La Versione di Banfi

Share this post

Draghi sotto assedio

alessandrobanfi.substack.com

Draghi sotto assedio

Protestano i presidi che vogliono la Dad. Manifestano i No Vax. Ospedali già in crisi a Napoli e Palermo. Dopo il decreto, la Lega in uscita dal governo? Il nodo del nucleare. I russi in Kazakistan

Alessandro Banfi
Jan 7, 2022
Share this post

Draghi sotto assedio

alessandrobanfi.substack.com

Oggi dovrebbe essere pubblicato il testo con le nuove norme decise dal Consiglio dei Ministri dell’altra sera. Molti i particolari che saranno più chiari: a cominciare dalle date in cui scattano le nuove norme. La multa per chi non si vaccina, anche se ha compiuto i 50 anni, dovrebbe essere di 100 euro. Nel frattempo la rivolta dei Presidi accende i riflettori sulle contraddizioni del rientro a scuola. Duemila dirigenti scolastici, sugli ottomila che sono in Italia, chiedono di ripristinare la Dad fino al 24 gennaio. In attesa di una migliore preparazione per il ritorno fisico in classe. I dati di Omicron sono travolgenti: più di 200 mila contagiati in un giorno, file di ambulanze in diversi ospedali, come quelli di Napoli e Palermo, code infinite per tamponi e nuove vaccinazioni. Figliuolo aggiorna per l’ennesima volta il suo piano, ma la sensazione è che gli hub siano ancora in grande affanno. Oggi Iss e governo decidono chi passa in giallo: ci sono altre quattro regioni a rischio.

Dal punto di vista politico lo scossone del dopo decreto è forte. Non tanto per le proteste dei No Vax, che annunciano grandi mobilitazioni già da domani. Quanto per le fibrillazioni interne alla maggioranza. Molti articoli oggi sui giornali si chiedono quale sarà il destino della Lega e dello stesso Mario Draghi. L’assenza di Giancarlo Giorgetti dall’ultima riunione a Palazzo Chigi e la continua oscillazione dei 5 Stelle (che non riescono a mantenere stabile l’alleanza e la linea condivisa con il Pd e Leu sul tema pandemia) vengono interpretati come segnali fatali per la tenuta del governo di unità nazionale. Libero è convinto che Draghi stia per rinunciare, il Foglio attribuisce piuttosto a Matteo Salvini l’intenzione di uscire dalla maggioranza in questa fase.

C’è poi una questione di merito non secondaria che divide le forze di governo: riguarda gas e nucleare, valutati nella bozza di Bruxelles sulle risorse energetiche nella fase della Transizione ecologica come “scelta verde”. Letta è contrario, Salvini a favore. Fra l’altro, come spiega Il Sole 24 Ore, se la bozza dovesse essere approvata, gran parte degli investimenti italiani sul gas sarebbero senza finanziamenti europei. Un nodo spesso che Draghi dovrà saper sciogliere. O tagliare.

La corsa al Quirinale in questo scenario è quanto mai in salita. Si vota fra 16 giorni e non c’è affatto un quadro rassicurante sulle ipotesi. Ieri Sergio Mattarella ha ricevuto l’ennesima richiesta popolare di bis al Pala-Lottomatica di Roma, dove si è svolta la fine italiana di pallavolo femminile. Mentre il Corriere segna nel pallottoliere dei voti possibili a favore di Silvio Berlusconi ben 30 voti dei 5 Stelle.

Dall’estero: le forze armate russe entrano in Kazakistan, chiamate dal Presidente, per reprimere le proteste di piazza. La Russia di Vladimir Putin domina sempre più la scena nella sua funzione post-sovietica. Joe Biden ha tenuto un discorso molto duro contro il suo predecessore Donald Trump, nell’anniversario dell’attacco a Capitol Hill.        

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani venerdì. L’appuntamento orario resta intorno alle 10. In questi giorni non sono in grado di fornirvi il pdf con tutti gli articoli citati, se avete richieste specifiche scrivetemi. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Titoli di prima pagina ancora sulle nuove misure anti pandemia. Il Corriere della Sera sottolinea l’appello dei capi d’istituto: Scuola, la protesta dei presidi. Per Avvenire è: Voglia di Dad. Il Messaggero interpreta così: Scuola, orari ridotti per il Covid. La Repubblica mette in primo piano l’emergenza: Oltre 219 mila contagi. Gli ospedali sotto assedio. Il Mattino sottolinea il caos all’ospedale di Napoli: Cotugno, ambulanze in fila. Il Fatto attacca: Decreto bucato, effetti nulli su ricoveri e vaccini. Mentre La Stampa aggiorna ancora il piano della campagna vaccinale: Figliuolo: 36 milioni di dosi in due mesi. Quotidiano Nazionale offre ai suoi lettori una: Guida per uscire dal caos delle regole. La Verità ironizza sull’obbligo over 50: Ora siamo come il Tagikistan. Libero specula sulle intenzioni del premier: Draghi vuole andarsene. Il Giornale amplifica lo scontro fra Lega e Pd: Guerra sul nucleare. Sullo stesso tema Il Manifesto illustra con questa battuta una grande foto di Draghi: Esame di scoria. Il Sole 24 Ore ricorda che per l’Italia conta di più ciò che decide l’Europa sul gas: Gas, le regole Ue bloccano 10 miliardi d’investimenti nelle centrali italiane. Domani punta sullo scontro in Usa: Biden chiama l’America a raccolta contro la minaccia permanente di Trump.

OLTRE 200 MILA NUOVI CASI, ALTRE 4 REGIONI IN GIALLO

Torna l'assedio negli ospedali mentre i contagi sfondano la soglia dei 200 mila casi al giorno. I positivi ora sono oltre un milione e mezzo. Altre quattro regioni verso il giallo, ma si decide oggi. Lorenzo D’Albergo per Repubblica.

«Ospedali di nuovo in affanno. Ambulanze in coda, come al pronto soccorso del Cotugno di Napoli e prima ancora a Palermo. Il numero di ricoveri raddoppiato nel giro di un mese. La variante Omicron galoppa e l'Epifania propone un film già visto, ma comunque da record: per la prima volta dall'inizio della pandemia, in Italia si registrano più di 200 mila casi nel giro di 24 ore. Per l'esattezza i positivi sono 219.411. Mai così tanti in 2 anni, da quando il mondo ha iniziato a convivere con il coronavirus. Ieri si sono registrate altre 198 vittime, meno delle 231 di mercoledì. Il tasso di positività rispetto al numero di tamponi effettuati è invece salito dal 17,3% al 19,3%. Segnali poco incoraggianti arrivano poi dai dati sulle ospedalizzazioni: sono 13.827 i ricoverati nei reparti di Malattie infettive e 1.467 quelli più gravi, in terapia intensiva. Il totale fa 15.294, più del doppio del dato registrato un mese fa: il 9 dicembre i posti letto occupati da pazienti Covid erano 7.144. In questo momento, senza contare gli asintomatici inconsapevolmente contagiati e gli infetti non scovati dai tamponi rapidi, in Italia c'è un milione e mezzo di positivi. Un numero destinato a portare in giallo altre quattro regioni da lunedì: a cambiare colore saranno Abruzzo, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta. Si salva dall'arancione la Liguria: il numero di ricoverati in terapia intensiva è al limite, questione di decimali. Nel frattempo continua la corsa all'immunizzazione: in Italia il 90% degli over 12, 48.609.755 persone, si è fatto somministrare almeno una dose di vaccino oppure è guarito dall'infezione. La campagna va avanti e, come sottolinea il sottosegretario alla Salute Andrea Costa, è l'unico strumento per diminuire la pressione sugli ospedali: «Dobbiamo assolutamente contenere al massimo la pressione sui nostri ospedali ed è chiaro che i 5 milioni di cittadini ancora non vaccinati sono quelli che rischiano di più il ricovero». Nel Lazio, tanto per fare un esempio, i due terzi dei pazienti in terapia intensiva sono No Vax. Restando sulla rete ospedaliera, le mappe del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie tratteggiano in rosso scuro il fronte formato dalle strutture del sistema sanitario nazionale. Solo la Sardegna pare ancora reggere l'impatto di Omicron. Ma le previsioni di Giovanni Sebastiani, matematico del Cnr, lasciano intendere che qualsiasi barricata alla fine potrebbe rivelarsi inutile davanti all'incedere dell'ultima variante del Covid: «Se continuasse questo trend, entro 40 giorni supereremmo a livello nazionale il 30% di occupazione nelle terapie intensive ed entro un mese il 40% nei reparti ordinari, mentre per l'incidenza nazionale siamo già a 1.640 casi su 100mila abitanti. Questo significa che i tre parametri per l'ingresso in zona rossa sarebbero superati a livello nazionale in 30-40 giorni». Oltre ai modelli matematici, ci sono le statistiche della Fondazione Gimbe: il bollettino dell'ultima settimana registra un'esplosione di nuovi casi, oltre 810 mila, con un incremento de l 153% rispetto a quella precedente. Nel giro di sette giorni è aumentato dell'8,9% anche il numero di vittime: 1.012 contro i 1.102 della rilevazione precedente. Anche in questo caso le conclusioni sono da codice rosso: la sanità territoriale sta andando «in tilt», mentre le ultime misure del governo vengono giudicate «inefficaci e tardive». La pressione sugli ospedali continua a salire: aumentano del 28% i ricoveri con sintomi e del 21,6% quelli in terapia intensiva».

IL CALENDARIO DELLE NUOVE NORME ANTI COVID

Oggi dovremmo finalmente conoscere il testo delle nuove norme, decise l’altra sera dal Consiglio dei Ministri all’unanimità. Sarzanini e Guerzoni sul Corriere incrociano anche le rispettive scadenze sul calendario.

«Ci sono scadenze diverse per l'entrata in vigore delle misure varate dal governo con i decreti approvati a dicembre e gennaio. Una sequela di date a partire da oggi, quando il provvedimento discusso e varato il 5 gennaio sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Norme già in vigore

1. Obbligo di mascherina all'aperto in tutta Italia. 2. Obbligo di indossare la FfP2 sui mezzi di trasporto a lunga percorrenza e sul trasporto pubblico locale. 3. Green pass base (rilasciato con un tampone antigenico valido 48 ore oppure molecolare valido 72 ore) per tutti i lavoratori del settore pubblico e privato. 4. Obbligo vaccinale per personale sanitario, scolastico, forze dell'ordine e lavoratori esterni delle Rsa. 5. Green pass rafforzato per bar e ristoranti al chiuso anche per consumare al bancone, luoghi dello spettacolo, palestre e piscine al chiuso. 6. Le feste sono vietate fino al 31 gennaio 2022. 7. La capienza massima degli stadi all'aperto è al 50% dei posti disponibili, al chiuso scende al 35%. 8. Green pass sbloccato automaticamente per i guariti dal Covid. 9. I positivi asintomatici da 3 giorni, con tre dosi o due dosi da meno di 120 giorni, devono stare in isolamento per 7 giorni e uscire con il test antigenico o molecolare. Invece per i positivi asintomatici l'isolamento è 10 giorni e ne possono uscire con test antigenico o molecolare. 10. I contatti stretti di un positivo non fanno la quarantena se hanno due o tre dosi da meno di 120 giorni, ma devono indossare la FfP2 per 10 giorni. Da più di 120 giorni devono stare in quarantena 5 giorni e uscire con tampone negativo. I non vaccinati fanno 10 giorni e si esce con test antigenico o molecolare. 11. Se la regione di residenza va in zona arancione chi non ha il green pass rafforzato ha le seguenti restrizioni: - non può uscire dal proprio comune di residenza se non per motivi di «lavoro, necessità, salute o per servizi non sospesi ma non disponibili nel proprio comune»; - non può accedere agli impianti di risalita delle piste da sci; - non può accedere ai centri commerciali nei giorni festivi e prefestivi; - non può partecipare ai corsi di formazione in presenza; - non può praticare gli sport di contatto.

