ma non è escluso un colloquio nelle prossime ore. Certo, se il M5s rientrasse si riaprirebbe il fronte a destra. Ecco perché nulla è scontato, tirano le somme a sera a Chigi, ma si proverà a lasciarsi la crisi alle spalle».

Secondo Wanda Marra del Fatto, Mario Draghi porterà comunque a casa la fiducia.

«Neutralizzare i partiti, piegarli o andarsene: le intenzioni di Mario Draghi restano battagliere. Ma che le dimissioni date giovedì non verranno confermate domani si deduce dal fatto che il premier avrebbe deciso di farsi votare stasera la fiducia dal Senato. E di comportarsi di conseguenza. Paradossalmente, è proprio il calendario di oggi in Senato che dà il senso della giornata: il premier interverrà alle 9 e 30, poi aspetterà il dibattito, farà la replica. E poi ci sarà il voto. È il senso della sfida finale del premier alle forze politiche: tanto è vero che sta lavorando a un discorso "urticante" per loro, come lo definisce chi ne ha letto qualche spezzone. Il premier ci tiene a tenersi distante da tutte le operazioni che hanno caratterizzato questi quattro giorni. Continua a non piacergli l'idea di un bis, continua a considerare "politicista" l'operazione che voleva un'altra scissione dei Cinque Stelle, formalizzata sotto la guida di D'Incà per "offrirgli" un drappello di governisti e teorizzare che il Movimento non esiste più. Così come non gli piace l'idea di un governo a trazione leghista. La sua posizione di partenza, dunque, resterebbe quella di giovedì: o tutti dentro, o niente. Ma sarebbe disposto a reinterpretare le sue stesse parole se Palazzo Madama gli votasse la fiducia su un discorso duro, programmatico, senza concessioni alle forze politiche. Non ha intenzione di dare l'impressione di mediare, ma ricapitolerà le priorità da qui a fine legislatura. E magari in qualche punto incontrerà le richieste dei partiti. Ci sarà sicuramente l'agenda sociale (salario minimo e cuneo fiscale, prima di tutto), ma poi anche l'attuazione del Pnnr, l'energia, il sostegno all'Ucraina (non a caso, ieri ha parlato con Zelensky). Fino a stamattina, però, la versione definitiva non sarà disponibile. Perché fino all'ultimo momento Draghi valuterà quale piega dare alle sue parole. La voglia di andarsene e basta, nella convinzione di non riuscire a governare in queste condizioni resta alta. Il peso delle pressioni internazionali, pure. Senza contare la variabile Mattarella, pronto a lasciarlo a Palazzo Chigi, comunque vada, per il disbrigo degli affari correnti. Ieri i due si sono parlati: incontro interlocutorio, lo definiscono entrambe le parti. In realtà, il presidente ha chiarito ancora una volta la sua posizione. Nessun traghettatore, ma solo elezioni, prima di tutto, in caso di fine di questo esecutivo. E poi ha ribadito che l'ex Bce la fiducia ce l'ha. E lo ha invitato a verificarla di nuovo oggi e domani. Per l'ennesima volta, il premier potrebbe cedere. Salvo dichiarazioni per lui inaccettabili nel dibattito. A quel punto, si capiranno davvero le intenzioni del premier: potrebbe prendere atto che non ci sono le condizioni politiche e salire al Colle a dimettersi oppure aspettare il voto di fiducia (la chiama inizia alle 19 e 30) e verificare i numeri. Ci ha pensato Enrico Letta ieri mattina, a Palazzo Chigi, a perorare la causa. Ha portato a Draghi il risultato di quattro giorni di trattative, garantendogli un allargamento della maggioranza, rispetto a quella che ha votato il dl Aiuti. Il Pd ha lavorato attivamente per aumentare il numero dei grillini governisti e anche per far rientrare Conte. Oggi non ci sarà una nuova scissione formalizzata, anche per marcare la fluidità della situazione. Dal Nazareno raccontano di aver visto un Draghi possibilista. Per tornare al leader del Movimento, oggi non ha chiesto interlocuzioni a Draghi. E anche se ufficialmente deciderà che fare solo dopo aver sentito il discorso in aula, a Palazzo Chigi sono convinti che non voterà. Così come a sera sembravano anche pronti a considerarlo fuori, ma ad andare avanti. Per tutta la giornata, è stato il centrodestra a tenere banco, criticando anche l'incontro di Letta e Draghi e continuando a ribadire che con il Movimento non si va avanti. A Palazzo Chigi hanno chiarito che era stato il segretario del Pd a chiedere di essere ricevuto. E dato disponibilità a vedere gli altri leader. Tanto è vero che in serata sono entrati Salvini, Tajani, Cesa e Lupi. Al premier hanno detto che se restano i 5S il governo non c'è. Richiesta che appariva superata dagli eventi. "Tutto bene", commentavano, infatti, a incontro finito. Tanto che uno come il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che in questi giorni ha lavorato a 360 gradi per ricucire la situazione, ai suoi che gli chiedevano "ora che facciamo?" rispondeva: "Adesso andiamo a cena". Segnali».

Francesco Verderami sul Corriere della Sera racconta di un Draghi rassegnato ad andare oltre la “volontà individuale”. Decisiva la telefonata di Volodymyr Zelensky.

«La sequenza di incontri con i leader della maggioranza può essere considerata un indizio sulle intenzioni di Draghi di trovare un modo per ritirare le sue dimissioni. Ma è la telefonata con Zelensky a costituire la prova che il premier vuole evitare soprattutto di rompere gli equilibri internazionali, di cui per la sua parte è garante con gli alleati occidentali. Sono, per dirla con un autorevole esponente del Copasir, «gli impegni geo-politici assunti con i partner» che lo hanno portato ieri a lavorare per una soluzione della crisi: «È qualcosa che va oltre le volontà individuali». Così, se per un verso la politica nazionale cerca di imporre le sue regole al capo del governo, le questioni internazionali - con la crisi ucraina e le tensioni con Russia e Cina - appaiono vincolarlo al suo ruolo. E Draghi il suo ruolo sembrerebbe volerlo onorare, anche perché avrebbe un «rammarico personale» qualora dovesse lasciare il governo, «vista la piega positiva che sta prendendo la guerra». Perciò - se ci saranno le condizioni - si propone di guidare il Paese «fino alle elezioni di marzo» con un programma basato «su una serie di priorità» che illustrerà stamane all'interno di un discorso «molto netto» e che la coalizione dovrebbe accettare per completare l'ultimo tratto della legislatura. È in fondo quel che gli chiede Mattarella, che ieri lo ha ricevuto e lo ha nuovamente esortato ad andare avanti.
Il punto è che il premier vede com' è ridotta la sua maggioranza, che in questi giorni di «riflessione» invece di compattarsi si è ulteriormente sfilacciata. Ed è evidente che gli interessi contrapposti dei partiti in vista delle elezioni confliggono con il disegno del presidente del Consiglio.
Già solo sul metodo da adottare in vista del passaggio alle Camere non c'è convergenza. Draghi infatti intende arrivare stamattina a Palazzo Madama con un quadro politico già chiaro, che gli consenta poi di formalizzare la sua decisione. Il segretario del Pd invece, ancora ieri sera, sottolineava che le conclusioni «si trarranno dopo il dibattito». Come a voler lasciare aperta una porta a Conte. Ecco perché Letta ha chiesto di essere ricevuto da Draghi, siccome il leader dem considera M5S un alleato indispensabile per poter competere con il centrodestra alle elezioni. Già l'incontro, che persino esponenti del Pd giudicano «un errore di grammatica politica», ha scatenato la reazione del centrodestra di governo. Ma ha anche irritato e non poco gli scissionisti grillini e il ministro Di Maio. Provocando un effetto domino. Conte, sapendo che Salvini e Berlusconi non accettano di sedere più in maggioranza con lui, medita a questo punto di votare tatticamente la fiducia. È in questo ginepraio che deve muoversi il premier, tra i sospetti di Salvini e Berlusconi che temono un «processo di politicizzazione di Draghi», una sorta di «mutazione montiana» che lo porterebbe addirittura a scendere in campo alle elezioni. Ed è per questo che ieri sera la delegazione del centrodestra di governo si è presentata a Palazzo Chigi con una serie di richieste da far impallidire il documento di 9 punti di Conte. Il presidente del Consiglio ha fatto sapere di non accettare «condizioni e ultimatum» da nessun partito e che intende muoversi seguendo una rotta che dovrà essere condivisa dagli alleati. Ieri sera non aveva ancora deciso se presentarsi dimissionario alle Camere, imponendo alla maggioranza di chiedergli di tornare sui suoi passi, o se attendere l'esito del dibattito per trarne dopo le conseguenze. Certo la giornata non ha avuto risvolti positivi, e i tanti buoni motivi per restare sono stati contrastati dai tanti problemi che si sono accumulati.
Perché dopo le questioni sollevate dal centrosinistra, ieri si sono aggiunte quelle poste dal centrodestra. Nella bilancia delle scelte, le difficoltà politiche si contrappongono alle sollecitazioni dei corpi intermedi che in questi giorni lo hanno invitato a restare. E Draghi sa che - se dovesse rimanere - la strada verso la fine della legislatura sarebbe comunque lastricata di nuove difficoltà. Non sarebbe un percorso facile, specie quando si affronterà la Finanziaria. Perché lo scostamento di bilancio non lo hanno chiesto solo Conte e Salvini. Il primo a proporlo fu il Pd. Tuttavia c'è un motivo se il premier si predispone a lavorare per una soluzione positiva della crisi: è la telefonata con Zelensky, che si somma ad altre telefonate non rese note. Sono «gli impegni geo-politici assunti con i partner» dell'Occidente».