8 gennaio 2022

Scatta l'obbligo vaccinale per chi ha compiuto i 50 anni. Se non ci si vaccina entro il 1° febbraio scatta la sanzione di 100 euro. 2. L'obbligo vaccinale è esteso al personale universitario equiparato a quello scolastico.

10 gennaio 2022

1. Fino alla cessazione dello stato di emergenza fissato al 31 marzo è obbligatorio il green pass rafforzato per: - alberghi e strutture ricettive - feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose - sagre e fiere - centri congressi - servizi di ristorazione all'aperto - impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici - palestre, piscine, centri natatori, sport di squadra e i centri benessere anche all'aperto - centri culturali, centri sociali e ricreativi per le attività all'aperto - Aerei, treni e navi - Trasporto pubblico locale 2. Via alle somministrazioni della terza dose di vaccino per i ragazzi tra i 12 e i 15 anni.

20 gennaio 2022

Obbligo di green pass base per i clienti di parrucchieri, barbieri, centri estetici.

1° febbraio 2022

I lavoratori pubblici e privati con 50 anni di età dovranno fare almeno la prima dose perché dal 15 febbraio 2022 sarà necessario il green pass rafforzato per l'accesso ai luoghi di lavoro fino al 15 giugno 2022. 2. Il green pass base (rilasciato con tampone antigenico valido 48 ore oppure molecolare valido 72 ore) è esteso ai clienti di: - pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari - attività commerciali, ma saranno esclusi i negozi che vendono alimentari, le farmacie e quelli che «soddisfano le esigenze essenziali e primarie della persona».

31 marzo

Fine dello stato di emergenza».

SCUOLA, I PRESIDI CHIEDONO LA DAD FINO AL 31 GENNAIO

Duemila presidi, su ottomila in Italia, hanno firmato un appello al governo in favore della Dad, da mantenere fino alla fine del mese. Valentina Santarpia per il Corriere.

«Non ci sono le condizioni di sicurezza per riaprire, manteniamo gli studenti in Dad (didattica a distanza, ndr ) almeno fino al 24 gennaio e, se necessario, fino al contenimento del contagio»: la «bomba» arriva in tarda mattinata nel giorno dell'Epifania, quando un gruppo autonomo di dirigenti scolastici diffonde una lettera appello al ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi e al premier Mario Draghi. All'inizio sono pochi (una ventina), ma col passare delle ore il numero di sottoscrittori schizza a 2 mila, su 8 mila presidi in Italia, e la voce che il rientro a scuola possa essere rinviato inizia ad essere insistente. «Sono sempre stata critica sulla chiusura della scuola, ho sempre ritenuto che fosse un baluardo importantissimo da salvaguardare - spiega Amanda Ferrario, dirigente del liceo Tosi di Busto Arsizio, una delle promotrici dell'iniziativa -; ma oggi non ci sono le condizioni. Mancano mascherine Ffp2 per tutti, e soprattutto manca il personale: tra non vaccinati e positivi, le assenze sono tali da non permetterci di garantire il servizio». Il sindacato dei presidi rilancia: «Mettiamo tutti in Dad fino a febbraio - dice Antonello Giannelli, presidente dell'Associazione nazionale presidi - e intanto garantiamo Ffp2 a tutti ed effettuiamo una massiccia campagna di testing». È una doccia fredda per il governo, che ha appena varato un nuovo protocollo per alleggerire le quarantene e quindi garantire il più possibile la presenza a scuola degli studenti. Anche ieri mattina il ministro Bianchi ha ribadito al Tg1 che tutto il pacchetto delle nuove norme ha l'obiettivo «di far tornare in aula in presenza e in sicurezza» gli studenti dal 10 gennaio. Ma Giannelli ha «il sospetto che la tempistica dei test e del tracciamento non sia migliorata rispetto al passato e c'è il rischio che la scuola abbia notizia dei risultati dei tamponi effettuati solo diversi giorni dopo». Timori condivisi: secondo Maddalena Gissi, Cisl scuola, il «rientro in presenza è solo una narrazione virtuale, spiacevole e incoerente. In migliaia di istituzioni scolastiche ci sono elevati rischi di ripresa a singhiozzo, di attività didattiche per poche ore o solo per qualche classe». Anche la vice segretaria Cgil Gianna Fracassi avvisa: «C'è tanto personale scolastico tra i contagiati. C'è il rischio per lunedì prossimo di avere una situazione di difficoltà». «Preoccupazione» per questo rientro a scuola anche dalla Rete degli studenti medi: «Ci saremmo aspettati una maggiore velocità e attenzione da parte di governo e ministero in queste settimane. Abbiamo visto, invece, solo uno scarico di responsabilità verso le Regioni che in autonomia stanno decidendo di rimandare di qualche giorno il rientro». E infatti i segnali arrivano: il governatore della Puglia Michele Emiliano vuole la Dad fino a febbraio, e quello della Campania Vincenzo De Luca non ha fatto mistero di spingere per una chiusura delle scuole durante la fase critica dei contagi. Ma dal ministero dell'Istruzione insistono che le misure del decreto puntano a tutelare presenza e sicurezza, con una gradualità legata alle fasce di età e al tasso di vaccinazione. Le misure sono diverse per gli studenti vaccinati e non, perché «è diverso il grado di protezione», dice Bianchi. Ma oltre 700 mila alunni di medie e superiori non vaccinati rischiano di restare a casa con due casi in classe. E alle elementari ci sono ancora oltre tre milioni di bambini senza nemmeno una dose».  

I NO VAX PROMETTONO DI MANDARE IN TILT I CONTROLLI

Scatta la protesta dei No Pass e No Vax: per i prossimi weekend attese manifestazioni in tutta Italia, da Torino a Roma. Giuliano Foschini per Repubblica.

«Sono le 20.36 della sera quando in uno dei gruppi Telegram più frequentati dai No Vax italiani, "Basta dittatura", arriva quello che ormai è un classico: «Ragazzi avete visto il tg? Sono tornate le scene delle file delle ambulanze! Sono tutte finte! Vorrei proprio scoprire dove le girano ». E via decine di commenti di approvazione. In contemporanea con l'esplosione dei contagi, sono esplose di nuovo le follie dei complottisti che non credono al Covid e all'utilità dei vaccini. Gli stessi che in queste ore stanno cercando di organizzare una forma di resistenza alle nuove norme del governo: se i numeri dicono che chi sceglie (o è costretto) a vaccinarsi, aumenta giorno per giorno, chi resiste non ha alcuna intenzione di fare passi indietro. I gruppi No Vax si stanno muovendo su diversi livelli. Il primo è quello istituzionale. Ieri il parlamentare Pierluigi Paragone, gridando all'attentato alla libertà, chiedeva su Telegram ai suoi seguaci: «Il governo Draghi ha messo in scena l'ennesimo provvedimento liberticida: secondo te che protesta bisognerebbe mettere in atto?» Protesta, quindi. E qualcuno si è già organizzato: gli esponenti dell'autoproclamata Commissione Dupre - "Dubbi e precauzione", quelli che fanno capo a Carlo Freccero e al giurista piemontese Ugo Mattei - si sono dati appuntamento sabato a Torino per scendere in piazza. Probabilmente non saranno i soli. Nelle chat - per la verità con moltissima confusione, come sempre sta accadendo da quando la magistratura ha decapitato i vertici di Forza Nuova che, fino a questo momento, avevano cercato di organizzare la rabbia dei movimenti No Vax sfruttandola per fini politici - la scelta comune è quella di manifestazioni di piazza. Qualcuno si è dato appuntamento per sabato 8, altri per il 15, altri ancora a febbraio. C'è chi si è messo in cammino, invece: sono i seguaci di Paolo Sceusa, ex magistrato in servizio tra Trieste e Trento (e che collabora con la scuola superiore di magistratura e con alcune università), che si è trasformato in una sorta di santone dei No Vax: li arringa sui social e propone teorie visionarie, tipo il trasporto autonomo dei No Vax. «Non ci vogliono sui mezzi? Facciamolo noi da soli, come fosse una staffetta». Ieri un centinaio di persone («circa mille», secondo il leader dei portuali triestini, Stefano Puzzer) hanno risposto alla sua chiamata, si sono radunate a Venezia e hanno camminato per poco meno di dieci ore. Al di là delle manifestazioni, c'è però anche chi si pone il problema di come affrontare il problema dell'obbligo. «Noi siamo tanti e loro non avranno abbastanza persone per controllarci», scrive tale Joy sempre su "Basta dittatura", in uno degli interventi più commentati. L'idea è semplice: muoversi come sempre e porre volta per volta il problema. «Facciamolo con i vigilantes nei centri commerciali, con i nostri datori di lavoro», scrive Katia Aullani, «non riusciranno a controllarci tutti ». Se queste però sono parole in libertà, qualcuno sta provando a organizzare qualcosa di più sistemico. Due le idee: un team di legali che presenti ricorsi fotocopia contro le sanzioni. E continuare con le denunce identiche in tutte le procure contro il premier Mario Draghi. Su questo si erano organizzati da tempo gli uomini di Forza Nuova: agli atti ci sono informative della Guardia di finanza che hanno ricostruito i canali di finanziamento per l'assistenza legale dei vertici del movimento. Esiste poi un ulteriore livello. Il più delicato. Che è quello che unisce protesta ed eversione. Sui gruppi i messaggi che incitano alla violenza in queste ore si sono moltiplicati. Si leggono cose del tipo: «O prendiamo le armi o non risolviamo niente». Oppure: «Ci vuole mano ferma e mente fresca. Esperienza acquisita nella malavita». È evidente che sono parole che lasciano il tempo che trovano. Ma c'è un però. La nostra intelligence - come hanno spiegato al Copasir i vertici dei Servizi e la stessa ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese - ha lanciato da tempo l'allarme sui lupi solitari di questi gruppi. Gente non controllata e non controllabile, dunque per questo ancora più pericolosa, che potrebbe compiere gesti violenti. Nelle ultime settimane un paio di eventi hanno fatto salire il livello di allarme. Le indagini aperte sui gruppi No Vax italiani hanno documentato che molti di loro non sono affatto soldati di un'armata Brancaleone. Avevano a casa armi, tutorial per costruirne, e in alcuni casi anche esperienze nel mondo del crimine o dell'eversione. Da Bologna a Torino, in molti casi si è già intervenuto con perquisizioni e sequestri. Ma altro accadrà nelle prossime ore, viste soprattutto le nuove misure del governo. E visti anche piccoli campanelli di allarme che preoccupano: per esempio, il proiettile inviato all'immunologa Antonella Viola che, per questo, avrà bisogno della scorta. Un Paese costretto a difendere gli scienziati: ecco perché non è possibile sottovalutare nulla».

LA STRATEGIA DI SALVINI SUL GOVERNO

L’assenza di Giancarlo Giorgetti dalla riunione del Consiglio dei Ministri sulle nuove norme anti Covid ha lasciato il segno. Quali sono le intenzioni della Lega? Se lo chiede Carmelo Lopapa su Repubblica.