MA IL QURINALE È PRONTO PER IL VOTO DI AUTUNNO

Spinta del Colle per raggiungere in extremis l'intesa sul governo. Se Draghi convincerà la maggioranza col suo discorso bene, sennò si voterà il 2 ottobre. Marzio Breda per il Corriere.

«Restare? Ma come? Con che prospettive di governare sul serio? E con quale patto di fine legislatura? Sono questi gli interrogativi che hanno assillato Mario Draghi negli ultimi cinque giorni, e ieri in particolare, vigilia del cruciale appuntamento alle Camere. Ne ha parlato con il presidente della Repubblica, mostrandosi un po' meno irremovibile e rigido nei suoi propositi di una settimana fa, quando voleva mollare tutto subito, senza neppure passare per il Parlamento. Stavolta almeno ha elencato i pro e i contro di una propria permanenza a Palazzo Chigi. Già un passo avanti, insomma.
Probabile che il suo mutato approccio sia anche effetto del grande pressing - interno e internazionale - perché resti alla guida del governo. Così eccolo un po' più possibilista, ma poco. Infatti, definirlo fiducioso è troppo. E questo vale per lui come per Sergio Mattarella, davanti al quale il premier non ha ancora scoperto le proprie carte per la semplice ragione che non ha ancora deciso quello che intende fare. Comprensibile: siamo in una fase di negoziati, espliciti o sottotraccia, e Draghi deve aspettare di conoscere gli atteggiamenti dei gruppi parlamentari. Di ciò che pensa il Pd, ha avuto notizia ieri da Enrico Letta. Ma è il resto che preoccupa lui e il capo dello Stato. A parte l'enigma nichilista del M5S, non incoraggiante è pure la linea ondivaga del centrodestra, che unisce due partiti al governo e uno all'opposizione. Che cosa potrebbe fare in aula, per esempio, il leader leghista Matteo Salvini, ricevuto a Palazzo Chigi ieri sera con il forzista Antonio Tajani (incontro preceduto da una telefonata Berlusconi-Draghi), dopo aver anticipato ai suoi colonnelli il no a un recupero dei 5 Stelle e richieste muscolari, come un rimpasto e una girandola di deleghe ministeriali, prefigurando un Draghi bis? Siamo a una specie di partita degli scacchi, quando un giocatore chiama un gioco sospeso in attesa di capire le mosse dell'avversario. Solo che stavolta tutti alzano la posta. Il che preoccupa Mattarella quanto Draghi. Il premier ha già fatto capire chiaramente di non voler accettare rilanci, veti e ultimatum. Altrimenti quale agibilità avrebbe un esecutivo tenuto a battesimo un anno e mezzo fa sul Colle come «di salvezza nazionale», cioè con tutti (o quasi) dentro, e che si ritrovi adesso mutilato e litigiosissimo? Dove finirebbe la responsabilità tanto invocata dal presidente? L'esito della partita dipenderà da quel che Draghi dirà in Senato, e da come lo dirà. Potrebbero bastare poche parole sulle quattro o cinque emergenze sulle quali l'Italia deve impegnarsi. Se non lo staranno a sentire è già pronto il decreto di scioglimento, con la data del voto. Il 2 ottobre».

GAS 1. IL PIANO UE DA ECONOMIA DI GUERRA

Razionamenti del gas dal primo agosto? Francesca Basso per il Corriere della Sera da Bruxelles ha visionato una bozza del regolamento sui consumi energetici che sta per essere varato dalla Commissione Europea. La parola finale spetterà al Consiglio Energia del 26 luglio. Ma la stretta da “economia di guerra” pare inevitabile.

«Se confermate le ultime indiscrezioni, la Commissione Ue oggi proporrà un regolamento per una riduzione obbligatoria complessiva dal prossimo 1° agosto al 31 marzo 2023 del 15% del consumo di gas nell'Ue in caso di emergenza dovuta al taglio totale delle forniture da parte della Russia. Una forma di solidarietà per aiutare i Paesi più esposti. Insieme presenterà la comunicazione «Risparmiare gas per un inverno senza rischi» con un Annesso, visionati dal Corriere. Per Bruxelles la Russia «non è più un fornitore affidabile». Come spiegato in più occasioni dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, Mosca sta usando il gas e le fonti fossili come un'arma. Bisogna prepararsi al peggio, anche se il presidente russo Vladimir Putin ieri dopo la sua visita a Teheran ha detto che «Gazprom ha adempiuto, sta adempiendo e adempirà pienamente ai suoi obblighi» di export di gas. Domani dovrebbe terminare la manutenzione del Nord Stream. Ogni Stato membro, nella proposta di Bruxelles, calcolerà la riduzione di metano sulla media ponderata dei consumi di gas degli ultimi cinque anni. In termini assoluti lo sforzo dipenderà dal peso del gas nell'energy mix di un Paese. Tuttavia non viene precisato che deve trattarsi di gas russo, quindi vale sull'intero consumo di metano. E per i Paesi più avanti nella diversificazione degli approvvigionamenti come l'Italia, questo è uno svantaggio. Con l'ultima missione del premier Mario Draghi in Algeria, Roma si è garantita ulteriori volumi di gas che mettono il Paese in una situazione di relativa sicurezza. Ma la proposta penalizza anche Spagna e Portogallo, la cui dipendenza dal gas russo è ridotta al minimo, mentre sono avvantaggiati Germania, Austria e i Paesi dell'Est ancora fortemente dipendenti da Mosca. Per gli Stati che producono l'elettricità con il nucleare, invece, l'impatto sarà contenuto. Attualmente già dodici Paesi Ue stanno vivendo un taglio parziale o totale delle forniture di gas russo. Il meccanismo di solidarietà scatterà qualora due Stati membri dichiarino l'emergenza nazionale - l'Ungheria lo ha già fatto - e chiedano alla Commissione di attivare la procedura di emergenza. L'esecutivo comunitario farà la sua valutazione ma la decisione finale spetterà al Consiglio. Il gas «risparmiato» confluirà in una sorta di fondo di solidarietà europeo per i Paesi che ne avranno bisogno. La proposta, che sarà presentata oggi, ha già scatenato i malumori degli Stati membri, che avranno modo di confrontarsi nella riunione degli ambasciatori presso la Ue di oggi, venerdì e lunedì prossimo per arrivare al Consiglio Energia straordinario del 26 luglio con un'intesa. Fonti Ue spiegano che difficilmente la proposta della Commissione passerà senza aggiustamenti. Il regolamento sarà adottato dal solo Consiglio e a maggioranza qualificata: devono essere a favore 15 Paesi su 27 e devono rappresentare almeno il 65% della popolazione totale Ue. Per bloccarlo bastano 4 Stati membri, che rappresentino oltre il 35% della popolazione dell'Ue. È attesa battaglia. «I principi chiave del piano - si legge nella comunicazione - sono: sostituzione, solidarietà e risparmio» di gas. Tutte azioni complesse».

GAS 2. SECONDO IL FONDO MONETARIO, L’ITALIA RISCHIA

Allarme del Fondo Monetario Internazionale: se i russi chiudessero i rubinetti del gas, il nostro Paese potrebbe avere un crollo del Pil. Cinzia Arena per Avvenire.

«La chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia avrebbe conseguenze disastrose sull'economia italiana secondo l'analisi del Fondo Monetario Internazionale. Un approvvigionamento frammentato del gas (prima dell'inizio della guerra in Ucraina l'Italia importava 29 miliardi di metri cubi da Mosca) potrebbe tradursi in una perdita di Pil compresa tra il 3,5% e il 5,5%. I Paesi del Centro e dell'Est Europa sarebbero i più colpiti. In Ungheria, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca - secondo il report del Fmi - c'è il rischio di carenze di gas fino al 40% e di una riduzione del prodotto interno lordo del 6%. Gli effetti su Austria e Germania sarebbero meno gravi ma comunque significativi, a seconda della disponibilità di fonti alternative. Impatto economico moderato, forse inferiore all'1%, per gli altri Paesi con accesso sufficiente ai mercati internazionali del gas. Le conseguenze negative potrebbero essere mitigate secondo il Fmi «attraverso la messa in sicurezza di forniture alternative, l'allentamento delle strozzature infrastrutturali, l'incoraggiamento al risparmio energetico, proteggendo al tempo stesso le famiglie vulnerabili e ampliando gli accordi per la condivisione del gas tra i Paesi». Con questo 'approccio integrato' la perdita di Pil in Italia si potrebbe contenere tra lo 0,5% e il 2%. La guerra in Ucraina, la crisi energetica, l'inflazione e la stretta monetaria rischiano di mandare in tilt il sistema produttivo italiano secondo Confcommercio e rendono ancora di più essenziale la continuità politica. I dati sulla congiuntura economica del mese di luglio, diffusi ieri, mostrano una contrazione dello 0,6% del Pil rispetto a giugno e una crescita nulla nel confronto annuo. I consumi rallentano (con una crescita dello 0,7% inferiore alle attese) e l'inflazione vola all'8,2%. Le famiglie, in un contesto di stagnazione o riduzione del reddito disponibile e con spese obbligate sempre più alte, hanno iniziato a tagliare i consumi 'liberi' che sono ancora al di sotto dei livelli pre-Covid. «In questo contesto la crisi politica rischia di ripercuotersi pesantemente su quella economica - ha sottolineato il presidente di Confcommercio facendo proprie le preoccupazione dele agenzie di rating Fitch e Moody' s -. Serve, invece, la guida di Draghi e un'azione di governo sempre più efficace per gestire al meglio le risorse del Pnrr, la legge di bilancio e le riforme strutturali che il Paese attende».

LA BCE PRONTA AD UN NUOVO RIALZO DEI TASSI

Domani il Consiglio direttivo della Bce potrà decidere un incremento più elevato dello 0,25% già annunciato. Sarebbe pronto un aumento di 50 punti base. Atteso anche l'annuncio sullo scudo anti spread, decisivo per il nostro Paese. Isabella Bufacchi per Il Sole 24 Ore.

«Un rialzo dei tassi ufficiali anche doppio rispetto a quello ripetutamente preannunciato, ovvero un aumento di 50 punti base e non più di 25, e l'annuncio di uno scudo anti-spread che potrà deludere nella profondità dei dettagli ma non nell'efficacia della potenza di fuoco. Ecco «l'apertura a tutte le opzioni» menzionata da Christine Lagarde nel discorso alla conferenza di Sintra a fine giugno e che si ritrova ora sul tavolo del Consiglio direttivo della Bce che si terrà domani a Francoforte. In una riunione che si preannuncia storica, il Consiglio è chiamato a prendere decisioni di svolta strettamente legate tra di loro: ridurre o terminare il mondo dei tassi negativi per contrastare un'inflazione nell'area dell'euro all'8,6% in giugno e leggermente sopra il target del 2% nel medio termine nel 2024 e risolvere il ricorrente problema della frammentazione quando «ingiustificata, esacerbata e distorta» da dinamiche di mercato destabilizzanti. Il Consiglio procederà nel segno della "gradualità" della normalizzazione della politica monetaria, che in tempi di elevata incertezza consiglia un primo rialzo dei tassi dello 0,25% seguito da un altro di pari entità in settembre. Ma applicherà anche l'"opzionalità": l'apertura a tutte le opzioni permette alla politica monetaria di «reagire prontamente in base ai nuovi dati sull'economia e sulle aspettative di inflazione e, se l'incertezza diminuisce, la sua traiettoria può essere riottimizzata di conseguenza». È evidente, ha detto Lagarde a Sintra, che in determinate circostanze «il principio della gradualità non sarebbe adeguato». In definitiva, la Bce lavorerà ancora una volta in modalità "crisis management": il conflitto russo-ucraino con la catena di shock sui prezzi di energia, beni alimentari e prodotti industriali; le ondate pandemiche e il loro impatto su fiducia, consumi e approvvigionamenti; la debolezza dell'euro contro dollaro Usa con le sue ricadute sull'inflazione; il rischio di una recessione dura nell'area dell'euro nell'eventualità di uno stop totale e immediato delle forniture di gas russo; non da ultimo la turbolenza politica in Italia. Tutti questi fattori di rischio saranno analizzati e soppesati da un Consiglio "data dependent". Alzare i tre tassi ufficiali dello 0,50% comporta costi e benefici. Da un lato può sorprendere negativamente i mercati e creare turbolenza aggiuntiva, raddoppiando uno 0,25% sul quale gli operatori finanziari contavano, indicato a più riprese da forward guidance, verbali delle riunioni passate, blog e interviste dei membri del Comitato esecutivo. Al tempo stesso però mezzo punto di rialzo toglierebbe d'un solo colpo il segno meno sui depositi in Bce come sollecitato dai falchi, anticipando a luglio il secondo rialzo dello 0,25% previsto per ora in settembre per il principio della gradualità. Alzare di 50 centesimi ora anticipa il rischio di non poter aumentare i tassi in settembre a causa dell'aggravarsi della situazione. L'incertezza dovuta alle crisi multiple è tale infatti che tra la riunione del 21 luglio e quella dell'8 settembre l'area dell'euro potrebbe non lasciare ampi spazi ad ulteriori rialzi dei tassi, precipitando nel baratro della recessione senza una goccia di gas russo forse già da questo venerdì o con l'arrivo di una nuova variante cattiva del Covid-19. Un aumento di mezzo punto subito, inoltre, è merce di scambio in mano alle colombe per allentare la presa dei falchi nella trattativa sulle caratteristiche del meccanismo di protezione della trasmissione. La condizionalità indigesta della richiesta di aiuto al Mes ex-ante per poter richiedere alla Bce l'attivazione delle operazioni monetarie definitive OMT verrebbe ora sostituita nello strumento anti-frammentazione con altri criteri di idoneità e ammissibilità dei titoli di Stato acquistati dalla Bce: al Paese aiutato verrebbe richiesto di rispettare i vincoli del Patto di stabilità (anche se ora in crisi il Patto è sospeso) e non sarà protetto dallo scudo chi entrerà in una procedura di infrazione per deficit eccessivo. Altro requisito del meccanismo anti-frammentazione sarà collegato al raggiungimento degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Al Mes tuttavia potrebbe essere affidato - assieme alla Commissione - un ruolo di analisi della sostenibilità dei debiti pubblici dei Paesi protetti dallo scudo anti-spread. Falchi e colombe sono pronti a brandire uno scudo anti-spread per scongiurare un attacco dei mercati contro l'Italia o altri Paesi dell'Eurozona altamente indebitati, quando i tassi devono comunque salire per garantire la stabilità dei prezzi mentre il conflitto militare russo-ucraino e la pandemia minano la crescita. La Bce prenderà domani decisioni di portata storica: alzare i tassi per la prima volta dal 2011, dello 0,25% o dello 0,50%, e al tempo stesso proteggere con un nuovo strumento efficace e proporzionato la trasmissione della politica monetaria. Non sono invece attese modifiche alla terza serie dei prestiti mirati TLTRO, in quanto il calcolo sui profitti generati dal rialzo dei tassi è soggetto a molte variabili, tra le quali l'entità delle riserve in eccesso delle banche e l'esistenza di investimenti ed alternative più convenienti rispetto alla nuova remunerazione dei depositi in Bce».

LA TRIPLICE ALLEANZA CONTRO GLI USA

Vladimir Putin arruola l'Iran nell'asse anti occidentale. Storico vertice a Teheran con il presidente iraniano Ebrahim Raisi e il «mediatore» Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, che pure della Nato fa parte ma non partecipa alle sanzioni. Firmati accordi per aggirare le misure contro Mosca. Andrea Nicastro per il Corriere.

«Rispetto ai pugnetti in stile anti-Covid tra Joe Biden e Mohamed bin Salman a Jeddah, rispetto al tavolo extra long sul quale Putin riceveva gli aspiranti pacificatori europei, ieri a Teheran è stato il trionfo delle strette di mano e dei sorrisi a rischio aerosol. Putin con il presidente Ebrahim Raisi e la Guida Suprema Alì Khamenei. Putin con il presidente turco Erdogan. Erdogan con Raisi e ancora Khamenei. Infine Putin, Erdogan e Raisi assieme vicini vicini. Il body language non sbaglia. Washington non è riuscita a smuovere il «suo» Medio Oriente a sostegno della resistenza ucraina, Mosca invece ha arruolato la Repubblica Islamica nell'asse anti Nato e riconosciuto a Erdogan il ruolo di signore degli angoli vuoti, né con la Nato né contro, utile a tutti e soprattutto a sé stesso. Il vertice di Teheran aveva in agenda la questione siriana, ma i risultati più evidenti sono venuti dai dossier bilaterali. Il primo è il rafforzamento dell'alleanza economico-industriale tra Mosca e Teheran. Lo sfruttamento di uno dei più ricchi giacimenti di gas al mondo, il North Pars, più altri 7 campi d'estrazione, viene affidato alla russa Gazprom. La compagnia di Mosca investirà 40 miliardi di dollari. «Il più grande impegno finanziario straniero di sempre» calcolano a Teheran. Il North Pars era nel mirino di molte compagnie occidentali, tra cui l'italiana Eni, prima che le sanzioni dell'epoca di Donald Trump rompessero gli accordi.
La seconda intesa russo-iraniana è finanziaria. I due Paesi più sanzionati al mondo, entrambi esclusi dal sistema Swift dei pagamenti bancari (controllato da Washington), decidono di farsene uno proprio. Sarà l'Iran ad adottare il software russo. Una volta lanciato, nei bancomat dei due Paesi, 140 milioni di russi e 60 milioni di iraniani potranno prelevare con le loro carte. L'intenzione è di creare un nucleo abbastanza stabile da permettere ad altri Paesi o banche di aderire. «Il dollaro dovrebbe essere gradualmente tolto dal commercio globale», ha detto chiaro l'Ayatollah Khamenei. Il problema è che Iran e Russia vendono entrambi energia, perché il denaro circoli nel loro nuovo Swift c'è bisogno che qualcuno la compri versando denaro. Per la de-dollarizzazione il Swift russo-iraniano ha bisogno della Cina. Gli Usa sospettano che negli accordi tra Teheran e Mosca ci sia come parziale contropartita la fornitura di droni armati iraniani da usare contro l'Ucraina. Teheran nega e Mosca non conferma. Dubbi possono essercene soprattutto per la capacità produttiva iraniana, ma le potenzialità ci sono tutte. Durante i bilaterali, la Turchia ha ottenuto l'impegno ad aumentare l'interscambio con l'Iran e un altro giro di mediazione con Putin per permettere l'apertura dei porti ucraini e quindi l'export del grano fermo nei silos. Erdogan è ansioso di dimostrare la sua centralità nella soluzione del problema mondiale del grano, ma Putin è stato ambiguo: «È positivo che grazie alla mediazione di Erdogan ci siano stati progressi, ma non tutto è risolto». Sul fronte Occidentale da registrare l'inizio dei negoziati di adesione all'Unione europea da parte di Albania e Macedonia, mentre in Russia i falchi tra cui l'ex presidente Dmitry Medvedev insistono: «La pace in Ucraina ci sarà alle nostre condizioni» e se anche la fanteria faticherà ad avanzare ci penseranno i missili a piegare Kiev».