«A che gioco sta giocando Matteo Salvini? E che ruolo intende svolgere nella partita che si aprirà a Montecitorio dal 24 gennaio con l'elezione del futuro presidente? Perché qualcosa di molto strano e senza precedenti sta accadendo negli ultimi giorni. Il segretario della Lega ha deciso di inabissarsi, di sparire quasi dalla scena politica. Non rilascia interviste, si contano su una mano le apparizioni televisive, non sembra più lui. Il segretario della Lega ha deciso di inabissarsi, di sparire quasi dalla scena politica. Ha lasciato che il più "draghiano" dei suoi ministri, Giancarlo Giorgetti, ponesse un esiziale veto all'introduzione dell'obbligo vaccinale per tutti i lavoratori e una serie di limitazioni al Super Green Pass. Ha evitato di pronunciarsi sulla "disponibilità" espressa a fine anno dal capo del governo a ricoprire altri incarichi istituzionali. Ha lanciato infine ieri, a freddo, una provocazione sul passaggio al nucleare indirizzata con nome e cognome proprio al presidente del Consiglio: "Con chi sta Draghi, col passato o col futuro?" Quasi a volerlo sfidare, stanare, provocare appunto. Il fatto è che Salvini, un po' come l'altro Matteo nell'inverno 2015, si è convinto di avere in mano il boccino decisivo, nella partita del presidente. E non è affatto detto che non sarà così, alla prova dei fatti. E non solo perché il centrodestra ha un numero di grandi elettori che risulterà alla fine determinante nella soluzione finale. Il leghista non si è limitato a proporre un incontro a tutti gli altri leader di partito a stretto giro per definire un "metodo" comune sul Colle. In realtà, l'ex ministro dell'Interno in questi giorni li sta chiamando tutti, uno per uno, da Letta a Conte, da Speranza a Renzi (più di ogni altro): a "360 gradi", come ama dire lui. Poi, coi 5 Stelle - ritrovati sulla linea morbida del fronte vaccinale - è di nuovo idillio. Si è convinto, l'ex ministro dell'Interno, che alla fine è con i vecchi alleati che farà asse nell'elezione del capo dello Stato. Con Di Maio è feeling ritrovato, dietro le quinte. E a tutti, senza distinzione, va ripetendo che l'ex presidente della Bce dovrebbe restare al suo posto perché "è un fuoriclasse" e perché solo lui può tenere in piedi la baracca Chigi di suo altrimenti assai precaria, come dimostrano le recenti fibrillazioni. Si potrebbe invece scegliere un altro nome, per il Colle, purché gradito al centrodestra: ovvero a lui. Silvio Berlusconi? Ecco, non proprio. Non esattamente il prescelto. Ora, è stato di sicuro frutto di un estemporaneo sfogo, quel che è sfuggito l'altra sera al ministro leghista del Turismo Massimo Garavaglia, a margine del tesissimo Consiglio dei ministri sulle misure anti Covid. Rivolto ai colleghi forzisti Brunetta, Gelmini, Carfagna avrebbe pronunciato un lapidario e poco diplomatico: "Se continuate così, il vostro Berlusconi se lo sogna il Quirinale". Un incidente, ma rende il clima nel centrodestra. In realtà, il Salvini sempre più convinto di essere il vero king maker in campo, ha per la stessa ragione paura di bruciarsi assieme al Cavaliere, se alla quarta fatidica votazione dovessero mancare al fondatore di Forza Italia decine se non un centinaio di voti. Il segretario - mai un fulmine di guerra nei momenti cruciali della sua vita politica - preferisce perciò eclissarsi, in attesa di capire che strada imboccare. Al momento, la via più impervia sarebbe quella preferita: convincere l'amico Silvio a compiere il "grande sacrificio", un passo indietro da "uomo della Patria". In favore di chi, resta un'incognita anche per lo stesso Salvini, per ora. I colloqui con Mario Draghi sono sì riservati ma più frequenti di quanto si sappia in giro. Nei suoi confronti, come va ripetendo, non c'è un veto. Ma le ultime mosse del premier lo hanno "deluso": l'ultimo decreto sui vaccini obbligatori per gli over 50 viene considerata dai leghisti tutti - tornati uniti come non accadeva da oltre un anno - una mediazione al "ribasso" (la Lega pretendeva la soglia dei 60). Detto questo, se poi Draghi dovesse risultare l'unica soluzione possibile, quando i giochi sarano fatti, fra tre settimane, allora Salvini ritiene che l'esperienza di governo vada conclusa lì. L'esecutivo "Ursula più uno", per di più senza Super Mario, non interessa a nessuno in casa Lega. Nemmeno ai governativi Giorgetti&C. A quel punto, l'ordine sarà di abbandonare la nave. Il loro leader si farà gli ultimi dodici mesi dall'opposizione, sparando a pallettoni su Palazzo Chigi, come piace a lui, come sa fare lui. O si muoverà subito per l'opzione elettorale. Tutto pur di recuperare consensi all'avversaria interna Giorgia Meloni. L'occhiolino strizzato ai No Vax nonostante i duecentomila contagi al giorno in fondo risponde a questa esigenza: di non vaccinati ce ne sono 5 milioni e mezzo in circolo, la gran parte in età da voto. Strategie e sogni di gloria che da qui alle prossime settimane dovranno fare i conti col generale Omicron».

Anche Cesare Zapperi sul Corriere parte dalla polemica sul nucleare.

«Draghi con chi sta? Col passato o col futuro?». La domanda, diretta e inusualmente tranchant , anche se riferita ad un argomento particolare (il nucleare), certifica meglio di qualsiasi ragionamento qual è lo stato dei rapporti tra la Lega e il presidente del Consiglio all'indomani del Consiglio dei ministri che ha varato l'obbligo vaccinale per gli over 50. Si sa che Matteo Salvini ha uno stile ruspante, poco incline a modulare i toni a seconda dell'interlocutore. Ma quel porre il premier di fronte ad un dilemma così secco, quasi fosse una scelta di campo tra un bene e un male, tradisce un sentimento di freddezza, se non di distacco crescente, che affiora per la prima volta in un rapporto che finora era stato, non solo in privato, all'insegna della piena e reciproca collaborazione (basti ricordare gli incontri a tu per tu a Palazzo Chigi). Questo perché, secondo la Lega, mercoledì «Draghi non ha fatto il Draghi». La spiegazione arriva da un dirigente di lungo corso del Carroccio: «Noi siamo entrati nel governo perché garantiti dal presidente del Consiglio, una figura autorevole in grado di decidere senza piegarsi a compromessi. Se Draghi si riduce a fare il mediatore i conti non tornano più». Ecco, il tira e molla sull'obbligo vaccinale e la ricerca di un punto di caduta slegato dal dato scientifico (questa l'accusa leghista per l'intesa trovata sul parametro dei 50 anni come mediazione tra i 40 voluti da Pd e Forza Italia e i 60 auspicati da Lega e M5S) avrebbero svilito il ruolo del premier, ridotto a cercare un equilibrio che ha ottenuto il voto unanime del Consiglio dei ministri solo perché a quel punto a tutti interessava più non perdere che vincere. Paradossalmente, il tentativo di Draghi di trovare un compromesso ha compattato il fronte leghista. Assente per motivi familiari Giancarlo Giorgetti (ma c'è chi fa notare che non è la prima volta che il titolare del ministero dello Sviluppo economico nei momenti topici si fa trovare lontano da Palazzo Chigi), è toccato a Massimo Garavaglia tenere il punto, in costante collegamento con il segretario, ribattendo colpo su colpo agli affondi di Partito democratico e Forza Italia e portando a casa quel che dalle parti di via Bellerio ritengono il male minore. Ma, per quanto rilevante, il merito finisce in secondo piano rispetto al tema più delicato del rapporto Draghi-Lega, tanto più in vista del voto per il Quirinale che tanto peso avrà anche sul destino del governo e della stessa legislatura. Nelle ultime settimane ci sono stati almeno due momenti di «frizione» tra il Carroccio e il premier. Il varo del super green pass, tra cabina di regia (assente Giorgetti) e Cdm, fu caratterizzato da analoga, convulsa, ricerca di un compromesso poi naturalmente approvato all'unanimità. E poi la conferenza di fine anno e le frasi di Draghi che quasi tutti hanno interpretato come una sorta di congedo da Palazzo Chigi in vista di un trasloco al Quirinale. Fu proprio Salvini, in quell'occasione, a reagire con malcelato dispetto e a ricordare al presidente del Consiglio che c'è ancora molto lavoro da portare avanti e che nessuno al di fuori di lui ha l'autorevolezza per guidare una maggioranza così larga ma anche così composita e variegata. In casa leghista le considerazioni di Draghi, poi chiarite in un colloquio privato, sono state vissute come una sorta di fuga in avanti in una partita che il segretario vuole giocare da regista (da qui l'iniziativa di avviare un tavolo allargato a tutti i leader). È tutto da verificare quanto la freddezza di queste ore peserà nella corsa al Quirinale. Ma difficilmente la renderà più agevole per il premier».

Pietro Senaldi su Libero sostiene che il leader della Lega è pronto a passare all’opposizione:

«Draghi divenne presidente del Consiglio nel febbraio scorso grazie a un blitz di Renzi e alla Lega e Forza Italia, che per amor di patria accettarono di entrare in maggioranza con M5S e Pd. Il Paese non ne poteva più di Conte, del suo commissario Arcuri e del governo giallorosso, che tenevano chiusa l'Italia, erano partiti malissimo nella campagna vaccinale e non davano garanzie ai mercati e all'Unione Europea sul buon utilizzo dei miliardi in arrivo per il Piano di Ripresa e Resilienza. Idem tentarono in ogni modo di difendere l'avvocato grillino, fallirono ma ebbero l'abilità di liquidare immediatamente il segretario Zingaretti e sostituirlo con Letta, per rifarsi l'immagine e dare l'idea a questa nazione disattenta e depistata dai soliti scribacchini progressisti che Draghi a Palazzo Chigi fosse un loro successo e non una loro sconfitta. Complice qualche sbandamento iniziale della Lega, l'operazione riuscì. Il tempo è galantuomo. A distanza di un anno, sta emergendo la verità. Dalle riaperture all'energia nucleare, dalla riforma delle tasse a quella della giustizia, dall'ambiente al grado di estensione dell'obbligo vaccinale, i giallorossi, e in particolare il Pd, sono un freno per il premier mentre il centrodestra ne è un utile interlocutore. Letta e compagni elogiano Super Mario a parole ma lo ostacolano nei fatti. Salvini lo critica ma lo sostiene quando è necessario, talvolta riuscendo a indirizzarne l'azione. È evidente anche nella partita del Quirinale, ambizione palese del premier. Il Pd ha opposto a Draghi almeno un paio di dozzine di candidati alternativi, alcuni francamente pittoreschi. Se alla fine sosterrà l'ex banchiere lo farà solo in chiave anti-berlusconiana, tanto per cambiare, e pretendendo di sostituirlo con un proprio esponente a Palazzo Chigi. Il centrodestra ha un candidato di bandiera, forte e in partita. E se a Salvini non riuscisse di mandarlo al Colle, potrebbe serenamente passare all'opposizione senza fare un plissé.

LA QUESTIONE NUCLEARE NELLA TASSONOMIA UE

È il giornale che fin dall’inizio ha seguito con attenzione ciò che stava succedendo a Bruxelles sul nucleare, e stamattina Il Manifesto titola: Esame di scoria, illustrando così una foto di Draghi. Insomma il governo è tra due fuochi sulla tassonomia Ue. Nella bozza all’esame di Bruxelles il nucleare è presentato come una “scelta verde”. Enrico Letta ha schierato contro il Pd. Matteo Salvini invece è a favore. Da Palazzo Chigi (e Cingolani) ancora silenzio… Ecco la cronaca.