Alberto Negri per il Manifesto legge la riunione di Teheran nel quadro internazionale segnato dall’invasione russa dell’Ucraina.

«Nel menu della Triplice (intesa?) che si è tenuta ieri a Teheran tra Khamenei, Putin ed Erdogan c'era solo l'imbarazzo della scelta. Si è parlato di tre guerre, di gas, di nucleare, di grano ucraino e accordi economici. Un vertice, in apparenza, di paradossi. Il più evidente è che vi hanno partecipato due stati, Russia e Iran, sotto sanzioni dell'Occidente, e uno, la Turchia, membro della Nato ma che non sanziona gli altri due, anzi. Ankara cerca di mettersi d'accordo con loro in un formato diplomatico tripolare nato anni fa ad Astana per la guerra di Siria ma che contrasta anche il recente viaggio di Biden nella regione e il Patto di Abramo anti-iraniano tra Israele, Usa e le monarchie del Golfo. A Teheran si è passata in rassegna quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni parla - piuttosto inascoltato - papa Bergoglio. Le tre guerre sono quelle in Ucraina e in Siria e un'altra, non ufficialmente dichiarata, che si combatte tra Israele e l'Iran sul nucleare. La si vuole ignorare ma non lo fa per esempio il Financial Times che ieri la metteva in prima pagina. Il rischio di una corsa all'atomica in Medio Oriente è dietro l'angolo. Gli sforzi diplomatici di Vienna per ridare vita all'accordo sul nucleare voluto da Obama nel 2015 e cancellato da Trump nel 2018 sono in fase di stallo. Israele insiste, nonostante le smentite di Teheran, che l'Iran è sulla "soglia" per accedere al nucleare militare, Biden, salito alla Casa Bianca con l'intenzione di ripristinare l'accordo non ha dato nessun segnale concreto a Teheran (nella morsa delle sanzioni Usa da 40 anni) e lo stato ebraico colpisce scienziati, generali iraniani e pasdaran ogni volta che se ne presenta l'occasione con l'assenso o l'aiuto di Washington. Non manca neppure quello di Putin che lascia agli israeliani il via libera in Siria per prendere di mira le postazioni militari degli iraniani. La Russia di Putin sostiene l'Iran, e quindi anche la Siria di Bashar Assad, alleato storico degli ayatollah, ma fino a un certo punto e quando le fa comodo. È ovviamente anche un gioco delle parti che, come vedremo, ieri si replicato. A sua volta Teheran, nel nuovo quadro internazionale, ha deciso di tergiversare. L'invasione russa dell'Ucraina e la polarizzazione internazionale crescente, la possibilità di una vittoria dei repubblicani alle elezioni di metà mandato (che renderebbe improbabile la ratifica di un nuovo accordo) e la prospettiva di raggiungere a breve la soglia nucleare hanno convinto l'Iran a correre il rischio di forzare lo scontro con Israele, Usa e stati del Golfo. In questo contesto Erdogan voleva ottenere dagli iraniani il via libera a una delle sue ennesime operazioni militari contro i curdi nel Nord della Siria e si era fatto precedere da un rafforzamento delle posizioni militari turche sull'autostrada tra Idlib-Aleppo-Latakia che fronteggiano truppe russe e iraniane. Ma la Guida Suprema Ali Khamenei nel suo incontro con Erdogan è stato chiaro: un attacco in Siria sarebbe «dannoso», aggiungendo che Iran, Turchia, Siria e Russia «dovrebbero porre fine al problema siriano e alla questione terrorismo attraverso il dialogo». Non solo, gli iraniani si sono detti contrari al progetto di Erdogan di creare una fascia di sicurezza profonda 30 chilometri a partire dal confine turco-siriano a spese del Rojava e dei curdi. Tradotto significa: 1) che a proteggere almeno indirettamente i curdi in questo momento non sono certo gli occidentali e gli Usa che li hanno usati come fanteria contro il Califfato 2) che Teheran e Mosca hanno già troppi guai per mobilitare altri soldati in Siria per frenare le ambizioni del Sultano della Nato, per altro visto da russi e iraniani come un utile elemento di disturbo all'allargamento dell'Alleanza Atlantica dove Erdogan osteggia l'ingresso di Svezia e Finlandia fino a quando non verranno estradati da questi due Paesi decine di curdi e oppositori di Ankara. Tutto questo non ha impedito a Erdogan di firmare accordi economici con Teheran (per raggiungere un interscambio sui 30 miliardi di dollari) e di aumentare le forniture di gas da Teheran che affiancano le copiose importazioni turche dalla Russia e dall'Asia centrale: che la Turchia voglia diventare un hub internazionale del gas non è un mistero e lo fa in barba alle sanzioni occidentali. Non dimentichiamo che l'Iran ha le seconde riserve al mondo di gas, che ha una pipeline con la Turchia e un potenziale energetico enorme. E qui ieri è entrata in gioco anche la Russia - sulla carta un concorrente di Teheran - con la firma di un'intesa stimata 40 miliardi di dollari tra la National Iranian Oil Company (Nioc) e la Gazprom per investimenti nel giacimento di gas North Pars e nel petrolio. Ognuno a Teheran ha avuto la sua parte. A Erdogan il primo faccia a faccia con Putin che lo investe da mediatore dell'Occidente - una bella soddisfazione per il massacratore dei curdi - all'Iran, regime probabilmente irriformabile, l'obiettivo che è in grado di contrapporre le sue alleanze militari a quelle americane, israeliane e arabe, mentre il leader russo ha mostrato che in Medio Oriente parla con tutti senza remore, dai turchi agli iraniani, dagli israeliani ai sauditi. Ora che Biden ha sdoganato nel suo viaggio anche il principe assassino Mohammed bin Salman, Putin stringe, come sempre, tutte le mani sporche di sangue che vuole. Non una novità per lui e forse neppure per noi».

L’ULTIMO ASSALTO AL DONBASS

I russi all'ultimo assalto delle roccaforti del Donbass. Caccia a chi dà agli invasori le coordinate per colpire. Il reportage è di Paolo Brera per Repubblica.

«Botti e fumo tutt' intorno. Come va? «Normalno », dice una ragazza a cui non facciamo in tempo a chiedere il nome perché senti, questo è il fischio di un missile che cade! Fa come i bambini quando giocano ai soldatini e poi urlano «buum», però trema tutto e pure le gambe. La ragazza no: «My privykli», siamo abituati, sorride amaro. Al secondo fischio sgommiamo via a mille per una strada vuota come tutte le altre, qui nel centro di Bakhmut. È il fronte rovente del Donbass, «da qualche giorno è un inferno » dice Raissa Tarasova poche strade più in là, quando come le lumache a cui hai toccato un corno proviamo a rimettere fuori la testa dal guscio. Soldati ai crocicchi, qualcuno si avventura coi sacchetti della spesa. Nel sottopasso si è nascosto un Grad, il lanciarazzi multiplo. Qua e là esplosioni secche come raudi, ma «questi sono colpi in partenza - spiega Raissa - se non senti il fischio puoi stare tranquillo, sono i nostri. E se lo senti è troppo tardi». Per questo la ragazza non fuggiva: è inutile. Bakhmut è uno dei due vertici del fronte su cui i russi stanno lanciando l'offensiva finale al Donbass. L'altro è Seversk: la strada che li collega è una striscia di 28 chilometri impossibili, impraticabili. È prima linea. Se saltano i bastioni, saltano le difese ucraine e allora tocca a Sloviansk e a Kramatorsk. Il bastione qui è sotto attacco ma resiste, e Raissa comunque non se ne andrà: «I miei figli sono al sicuro con i nipotini, mia madre invece a 80 anni è a Sviatogorsk», il paese sacro della Lavra occupato dai russi a suon di bombe: «Non la sento da un mese. Se ci conquistano, andrò subito da lei». Ora però trema: «Ho paura, sì, la notte scorsa fischi ed esplosioni erano troppo vicini, troppo forti e ravvicinati». «Come va ragazzi?», chiediamo ai soldati al check point: «Una merda. Stabilmente merda. State attenti». Le notizie dal campo di battaglia sono più inattendibili del solito. Stanno vincendo entrambi, si direbbe. Il bastione traballante è quello di Seversk, gli ucraini presidiano le colline e i russi le bombardano. Entrambe le parti vantano perdite colossali nelle fila altrui. Nelle retrovie i civili vivono con il cuore in gola. A Kramatorsk si bombarda in pieno centro. Ieri alle 13 un missile ha disperso una pioggia di metallo in un cortile, danneggiando i condomìni e bruciando due appartamenti al secondo e terzo piano. Ci sono due morti e sei feriti. «Cos' è successo? I russi hanno fatto un regalino ai nostri cari vicini di casa», dice Sveta, 68 anni, ironizzando sulla presenza del circolo nazionalista al piano terra mentre toglie i vetri dall'uscio con i piedi ancora insanguinati. Kramatorsk è la mela proibita del Cremlino: il capoluogo del Donbass ucraino, il gioiello che manca per consegnare alle repubbliche separatiste l'intera regione contesa. I "vicini" di Sveta sono i nazionalisti di "Plast", un'associazione scout che educa «ai valori patriottici», e «i soldati che frequentano da un pezzo Vilna Khata», la palestra di Plast che ora ospita uffici e camere. «È un internet point», dicono gli uomini davanti all'ingresso. Quelle due camionette militari sventrate? «I soldati avevano parcheggiato per andare alla posta». Le autorità ucraine non confermano mai la presenza di soldati in edifici civili colpiti, ma i residenti sono infuriati. «È la terza volta che mi salvo. Prima hanno attaccato la Casa delle comunicazioni lì accanto, poi la sede del Sbu lì dietro, ora i soldati di fronte», dice un uomo. Qualcuno, dicono, ha passato la spiata ai russi, «mettendoci tutti in pericolo». Karina, 20 anni, ha visto «il povero Maxim con la testa piena di sangue: era uscito per aiutare la moglie che tornava dal supermercato». Nel Donbass il patto di fiducia tra gli abitanti rimasti e i soldati ucraini che li difendono è spezzato. Alle 13,30 a Sloviansk sono arrivati quattro missili. Uno ha centrato una casa a Chervony Malochar, un quartiere di casette e orti. I vicini ci accompagnano: è sventrata, su un angolo c'è un enorme cratere. «Qui sono morti due soldati. Quando siamo andati a vedere è arrivata un'auto di militari e uno di loro ci ha urlato "che fate qui? Sparite, lo sappiamo che siete stati voi a dare le coordinate..."». I russi stanano i soldati nelle case che occupano, e li colpiscono senza la minima precauzione per i civili. Ma non tutti gli attacchi si spiegano così. Un altro missile, ieri, ha fatto a pezzi una decina di casette lungo la strada che collega Kramatorsk a Sloviansk. Un'auto di passaggio è metallo arrugginito, «si sono salvati uscendo in tempo», dice la gente del posto.
Le case erano vuote: «In una viveva mia zia, è morta di Covid», dice una donna mostrando proiettili di ferro scaraventati dall'esplosione. All'altro lato della strada, una via laterale conduce all'orto di Alexandr Kharseev, un 70enne salvato dal suo aglio. «Lo stavo appendendo a essiccare nella casetta di lamiera, la botta mi ha messo in ginocchio. Mi è arrivato un pezzo di terra in testa. Sono uscito e ecco cosa ho trovato». C'è un cratere profondo quattro metri: «Non c'erano soldati ucraini né postazioni d'artiglieria - dice - almeno non vicino». Victoria e Alexandra, 13 e 17 anni, hanno visto tutto dalla stradina del supermercato: «Un aereo ci ha sorvolato e ha sganciato qualcosa che è venuto giù con un piccolo paracadute rosso. Siamo rimaste a guardare inebetite, a bocca aperta fino all'esplosione». Victoria vive con i nonni. «Mamma mi ha abbandonata, papà è in prigione». Per lei il futuro è evitare il prossimo paracadute rosso».