«Il cerchio si stringe sempre più attorno a Mario Draghi: deve decidere come schierare il governo sull'inserimento del nucleare nella tassonomia della transizione energetica dell'Unione europea. La questione pone il Presidente del Consiglio di fronte a un bivio che potrebbe metterlo in forte difficoltà, soprattutto nell'ottica del percorso che da Palazzo Chigi conduce al Quirinale. Dopo la presa di posizione del segretario Pd Enrico Letta, arriva anche quella di Giuseppe Conte. Il leader del Movimento 5 Stelle dà seguito alle parole dei parlamentari grillini e annuncia: «Il M5S ha depositato prima al Senato e poi alla Camera una mozione dell'intero gruppo per non includere gas e nucleare tra le attività considerate eco-compatibili e quindi da incentivare in base al regolamento Ue sulla tassonomia». Poi Conte si rivolge direttamente all'esecutivo: «Il governo italiano faccia sentire forte e chiara la propria voce, la nostra voce in Europa. Non cambieremo posizione, né abbasseremo il tono delle nostre pretese». Matteo Salvini agita lo spettro di un «asse tra Pd e 5 Stelle per frenare lo sviluppo del paese e far pagare agli Italiani le bollette più care d'Europa». Pure il leader leghista cerca di tirare il presidente del consiglio dalla sua parte: «I reattori attivi nel mondo sono ormai ben 542, oltre 100 solo in Europa, oltre 50 solo in Francia. Draghi con chi sta? Col passato o col futuro?». Gli risponde la deputata dem Alessia Rotta, presidente della commissione ambiente, «Il nucleare non è il presente e non risolve il problema di oggi sull'approvvigionamento energetico. Nel frattempo sulle scorie di ieri Salvini gioca al 'non nel mio giardino'. Che credibilità può avere? il futuro dell'Italia sono le rinnovabili». Per Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, «Salvini pur di non parlare dei disastri che combina la Lega al governo insiste con le sue panzane per il ritorno al nucleare. Un'energia rischiosa, dannosa, non utile (se non a qualche lobbista interessato)». Anche Fratoianni stuzzica Draghi: «Dopo il pronunciamento del segretario del Pd - afferma il governo si dovrebbe dare una mossa impedendo a Cingolani di fare ulteriori danni all'Italia». Angelo Bonelli ed Eleonora Evi di Europa Verde mettono in evidenza le contraddizioni del nucleare sui costi e sull'indebitamento dei francesi: «Inserire il nucleare nella tassonomia Ue significa dare soldi pubblici, quindi di tutti i cittadini, all'industria nuclearista francese fortemente indebitata». A questo punto gli schieramenti sono delineati. Ed è sempre più evidente che la frattura sul nucleare rende difficile assumere posizioni sfumate o trovare sintesi ardite. Il Pd e il Movimento 5 Stelle, assieme a sinistra e ambientalisti fuori dalla maggioranza, si dicono contro il nucleare. Il centrodestra è a favore con Italia Viva e Azione di Carlo Calenda. Non a caso, il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, evocando la partita tra famiglie politiche che sul tema di disputerà al parlamento europeo, con la maggioranza che sostiene Ursula Von der Leyen spaccata. «Il Ppe si è espresso a favore del parere della Commissione, bisogna intensificare la ricerca sia sul nucleare di ultima generazione», sostiene Tajani. Per Fratelli d'Italia si esprime l'europarlamentare Nicola Procaccini, responsabile del dipartimento energia e ambiente del partito. Secondo il quale «la buona notizia per l'Italia non è l'inserimento nella tassonomia del nucleare, La cui produzione richiederebbe tempi lunghissimi, oltre al superamento di ostacoli pratici e normativi troppo ingombranti». Piuttosto, FdI punta tutto sul fatto che «il riconoscimento del gas naturale come fonte energetica 'ponte' verso la transizione ecologica» spalancherebbe «un'opportunità storica per l'Italia». Procaccini polemizza con «l'assordante silenzio da parte del governo Draghi, probabilmente ostaggio delle resistenze grilline». Da Palazzo Chigi tutto tace. Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani aveva aperto più volte alla ricerca sul cosiddetto «nucleare di quarta generazione» ma sulla possibilità di stornare le risorse dell'energia pulita sull'atomo non si è ancora espresso. Sullo sfondo di una partita che interessa molto alla Francia c'è il Trattato del Quirinale firmato da Draghi e il presidente francese Emmanuel Macron. Quell'accordo bilaterale tocca molti punti, non nomina le centrali atomiche ma ribadisce la necessità che i due Paesi rafforzino la collaborazione sui temi energetici. Dall'altra parte c'è la Germania, che ha deciso di non opporsi ma che sta smantellando le sue centrali. La palla adesso passa a Draghi».

Nicola Porro nell’editoriale del Giornale sostiene che la discussione in sede europea è un’occasione per l’Italia:

«L'Europa ha deciso che la produzione dell'energia elettrica grazie al nucleare non è da escludere. Anzi, è una delle opzioni per la cosiddetta transizione energetica. Locuzione tanto antipatica quanto il vocabolo «resilienza», a cui purtroppo ci dobbiamo abituare, anche se non soccombere. Ma, dicevamo, che la Commissione europea, bontà sua, ha deciso che l'atomo si può usare. D'altronde senza atomo i nostri concittadini tanto verdi a parole, quanto calorosi ad aria condizionata e freddolosi a riscaldamento, sarebbero rimasti al buio negli ultimi venti anni. Uno studio di Nomisma energia di questi giorni ha dimostrato come un quarto della produzione elettrica europea derivi dall'atomo. Il suo presidente, Tabarelli scrive: «Si tratta di energia prodotta da 120 impianti che non producono un solo grammo di CO2». In Slovenia, a 150 chilometri da Trieste, stanno raddoppiando la locale centrale, visti i costi del gas. Un esperto del settore come Paolo Scaroni, che ha guidato sia Eni sia Enel, ha detto più volte che non si può non pensare all'opzione nucleare. Così come il ministro Cingolani ha dismesso la retorica verde-rossa per la quale l'ambiente si tutela solo con alcune tecnologie. Insomma il tema energetico, come lo fu negli Anni '70, è tornato al centro dell'agenda economica. E come spesso avviene ritarderà ad entrare in quella politica. È la storia che si ripete. Quella storia che noi italiani ricordiamo bene fatta da inflazione e costo alle stelle delle materie prime. Il rischio di ricaderci è enorme. Per ora il governo ha tamponato la falla. Anche un bambino piccolo sa che non possiamo continuare a fare decreti e assestamenti di bilancio per trovare risorse che riducano l'impatto degli aumenti in bolletta. I benefici del taglio fiscale recentemente adottati valgono la metà degli aumenti di costo che comunque la famiglia media si troverà nella bolletta elettrica: una vera tassa occulta. E che non scomparirà. Il Covid dicono gli esperti diventerà endemico ed è cosa buona. Il costo folle del gas e dell'energia pure, e non è cosa buona. Occorre un governo che questi processi li affronti. Il «Whatever it takes» di Draghi su questo si dovrebbe concentrare. L'emergenza è già qua. Investire oggi sul nucleare, rompere la folle fermata sulle trivellazioni, riprendere a cercare gas e petrolio in Italia, sono tutte scelte che solo un governo autorevole e pienamente in carica può prendere. Ogni mese perduto è un macigno nei conti degli italiani e un'impresa che muore. La nostra è un'industria che trasforma e per farlo ha bisogno di energia. L'Europa ha appaltato, a parte la Francia, la sua sovranità energetica alla Russia. Se veramente oggi l'Italia vuole avere un ruolo nel continente e pensare il suo futuro non appalti il problema energetico a Greta».

 MA LA QUESTIONE STRATEGICA DELL’ITALIA È IL GAS

Il Sole 24 Ore stamattina sottolinea che le nuove centrali a gas potrebbero essere escluse dai fondi. Con la bozza delle disposizioni europee i progetti messi in campo per oltre 10 miliardi d'investimenti sarebbero in gran parte fuori dai benefici dei contributi chiamati “Green deal”. Jacopo Giliberto.

«Niente da fare: alle condizioni tecniche molto esigenti poste nella bozza della Commissione di Bruxelles, gli investimenti italiani nelle centrali a metano per la transizione energetica non rientrerebbero nella "tassonomia" europea delle attività sostenibili. Questo emerge da una ricognizione fra alcune delle principali aziende del segmento energetico e fra i più accorti economisti ed esperti del settore. Forse, tutt' al più, nell'elenco europeo dei progetti verdi finanziabili potrà rientrare qualche impianto marginale, impianto che oggi non è previsto. I 48 progetti italiani In Italia sono in corsa 48 investimenti di centrali a gas per sostenere le fonti rinnovabili d'energia, tra i quali per dimensioni spiccano i grandi progetti per lasciare il carbone e passare al metano a Brindisi Sud Cerano, La Spezia, Civitavecchia (Enel) e Monfalcone (A2A). È il cosiddetto capacity market, formato da quelle centrali pagate profumatamente per accendersi in pochi istanti non appena il vento smette di far girare le braccia eoliche o le nuvole nascondono il sole. Si tratta di circa nuovi 20mila megawatt da costruire con un impegno di spesa attorno ai 10 miliardi di euro. Ma nessuno dei progetti pare rispondere ai requisiti ambientali davvero stringenti delineati nella bozza della Commissione Ue che potrebbe accogliere fra le tecnologie verdi gas e nucleare. La bozza europea pare disegnata invece per rendere più sostenibile la transizione energetica di Paesi oggi molto esposti verso il carbone, come la Polonia, la Repubblica ceca o la Germania. Nel negoziato europeo, il recente via libera all'atomo espresso dalla Germania a tutto gas e tutto carbone corrisponde al consenso della Francia nucleare a non frenare i progetti sul metano. Il tema però riscalda molto il dibattito politico anche nell'Italia che ne è meno coinvolta. L'Europa per finanziare il Green Deal e la transizione ecologica ha individuato la tassonomia verde, cioè una graduatoria di sostenibilità. Possono ricevere finanziamenti pubblici, green bond, incentivazioni solamente i progetti sostenibili. Ciò orienta anche gli investimenti privati e i fondi. Ma bruciare gas o usare l'energia atomica sono attività sostenibili? Solamente a condizioni molto esigenti. I limiti europei La bozza europea dice che per poter entrare nella tassonomia un progetto di centrale elettrica a metano deve sostituire una centrale elettrica a carbone, deve emettere meno di 270 grammi di anidride carbonica per ogni chilowattora prodotto (oppure emettere 550 chili di CO2 l'anno per ogni chilowatt istallato), ma dal 2030 le emissioni dovranno scendere sotto i 100 grammi per chilowattora prodotto. Obiettivi simili non sono conseguibili nemmeno con le nuove turbine di classe H ad altissima efficienza. In via di ipotesi potrebbe godere dei benefici qualche centrale cogenerazione (ne è escluso per ora il teleriscaldamento progettato da A2A a Cassano d'Adda). Potrebbe rientrare nella tassonomia qualche impianto se venisse integrato con grandi quantità di idrogeno (a Marghera Fusina la centrale a carbone Enel in dismissione è a fianco all'idrogeno Eni-Versalis). Le emissioni potrebbero scendere con tecnologie Ccs, cioè di cattura dell'anidride carbonica, come il contestatissimo progetto dell'Eni per usare come serbatoio di CO2 un giacimento vuoto sotto al fondale dell'Adriatico al largo di Ravenna. Oppure potrebbe essere premiato dall'Europa il caso di un forte ricorso al biometano. Ma per ora, in Italia progetti come questi non sono ancora stati affinati e messi a punto. Per ora. Un'altra tipologia di impianti che potrebbe centrare l'incentivazione verde europea sono le piccole centrali a gas ad alte emissioni, quei"gas peaker" che inquinano poco solamente perché lavorano poco, non più di due o tre ore al giorno, appena per coprire brevi "buchi" di produzione delle rinnovabili più meteopatiche. Amministratori delegati ed economisti interpellati ripetono due concetti. Primo, visto che non riuscirà ad accedere a diverse forme di eurofinanziamento agevolato verde, gran parte dei progetti italiani dovranno far ricorso a risorse proprie o a capitali ordinari di mercato. Secondo, il sistema europeo premia non chi si è mosso prima, come gli italiani, ma i ritardatari con le tecnologie più vecchie e fumose. (Visti i temi, le sensitività di mercato e i dettagli sulla concorrenza, le persone interpellate hanno chiesto riservatezza sui loro nomi)».

QUIRINALE 1. MR.B E I VOTI DEI 5 STELLE

Davvero il candidato Silvio Berlusconi riceverà i voti dei grillini per essere eletto al Colle? Nel Movimento 5 Stelle sarebbero una trentina i ribelli (e i fuoriusciti) sui quali punta il Cav. Emanuele Buzzi per il Corriere.  

«Ad ascoltare deputati e senatori del Movimento non ci sono tentazioni dietro l'angolo. Alla domanda «Chi di voi voterà per Berlusconi presidente della Repubblica?» arriva come risposta una raffica di «nessuno». Una parola secca, seguita a volte da un «ma». Ed è proprio in quel «ma», nelle pieghe di un discorso complesso, che vanno cercate le tracce di eventuali novità. «Contatti di sicuro ce ne sono stati», affermano i Cinque Stelle, tuttavia di nominativi ovviamente non vi è traccia. Non è un mistero che nel gruppo parlamentare ci sia una fetta di una trentina di malpancisti, un bacino ideale da sondare per recuperare qualche voto. Non è altrettanto un mistero che Berlusconi al Quirinale secondo alcuni pentastellati sarebbe sinonimo di poter portare a termine la legislatura, ossia un vantaggio politico per chi nel nuovo M5S di Giuseppe Conte non riesce a ritagliarsi un futuro, una boccata d'ossigeno di dodici mesi per provare a pianificare strade alternative. Idee da mettere poi alla prova dei fatti.Lo stesso Berlusconi ha strizzato l'occhio ai Cinque Stelle, vertici compresi, in almeno un paio di occasioni. Il reddito di cittadinanza? «Si tratta di una misura che aiuta i poveri», ha detto il leader forzista. E ancora: «Il voto al Movimento Cinque Stelle, dal quale siamo lontanissimi, nasceva però da motivazioni tutt' altro che ignobili o irragionevoli. Nasceva dallo stesso disagio e dallo stesso fastidio per un certo tipo di politica per la quale è nata Forza Italia». Parole che hanno addolcito gli orizzonti a diversi esponenti (non solo malpancisti), al punto che nel Movimento c'è chi sospetta che eventuali sostenitori di Berlusconi - per ora chiusi nel riserbo più totale - potrebbero uscire allo scoperto. Ma non subito. «Solo se vedranno che il centrodestra lo ha votato compatto al quarto scrutinio», assicura un Cinque Stelle di peso. E prosegue: «Solo allora, secondo me, faranno pesare il loro aiuto alla quinta votazione». Ipotesi da fantapolitica al momento, anche se giustamente c'è chi ricorda che «i giochi si fanno all'ultimo» e - cercando di spronare un Movimento frammentato, avverte: «Chi gioca su troppi tavoli finisce per perdere ovunque». Ciò che appare certo è che i contatti tra le forze politiche (quindi anche con gli azzurri) da qui al 24 saranno all'ordine del giorno e che tra Cinque Stelle ed ex M5S, Berlusconi potrebbe recuperare - secondo le stime di chi conosce bene il Movimento - «metà dei consensi che sulla carta gli servono». Nelle scorse settimane diversi fuoriusciti dal Movimento hanno lasciato intravedere spiragli per l'ex premier, lasciando intendere che non ci sono preclusioni sul suo conto. «I no a prescindere non valgano nulla in politica. Il personaggio è discusso, ma ha anche diversi lati positivi», ha detto Nicola Acunzo, «Berlusconi? Sono sempre stata una parlamentare libera e voterò secondo coscienza. Ho sempre lavorato secondo coscienza per il bene del Paese», ha commentato Mara Lapia. Mentre Rosalba De Giorgi ha precisato: «Io mi riservo di valutare la rosa dei candidati, i nomi che circolano. Non ho ancora un'idea precisa». Difficile, se non impossibile, che Berlusconi possa pescare tra i big espulsi o in aree come quella di Alternativa o di sinistra, più facile invece che l'ex premier possa trovare sponda tra chi ora milita in partiti di centrodestra o sta senza casa nel limbo del gruppo Misto. «L'atteggiamento del Movimento sarà in ogni caso fondamentale», ricorda un Cinque Stelle di lungo corso».

QUIRINALE 2. MATTARELLA, IERI NUOVA OVAZIONE

Sergio Mattarella è stato ieri sugli spalti del Pala-Lottomatica a Roma per assistere alla finale della Coppa Italia di pallavolo femminile. Applausi e striscioni. A chi gli chiede di restare ha risposto: "Non ci sono due campionati". Concetto Vecchio per Repubblica.

«Ma Paola Egonu lascia l'Italia? » È la domanda che Sergio Mattarella rivolge ai vertici del volley femminile, mentre gli vanno incontro, ieri pomeriggio, al Pala-Lottomatica. La fuoriclasse pare intenzionata a trasferirsi in Turchia e Mattarella vuole sapere come andrà a finire. E lui, il Presidente, alla fine, invece che farà? Ci ripenserà, visto l'infuriare della pandemia? Glielo chiedono, naturalmente. E lui risponde divertito: «Eh, ci vorrebbero due coppe». Possibile traduzione: è una cosa impossibile, di scudetto ce n'è uno solo, io la mia coppa l'ho già presa. La Costituzione prevede notoriamente, nella interpretazione del Capo dello Stato, un solo mandato. Anche i 220 mila contagi non gli fanno cambiare idea. Chissà però come sarà l'umore del Paese, quando si andrà al voto per eleggere il suo successore, il 24 gennaio. Nessuno può saperlo. Nemmeno al Quirinale. I numeri della quarta ondata mettono paura. In un'Italia disorientata, ieri Mattarella ha voluto dare un segnale di normalità, presenziando alla finale di Coppa Italia di pallavolo femminile, tra Novara e Imoco Conegliano, vinta dai veneti in rimonta per 3-2. E sulle tribune i 3.230 spettatori presenti lo hanno accolto con un grande applauso quando si è affacciato dalla sua postazione e lo hanno congedato con un'ovazione nel momento in cui si è presentato in campo, dopo la partita, per premiare le due squadre. Il Capo dello Stato ha consegnato la Coppa Italia nelle mani della capitana Joanna Wolosz, che a sua volta ha regalato al Presidente una maglia rosa personalizzata del distretto del Prosecco. A quel punto sono partite le note di We Are the Champions, il lungo applauso del pubblico è stato ricambiato da Mattarella con saluti verso le tribune. È stata la sua ultima uscita in mezzo alla gente. Il mandato scadrà il 3 febbraio. E prima restano un incontro con l'astronauta Samantha Cristoforetti e poi il 21 gennaio l'inaugurazione dell'anno giudiziario, l'ultimo atto in assoluto. In teoria. Per dopo non ha preso impegni. Farà il senatore a vita. E vuol recuperare le amicizie perdute. Quando è arrivato ha trovato ad attenderlo il numero uno del Coni Giovanni Malagò, quello della Fipav Giuseppe Manfredi e il presidente della Lega Volley femminile Mauro Fabris. Suor Giovanna Saporiti, la religiosa patron di Novara gli ha regalato la maglia di Cristina Chirichella, il capitano. Mattarella è un appassionato di volley. Conosce lo sport nelle sue pieghe tecniche. Ha ricevuto due volte la nazionale femminile al Quirinale, l'ultima volta il 27 settembre dopo la vittoria agli Europei, quando ha accolto anche i campioni uomini. «Mi piace perché non ci sono pause», ha spiegato oggi. «È uno sport intelligente». E proprio in virtù di questa passione alla fine dei set gli hanno fatto avere i fogli statistici della sfida. Sua nipote Costanza gioca a volley e ciò ha reso l'amore per la pallavolo ancora più forte. A Mattarella hanno invece donato la maglia di Paola Egonu e di Novara. Gli è stato consegnato anche il pallone d'oro che viene dato alla migliore in campo a fine partita. «Lei ha fatto tanto per il Paese», gli ha detto Consuelo Mangifesta, capo comunicazione della federazione, ed ex campionessa. «Ma no», si è schermito Mattarella. «Non credo di meritare tutto questo».

QUIRINALE 3. CONTE, CALENDA E BERLUSCONI NON VOTANO

Non sono fra i grandi elettori, anche se potrebbero essere ripescati fra i delegati regionali. Elio Vito, di Forza Italia, lo auspica. La cronaca di Giovanna Casadio per Repubblica.