KHARKIV, IL FRONTE DEL NORD

Oltre al Donbass, l’altra direttrice dell’offensiva russa è quella a nord del Paese e passa da Kharkiv. Qui si consuma il dramma dei civili nei territori occupati: niente telefoni, si mangiano solo patate e chi riesce a scappare finisce nel mirino dei servizi ucraini che temono infiltrati. Da Kharkiv parte ogni settimana una colonna di autobus, che porta gli evacuati fuori dalla città. Reportage di Francesca Mannocchi per La Stampa.

«Una volta a settimana una colonna di autobus parte da Kharkiv per arrivare al punto di Pechenihy, trenta chilometri a Sudest della città. Si fermano lì, aspettano la staffetta dei mezzi dei volontari che trattano con i russi per evacuare i civili dalle aree occupate e poi tornano indietro verso una scuola nel quartiere industriale di Kharkiv. Lì le persone vengono accolte e poi ascoltate dagli uomini dello Sbu (i servizi segreti ucraini) per avere informazioni sulla gestione russa dei villaggi a Nord e Est della città e per raccogliere prove di crimini di guerra, prove di torture, violenze e abusi. Due giorni fa sono state evacuate 950 persone. Una colonna di mezzi scortati dall'esercito li ha trasferiti a metà giornata dal punto di raccolta alla scuola di Kharkiv. Tra loro c'era anche Svetlana, 19 anni. Ha accettato di parlare a condizione di anonimato perché sua madre, suo padre e suo fratello sono rimasti nella città di Kupiansk, occupata dal 27 febbraio nonostante l'esercito ucraino avesse distrutto il ponte ferroviario per ostacolare e rallentare l'avanzata russa. Tre giorni dopo l'entrata in città delle truppe di Mosca, il sindaco Hennadiy Matsehora - esponente del partito filorusso Piattaforma di Opposizione - si è arreso «per restare vivo e per non far distruggere la città». Matsehora aveva spiegato in un messaggio video di aver ricevuto una chiamata dal comandante del battaglione delle truppe russe che voleva negoziare, rifiutare avrebbe comportato la distruzione delle infrastrutture, la vita distrutta di ventimila persone. «Abbiamo discusso delle azioni dei militari, che si sono prefissati un obiettivo: entrare in città ... Loro (russi, - ndr) mi hanno convinto che ciò non influirà sulla vita della città. Scuole, asili, ospedali, negozi di alimentari rimarranno aperti... Ho preso questa decisione, tutta la responsabilità è su di me. Rimango in città». Aveva concluso così, rimango in città. Erano i giorni del dilemma delle istituzioni locali: collaborare e cercare di salvare il salvabile restando vivi, o scappare via - per timore di essere uccisi - lasciando indietro, a vedersela da sola, la popolazione locale. Restare significa riconoscere l'occupazione, scappare via significa mostrarsi vili. Il caso di Matsehora è la zona grigia tra i poli di questo dilemma. Matsehora è certamente uno dei collaborazionisti a cui i servizi segreti di Kiev stanno dando la caccia dal primo giorno dell'invasione, quelli che d'accordo con l'esercito russo, il 24 febbraio erano già pronti ad accoglierli cambiando bandiera di fronte al municipio. Secondo il capo dell'amministrazione militare di Kharkiv, Oleh Syniehubov, Matsehora avrebbe fornito trasporti, alloggi, carburante e cibo ai russi, facilitando come poteva la conquista della città. Ha continuato a farlo per mesi. Fino allo scorso 8 luglio quando, secondo le notizie diffuse dai media ucraini, sarebbe stato arrestato dai russi e posto sotto custodia. Traditore per gli ucraini, inservibile per i russi, nonostante la militanza nel partito filorusso ed euroscettico fondato dall'uomo di fiducia di Putin in Ucraina, Viktor Medvedchuk, oggi detenuto dai servizi segreti di Kiev. È la stagione della pulizia sia per gli ucraini, lo dimostrano le scelte di Zelensky degli ultimi giorni sulla rimozione dei vertici dei servizi di sicurezza, sia per i russi che - evidentemente - sentono zoppicare il consenso anche nelle zone in cui gli amministratori li hanno accolti a braccia aperte. Svetlana, arrivata a Kharkiv, nel centro di raccolta per i civili evacuati, racconta la vita che si è lasciata alle spalle a Kupyansk. I check point russi all'entrata e all'uscita dalla città, le regole. Vietato usare i telefoni fuori dalle abitazioni, perché i civili potrebbero spedire localizzazioni con la posizione delle truppe russe, vietato fermarsi in prossimità delle basi militari.
E poi le scorte di cibo sempre più scarse e i promessi aiuti russi che non arrivano o, se arrivano, vengono venduti al mercato nero. Svetlana racconta che lei e la sua famiglia hanno mangiato patate crude per giorni perché non si trovava più niente da comprare. Così come non si trovano ancora né farmaci né benzina e per questo la gente non riesce a scappare.
Svetlana ha trascorso quattro mesi senza quasi uscire di casa. Sua madre non gliel'ha permesso da quando sono cominciate a circolare voci nel paese, le donne violentate dai soldati russi, la selezione in uscita. «Si capisce se ti guardi intorno», dice indicando le persone intorno a lei: anziane, famiglie con bambini disabili, donne sole con figli.
Ovviamente non ci sono uomini. Ma non ci sono neppure giovani donne «ai checkpoint - dice - i soldati russi non lasciano passare le donne sole». È facile immaginare perché. Quando una ragazza che vive nella sua stessa via è stata violentata, la madre di Svetlana ha cominciato la ricerca disperata di una via di fuga per lei, e siccome ogni guerra porta con sé sciacalli e speculatori ha trovato chi, in cambio di denaro, l'avrebbe portata via. Ha raccolto i soldi, abbastanza per pagare il viaggio e i russi di guardia al check point, e ha aspettato la chiamata dell'autista che l'avrebbe prelevata da casa e portata nell'Ucraina ancora libera. Così Svetlana si è messa in salvo mentre la sua famiglia è rimasta a Kupyansk, padre e fratello perché i russi non li avrebbero fatti uscire nemmeno in cambio di denaro, e sua madre che ha preferito non lasciarli soli. Lunedì mattina è arrivata al punto di ritrovo di Pechenihy e lì ha atteso i bus di evacuazione. Quello che resta dentro Kupyansk occupata è una storia dai contorni sfumati, una storia nebbiosa di consenso e tradimento, il sindaco al soldo dei russi e poi dai russi catturato e la gente che prima aveva paura di restare e ora ha anche paura di scappare, perché chi arriva da un territorio governato da un sindaco che ha negoziato coi russi dal primo giorno, rischia di vedersi cucito addosso lo stigma del collaborazionista. Una volta a Kharkiv, i cittadini evacuati dalle città occupate restano dentro al centro di filtraggio per ore. Gli uomini dell'intelligence vogliono più informazioni e più dettagli possibile. Vogliono soprattutto scongiurare il pericolo che tra le persone a cui i russi hanno consentito di uscire dalle città occupate ci siano infiltrati. Le forze armate ucraine non hanno diffuso dati chiari su quanti cittadini accusati di collaborare con la Russia sono stati tratti in arresto in questi mesi. Secondo un report di Associated Press di aprile, nella sola regione di Kharkiv sarebbero circa 400 le persone sospettate di collaborare e detenute che potrebbero essere perseguite in base alla legge marziale che rende punibile con l'ergastolo qualsiasi azione di aiuto alle forze russe che provochi la morte di cittadini ucraini. In uno dei suoi videomessaggi di aprile Zelensky, continuando a galvanizzare le truppe e chiedere il sostegno degli alleati, avvertì con tono minaccioso i suoi cittadini che si prestavano a collaborare con gli invasori, chiamandoli «gauleiters», gli amministratori regionali nella Germania nazista: «Il mio messaggio per voi è semplice. La responsabilità della collaborazione è inevitabile. Domani o dopodomani è una questione secondaria». Sono passati tre mesi e ora è iniziata la resa dei conti. Quella degli alti livelli è fatta di teste a capo dei servizi di sicurezza che saltano, di pubblici ministeri che aprono centinaia di casi contro ucraini accusati di collaborare con le forze russe, e di cittadini nei centri di evacuazione che vengono interrogati per scongiurare il pericolo che siano spie. Un piano sotto c'è la resa dei conti delle città e dei villaggi, che cominciano a mormorare. È il suono della delazione sul vicino di casa sospettato di essere filorusso, o sul figlio del bottegaio che forse avrebbe sostenuto l'esercito invasore, o sul prete del villaggio vicino di cui si dice che forse, chissà avrebbe aiutato il nemico. È il rischio della guerra quando si cronicizza, e questa non fa eccezione. Le persone hanno bisogno di responsabili e nella foga di cercare i colpevoli si rischia di vedere nemici ovunque e non distinguere un sindaco venduto da un cittadino che non poteva fare altro che adattarsi all'invasore».

GLI AMERICANI SI FIDANO ANCORA DI KIEV

Il punto militare di Andrea Martinelli e Guido Olimpio per il Corriere. Zelensky è a caccia di traditori nei Servizi segreti ucraini ma da Washington dicono: continuiamo a fidarci.

«Nonostante le recenti epurazioni ai vertici dei servizi segreti di Kiev, che confermano le infiltrazioni russe all'interno dell'Sbu (Sluzhba Bespeky Ukrayiny, i servizi di sicurezza), gli Stati Uniti continueranno a condividere intelligence con l'Ucraina. «Siamo in contatto quotidiano con i nostri partner ucraini», ha confermato il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price. «Non investiamo nelle persone, ma nelle istituzioni». Proprio all'interno delle istituzioni, però, le autorità ucraine hanno individuato traditori e collaborazionisti. È stato lo stesso Volodymyr Zelensky a rivelare che oltre 60 funzionari dei servizi segreti e dell'ufficio del procuratore avrebbero lavorato contro il proprio Paese nei territori occupati dai russi e che, dall'inizio della guerra, sarebbero stati aperti 651 procedimenti legali per tradimento o collaborazionismo: fra questi, probabilmente, si nascondeva la quinta colonna che doveva facilitare la caduta del governo di Kiev in tempi rapidi. Le spie avrebbero fornito ai russi la posizione esatta degli obiettivi - basi e depositi - e facilitato il tiro dell'artiglieria. Per questo domenica Zelensky ha annunciato la rimozione del capo dell'Sbu Ivan Bakanov e la sospensione della procuratrice generale Iryna Venediktova, entrambi accusati di non aver saputo identificare spie e traditori all'interno delle proprie organizzazioni. Il giorno successivo ha sospeso altri 28 funzionari dei servizi. «Vengono da livelli e aree diversi, ma le ragioni sono simili: i risultati non soddisfacenti», ha chiarito Zelensky. Il licenziamento di Bakanov e Venediktova è stato confermato ieri dal parlamento ucraino, che ne ha votato la cessazione dei poteri. Bakanov, in particolare, pagherebbe il fallimento di Kherson, l'unica città conquistata dai russi a ovest del fiume Dnipro: già ad aprile Zelensky aveva degradato il capo dell'Sbu locale, Serhiy Kryvoruchko, accusato di tradimento. Secondo gli analisti, tuttavia, il presidente vorrebbe un maggior controllo sull'esercito e sulle agenzie di sicurezza, ma è possibile che il licenziamento di Bakanov e Venediktova sia stato accelerato dall'insoddisfazione dei partner occidentali verso l'Sbu».

CINA-EUROPA, PROVE DI DIALOGO

Le altre notizie dall’estero. Torna il dialogo tra Bruxelles e Pechino? Il Presidente Xi sta preparando un vertice in Cina e ci sono voci di un invito ai leader europei Macron, Scholz e Draghi. Guido Santevecchi per il Corriere della Sera.

«Qualcosa si muove tra Unione Europea e Cina. I segnali vengono da Pechino, contraddittori ma interessanti. Ieri, dopo molti mesi, le due parti hanno ripreso il dialogo su economia e commercio: l'incontro è stato virtuale, in videoconferenza tra Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo della Commissione di Bruxelles e Liu He, vicepremier di Pechino. L'ultimo «Eu-China High-Level Economic and Trade Dialogue» si era tenuto nel luglio 2020, poi la presidenza di turno tedesca della signora Merkel aveva fatto una corsa per concludere nel dicembre 2020 il trattato sugli investimenti reciproci. Ma da allora, i rapporti politici si sono deteriorati per una rissa sullo Xinjiang e sono diventati ancora più freddi per la mancata condanna cinese dell'aggressione russa all'Ucraina. Prima del vertice Dombrovskis-Liu, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha parlato con il consigliere diplomatico dell'Eliseo. «Da grande nazione europea, la Francia può fare molto per lo sviluppo delle relazioni strategiche della Ue con la Cina», ha detto Wang. E poi ha elogiato gli sforzi di Macron per una mediazione sull'Ucraina (guardandosi però dal promettere uno sforzo di pressione cinese su Mosca).
Il round di Dialogo tra Bruxelles e Pechino non è andato male. Anche se la lettura delle due parti ha sottolineature diverse: Dombrovskis dice che «da grandi economie quali siamo, come partner commerciali fondamentali, abbiamo il dovere di affrontare le sfide globali, dall'insicurezza alimentare alla guerra di aggressione russa in Ucraina». Il problema è che i cinesi rifiutano di definire l'azione di Putin «invasione». Ma il riassunto della Xinhua è positivo: «Il colloquio è stato pragmatico, franco, efficace» nel campo delle questioni macroeconomiche, delle catene di approvvigionamento industriali, del commercio e degli investimenti. Nessun cenno al fatto che il trattato sugli investimenti spinto dall'allora cancelliera Merkel è stato congelato. L'Europarlamento lo ha bloccato a tempo indeterminato dopo lo strappo del marzo 2021, quando per la prima volta dopo l'orrore del massacro di Piazza Tienanmen, nel 1989, l'Unione europea ha punito la Cina per abuso dei diritti umani nello Xinjiang (Pechino reagì con sanzioni personali). Ora il dialogo è ripreso. E la notizia più interessante l'ha lanciata il South China Morning Post, quotidiano in lingua inglese di Hong Kong. I leader di Francia, Germania, Italia e Spagna sarebbero stati invitati a Pechino, data indicata novembre. Il giornale ha raccolto a Bruxelles l'informazione che Xi ha proposto l'incontro in presenza a Macron, Scholz, Draghi e Sánchez. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino dice che si tratta di «fake news». E naturalmente è sempre possibile che un giornale sbagli. Ma è anche ipotizzabile che la diplomazia cinese non voglia confermare l'apertura prima di aver ricevuto una risposta positiva dagli europei, per non perdere la faccia in caso di rifiuto. Una «fonte di alto livello» ha confermato al giornale che «gli invitati stanno discutendo una risposta». Un vertice del genere a Pechino dimostrerebbe che la Cina, messa sotto pressione dagli Stati Uniti, cerca di evitare l'accerchiamento completo e punta sempre sulla sponda europea. Potrebbe uscirne una svolta sull'Ucraina. E poi, da quando è scoppiata la pandemia (Wuhan nel gennaio 2020) Xi è stato alla larga da ogni contatto internazionale faccia a faccia. Unica eccezione il 4 febbraio, quando a Pechino arrivò Vladimir Putin per le Olimpiadi invernali e la proclamazione della amicizia «senza limiti» tra Russia e Cina. L'invito ai quattro leader europei segnalerebbe una volontà di ripresa dei contatti personali e forse, in prospettiva, un avvio di riapertura della Cina al mondo. In ottobre a Pechino si svolgerà il XX Congresso del Partito comunista che rinnoverà le cariche per i prossimi cinque anni. Se la Cina fa piani diplomatici così importanti per novembre, è chiaro che sa già come andrà a finire il Congresso: Xi rieletto (e, forse, più dialogante)».

MALDIVE A RISCHIO JIHADISMO

Il paradiso delle Isole Maldive è contagiato dalla febbre del jihadismo. Stefano Vecchia per Avvenire.