«La tentazione c'era stata tra i forzisti: avere Silvio Berlusconi tra i Grandi elettori per il Quirinale, affinché seguisse in prima persona il risiko della presidenza della Repubblica, e la sua controversa candidatura. Ma il leader di Forza Italia ha declinato: non è interessato ad essere tra i 58 delegati regionali. L'ipotesi era che fosse indicato dalla Lombardia o dalla Calabria. Anche la fedelissima Licia Ronzulli però ora nega questa eventualità. Ma in un Parlamento frammentato in cui nessuno riesce ancora a intestarsi il ruolo di regista, avere tutti i leader a orchestrare direttamente l'elezione, potrebbe essere importante? Elio Vito, forzista, ne è convinto e lancia un appello: «Sarebbe giusto che alle votazioni per il Quirinale partecipassero anche i leader di partito non parlamentari, Berlusconi, Conte, Calenda», indicati dalle Regioni. Ma neanche Giuseppe Conte, il capo dei 5Stelle, intende cimentarsi come delegato- Grande elettore. E così il leader di Azione, Carlo Calenda: «Non credo sia opportuno». Non è una buona idea neppure per il costituzionalista dem Stefano Ceccanti e per il centrista Osvaldo Napoli. «Irrilevante», per Ceccanti. «Non ha senso, perché le Regioni sono chiamate a dare rappresentanza ai territori», secondo Napoli. E Dario Parrini, presidente dem della commissione Affari costituzionali del Senato, rincara: «Sarebbe anomalo e bizzarro». Parrini aveva invece proposto con il presidente dell'Anci, Antonio Decaro che fosse indicato un sindaco nel gruppo dei 3 delegati regionali-Grandi elettori. L'unico a raccogliere la richiesta era stato il "governatore" dell'Emilia Romagna, il dem Stefano Bonaccini, per lasciare spazio al sindaco di Bologna, Matteo Lepore. Ma ora è Lepore stesso che spezza una lancia pro Bonaccini: «Meglio sia lui, è la persona che più ci rappresenta». Di certo però il ruolo di delegato- Grande elettore è molto ambito, e c'è un patto a livello nazionale tra i partiti alleati e una trattativa. Dei 58 delegati inviati dalle Regioni, 33 sono di centrodestra, 24 di centrosinistra più Erik Lavévaz dell'Union Valdotane. Il centrodestra ha stabilito le quote: 13 leghisti, 7 forzisti, 3 di Fratelli d'Italia e gli altri centristi o civici. Nel centrosinistra, Francesco Boccia, responsabile enti locali del Pd parla di "gentlemen's agreement" tra alleati. Sono però molte le fibrillazioni. In Lombardia ad esempio, andranno a Roma il governatore Attilio Fontana, leghista, e il presidente del consiglio regionale Alessandro Fermi, che però da Forza Italia è passato alla Lega: quindi due leghisti. I berlusconiani non gradiscono. In Sicilia malumori a gogò: faranno parte dei Grandi elettori il governatore Nello Musumeci e il presidente dell'Assemblea Gianfranco Miccichè, altro battitore libero della destra, e la Lega è scontenta. Nulla è pacifico neppure per il centrosinistra. Sempre in Lombardia il delegato dell'opposizione dovrebbe essere il dem Fabio Pizzul, però i 5Stelle avanzano la richiesta di eleggere Grande elettore Dario Violi. Neppure nel Lazio la scelta è scontata: tra i Grandi elettori ci sarà il governatore dem Nicola Zingaretti e per l'opposizione probabilmente un leghista. Ma i 5Stelle ambiscono a sostituire con il loro consigliere, David Porrello, il presidente del consiglio, il dem Marco Vincenzi. In Campania è Clemente Mastella a porre la richiesta di delegare uno dei suoi, oltre al governatore Vincenzo De Luca. Qui rischia il forzista Stefano Caldoro, perché i 5Stelle all'opposizione puntano i piedi. In Toscana, Italia Viva sperava in un proprio delegato. Nel partito di Renzi ironizzano: «Piuttosto che uno di noi, il Pd sceglierebbe uno di Fratelli d'Italia». Per prima arriva l'Abruzzo: ha già eletto i tre Grandi elettori : Marco Marsilio, il governatore, che è di Fratelli d'Italia e il presidente forzista dell'assemblea regionale, Lorenzo Sospiri. Ma la sorpresa arriva dall'opposizione: la delegata è una grillina, Sara Marcozzi, non un piddì».

QUIRINALE 4. IL DILEMMA DEL CATAFALCO

I grandi elettori dovranno passarci sotto: è il catafalco che garantisce la segretezza del voto. Ma sarà sanificato in tempi di Covid? Mario Ajello per il Messaggero.

«Catafalco sì o catafalco no? Questo è il dilemma. E riguarda la sicurezza sanitaria ma anche la segretezza del voto. Insomma c'è il timore - in questa prima volta nella storia italiana che si vota per il Capo dello Stato in piena pandemia - che la cabina dove entreranno dal 24 gennaio i 1008 grandi elettori, ossia quel tubo di legno con tendine all'ingresso e all'uscita, soprannominato catafalco e piazzato sotto il banco del presidente di Montecitorio, possa trasformarsi nel passaggio della massa di votanti e a dispetto delle spruzzate di disinfettante in un temibile cluster. Quanti respiri, quanti sudori - dovuti magari alla paura che il candidato prediletto perda il big match - e quanti starnuti potranno verificarsi lì sotto, anche se ci sarà l'obbligo della mascherina Ffp2? Il catafalco nell'emiciclo per l'elezione del 92, che avrebbe portato Scalfaro al Quirinale. Ora da strumento di protezione, adatto a non far vedere agli altri la scheda votata in cabina e da infilare poi nell'urna esterna detta l'insalatiera, può trasformarsi nel suo opposto: in un terreno fisicamente pericoloso, in un allevamento di germi, in un generatore di contagi. La trasformazione virale del catafalco è insomma una delle insidie. Se i contagi a fine mese saranno molto alti, com' è probabile, oltre allo sbarramento del Transatlantico potrebbe verificarsi l'abolizione del catafalco. Che risponderebbe tra l'altro a una esigenza: quella di evitare che nella cabina i grandi elettori possano con lo smartphone immortalare la scheda votata per poi dimostrare di aver segnato il nome indicato dal partito di riferimento. Non solo in Forza Italia gira l'idea di siglare con una foto della scheda l'atto di obbedienza alla corsa quirinalizia di Berlusconi. Ma anche tra gli stellati - dove i più non seguono la linea Conte che oltretutto non si capisce quale sia - avanza l'opzione d'immortalare la scheda sotto il catafalco in modo da evitare voti di dissenso nei confronti dei vertici M5S. Senza capire, sia loro sia tutti quelli che sottovalutano la gravità del fotografare la scheda, quanto sia profondamente deleterio per i principi democratici - e la libertà del parlamentare è uno di questi - rendere pubblica la propria scelta compiuta in quello che dovrebbe essere il segreto dell'urna. E pensare che questo vulnus democratico legalmente non è neanche rischioso, perché mentre il cittadino può essere condannato all'arresto da tre a sei mesi se fotografa la scheda nella cabina del seggio, nessuna sanzione è prevista dai regolamenti parlamentari per deputati e senatori che violano la segretezza del voto. L'ultima volta, nel 2015, diversi stellati - da Di Stefano a Dall'Osso, dalla Lezzi alla Bencini - uscirono dal tubo di legno e si precipitarono a postare su Facebook la scheda appena siglata, per farsi belli agli occhi della «ggente» per aver scelto candidati, da Rodotà a Imposimato, estranei al vituperato Palazzo. Ora chissà che fine farà - ma una decisione andrà presa, come minimo quella proposta dal deputato dem Ceccanti e condivisa da tanti in maniera bipartisan: «Vanno lasciati i telefoni cellulari fuori dal tubo» - il catafalco possibilmente infetto e probabilmente usato come riparo per cattive pratiche politiche: come quella, costituzionalmente gravissima e da vero e proprio reato, di scatenare il mercato delle foto quirinalizie e la falsificazione di quello che dovrebbe essere un momento rispettatissimo della vita repubblicana. E insomma resta o sparisce il catafalco? Tra pochi giorni lo sapremo. L'ex ministro repubblicano Oscar Mammì, quando questa cabina comparve a Montecitorio, disse: «Mi sembra di entrare in una bara e in effetti c'è bisogno di bare in questo sistema politico in agonia». E in quel 92, il simpatico socialista Francesco Forte - scomparso pochi giorni fa - sbottò: «Quando entro nel catafalco mi tocco». Ora al catafalco potrebbe toccare di non esserci, ma restano purtroppo la pandemia e la delicatezza di una questione istituzionale rilevante: con il catafalco c'è l'insidia dello smartphone, senza catafalco c'è l'occhio tremendo dei tele-obiettivi che può scoprire qualsiasi nome vergato sulla scheda».

BIDEN DURO CON TRUMP: MINACCIA LA DEMOCRAZIA

Nell’anniversario dell’assalto a Capitol Hill Joe Biden condanna Donald Trump. È «un coltello alla gola della democrazia». La cronaca di Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«Joe Biden indica all'America colui che considera il responsabile politico, morale e forse anche giuridico dell'attacco a Capitol Hill: «l'ex presidente». Una figura che non merita neanche il minimo rispetto, quello di essere chiamato per nome e cognome, cioè Donald Trump. Il presidente in carica si è presentato davanti alle telecamere nella Rotunda, l'atrio contornato di statue e di ritratti sotto il cupolone del Congresso. È il pantheon dell'identità politica e culturale degli Stati Uniti, profanato il 6 gennaio 2021 da gruppi di miliziani organizzati e da outsider come Jake Angeli, lo «sciamano» con le corna di bisonte. Biden si concede solo qualche preambolo, un po' di retorica e poi attacca frontalmente Trump: «Per la prima volta nella nostra storia, un presidente non solo ha negato di aver perso le elezioni, ma ha cercato di impedire il pacifico passaggio di poteri, mentre una calca violenta irrompeva a Capitol Hill. Questo è successo davanti agli occhi del mondo. Ma c'è qualcosa che non abbiamo visto. Dopo aver fomentato i tumulti, l'ex presidente sedeva nella sala da pranzo della Casa Bianca, senza fare nulla per ore, mentre la polizia veniva assaltata, vite umane erano in pericolo e il Congresso della Nazione sotto assedio». E ancora: «L'ex presidente ha diffuso una fitta rete di bugie, ha cercato di rovesciare il risultato di elezioni libere, di sovvertire la Costituzione». Finora Biden aveva scelto di ignorare la propaganda del rivale. Ma ieri è arrivato il cambio di passo. Il leader della Casa Bianca esamina, punto per punto, le «tre grandi bugie» trumpiane. La prima: far credere che la «truffa del secolo», cioè «il furto della vittoria», sia avvenuta il 3 novembre il giorno delle elezioni presidenziali. Dice Biden: «Ve lo immaginavate? Secondo l'ex presidente 150 milioni di americani hanno partecipato a una frode e non al momento più alto della democrazia, cioè il voto». Seconda «menzogna»: il risultato delle urne non è stato certificato legalmente. «Ma queste sono state le elezioni più controllate e verificate della storia - osserva Biden - tutti i ricorsi presentati sono stati esaminati e respinti dai giudici, compresi quelli nominati dall'ex presidente». Infine l'ultima follia trumpiana: i veri patrioti sono coloro che hanno assediato il Congresso un anno fa. Qui Biden è rabbioso: «Gente che ha rotto vetri, devastato gli uffici dei parlamentari, letteralmente defecato nei corridoi di Capitol Hill. Questi sarebbero patrioti? Non per me. I veri patrioti sono i poliziotti che hanno difeso il Congresso; gli elettori che hanno espresso la loro preferenza; i funzionari leali che hanno certificato i risultati». È il momento di tirare le conclusioni: «Siamo a un bivio. Tocca a noi americani decidere se vogliamo un Paese in cui sia considerata normale la violenza politica. Ma voglio essere chiaro: io non consentirò a nessuno di puntare un coltello alla gola della democrazia americana». Nel finale Biden ha chiamato in causa i complici repubblicani di Trump e ha attaccato i governatori che in diversi Stati, come la Georgia e l'Arizona, «hanno varato leggi per sopprimere il diritto di voto». Ieri ha preso la parola anche la vicepresidente Kamala Harris, relegata però, ancora una volta, a un semplice ruolo di spalla».

KAZAKISTAN, FORZE MILITARI RUSSE SUL TERRENO

Le forze militari russe entrano in Kazakistan su richiesta del presidente Tokayev. Parte la repressione delle proteste. La preoccupazione Usa: "Il Cremlino non si impossessi delle istituzioni". La Ue: "Garantite i diritti". Le forze di sicurezza sono schierate ad Almaty, la capitale, per disperdere i manifestanti che da domenica protestano contro l'aumento dei prezzi del carburante. Fabio Tonacci per Repubblica.