«Dal 15 luglio, le autorità delle Maldive hanno tolto qualsiasi limite all'arrivo dei visitatori, con una mossa tesa a riattivare i flussi di denaro necessario a consentire interventi per il rilancio economico e la pace sociale. Sotto la cenere, in realtà sotto la sabbia e le acque cristalline, l'instabilità è costante dalla fine del trentennale regime autocratico del presidente Maumoon Abdul Gayoom, terminato nel novembre 2008, alternando periodi di consolidamento democratico ad altri di stretta autoritaria. A condizionare la vita delle Maldive sono anche i risultati dei cambiamenti climatici. Negli ultimi decenni, un terzo dell'arcipelago ha già perso la battaglia contro le acque ma le previsioni degli esperti danno per la metà del secolo l'80 per cento dei 1.200 atolli che lo compongono sommersi in tutto o in parte. Ovviamente la difficoltà di individuare una linea d'azione per fronteggiare il rischio ambientale si connette con l'instabilità politica. Allo stesso modo, la tensione tra politici laicisti e di orientamento religioso rende permeabile l'arcipelago all'influenza del jihadismo. Da diversi anni l'islam ha alzato la sua bandiera più radicale nell'arcipelago, creando aree di extraterritorialità in diverse delle isole abitate più esterne, dove in più occasioni le forze di sicurezza sono intervenute a caccia di predicatori stranieri o locali indottrinati altrove, dal Pakistan allo Yemen. L'attentato che il 29 settembre 2007 devastò il Parco Sultan nella capitale Male fu il punto di partenza di un braccio di ferro che dura da 5.408 giorni tra militanza che vuole fare dell'arcipelago una roccaforte della sharia e le autorità di uno dei Paesi al mondo più dipendenti dal turismo globale. La conferma di come le Maldive fossero ormai nel mirino del jihadismo internazionale è arrivata nell'ottobre 2013, con l'individuazione di maldiviani in partenza per la Siria. Il flusso sostenuto di partenze ha segnalato il rischio che l'arcipelago fosse ormai diventato cruciale nel progetto dell'autoproclamato Stato islamico, sia come testa di ponte verso Oriente, sia come centro di arruolamento e di partenza di militanti. Si stima che il piccolo Paese che conta 380mila abitanti, in maggioranza musulmani sunniti, abbia avuto, in rapporto alla popolazione, il maggior numero di combattenti stranieri nel Daesh: almeno 430 (circa uno ogni 900 maldiviani) con 173 che hanno con certezza raggiunto la meta. La diaspora successiva alla sconfitta del sedicente Stato islamico ha portato a una maggiore di diffusione delle idee e dei metodi già sperimentati nel conflitto, sollevando un rischio di instabilità per il Paese e l'allarme dei servizi di intelligence stranieri per l'incolumità dei propri cittadini. Minacce, rapimenti, il ferimento di alcuni blogger e l'uccisione di uno di essi, Yameen Rasheed, nell'aprile 2017, ma ancor più l'attentato rivendicato dal Daesh che il 6 maggio 2021 ha colpito, ferendolo, l'ex presidente progressista Mohamed Nasheed, sono stati chiari avvertimenti per chi si oppone alla diffusione dell'ideologia salafita nel "paradiso" maldiviano».

NIGERIA, ASSASSINATO UN ALTRO SACERDOTE

Orrore in Nigeria: è stato assassinato un altro sacerdote. Padre John Cheitnum era stato rapito con Donatus Cleopas, che è scappato. Finora quattro i preti uccisi dallo scorso gennaio. La cronaca di Avvenire.

«Un altro sequestro per denaro in Nigeria è finito nel sangue. È stato infatti trovato morto padre John Mark Cheitnum, rapito dai banditi venerdì scorso con l'altro sacerdote cattolico, Donatus Cleopas, mentre si stavano recando a una funzione nella parrocchia di Gure nello Stato di Kaduna. In un comunicato i responsabili della diocesi di Kafanchan hanno spiegato ieri che padre Donatus Cleophas è riuscito a sfuggire ai sequestratori e si è riunito ai confratelli, mentre padre John Mark Cheitnum è stato assassinato. Quest' ultimo, che era il rettore della parrocchia di Cristo Re a Yadin Garu, nello Stato di Kaduna, è stato ucciso dai suoi rapitori il giorno stesso del sequestro e il corpo è stato ritrovato ieri. I funerali si svolgeranno domani nella cattedrale di Kafanchan. Con l'omicidio di padre John salgono a quattro i sacerdoti morti da gennaio in Nigeria: tutti in episodi legati a sequestri per estorsione. 18 invece o preti sequestrati sempre nei primi sette mesi dell'anno. Nello Stato di Benue invece, tra maggio e giugno, almeno 68 cristiani sono stati uccisi e molti rapiti. Ben 1,5 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case un villagglo devatato nel Bene). Lo denuncia Aiuto alla Chiesa che soffre che ha raccolto la testimonianza di monsignor Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, una diocesi di Benue.  Anagbe spiega che «i terroristi (milizie jihadiste Fulani, anche se la Chiesa nigeriana distingue chiaramente gli episodi etnici da quelli di persecuzione religiosa che in questo caso sono molto dubbi) si travestono da pastori nomadi per nascondere il vero scopo dei loro attacchi, che è quello di espellere i cristiani dalle loro terre».

SI CHIUDE PER L’ENI IL CASO NIGERIA

Clamorosa decisione della Procura generale di Milano che ha rinunciato a fare appello contro la sentenza di assoluzione in primo grado sul caso Nigeria. L’Eni vince una guerra giudiziaria, che però lascia molte vittime. Stefano Feltri per il Domani.

«La procura generale di Milano ha rinunciato a fare appello contro la sentenza di assoluzione di primo grado nel processo per l'acquisizione di Eni e Shell del giacimento nigeriano Opl245, una vicenda che coinvolge l'Eni dal 2009. «La rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», scrive Eni in un comunicato. I danni In questi otto anni di processi tutti quelli che sono venuti in contatto con la vicenda hanno pagato prezzi altissimi. La procura di Milano è uscita devastata da un processo che, ora si può dire in modo definitivo, ha perso: magistrati indagati, carriere gloriose segnate da questa ultima sconfitta (il pm Fabio De Pasquale, l'ex procuratore capo di Milano Francesco Greco), onde sismiche che, partite da Milano, hanno travolto il sistema giudiziario italiano e la politica. I giornalisti che hanno seguito la vicenda sono stati oggetto di pressioni, avvertimenti, manipolazioni, sono stati usati per depistaggi e regolamenti di conti, a volte a loro insaputa. Quelli che raccontavano i fatti da una prospettiva sgradita all'azienda, controllata dal ministero dell'Economia e con i vertici scelti dal governo, sono spesso stati oggetto di pesantissime azioni di risarcimento danni che hanno sollevato la censura delle organizzazioni internazionali per la libertà di stampa. I rari consiglieri di amministrazione - vanno ricordati Luigi Zingales e Karina Litvack - che hanno chiesto trasparenza sul caso Nigeria sono stati oggetto di macchinazioni, inchieste giudiziarie fasulle e tenuti lontani dalle informazioni. Perfino tanti dirigenti dell'Eni che, in un modo o nell'altro, sono entrati in contatto con questa vicenda hanno visto la loro carriera complicata, o compromessa, tra indagini, sanzioni e notizie sui giornali. Dalle dichiarazioni dell'ex avvocato esterno dell'Eni Piero Amara, dal quale l'azienda prende sempre le distanze pur avendo compensato i suoi servigi con milioni di euro, alle spaccature nel Consiglio superiore della magistratura, su fino al Quirinale di Sergio Mattarella. Su una scala più ridotta, la vicenda Nigeria-Opl 245 è stata una replica di Mani Pulite, con la differenza che la procura di Milano ha perso e gli indagati hanno vinto. Anzi, sul piano giudiziario hanno stravinto: passa la linea imposta in primo grado dal giudice Marco Tremolada, il fatto "non sussiste". Dove il "fatto" è la corruzione internazionale contestata dalla procura: le operazioni dell'Eni per acquisire il giacimento non possono essere classificate come uno scambio corruttivo con i politici nigeriani, questa è ora la verità giudiziaria. Il processo del decennio si è consumato sulla qualificazione giuridica di fatti non contestati da nessuna delle parti: da ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete si auto assegna un giacimento colossale (se non ci fossero rischi di querela si userebbero altri verbi), poi la sua società Malabu prova a venderlo a due società occidentali, Eni e Shell. Dopo un po' di tentativi falliti, la trattativa si sblocca quando sono esponenti del governo nigeriano a fare da mediatori. Il miliardo e 300 milioni per il giacimento non va allo stato nigeriano, i soldi finiscono prima su un conto vincolato e poi arrivano a Etete e altri intermediari della politica nigeriana. Non era un caso facile: l'Eni ha sempre sostenuto di aver fatto l'unica cosa lecita e legittima, trattare con una controparte riconosciuta come il governo nigeriano. L'accusa sosteneva la "teoria del preservativo" (metafora dell'Economist), cioè che il governo nigeriano fosse una barriera protettiva che permetteva di consumare il rapporto corruttivo. Il tribunale di Milano, e ora la procura generale, hanno deciso che ha ragione l'Eni. Ora non resta che sperare che si stia chiudendo un'epoca di veleni ed errori. Gli errori nella politica energetica che, via Eni, ha legato l'Italia alla Russia di Vladimir Putin e i veleni del processo milanese. Speriamo che la vicenda Opl245 abbia spinto Eni a migliorare le sue regole interne di corporate governance per prevenire ogni ambiguità e abbia depurato l'azienda dai personaggi assai dubbi che hanno animato questo processo (Vincenzo Armanna, Piero Amara e tanti altri). E che l'anno prossimo, con la scelta del nuovo amministratore delegato dopo il termine del mandato di Claudio Descalzi, ci sia davvero un nuovo inizio per l'azienda più strategica del Paese».