«I soldati di Vladimir Putin hanno poggiato gli stivali sul suolo kazako. Per la prima volta il Trattato di sicurezza collettivo (Csto), stipulato trent' anni fa dalla Russia e dalle cinque ex repubbliche sovietiche, è entrato in funzione. Su richiesta di un presidente debole, il kazako Kassym- Zhimart Tokayev, che in appena cinque giorni ha visto il Paese più stabile dell'area centrasiatica piombare nell'abisso della rivolta, insanguinata da gruppi di violenti di cui ancora non si conosce identità, la provenienza, gli obiettivi. Il Cremlino non ha fornito cifre ufficiali su quanti uomini armati ha inviato in Kazakistan per aiutare a reprimere la sommossa. Rimarranno il tempo necessario, settimane, forse mesi. Le agenzie stampa di Mosca parlano di 2.550 unità su un contingente totale stimato di 3.700 messo a disposizione dagli Stati aderenti al Csta (Russia, Armenia, Bielorussia, Kyrgyzystan, Tajikistan e Kazakistan). A riprova, se mai ci fosse qualche dubbio, che è Putin che sta conducendo le danze nella vasta "operazione antiterrorismo", come la definiscono i ministri kazaki. E sarà Putin che, alla fine, ne potrà incassare i dividendi geopolitici. «Aumenterà la sua influenza nell'area», spiega il professor Luca Anceschi, docente di Studi euroasiatici all'Università di Glasgow e attento analista delle vicende del Kazakistan, dove ha vissuto in passato. «Terrà in pugno il presidente Tokayev, arrivando a questo risultato senza sforzo, sostanzialmente segnando un gol a porta vuota: non ha invaso, è stato il governo kazako a rivolgersi a lui». Gli Stati Uniti, non a caso, sono preoccupati. «Sorvegliamo eventuali violazioni dei diritti umani», dichiara il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. Che aggiunge: «Vigiliamo su eventuali azioni che possano gettare le basi per una presa di controllo delle istituzioni del Kazakistan». L'Onu invita a «evitare violenze». Inquietudine anche a Bruxelles. «Gli aiuti militari esterni riportano alla memoria situazioni che vanno evitate», è il commento dell'Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell. «L'Europa è pronta a fornire il suo supporto per affrontare la crisi». Ma intanto c'è il presente. E il presente è fatto di giorni drammatici e caotici, di rivolte ad Almaty, Shymkent, Taraz e in altre città, di spari sulla folla, di saccheggi, violenze, morti, decapitazioni, di informazioni che il governo kazako in assenza di contraddittorio centellina senza scoprirsi troppo, dell'oscuramento di Internet, dei telefoni muti, di episodi atroci e ancora tutti da capire che bucano la sordina imposta dal regime grazie agli attivisti che, triangolando con le reti virtuali private, riescono a comunicare su Twitter. Degenera di ora in ora la situazione ad Almaty, la principale città del Kazakistan, dove la polizia riferisce dell'uccisione di almeno 18 agenti, due dei quali «ritrovati decapitati», e annuncia «l'eliminazione» di «decine » di manifestanti. Per ore l'aeroporto internazionale è stato fuori controllo, passeggeri e aerei cargo sarebbero stati sequestrati dai rivoltosi. L'agenzia stampa russa Tass ha pubblicato un video di un conflitto a fuoco tra forze di sicurezza e dimostranti nella piazza principale. I media di Stato kazaki riferiscono che i due maggiori ospedali sono stati circondati dai rivoltosi, che hanno impedito l'accesso a pazienti e medici. I residenti vengono invitati a rimanere a casa e lontani dalle finestre. Venticinque treni in tutto il Paese sono stati bloccati. Gli aeroporti di Almaty e Aktau, ancora in tarda serata, erano chiusi. Per tutta la giornata è circolata la notizia che il governo di Astana avesse chiuso l'ingresso agli stranieri, ma le ambasciate smentiscono. Il bilancio ufficiale, finora, è di 748 poliziotti della Guardia nazionale feriti e di 2.298 manifestanti arrestati. Oltre, come detto, ai 18 deceduti. «Stiamo fronteggiando un'aggressione armata condotta da gruppi terroristici addestrati all'estero», è il messaggio diffuso urbi et orbi dal governo kazako. A cui però si oppongono le voci di chi protesta e che si raccolgono sui social network. È il caso, ad esempio, degli attivisti pacifici di "Ojan Qazaqstan" (Svegliati Kazakistan), il gruppo nato nel 2019 ad Almaty durante il passaggio di potere dall'autocrate Nazarbayev, per 29 anni dominus del Kazakistan indipendente, al presidente Tokayev. «In piazza ci sono cartelli con scritto: Tokayev non siamo terroristi, non sparare», «Ad Aktau i manifestanti hanno eretto barricate sulla strada che conduce all'aeroporto contro le truppe russe», «un corrispondente di Azattyk (Radio Free Europe, ndr) riferisce che ad Almaty stanno sparando a persone disarmate », «non so se qualcuno vedrà il mio tweet, non c'è Internet, molti non possono chiamare i propri parenti e scoprire se sono vivi», «un dipendente del canale televisivo Almaty è stato ucciso. Il conducente dell'auto è stato ucciso. Il giornalista si è rotto diverse dita, è stato ricoverato in ospedale». Voci. Incontrollate e incontrollabili, ma che definiscono il grado del marasma. Eppure la protesta era nata in modo non violento nelle regioni petrolifere dell'ovest, dove i cittadini dopo Capodanno erano scesi in piazza per lamentarsi del rincaro dei prezzi del Gpl, causati dalla liberalizzazione voluta da Tokayev. «Man mano che si è spostata a est si è radicalizzata, diventato un movimento che vuole riforme», osserva ancora il professor Anceschi. A nulla è valso il repentino passo indietro del presidente, con il ritorno alla calmierazione e la sostituzione del premier Mamin. La scintilla ha incendiato la polveriera. «La debolezza dell'opposizione a Tokayev si è però rivelata con la facilità con cui un numero di individui, di connotazione politica non e identità opache, ha preso il possesso della protesta e diffuso rabbia e devastazione nelle città». Chi sono lo capiremo col tempo. È già chiaro, invece, cosa temono gli attivisti di Ojan. «I russi spingono per indire un referendum per la riunificazione del Kazakistan con la sua patria storica, la Russia», scrivono su Twitter».

Adriano Sofri dedica la sua rubrica del Foglio “Piccola posta” al Kazakistan:

«La gelida capitale kazaka inventata per sostituire, nel 1997, Almaty, l'antica Alma Ata, la città delle mele, si chiamava Astana ("capitale"), poi, nel 2019, è diventata Nur- Sultan, dal nome del padre della patria, Nursultan Nazarbayev, oggi 81enne. Ora probabilmente sta di nuovo per cambiare nome. E' uno scherzo urbanistico. I più celebri architetti del mondo furono convocati a realizzarvi i loro faraonici progetti, uno accanto all'al - tro, alla rinfusa, grattacieli temerari e teatri in forma di fiore sbocciato e templi neoclassici, colonnati e cupole e piramidi politeiste, yurte di granito e cristallo, fontane e marmi bianchi di Carrara e statue efferate, e donne e uomini chini sulle spianate di pavimenti per strappare a mano l'erba che insiste a spuntare fra una lastra e l'altra. Al centro sorge la favolosa torre Bayterek, 105 metri di albero della vita con in cima l'uovo della felicità, una palla dorata di 22 metri di diametro. Da tutto il Kazakistan, che è grande dieci volte l'italia per neanche 20 milioni di popolazione, la gente viene, fa la fila per il biglietto, prende uno degli ascensori e sale fin dentro la sfera d'oro, e posa la mano - specialmente i bambini, la manina - dentro l'im - pronta di bronzo dorato della mano di Nazarbayev ed esprime un desiderio: "E' come stringerla a lui", dice estatica la guida. Per ragioni di spazio, mi limito a ricordare questo dettaglio per aiutarvi ad avere un'idea di che cosa voglia dire la statua colossale di Nazarbayev ripresa dai telegiornali: con una corda al collo e altre attorno alle braccia e al torso, per essere trascinata giù dal piedistallo e fatta a pezzi. Doveva succedere. Sta succedendo, e nessuno può dire che cosa ne verrà. I classici ingredienti ci sono tutti: la voglia coraggiosa di libertà personali, specialmente di donne, una rivolta sociale di lavoratori più volte esplosa e schiacciata, i disegni islamisti, le rivalità e le congiure di palazzo, l'amicizia "fraterna" delle truppe russe e di altre repubbliche ex- sovietiche, Bielorussia e Ucraina in prima fila. Mi ha lasciato senza fiato una notizia: che alla crisi economica del gigante petrolifero e del gas kazako, e all'aumento delle tariffe che ha fatto da scintilla, ha contribuito pesantemente il consumo di elettricità di decine di migliaia di compagnie internazionali di criptovalute. Il mondo nuovo: esprimete un desiderio».

I TALEBANI DECAPITANO I MANICHINI

Afghanistan. Nelle vetrine appaiono le teste segate dai manichini a Herat dopo l'ordine dei talebani perché «contrari alla Sharia». Francesca Mannocchi sulla Stampa.

«Scrive il filosofo Emmanuel Lévinas nel suo Totalità e Infinito che la vera natura del volto, il suo segreto, consista nella domanda che rivolge, che è "al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia". Il Volto è per Lévinas un appello che chiama a prendersi cura dell'esistenza di un altro che ci interroga, continuamente, e ci chiama a rapporto nell'incontro con la radicale distanza da noi. Da quando sono tornati al potere, lo scorso agosto, i taleban hanno imposto una interpretazione progressivamente più rigida della legge islamica, vietando alle donne l'accesso all'istruzione secondaria in molte province, impedendo ai tassisti di accettarle in auto se non accompagnate da un parente di sesso maschile, ostacolando la loro presenza al lavoro nel settore pubblico, fatta eccezione per le scuole primarie e gli ospedali, e bandendo la loro presenza da posizioni di governo e amministrative. Da ultimo, pochi giorni fa, i taleban hanno ordinato ai proprietari dei negozi di Herat, terza città più popolosa del Paese, di tagliare la testa ai manichini esposti nei negozi, sostenendo che le figure dei volti femminili rappresentino una violazione della legge islamica. Aziz Rahman, capo del Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, ha rivendicato la decisione in una dichiarazione rilasciata a Afp: «Abbiamo chiesto ai commercianti di tagliare la testa ai manichini perché contrari alla Sharia, se si limiteranno solo a coprire il capo con un velo l'angelo di Allah non entrerà nei loro negozi o nelle loro case a benedirli». Il velo non basta, dice Rahman, l'immagine del volto va eliminata, distrutta. I negozianti hanno obbedito, come mostra un video diffuso sui social media, in cui un gruppo di uomini (che non si vedono) sega le teste ai manichini per poi accatastarle una accanto all'altra. Una continuazione ideale alle prime immagini che hanno segnato il ritorno dei taleban a Kabul, quelle delle vetrine dei negozi con i volti di donna cancellati dalla vernice nera secondo l'interpretazione del Corano che vieta qualsiasi riproduzione o immagine di fattezza umane. Il corpo è tabù, dice la vernice scura che li copre e li censura, il volto è tabù. Sul volto di donna, poi, il divieto è supremo, insindacabile. Cosa c'è su quei volti che i taleban non vogliono vedere? È solo lo scandalo del corpo femminile per i codici della loro interpretazione oscurantista dell'Islam o c'è anche il segno della fragilità del loro potere? «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere» dice Lévinas, che disegna una relazione etica a partire dal Volto. Lévinas fonda la sua teoria dell'etica della società sul "faccia a faccia con l'altro", con un volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi. È lì che giace il presupposto delle relazioni umane, nella relazione con un Altro che nel solo atto di manifestarsi mette in crisi, è interrogativo e limite, e nel suo essere così ostinatamente, radicalmente diverso da chi guarda, sfugge al possesso, è resistente alla presa. E con la sua presenza diventa linguaggio, perché dice Lévinas, la prima parola del Volto che vedo e che mi è straniero è un'ingiunzione: «Tu non mi ucciderai» dice, non con il tuo ordine sociale, non con la tua oppressione, né con la vocazione al controllo. Il volto resiste al possesso, resiste al potere delle armi. Puoi distruggermi ma non puoi possedermi, pare dire, non puoi appropriarti di me. Ha a che fare questo con il corpo delle donne afghane, con i loro visi di cui è impedita la vista, con le teste dei manichini così insostenibili allo sguardo da dover essere rimossi? Sì, ha a che fare anche con loro perché nell'unicità dei loro volti queste donne ricordano ai taleban che possono essere segregate ma non possedute e contemporaneamente ricordano a noi occidentali che la responsabilità verso di loro consiste nel rispetto delle differenze, non nella foga di annullarle. Il destino delle donne afghane ha a che fare col potere degli uomini, col potere espresso dai taleban sulla nuova società afghana che vogliono costruire, ma ha a che fare anche con la responsabilità nell'affrontare conflitti che l'Occidente ha smesso di combattere faccia-a-faccia, come se l'atto del vedere, di affrontare il Volto di chi si vuole oppresso o sconfitto, fosse la costante di ogni guerra, ideologica o militare. Le guerre contemporanee non sono più, ormai da tempo, combattute contro qualcuno che si rischia di uccidere, ma contro sagome che sembrano non avere vita, sono combattute a una distanza che tutela lo sguardo, le sagome si muovono ma non possono guardarci, non possono imporre la violenta, radicale, rivendicazione dello sguardo e gli eserciti, indirizzando droni e armi di precisione contro di loro, non se ne sentono responsabili. Dove finisce la responsabilità? Esattamente dove dovrebbe iniziare, sull'ingiunzione che il volto reclama. Combattere senza guardare in faccia il nemico significa sottrarsi a quell'epifania che dice, come le donne coperte dal burqa, Non uccidere, tu non mi ucciderai. Dovremmo, prima di sentirci responsabili dei destini delle donne afghane, essere desiderosi di conoscere il volto che vorrebbero mostrare - non quello che noi vorremmo vedere - una volta alzato il burqa - e rispettare la loro alterità dai taleban ma anche la loro alterità da noi. L'altro è una ferita nella nostra compiutezza, sia quando tentiamo di combatterlo, sia quando tentiamo di accoglierlo. L'altro ci ferisce perché ci mostra, noi ci sentiamo feriti perché vederlo ci inchioda alla responsabilità che abbiamo di accoglierlo, o di combatterlo. Per questo dovremmo, prima di sentirci parti in conflitto, tentare di conoscere il volto delle società che consideriamo antagoniste, affrontare, sempre, la responsabilità del faccia-a-faccia. È difficile guardare in faccia il nemico che si uccide, talvolta intollerabile, così come è difficile guardare il volto di un essere umano che chiede aiuto, e rivendica una presenza di libertà con il proprio volto «differenza irriducibile che inquieta e che risveglia».