L’ITALIA BRUCIA DA NORD A SUD

Dal Carso alla Toscana, da Monfalcone ad Orvieto gli incendi assediano la nostra penisola, provocando disagi e blocchi di autostrade e ferrovie. Alfio Sciacca per il Corriere.

«In trent' anni che mi occupo di Protezione civile non avevo mai visto una cosa del genere». Andrea Olivetti, il responsabile della Protezione civile di Monfalcone, a fine giornata è stremato: «Anche perché le fiamme stanno riprendendo vigore». Dopo Francia e Spagna ora l'emergenza incendi investe anche il nostro Paese. E una delle aree più colpite è proprio quella del Carso. Ma brucia anche la Toscana, dove non si riesce ancora a circoscrivere un gigantesco rogo in Versilia. Sul Carso almeno tre i focolai che cercano di fronteggiare Vigili del fuoco arrivati da Trieste, Gorizia e tutto il Friuli. Bruciano i boschi tra Devetachi, frazione di Doberdò del Lago, e Monfalcone. Un fronte di una decina di chilometri che tocca anche l'area adiacente al casello autostradale del Lisert. Di conseguenza Autovie venete ha disposto la chiusura dell'autostrada A4 con uscita obbligatoria a Sistiana (direzione Venezia) e Redipuglia (direzione Trieste). Interrotta la linea ferroviaria tra Monfalcone e Bivio d'Aurisina. A Sablici invece sono state evacuate almeno cinque famiglie. «Tutto il transito lungo la dorsale che porta in Slovenia e Croazia è compromesso» spiega la Protezione civile. A causa degli incendi, intorno alle 17, c'è stato anche un blackout di mezz' ora che ha interessato pure la città di Trieste, mentre alcuni elettrodotti sono stati disattivati per consentire il lavoro dei canadair. Quanto alle cause si ipotizza un innesco dovuto alle scintille provocate dal passaggio dei treni, ma non si esclude anche l'ipotesi dolosa. In Toscana ieri sera non era ancora sotto controllo l'incendio che si è sviluppato sulle colline di Massarosa, in provincia di Lucca. Circa 380 ettari di superficie boscata sono stati ridotti in cenere. Bloccato anche un tratto della bretella autostradale che collega Lucca alla Versilia ed evacuate almeno settanta persone. Si sono alzate in cielo alte colonne di fumo nero visibili persino dal litorale pisano e da Livorno. Sul posto è arrivato anche il presidente della Regione Eugenio Giani, che si è detto «molto preoccupato». Un altro incendio si è sviluppato alle porte di Arezzo, minacciando alcune abitazioni. Sono andate in fiamme anche delle sterpaglie e parte di bosco nei pressi di Orvieto. Ma tanto è bastato per bloccare per tre ore il traffico sulla linea dell'Alta velocità tra Roma e Firenze. Incendi piccoli e grandi vengono segnalati in tutta Italia. E siamo solo a metà della settimana del grande caldo. Per il weekend sono infatti attese temperature record, con Milano che potrebbe sfondare per la prima volta il tetto dei 40 gradi. Il Regno Unito lo ha già fatto ieri, con la giornata più calda di sempre: 40,2 gradi a Heathrow, poi superati dai 40,3 gradi toccati a Coningsby. Caldo che fa terribilmente soffrire i ghiacciai. Per vedere lo zero termico ormai si deve salire fino a 4.800 metri, in cima al Monte Bianco. A Capanna Margherita, sul Monte Rosa, a 4.554 metri ieri mattina si registravano + 1,9 gradi e attorno alle 17 la temperatura ha sfiorato i 7 gradi. Ancora peggio sulla Marmolada. A quota 3.300 metri in mattinata c'erano 9 gradi, diventati 12 a mezzogiorno. Temperature che fanno temere nuovi distacchi, come quello che il 3 luglio scorso ha causato 11 morti».

LA LOTTA SUL PIL PORTA ALLA GUERRA

Impostare tutto sulla crescita economica alimenta i conflitti. L’economista Stefano Zamagni ha scritto la prefazione ad un libro del vescovo di Faenza Mario Toso dal titolo: Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace, edizioni Frate Jacopa. In essa Zamagni sostiene che occorre ripensare la dissuasione della guerra valorizzando anche le componenti sociali e spirituali. Ecco il testo anticipato oggi da Avvenire.

«Saluto con simpatia il breve ma denso saggio di Mons. Mario Toso, vescovo di Faenza e Modigliana.
Il tema che affronta è di straordinaria e pur tragica attualità: la guerra in Ucraina che si protrae nel tempo e di cui non si riesce ancora a prevederne la fine. Il taglio espositivo del saggio è quello proprio del pensiero critico- discernente, di un pensiero cioè che non si limita ad analizzare i fenomeni indagati, ma si spinge a comprenderne le radici profonde, a praticare appunto il discernimento. È questo un antidoto efficace contro il pericolo bene descritto da C.S. Lewis con l'espressione
chronological snobbery, per significare l'accettazione acritica di ciò che succede semplicemente perché parte del trend intellettuale del presente. Accade così che l'accettazione supina del factum finisce col togliere slancio al faciendum. Il caso qui trattato ne è eloquente conferma. Nel 1975, Johan Galtung - uno dei più tenaci assertori delle ragioni della pace - coniando il termine peacebuilding, introdusse la distinzione tra pace negativa e pace positiva. La prima è null'altro che il conflitto congelato, una situazione in cui tacciono le armi, ma restano i carboni accesi sotto la cenere. La seconda, invece, è la pace negoziata - un'opzione favorita dai 'costruttori di pace', come si legge nel testo evangelico.
Monsignor Toso si spende a favore della pace positiva, perché persuaso che mai si potrà eliminare o scongiurare la guerra se non si distrugge il mondo della guerra, cioè quelle «forze negative, guidate da interessi perversi che mirano a fare del mondo un teatro di guerra» (Giovanni Paolo II, Angelus del 1° gennaio 2002). Alla luce di ciò, di particolare rilevanza sono le proposte che l'autore di questo saggio avanza per contrastare «le forze e gli interessi», cioè le strutture di peccato, oggi presenti più che mai sulla scena internazionale. Lo sfondo sul quale la riflessione del vescovo Toso va inserita è quello della icastica affermazione di papa Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (Populorum Progressio, 1967) - una affermazione che a distanza di oltre cinquant' anni stenta ancora a essere correttamente compresa. Perché? La ragione è che si continua a confondere lo sviluppo con la crescita economica. Anche piante ed animali crescono, ma solamente l'essere umano è capace di sviluppo. Il quale è l'esito del concorso di tre dimensioni: quella della crescita, certamente, ma pure quella socio- relazionale e quella spirituale. Ebbene, un modello di sviluppo garantisce la pace quando le tre dimensioni avanzano in armonia, senza che la dimensione della crescita fagociti le altre due - come oggi sta avvenendo.
Donde lo stato di diffusa e endemica belligeranza in questa nostra epoca: e la guerra in Ucraina ne è tragica evidenza
. Platone si è servito del termine thimos (riconoscimento) per indicare che bisogno primario dell'essere umano, prima ancora del bisogno di nutrimento, è quello di essere riconosciuto e di riconoscere l'altro. Il riconoscimento postula la reciprocità. Due però le forme che il thimos può assumere: quella della megalothimia e quello della isothimia. Se quest' ultimo è il bisogno di essere riconosciuti come eguali agli altri, la prima è la volontà di essere riconosciuti come superiori agli altri. Ebbene è la megalothimia - una tendenza che negli ultimi decenni ha ripreso servizio anche in Occidente - uno dei principali fattori causali della guerra in corso. Si consideri, infatti, che l'odio è il più coesivo dei sentimenti politici, dato che, più di ogni altro sentimento, l'odio tiene assieme una moltitudine e ne fa una totalità obbediente. Cosa alimenta l'odio? La paura, il cui antidoto è la sicurezza. L'autocrate ha necessità di diffondere paura per potersi legittimare nei confronti della sua popolazione e ottenerne così sostegno. Con saggezza, oltre che con sapienza, Mons. Toso ci ricorda che il bene va perseguito su vie di bene. E ciò è possibile, a patto che la ricerca del bene torni a muovere le intenzioni profonde di ciascuno. È tale consapevolezza che apre alla speranza, la quale non è né il fatalismo di chi pensa che la guerra sia qualcosa di inevitabile, né l'atteggiamento misoneista di chi rinuncia a lottare, preferendo «osservare la realtà dal balcone» (papa Francesco). È la speranza che sprona all'azione, perché chi è capace di sperare è anche capace di agire per vincere la paralizzante apatia dell'esistente. Mi piace terminare con una storiella, di autore ignoto, che bene interpreta lo spirito con cui è stato scritto questo saggio. È la parabola del seminatore. Un giovane entrò in un negozio nel quale il venditore era un angelo. Chiese che cosa si vendesse in quel posto e la risposta dell'angelo fu che vi poteva trovare di tutto e, certamente, cose che non potevano essere comprate altrove. Allora il giovane chiese di poter acquistare la fine delle guerre, la fraternità tra tutti gli esseri umani, l'amore in famiglia e altro ancora. Scusa giovane - gli disse il venditore - qui non vendiamo frutti, ma soltanto semi!».

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