MIGRANTI, L’ALTERNATIVA È UN CIVILE GOVERNO DEI FLUSSI

Intervento di Maurizio Ambrosini per Avvenire sui dati che riguardano gli arrivi via mare dei migranti nel 2021. L’alternativa al commercio di esseri umani è il civile governo dei flussi.

«È davvero ripresa l'emergenza sbarchi, o peggio - come qualcuno grida - l''invasione'? Stiamo ragionando (e sragionando) sui dati relativi agli arrivi dal mare sulle coste italiane nel 2021: 67.040, quasi il doppio rispetto al 2020 (34.154). Aumentati anche gli ingressi di minori non accompagnati: 9.478, a fronte dei 4.687 dell'anno precedente. Tanto basta ad alcuni attori politici e ai media consonanti per levare alte grida d'allarme, con annesse avventate e propagandistiche richieste di dimissioni della ministra Lamorgese. Questi dati vanno, infatti, contestualizzati. Il 2020 è stato un anno peculiare, e speriamo irripetibile: la prima fase della pandemia ha provocato un brusco arresto della mobilità trasnfrontaliera, in tutte le sue forme, dal turismo, ai viaggi d'affari, ai movimenti dei migranti e delle persone in cerca di asilo. Se riandassimo invece agli anni precedenti, ci accorgeremmo che gli sbarchi del 2021 sono rimasti ben al di sotto dei numeri raggiunti negli anni centrali dello scorso decennio: 181.000 nel 2016, 119.000 nel 2017. Gli accordi con la Libia continuano a funzionare, oliati dai finanziamenti italiani ed europei e indifferenti alle proteste delle organizzazioni internazionali. E non è una buona notizia. I nuovi migranti sulle pericolose rotte del mare, inoltre, sono molto diversi da quelli di allora. Non arri-È vano prevalentemente dai Paesi martoriati e instabili dell'Africa subsahariana, ma da una varietà di luoghi di provenienza. In primo piano è salito il Nord-Africa, in cui le speranze suscitate dalle primavere arabe sono andate in frantumi, i regimi s' induriscono, le economie languono: al primo posto troviamo la Tunisia (23%), seguita dall'Egitto (12%). Bangladesh (12%) e Iran (6%) occupano le posizioni successive, indicando altri punti di crisi geopolitica verso Oriente. Le rotte si sono diversificate: sono emersi nuovi porti d'imbarco per alcuni e si sono disegnate rotte più complesse e tortuose per altri. I nefandi presìdi libico e turco tengono, ma sono sempre più inadeguati, moralmente e anche ai soli fini del contenimento dei flussi. Le drammatiche notizie dal confine croato e da quello polacco ci ricordano inoltre che le persone in fuga verso l'Unione Europea cercano affannosamente percorsi alternativi, malgrado la violenza dispiegata per fermarle. Si ha invece meno contezza del fatto che i richiedenti asilo arrivano in Europa in molti modi, ma vedono l'Italia in una posizione defilata. In attesa dei dati 2021, nel 2020 le richieste d'asilo sono state 122.000 in Germania, 93.000 in Francia, 89.000 in Spagna, contro 27.000 nel nostro Paese. La Spagna per esempio è interessata da flussi di richiedenti asilo sud-americani, soprattutto venezuelani, di cui neppure ci rendiamo conto. Nel frattempo, si lamenta la carenza di manodopera per alimentare la ripresa economica. Nel nostro Paese il nuovo decreto flussi, annunciato pochi giorni fa e ancora in fase di perfezionamento, per la prima volta dopo anni ha ritoccato le quote al rialzo: 69.700 nuovi ingressi (contro meno di 31.000 negli anni scorsi), di cui però 42.000 dedicati al lavoro stagionale in agricoltura e nel settore alberghiero, e solo 27.700 a forme di lavoro diverse, in cui rientra un po' di tutto, dagli artisti alle conversioni dei permessi per studio. Eppure lì sta una delle chiavi per ridurre gli arrivi dal mare e le richieste di asilo improprie: offrire un canale alternativo per ingressi sicuri, legali, ordinati, orientati da subito all'inserimento lavorativo. Magari ripristinando l'istituto della sponsorizzazione, che responsabilizzerebbe datori di lavoro e partenti e potrebbe coinvolgere le comunità locali. Per l'asilo, si dovrebbe invece insistere sull'ampliamento dei corridoi umanitari, che stanno facendo scuola in Europa, e di altre forme di partenariato, come quelle che coinvolgono le università. In Canada già oggi oltre la metà dei richiedenti asilo sono sponsorizzati da soggetti della società civile o in forme miste pubblico-private, che vedono anche la partecipazione dei governi locali. Ciò che invece non funziona sono i rimpatri forzati: pochi (3.351 nel 2020), costosi (64 milioni tra il 2015 e il 2020), ingiusti (il 55% ha riguardato i soli cittadini tunisini, per i quali è più facile procedere) (Fonte: 'Nigrizia', novembre 2021). Ma anche inutili: chi è rimpatriato il più delle volte ritenta. Se riteniamo che gli arrivi via mare siano un problema, e lo sono soprattutto per il cinico traffico che li organizza e per il prezzo in vite umane, serve coraggio e inventiva per trovare soluzioni alternative, più umane e compatibili. Potrebbe essere un buon e realistico programma per questo 2022».

UNDICI NUOVE START UP AL GIORNO

Nel 2021 c’è stato un record positivo: sono nate in media undici nuove start up al giorno. Le registrazioni superano le 4200 unità, una crescita del 25 per cento. Luca Orlando per il Sole 24 Ore.

«Sette in un giorno. Molte, in termini assoluti, anche se non si può dire che il 2021 delle start up chiuda con il "botto". Perché le aziende iscritte nella sezione speciale del registro delle imprese il 31 dicembre, con attività che spaziano dallo sviluppo sostenibile alle consegne online, dall'engineering alle blockchain, in termini strettamente numerici abbassano la media rispetto ad un anno straordinario. Caratterizzato in media nel corso del 2021 da più di 11 nuove iscrizioni al giorno, sabati e domeniche inclusi. Producendo, come evidenziano le rilevazioni di Infocamere, un totale di oltre 4200 unità. Nuovo massimo significativo, perché a differenza di quasi ogni altro indicatore dell'attività economica, dalla produzione all'export, dalla natalità d'impresa ai consumi, la nascita di nuove attività innovative non era stata affatto fermata dal Covid, con il 2020 a superare per la prima volta la soglia delle 3mila attività su base annua, un balzo del 33% rispetto all'anno precedente. Lo scorso anno ha visto un ulteriore progresso, una crescita del 25% delle nuove iscrizioni che porta il totale verso le 14.100 unità (+2.175 rispetto a fine 2020, tenendo conto di chiusure, cancellazioni, aziende che perdono i requisiti per restare nella sezione start up ecc..), anche in questo caso si tratta del nuovo massimo per il sistema Italia. Capofila su base regionale è ancora una volta la Lombardia, trainata come consuetudine da Milano, che lo scorso anno ha fatto registrare 818 iniziative, in assoluto il dato più alto tra tutte le province italiane. Soltanto Roma (536 nuove start-up) riesce ad avere valori non troppo distanti, mentre tutte le altre aree, a partire dalla terza in classifica, ancora una volta Napoli (174), seguono a distanza rilevante. Trattandosi di realtà appena costituite è naturale trovare valori di produzione limitati, come infatti accade: delle oltre 4mila nuove attività appena 151 presentano nei bilanci vendite superiori ai 100mila euro mentre a poter già vantare una presenza non episodica sul mercato, con produzione superiore al milione di euro, sono soltanto 21 soggetti. Situazione analoga si verifica nel personale. Se quasi 3400 non presentano dati, il cluster più cospicuo è la fascia 0-4 addetti, che raggruppa 677 soggetti. Già salendo a quota cinque la caduta numerica è di un ordine di grandezza (appena 60 aziende), per ridursi ad appena otto unità nella fascia 20-49 addetti, la più ampia segnalata dal campione: oltre non si va. Ad ogni modo in termini dimensionali si tratta di una platea di aziende che inizia ad avere un impatto complessivo non del tutto trascurabile: al terzo trimestre 2021, tra soci (quasi cinque per ogni start up registrata) e dipendenti, si arrivava infatti ad oltre 80 mila soggetti coinvolti. Dal punto di vista settoriale prosegue il dominio assoluto del mondo digitale, con servizi software, consulenza informatica e attività affini a concentrare oltre 2mila e 100 realtà, più della metà del totale. In generale i servizi alle imprese valgono i tre quarti delle nuove iscrizioni mentre le attività manifatturiere sono più rare, solo il 16% del totale».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Con la Versione del Venerdì.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Draghi sotto assedio

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing