Due miliardi per l'alluvione
Il governo vara il decreto. Bonaccini bloccato dalla Lega. Conselice ancora sott'acqua. Dopo Belgorod Putin ammette: "Momento difficile". Colosimo all'Antimafia. Zuppi apre l'Assemblea della Cei
Dunque il governo ha varato un decreto per gli aiuti alle popolazioni colpite dall’alluvione in Emilia Romagna. Si tratta di due miliardi, secondo quanto annunciato da Giorgia Meloni, ricavati nelle pieghe del bilancio. Secondo le prime notizie torna il superbonus al 110% sugli immobili, ci sarà una forma di Cassa integrazione emergenziale, così come sarà ripristinato lo smart working per la Pubblica amministrazione ed è prevista una tantum per gli autonomi. Confermato anche l’utilizzo delle lotterie e si chiederà anche un euro in più ai visitatori dei Musei, per rafforzare la difesa del patrimonio artistico e culturale. Per l’Emilia-Romagna entra in vigore subito il nuovo codice degli appalti, che dovrebbe favorire l’efficienza dell’amministrazione pubblica. Non è stato però nominato, come ci si attendeva, Stefano Bonaccini come commissario per l’emergenza. Perché la Lega si sarebbe fermamente opposta a questa soluzione. Ha ragione Raffaele Marmo che sul Resto del Carlino di stamattina invita le forze politiche a non dividersi su questa emergenza e sulle cose da fare. Intanto nella lotta contro il tempo e contro il fango (Conselice è ancora allagata) c’è una società civile mobilitata, che dovrebbe essere un punto di riferimento per tutti.
L’incursione a Belgorod ha probabilmente rappresentato un punto di svolta nella guerra: non solo perché segna la comparsa di nuove milizie filo-ucraine nel territorio russo. Vladimir Putin ha ammesso che La Federazione russa “sta passando momenti difficili”. A Kiev si prepara la controffensiva, mentre la “jet coalition”, secondo quanto riferito da Josep Borrell, sta rapidamente scendendo in campo a fianco degli ucraini. In Italia non sarà possibile addestrare i piloti di F-16, ma gli italiani daranno lo stesso il loro contributo. Il Fatto ha tradotto e propone un articolo dell’economista Jeffrey D. Sachs che mette in relazione l’enorme debito pubblico americano con le necessità del complesso militar-industriale. Solo la guerra e la produzione militare permettono di tenere in piedi il sistema.
Per tornare alle vicende italiane, ieri nel giorno dell’anniversario di Capaci, è stata eletta la presidente della nuova Commissione antimafia Chiara Colosimo, di Fratelli d’Italia. PD, 5 Stelle e sinistra sono usciti dall’aula per protesta. A Palermo la polizia è intervenuta con i manganelli per fermare il corteo studentesco non autorizzato dalla Questura.
Il cardinal Matteo Zuppi ha aperto la 77esima assemblea della Cei con un intervento che ha toccato tutti i temi di attualità. Ha citato il Papa per confermare che è sbagliato contrapporre accoglienza a natalità. E ha ribadito la necessità di casa e lavoro per i giovani che vogliano costruirsi una famiglia e un futuro. Sabato lo stesso Zuppi sarà a Barbiana per il centenario di don Lorenzo Milani, insieme al Capo dello Stato.
Da non perdere ed è già in rete il secondo episodio di una serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo: è una serie in sei puntate. La prima, già in rete da otto giorni, riguarda Giorgio La Pira. Ora invece è di scena un grande intellettuale egiziano: Taha Hussein considerato il “decano della cultura araba”. La sua vita fu tutt’altro che facile, e non solo a causa della disabilità fisica, perché era cieco. La sua passione per la libertà gli procurò infatti diversi nemici, sia negli ambienti religiosi che in quelli politici. A sostenerlo il suo coraggio, uno sconfinato amore per il sapere e soprattutto Suzanne, la moglie conosciuta durante gli studi in Francia. Impossibile parlare di Taha senza raccontare anche di lei, «la donna che è diventata i miei occhi» come lui scrive nel suo romanzo autobiografico I giorni. Una storia affascinante e un pensiero che ha ancora molto da dire.
Troverete la serie su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente qui sul sito di Fondazione Oasis... per ascoltare direttamente cliccate qui e comunque cercate questa immagine grafica:
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae alcuni volontari nelle strade di Ravenna. Dopo il deflusso delle acque, c’è una corsa per salvare il salvabile.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Le misure del governo varate ieri catalizzano l’attenzione della stampa. Cominciamo ancora con Il Resto del Carlino-Quotidiano Nazionale che scrive: Alluvione, dal governo subito 2 miliardi. È la stessa cifra che propone il titolo di apertura del Corriere della Sera: Aiuti, 2 miliardi per ripartire. Il Messaggero usa le virgolette: «Due miliardi per ripartire». Il Domani sottolinea la polemica: «Due miliardi per l’alluvione». Ma la Lega non vuole Bonaccini. Il Giornale sentenzia: Lo Stato c’è. Nell’anniversario della strage di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta, è stata eletta la nuova presidente della commissione anti-mafia. Per La Repubblica è: Strappo sull’Antimafia. La Stampa usa una metafora dal doppio senso: «Colosimo all’antimafia, una pagina nera». Il Fatto denuncia: Per ricordare Falcone botte ai ragazzi antimafia. Mentre La Verità attacca il Quirinale: Mattarella capo dell’opposizione. Il Manifesto su una foto dei poliziotti contro il corteo studentesco di Palermo accusa: Capaci di tutto. Libero torna sul reddito di cittadinanza: Conte perde 500 mila fannulloni. Mentre Il Sole 24 Ore racconta l’ultima speculazione americana: Derivati, boom con il rialzo dei tassi. Record a 20 mila miliardi di dollari. Avvenire sottolinea l’intervento di apertura del cardinal Matteo Zuppi all’Assemblea generale della CEI: Chiesa attiva nella storia.
DUE MILIARDI PER FAMIGLIE E IMPRESE
Le decisioni del Consiglio dei Ministri sull’alluvione: torna il superbonus al 110% sugli immobili, Cassa integrazione emergenziale, smart working per la Pubblica amministrazione e una tantum agli autonomi. Giorgia Meloni dice: «Ecco le prime importanti risposte». Flavia Landolfi e Manuela Perrone per il Sole 24 Ore.
«Cassa integrazione «emergenziale» per i dipendenti di tutti i settori produttivi fino a un massimo di 90 giorni, con un plafond di 580 milioni di euro. Smart working per i lavoratori della Pa, e per chi non fosse in condizione di lavorare in modalità agile l’assenza sarà considerata a tutti gli effetti servizio fino al 31 agosto. Un contributo una tantum da 3mila euro per gli autonomi costretti a interrompere l’attività, con uno stanziamento di 298 milioni. Versamenti tributari e contributivi sospesi fino al 31 agosto, come i termini dei procedimenti amministrativi. Udienze dei procedimenti civili e penali e termini processuali rinviati fino al 31 luglio. E torna il superbonus al 110% per gli interventi su condomini e villette da ultimare entro il 31 dicembre 2023. E ancora, per le imprese, si rafforza il Fondo centrale di garanzia con copertura di 110 milioni di euro e si aumenta la garanzia fino anche al 100%. Un aiuto anche sul fronte dell’export: per le aziende è prevista una quota riservata di 400 milioni di euro per finanziamenti agevolati (a valere sul fondo ex legge 394/1981), con quote a fondo perduto del 10%, nonché contributi a fondo perduto concessi tramite Simest fino a 300 milioni. Mentre Sace già ha annunciato posticipi e moratorie dei termini delle coperture assicurative. È nutrito il pacchetto di interventi previsti dal decreto legge per l’Emilia-Romagna approvato ieri dal Consiglio dei ministri, che ha anche incaricato il commissario straordinario per la siccità, Nicola Dell’Acqua, del compito di verificare lo stato di efficienza e manutenzione delle opere di drenaggio delle acque meteoriche sull’intero territorio nazionale. «Un provvedimento che offre le prime importanti risposte» e «prevede uno stanziamento di oltre 2 miliardi di euro», ha spiegato la premier Giorgia Meloni illustrando il testo alla fine del Cdm, innanzitutto al governatore Stefano Bonaccini e alle parti sociali della regione. Come anticipato dal Sole 24 Ore di sabato, dunque, il Governo ha voluto destinare fondi ben oltre il miliardo per dare un segnale immediato alle famiglie e alle imprese. «Trovare tante risorse in qualche giorno non è una cosa facile», ha rivendicato Meloni, che aveva chiesto al Mef di setacciare tra le pieghe del bilancio per individuare i fondi «senza fare deficit». Il momento è eccezionale, «bisogna essere all’altezza» degli emiliani. «Tanti nostri concittadini hanno avuto le proprie case devastate dall’acqua, tanti hanno subito devastazioni delle aziende e dei luoghi dove lavorano», ha sottolineato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricevendo le squadre di Inter e Fiorentina, finaliste della Coppa Italia. «Una sofferenza che richiede un grande impegno di solidarietà da parte di tutta l’Italia e che si sta manifestando in questi giorni». L’elenco completo dei Comuni interessati dal blocco dei versamenti e dal rinvio delle rate dei mutui concessi da Cdp sarà definito nelle prossime ore ed è molto probabile che sarà più lungo degli 80 enti inizialmente previsti, per circa un milione di contribuenti e imprese. Molte delle richieste delle amministrazioni sono state accolte, ma manca l’esenzione Imu per gli immobili inagibili, così come la previsione della rateizzazione dei pagamenti sospesi, che potrebbe però arrivare successivamente. Tra le misure (molte delle quali segnalate ieri su queste pagine, come il rifinanziamento per 200 milioni del Fondo per le emergenze nazionali 2023 in capo alla Protezione civile), c’è inoltre la destinazione di 100 milioni di euro del Fondo di solidarietà nazionale alle aziende agricole danneggiate, con l’apertura dell’ombrello assicurativo a quelle non coperte da polizze. Altri 75 milioni sono previsti per il sostegno agli investimenti e ai progetti di innovazione in agricoltura, compreso il riacquisto di macchinari. Per accelerare la ricostruzione e creare una corsia preferenziale sugli appalti, si stabilisce l’entrata in vigore da subito, e non dal 1° luglio, dell’articolo 140 del nuovo Codice, che prevede la possibilità di «disporre l’immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 500mila euro o di quanto indispensabile per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica e privata incolumità». Il decreto interviene anche su scuola e università: oltre ai 20 milioni del nuovo «Fondo straordinario a sostegno della continuità didattica» per la ripresa dell’attività scolastica, anche attraverso la Dad, arrivano 3,5 milioni per la manutenzione delle sedi degli atenei e un fondo di solidarietà per personale e studenti, che beneficeranno dell’esonero di tasse e contributi. Al ripristino delle strutture sanitarie delle zone interessate dalle alluvioni è assegnato un contributo di 8 milioni; per le infrastrutture sportive sono stanziati 5 milioni; per le aziende del turismo altri 10. E la bozza prevede anche un incentivo di 5mila euro alle persone che acquistano, pure in leasing, un auto o un veicolo commerciale Euro 6 entro la fine del 2024, a patto che venga rottamato un veicolo della stessa categoria distrutto o gravemente danneggiato dall’ondata di maltempo. Per le coperture, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli è autorizzata a effettuare estrazioni straordinarie di Lotto e Superenalotto e a vendere beni mobili oggetto di confisca amministrativa. È stato inoltre introdotto un sovrapprezzo di un euro per l’ingresso nei musei statali tra il 15 giugno e il 15 settembre, prevedendo di destinare i maggiori incassi alla ricostruzione del patrimonio culturale. Nel decreto sono comparse anche semplificazioni per i rigassificatori: le unità galleggianti saranno qualificate come «opere di pubblica utilità, indifferibili e urgenti».
TROVATA LA 15ESIMA VITTIMA, RISCHI SANITARI
A Conselice l’acqua non riesce ancora a defluire. Ci vorranno giorni, intanto c’è un allarme infezioni. La cronaca di Alfio Sciacca per il Corriere della Sera.
«L’acqua sale su dalle fogne e in casa non si respira. Dopo giorni in queste condizioni e senza nulla da mangiare siamo andati via. Ora ci ospitano dei parenti». L’abitazione di Vittoria Di Matteo, dove vive con il marito e tre figli, è in Via Aldo Moro, una delle strade trasformate in fiumi maleodoranti. Per una famiglia che decide di andar via ce ne sono centinaia che resistono, prigioniere in casa, aspettando che passi il canotto che distribuisce le buste bianche con dentro acqua e qualcosa da mangiare. Da cinque giorni è questa la quotidianità di Conselice, diecimila abitanti, diventato l’epicentro di una nuova emergenza che si aggiunge a quella del fango e delle frane. In questo caso si tratta di rischi per la salute della popolazione, legati proprio a quell’acqua putrida che potrebbe trasformarsi in un rischio di infezione per i residenti e chi li assiste. Dopo aver camminato a lungo nell’acqua le tute e gli stivaloni degli uomini delle forze dell’ordine vengono spruzzati di disinfettanti. Mentre la sindaca Paola Pula lancia disperati appelli ai suoi concittadini. «Non camminate a piedi nudi nell’acqua — urla al megafono davanti al municipio — proteggete la pelle dal contatto con l’acqua con guanti e dispositivi di protezione individuale. Evitate che i bambini giochino nelle aree allagate». A dimostrazione della gravità della situazione ieri a Conselice sono arrivati sia la direttrice dell’Ausl di Ravenna sia la vicepresidente della Regione, con delega alla Protezione civile, Irene Priolo. Anche i vertici sanitari confermano potenziali pericoli per infezioni alla pelle o gastrointestinali. E stanno valutando anche delle vaccinazioni di profilassi. Misure che confermano i potenziali rischi per il ristagno d’acqua lanciati dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima). «Dopo un’alluvione — avverte il presidente Alessandro Miani — aumenta il rischio di infezioni, specie per anziani e bambini. Dall’epatite A alle infezioni batteriche dovute a escherichia coli o salmonella». L’acqua stagnante attira poi zanzare che «incrementano il rischio di trasmissione di altre malattie». La sindaca di Conselice prevede che ci vorranno dieci giorni perché l’acqua riesca a defluire del tutto. Troppi per scongiurare potenziali rischi per la salute. Per questo il Comune, che ha già dato l’ordine di sgombero della case allagate, ipotizza anche il trasferimento «in bungalow o in un camping». «La situazione è obiettivamente complessa — ammette l’assessore Priolo —. È dovuto alla morfologia del paese: una sorta di catino naturale dove l’acqua fatica ad andar via, parliamo di milioni di metri cubi. Per farla defluire bisogna immetterla nel canale Destra Reno, ma lo si deve fare con attenzione altrimenti si rischia di allagare un’altra porzione del territorio». Ed è proprio questo ad alimentare la tensione tra i cittadini che da giorni protestano davanti al Comune. «Per evitare il ristagno — spiega Priolo — con le idrovore si sta cercando di “circuitare” l’acqua. Non possiamo certo permetterci anche il rischio malattie». A sostenere la sindaca, che sta affrontando una situazione tesa e complicata, c’è una colonna mobile di Protezione civile della Toscana. Sale intanto a 15 il bilancio delle vittime dell’alluvione. Nelle campagne di Lugo i sommozzatori dei carabinieri hanno recuperato un altro corpo. Si tratterebbe di un agricoltore di 68 anni di Fusignano di cui era stata segnalata la scomparsa il 17 maggio. Mentre la Procura di Ravenna ha aperto un fascicolo, contro ignoti, ipotizzando il reato di disastro colposo. Il tutto mentre su parte della regione permane anche per oggi l’allerta rossa e arancione».
BONACCINI COMMISSARIO? LA LEGA NON VUOLE
Stefano Bonaccini non è stato nominato commissario per la ricostruzione. Ci sono forti dubbi nella maggioranza. Per il Corriere ricostruisce tutto Maria Teresa Meli.
«Il problema non è il nome e cognome, ma come si vuole lavorare»: Stefano Bonaccini non fa una piega quando i giornalisti, al termine dell’incontro con il governo, gli chiedono se aspira a diventare commissario per la ricostruzione dell’Emilia-Romagna. Per ora il governatore gestisce l’emergenza e vuole evitare di mettere bocca in un dibattito che lo riguarda in prima persona. Prima dell’incontro a Palazzo Chigi con la delegazione dell’Emilia-Romagna, Matteo Salvini ha negato di aver messo il veto su Bonaccini: «Non è vero niente». Ma la sua frase è stata interpretata come una smentita di rito. Poi, nel corso dell’incontro, sindacati e associazioni delle imprese della regione hanno buttato là un «ci aspettiamo che si lavori secondo il modello del terremoto e che si valorizzino le istituzioni». Un modo per dire che loro avrebbero preferito affidare la pratica a Bonaccini, nominato commissario alla ricostruzione dopo il sisma che 11 anni fa colpì l’Emilia-Romagna. Ed è il punto di forza del governatore: riuscire a mettere insieme e a far collaborare imprese e sindacati. Il presidente dell’Emilia-Romagna però, che sa che la partita è ancora aperta benché molto difficile, non si scopre: «Non è importante Stefano Bonaccini, ma un modo di lavorare, con un commissario e una struttura commissariale, perché quel modello ha funzionato talmente bene durante la gestione del terremoto che tutti avete visto cosa siamo riusciti a fare». Il governatore si aspetta che una decisione in un senso o nell’altro venga «presa a breve, tra qualche settimana». E Meloni nell’incontro, rivolta alla delegazione dell’Emilia-Romagna assicura l’impegno del governo in questo senso e dice: «Anche nella seconda fase, quella della ricostruzione, faremo questo lavoro insieme». Al Pd hanno tratto l’impressione che nel governo, oltre al solito braccio di ferro tra Lega e premier, si stiano valutando i «costi e benefici» della nomina del commissario. «Devono decidere — è il ragionamento fatto in queste ore — se conviene di più dare la nomina a uno di loro, con il rischio però di finire poi nell’occhio del ciclone se qualcosa non funziona, oppure di affidare il ruolo a Stefano, scaricandogli onori e oneri, con il pericolo, per loro, che lo porti a termine bene e che quindi non vi sia un ritorno positivo per il governo, bensì per la Regione Emilia-Romagna». La partita, comunque, è aperta. E certo è che Bonaccini in ogni caso dirà la sua perché «la fase della ricostruzione è determinante». Perciò un commissario di area scelto dall’esecutivo avrà gli occhi del presidente della Regione puntati addosso, perché ovviamente il governatore di fronte a eventuali lungaggini difficilmente potrà restare silente e lasciar correre, dal momento che è in gioco il futuro della «sua» regione. Comunque la giornata di ieri per Bonaccini è stata positiva: «Serviva un segnale e con il decreto il governo lo ha dato, è un primo importante passo avanti». All’inizio infatti l’esecutivo sembrava propenso a varare un provvedimento che prorogasse tutti i termini, ma che non prevedesse uno stanziamento di fondi. Il governatore, però, ha messo al lavoro la giunta e i suoi assessori, in collaborazione con i ministri competenti, hanno fatto un lavoro molto intenso. Così alla fine sono arrivati anche i soldi e Bonaccini è «soddisfatto» del risultato finale. E infatti dice «un grazie alla presidente Meloni e al governo per la vicinanza dimostrata». E assicura: «Siamo pronti, nella massima collaborazione tra le istituzioni e il territorio a dare una mano per arrivare a soluzioni, senza creare problemi, trovando insieme all’esecutivo tutte le procedure e le misure che possono aiutare nella copertura economica dove serve». Il governatore, che dovrebbe incontrare domani la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in visita in Emilia-Romagna, e che chiederà in quel colloquio l’«attivazione del fondo di solidarietà Ue», comunque ormai pensa già al problema della ricostruzione. È quello il banco di prova, è quello il suo assillo: «Sono necessarie velocità ed efficacia».
“SULL’EMILIA ROMAGNA CI VUOLE UNITÀ”
Bell’editoriale del vicedirettore Raffaele Marmo sul Quotidiano Nazionale di stamattina. “C’è da augurarsi l’unità di tutte le forze politiche” sulle cose da fare.
«Il decreto «Emilia-Romagna» c’è. Ora c’è da augurarsi che ci sia l’unità di tutte le forze politiche perché il provvedimento diventi legge il prima possibile. Senza bisogno di fiducie, tentennamenti, manovrine e trattative sottobanco. E, ugualmente, c’è da auspicare che il clima di concordia nazionale di fronte alla tragedia che ha colpito un’intera regione si trasferisca nella delicata fase della ricostruzione. Possiamo dire che, a meno di non essere inopinatamente smentiti, le premesse per la condivisione degli impegni e delle responsabilità fino a ora ci sono state e ci sono. La visita della premier Giorgia Meloni nelle martoriate terre del fango, il confronto tempestivo con il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, con i sindaci e con le parti sociali del territorio, la definizione rapida di un provvedimento denso e concordato, ebbene sono fatti che vanno nella direzione giusta e più proficua per le popolazioni colpite. E, del resto, la sostanza è nelle stesse parole dei protagonisti di queste giornate, che hanno segnalato il clima di massima collaborazione istituzionale tra governo, regione e istituzioni locali. Sarebbe, dunque, paradossale che questo spirito unitario non trovasse eco adeguata e sviluppo efficace anche nel passaggio parlamentare del decreto. Ma c’è o ci sarebbe da attendersi che questa impostazione condivisa vada oltre l’emergenza e possa riguardare anche il tempo, inevitabilmente più lungo e complesso, della ripresa. È, d’altra parte, proprio questo il senso del messaggio che la Meloni ha voluto sottolineare nella giornata di ieri. «Confido – ha avvisato non a caso – che il confronto rimarrà costante anche nella seconda fase, quella della ricostruzione. Continueremo a fare questo lavoro insieme». E «un lavoro insieme» è e sarebbe la migliore risposta a chi si è subito rialzato dal fango».
“CI VOGLIONO INVASI GRANDI E PICCOLI, MA NESSUNO LI VUOLE”
Sempre su QN Marcella Cocchi intervista il professor Andrea Rinaldo, uno dei massimi esperti di idraulica al mondo. Che dice: «Osservando le mappe, il rischio dell’Emilia Romagna era noto. Si ripeteranno eventi estremi. Parlare del taglio degli alberi è surreale».
«Andrea Rinaldo è stato ribattezzato “il Nobel dell’acqua“ perché riceverà in agosto a Stoccolma il più prestigioso premio legato agli studi sulle reti fluviali, sul binomio del secolo piene-siccità, sul rapporto tra le comunità e i corsi d’acqua. Ma poiché lo scienziato è stato anche un azzurro del rugby, proprio dal mondo della palla ovale attinge ora per trasmetterci una lezione comprensibile a tutti.
Scienza e rugby, professore?
«Quello che insegna lo sport di contatto è che il risultato è la logica conseguenza del lavoro impiegato per ottenerlo. Le cose non accadono per caso. L’emergenza climatica ci sovrasta, dobbiamo adattarci. Non facciamo i mercanti di dubbi, definiamo oggi gli interventi caso per caso, laicamente. Io sono nato e cresciuto a Venezia. Nel giro di 100 anni, la mia città sparirà se non cominciamo adesso a risolvere i problemi. Mai sentito parlare della Commissione De Marchi?»
Era il 1966, vero?
«Quella Commissione sulla fragilità idraulica e geologica concluse che era necessario costruire alcuni grandi invasi. Ma non sono mai stati fatti. Attenzione, perché spesso sulle materie idrauliche colpa e castigo non coincidono».
Prima che le due alluvioni devastassero l’Emilia-Romagna, l’allarme era la carenza di acqua. Poi altro che “nera che non si vedeva da una vita intera“, come cantava De Andrè... Si piangono morti, si contano danni miliardari. Una tragedia peggiore del terremoto...
«In America chiamano gli eventi estremi “i tre pugni“: la siccità, i fuochi e le piene. A noi sono mancati gli incendi, per fortuna, ma la realtà è che piene e siccità sono legati dal clima che cambia. E la causa del disastro in Emilia-Romagna è perfino banale: è caduta un’ira di dio di pioggia».
Accadrà ancora?
«Quello che viene chiamato, banalizzandolo, il cambio climatico prevede la legge fisica che un grado in più di temperatura dell’aria significa dal 6 al 7% di vapore acqueo che l’atmosfera può trattenere. C’è più acqua: dove volete che vada? Cadrà più intensamente, in modo più concentrato. E si creeranno “meteore“ che hanno una dimensione in genere coincidente con quella critica per i bacini né troppo grandi né troppo piccoli, proprio come in Emilia-Romagna».
Il rischio è stato sottovalutato?
«Osservando le mappe del rischio di piena, l’Emilia-Romagna era grande come una casa in quelle dell’Ispra, per esempio. Era arcinoto che sarebbe successo. Gente che sa leggere e scrivere in Italia, sia negli apparati tecnici dello Stato e delle Regioni sia nelle università, ce n’è molta. Non è stato un evento sottovalutato per incompetenza, ma un problema tanto impattante per gli impatti sociali ed economici va discusso e pianificato per tempo. Grandi siccità e piene sono effetto di quello che abbiamo fatto al clima. È colpa nostra».
Cosa possiamo agire ora?
«Mitigazione o adattamento. Il primo aspetto significa ridurre la temperatura media dell’atmosfera e questo non lo può fare una regione, non lo può fare la sola Italia, è un tema mondiale. L’adattamento invece spetta a noi. Occorre trovare sistemi che riducano l’impatto delle piene».
Quali sono?
«L’unica soluzione può essere costruire invasi grandi e piccoli, le famose soluzioni che nessuno vuole nel proprio giardino, ma i no preconcetti sono da stupidi».
Che dire della pulizia dei fiumi o della salvaguardia di alberi e “letti“ dei corsi d’acqua?
«Se cadono 500 millimetri di pioggia in 36 ore, c’è bisogno di bacini giganteschi e con una eterogeneità spaziale variegata ed estremamente complessa. È surreale che si parli del taglio degli alberi quando si verifica un evento estremo come questo. A Venezia è quello che si chiama un brusco (brufolo, ndr) sulla gobba. Tagliare gli alberi è sbagliato, per carità, stanno bene dove sono i fiumi, ma l’ostruzione provocata da vegetazione esiste solo se la corrente scorre con grande forza. L’eccesso di acqua in Emilia-Romagna non si gestisce “grattando“ i fiumi. Ho visto la portata dell’Idice, mi ha sconvolto: il fiume, nel tempo, si è trovato un’altra strada».
Arrivano dal governo i primi fondi, ristori e moratorie. Perché si interviene al massimo per riparare un’emergenza?
«Abbiamo sfregiato il territorio... Sì, ma “sfregiare“ ha un significato complesso, la cementificazione è in parte corollario di una sistema di vita in cui gli uomini vivono meglio, anche nelle campagne. Quello che non può aspettare invece è una nuova coscienza collettiva sul clima».
Dal Polesine al Vajont a Sarno, l’Italia non ha imparato nulla?
«Dal 1951 a oggi la situazione è completamente diversa. Prendiamo l’esempio del Po: la capacità di evitare disastri in prossimità del grande fiume è migliorata, ma quel che sta cambiando è la macchina sotto i piedi, non si può mettere un tappo alla pioggia. Questo è un tema serissimo. Negli ultimi 8 anni i termometri che registrano la temperatura nel mondo ci dicono che non è mai stato così caldo. Verrà il dubbio che Greta abbia ragione oppure no? Non possiamo liquidarla».
I corsi d’acqua, alla base storicamente delle grandi civiltà, dalla Mesopotamia in poi, saranno una delle piaghe del futuro?
«Non bisogna tornare all’Arcadia. Ho un approccio popperiano rispetto alla società: non siamo mai stati così bene. Ma dobbiamo cambiare mentalità, in Italia abbiamo una delle comunità idrologiche migliori al mondo. Sfruttiamola».
DOPO BELGOROD IL CREMLINO PROVA A REAGIRE
Il Cremlino annuncia: «Abbiamo ucciso 70 terroristi sul nostro territorio». Ma gli incursori replicano: «Falso, avanti per la liberazione della Russia». Vladimir Putin ammette: sono momenti difficili. Volodymyr Zelensky al fronte. Marta Serafini per il Corriere.
«Un’operazione che, al di là del suo effettivo risultato, avrebbe gettato il Cremlino nel panico. È così che gli analisti dell’Isw, il think tank di intelligence statunitense, descrivono l’incursione nella regione di Belgorod di milizie anti Putin iniziata lunedì e finita ieri. Restano però molti punti ancora non chiari su quello che sembra essere il più grande attacco transfrontaliero condotto da territorio ucraino verso quello russo. Il bilancio, secondo il governatore della regione Vyacheslav Gladkov, è di un civile ucciso nel villaggio di confine di Kozinka e di 13 feriti, tra cui la stessa moglie del governatore. Gladkov ha avvertito gli sfollati di non tornare per il momento. E ha aggiunto che le difese aeree hanno abbattuto i droni durante la notte, danneggiando gli edifici. Secondo le autorità locali, nel distretto di Grayvoronsky sono stati allestiti rifugi temporanei per circa 9.300 persone. Il ministero della Difesa di Mosca, dopo aver dichiarato conclusa l’operazione antiterrorismo, ha parlato di «70 aggressori uccisi» e ha insistito descrivendoli come «ucraini». Gli incursori d’altro canto, in un messaggio su Telegram, hanno smentito i militari russi e hanno annunciato di avere come obiettivo «la completa liberazione della Russia». Nei filmati circolati in rete si vedono uomini in divisa con colori simili a quelli dei soldati ucraini, avanzare in territorio russo a bordo di veicoli blindati MaxxPro, modello che gli Stati Uniti hanno dato in dotazione all’esercito ucraino nei mesi scorsi. Kiev ha negato il coinvolgimento. Tra le file dei due gruppi paramilitari russi che hanno rivendicato l’azione — Legione della Libertà della Russia e Corpo dei Volontari Russi (RVC) — ci sarebbero anche elementi di estrema destra, compreso Aleksandr Skachkov, che il sito investigativo Bellingcat ha identificato come soggetto arrestato dalla Sbu ucraina per aver diffuso il manifesto razzista dell’autore dell’attacco di Christchurch in Nuova Zelanda. «Questi sono patrioti russi che vogliono cambiare il regime politico nel Paese», ha dichiarato la vice ministra della Difesa ucraina Hanna Maliar, mentre i portavoce dei due gruppi spiegavano all’emittente pubblica ucraina Suspilne di star creando «una zona smilitarizzata al confine con la Federazione Russa dalla quale non potranno bombardare l’Ucraina». Dal campo, intanto, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in visita sul fronte di Donetsk ha annunciato la decisione di Kiev di «aumentare significativamente il potenziale della Marina ucraina con la creazione del Corpo della Marina». Una notizia che secondo alcuni osservatori potrebbe preludere a un attacco verso la Crimea. Da Donetsk a Mosca, dove il presidente russo Vladimir Putin, durante una cerimonia per la consegna di onorificenze a personale del settore pubblico, ha ammesso: «La Russia sta passando momenti difficili», aggiungendo che ciò porterà a «un forte consolidamento». E sempre a Mosca è stata estesa fino al 30 di agosto la detenzione del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich. La sua custodia cautelare doveva inizialmente scadere la prossima settimana. Gershkovich, 31 anni, è il primo giornalista americano ad essere detenuto in Russia con l’accusa di spionaggio dalla fine della guerra fredda ed è rinchiuso nella famigerata prigione di Lefortovo: rischia fino a 20 anni di carcere se ritenuto colpevole».
L’ITALIA NON PUÒ ADDESTRARE PILOTI PER GLI F-16
La “coalizione dei Jet” nata al G7 avrà la collaborazione dell’Italia. Ma non nell’addestramento dei piloti ucraini sugli F-16. Floriana Bulfon per Repubblica.
«Gli F-16 nei cieli italiani sono stati una meteora: nove anni dall’arrivo del primo esemplare alla riconsegna dell’ultimo. Per avere un termine di paragone, gli F-104 Starfighter sono rimasti in servizio per 41 anni, mentre il primo Tornado è stato consegnato nel 1981 e resterà in linea fino al 2025. Da oltre undici anni nessun pilota dell’Aeronautica militare sale a bordo di un F-16, spesso chiamato Viper, ed è per questo che difficilmente il nostro Paese potrà contribuire all’addestramento degli equipaggi ucraini. Giorgia Meloni al G7 di Hiroshima, dove il presidente americano Biden ha dato luce verde alla cessione degli intercettori prodotti dalla Lockheed e acquistati da diverse aviazioni europee, aveva aperto a «un eventuale addestramento di piloti ucraini, una decisione che non abbiamo ancora preso e che valutiamo con gli alleati». «Abbiamo avuto ottimi istruttori ma oggi sono dispersi tra vari comandi e molti sono già in pensione – spiega Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Arma azzurra e consigliere militare di tre presidenti del Consiglio - . Si tratterebbe di ricontattarli, chiedergli se vogliono tornare in servizio, poi fare una procedura di “ri-familiarizzazione” con il mezzo. Solo a quel punto si potrà capire se saranno in grado di essere impiegati nella formazione degli ucraini». Gli F-16 infatti vennero scelti come “tappabuchi” in attesa che fosse completata la messa a punto degli Eurofighter: con un programma di leasing noleggiarono 34 caccia tolti dall’Us Air Force dalla prima linea. Era già previsto nel contratto che avrebbero volato per 45mila ore, con consegne iniziate nel 2003. Per questo nella cabina dei Viper andarono soprattutto veterani, che potevano più facilmente imparare a guidarli in azione senza bisogno di un lungo iter formativo. Militari che adesso sono al culmine della carriera o hanno tolto l’uniforme. Il generale Tricarico ritiene però che richiamare in servizio i nostri equipaggi sarebbe singolare: «Ci sono tante nazioni europee che hanno la stessa visione nel sostegno militare al governo di Kiev e che schierano oggi reparti dotati di F-16: mi sembrerebbe bizzarro ripescare gli istruttori tra gli italiani in pensione quando ci sono centinaia di altri piloti pronti a fare lo stesso lavoro». Un’alternativa sarebbe aprire le porte delle nostre scuole di volo per i futuri piloti ucraini. Kiev infatti dovrà aumentare i ranghi per gestire i jet promessi dalla coalizione occidentale, che finora sembra sostenuta da Olanda, Danimarca, Portogallo, Polonia, Romania e Norvegia, tutti dotati di F-16. L’Italia ha una lunga tradizione nel settore, che conta la base di Galatina (Lecce) e l’International Flight Training School creata a Decimomannu (Cagliari) anche per addestrare al combattimento allievi stranieri. Ma Tricarico, che presiede il think tank di studi strategici Fondazione Icsa, pensa che il nostro Paese possa dare un altro «contributo di valore» alla ricostruzione dell’aviazione ucraina: «Possiamo aiutarli ad aggiornare la dottrina dell’impiego delle forze aeree. È il primo anello della catena, che deve precedere la formazione dei piloti sui nuovi mezzi: gli ucraini vengono dalla tradizione sovietica, invece devono acquisire una nuova consapevolezza del modo di impiegare l’aviazione nel conflitto in corso, definendo procedure e tattiche da adottare per ogni tipo di aereo. Noi italiani abbiamo una reale esperienza operativa da condividere perché abbiamo diretto tutta la campagna aerea della Nato sul Kosovo. Su questo sarebbe necessario e utile un tavolo di confronto con gli ucraini». Quanto agli F-16, alla fine del contratto di noleggio in Italia rimase una scorta di pezzi di ricambio inutilizzati: nel 2016 venne deciso di donarla all’Egitto ma il Parlamento bloccò il trasferimento per protesta contro la mancata collaborazione de il Cairo nelle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni. Da allora non se ne è più parlato: se fossero ancora disponibili, potrebbero essere molto più utili all’Ucraina».
ITALIA SPIAZZATA DAGLI USA ANTI-CINESI
Mario Giro sul Domani interviene sul dopo G7 e sostiene: l’Italia è spiazzata dall’atteggiamento degli Usa nei confronti della Cina.
«Le conclusioni del G7 di Hiroshima mettono l’Italia in una situazione delicata. Il nostro governo aveva sperato in una versione soft ma le decisioni (e il conseguente comunicato) sui rapporti con la Cina hanno fatto irritare Pechino che ha convocato l’ambasciatore giapponese per protestare, aumentando le proprie sanzioni sui microprocessori nei confronti di imprese americane. Malgrado il tentativo del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan di derubricare il decoupling (disaccoppiamento delle economie) in derisking, le relazioni tra Usa e Cina si stanno avvelenando, mettendo Roma in una posizione complicata proprio alla vigilia della decisione sul rinnovo del memorandum sulla Via della Seta firmato nel 2019. Com’è noto, al tempo del Conte-1 l’Italia aveva aderito alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese, mettendo a disposizione Trieste con il suo porto ed alcune altre infrastrutture utili per il commercio della Cina. A quest’ultima il porto greco del Pireo non basta più, soprattutto in fase di ripresa dopo il calo dovuto alle restrizioni da Covid19. Il commercio via mare – che rappresenta oltre il 90% di quello globale - non è ancora tornato alle cifre pre-pandemia (permangono interminabili attese per scaricare le merci), complice la guerra scatenata dalla Russia che ha interrotto i corridoi via terra. Pechino vuole che la globalizzazione prosegua e che l’Europa non si tiri indietro. Dal canto loro gli Stati Uniti insistono sul friendshoring: si commerci soltanto tra paesi amici o like-minded, quelli che la pensano allo stesso modo. Washington è consapevole che non sarà possibile tagliare completamente i ponti con Pechino ma vuole ridurli al minimo. Su questo terreno deve trovare un accordo in particolare con la Germania, e secondariamente con l’Italia che ha una manifattura subfornitrice di quella tedesca. In altre parole: siamo legati all’economia industriale di Berlino la quale non vuole diminuire i propri affari con la Cina. Ciò rende la questione del memorandum sulla BRI decisiva. Prima di Hiroshima, il governo italiano aveva sperato in una risoluzione morbida e in questo senso era stato chiesto agli americani se fosse possibile rimandare la decisione. La presidente Meloni aveva anche insistito sulle relazioni tra l’Occidente e il Sud Globale, per motivi migratori trovandosi tuttavia in linea con le posizioni cinesi. L’idea era che non si alzassero troppo i toni ma l’attesa è stata delusa: nessuno dei due protagonisti sembra voler transigere. Roma dovrà dare prova di molta immaginazione per risolvere l’accordo (come vuole Washington) senza rovinare del tutto le relazioni con Pechino, tendendo conto dell’iniziativa di pace cinese sul conflitto ucraino. Se il G7 pare respingerla, Palazzo Chigi è sensibile alla posizione di papa Francesco che sostiene ogni azione per la pace e che ha appena nominato il cardinale Matteo Zuppi come proprio inviato per la pace».
LA GUERRA CONTINUA E IL DEBITO AMERICANO
L’economista Usa Jeffrey D. Sachs mette in relazione il debito pubblico americano con le spese del complesso militar-industriale. Articolo sul Fatto.
«Nel 2000 il debito pubblico degli Stati Uniti era di 3.500 miliardi di dollari, pari al 35% del Pil. Nel 2022 aveva raggiunto 24mila miliardi di dollari, ossia il 95% del Pil. Questo aumento vertiginoso del debito pubblico statunitense è alla base dell’attuale crisi politica in corso a Washington sul rifinanziamento del bilancio federale. Sia i Repubblicani che i Democratici, però, sembrano non vedere quale sia la vera soluzione al problema: fermare le guerre americane e ridurre le spese militari. Supponiamo che il debito pubblico Usa fosse ancora quel modesto 35% del Pil che era nel 2000, oggi sarebbe pari a 9 mila miliardi di dollari, contro i 24mila miliardi attuali. Ora, per quali ragioni il governo degli Stati Uniti ha contratto in questi anni un debito di 15mila miliardi di dollari? La risposta principale è che Washington dipende dalla guerra e dalle spese militari. Secondo il Watson Institute della Brown University, il costo delle guerre statunitensi dall’anno fiscale 2001 all’anno fiscale 2022 ammonta a ben 8mila miliardi di dollari, ossia più della metà dei 15mila miliardi di debito accumulato. Gli altri 7mila miliardi derivano in egual misura dai disavanzi di bilancio causati dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pandemia di Covid-19. Per superare la crisi del debito, l’America deve smettere di alimentare il suo complesso militare-industriale, che però è anche la lobby più potente di Washington. Come disse il presidente Dwight D. Eisenhower il 17 gennaio 1961: “Nei gabinetti di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, voluta o non voluta, da parte del complesso militare-industriale. Esiste e persisterà il rischio della disastrosa ascesa di un potere mal riposto”. In effetti, dal 2000 a oggi, il complesso militare-industriale ha portato gli Stati Uniti a infilarsi in guerre disastrose come l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia e da ultimo l’Ucraina. Il complesso militare-industriale ha adottato da tempo una strategia politica vincente, assicurando che il budget militare arrivi a interessare ogni collegio elettorale. L’ufficio studi del Congresso Usa ha recentemente certificato che “la spesa per la Difesa incide sui distretti di tutti i membri del Congresso, attraverso le attività, tra le altre, di pagamento di salari o pensioni per militari ed ex militari, gli effetti economici e ambientali delle basi militari o la fabbricazione di sistemi o parti d’arma”. Solo un deputato molto coraggioso potrebbe votare oggi contro la lobby dell’industria militare, e il coraggio non è certo una caratteristica del Congresso. La spesa militare attuale degli Stati Uniti vale circa 900 miliardi di dollari all’anno, ossia circa il 40% del totale mondiale e superiore a quella dei 10 Paesi immediatamente successivi nella classifica messi insieme. Nel 2022 la spesa militare degli Stati Uniti era il triplo di quella della Cina. Secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, per il periodo 2024-2033 la spesa militare americana sarà di ben 10.300 miliardi di dollari, sulla base delle stime attuali. Un quarto o più di questa cifra potrebbe essere evitata ponendo fine alle guerre per scelta, chiudendo molte delle circa 800 basi militari americane nel mondo e negoziando nuovi accordi di controllo degli armamenti con Cina e Russia. Tuttavia, invece di cercare la pace con la diplomazia e la responsabilità fiscale, il complesso militare-industriale Usa continua sistematicamente a spaventare il popolo americano con una rappresentazione da fumetto dei “cattivi” da fermare a ogni costo. Nella lista dei cattivi successiva all’anno 2000 troviamo nell’ordine i Talebani, Saddam Hussein, Bashar al-Assad, Muhammar Gheddafi, Vladimir Putin e (aggiunto più di recente) Xi Jinping. Quello che il complesso continua incessantemente a ripetere è che la guerra è necessaria per la sopravvivenza dell’America. Una politica estera orientata alla pace negli Stati Uniti di oggi sarebbe di certo osteggiata strenuamente dalla lobby militare-industriale americana, ma non dall’opinione pubblica. Secondo i sondaggi, infatti, una significativa maggioranza degli americani vorrebbe già un minore coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari di altri Paesi e un minore dispiegamento di truppe americane all’estero. Minore, non maggiore. Nello specifico del conflitto tra Russia e Ucraina, la maggioranza degli americani chiede un coinvolgimento minore degli Usa: il 52%, molti di più del 26% che chiede invece di incrementare l’impegno. Questo è il motivo per cui né Biden né altri presidenti recenti hanno osato chiedere al Congresso un aumento delle tasse per finanziare le guerre americane. Perché la risposta dell’opinione pubblica sarebbe un sonoro “no”. Le conseguenze di queste “guerre per scelta” sono state terribili per l’America, ma certamente peggio per i Paesi che Washington pretendeva di salvare. Come ha detto Henry Kissinger: “Essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale”. L’Afghanistan è stato la causa dell’America dal 2001 al 2021, finché gli Usa non l’hanno lasciato distrutto, in bancarotta e affamato. Nell’abbraccio dell’America adesso c’è l’Ucraina, e probabilmente finirà allo stesso modo: guerra continua, morte e distruzione. Si potrebbe prudentemente ma allo stesso tempo profondamente tagliare il bilancio militare americano se gli Stati Uniti sostituissero le loro guerre per scelta e la corsa agli armamenti che esse implicano con una vera diplomazia e accordi di non proliferazione. Se i presidenti e i membri del Congresso avessero ascoltato gli avvertimenti di alti diplomatici americani come William Burns, ambasciatore americano in Russia nel 2008 e ora direttore della Cia, Washington avrebbe protetto la sicurezza dell’Ucraina con l’azione diplomatica, garantendo alla Russia che non avrebbe esteso il Patto Atlantico a Kiev se anche Mosca avesse frenato ogni sua mira sul Paese. Ma l’espansione incessante della Nato è una delle bandiere preferite del complesso militare-industriale americano, perché i nuovi membri dell’Alleanza sono i principali clienti degli armamenti statunitensi. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno addirittura abbandonato unilateralmente accordi chiave per il controllo degli armamenti. Nel 2002 sono usciti unilateralmente dal Trattato sui missili anti-balistici, e quanto al nucleare, invece di promuovere il disarmo come tutte le potenze nucleari sono tenute a fare ai sensi dell’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare, il complesso militare-industriale ha venduto al Congresso piani per spendere oltre 600 miliardi di dollari entro il 2030 per “modernizzare” l’arsenale nucleare statunitense. Adesso il complesso militare-industriale statunitense ha cominciato a parlare della prospettiva di una guerra con la Cina, per Taiwan. I tamburi di guerra su Pechino alimentano la crescita del budget militare, ma anche la guerra con la Cina sarebbe facilmente evitabile se gli Stati Uniti si attenessero alla politica di una sola Cina, principio di base delle relazioni tra Stati Uniti e Cina degli ultimi decenni. Inoltre una guerra del genere dovrebbe essere impensabile non solo perché manderebbe in bancarotta gli Stati Uniti, ma perché potrebbe rappresentare la fine al mondo pura e semplice. Certo, la spesa militare non è l’unico scoglio del dibattito sul bilancio in corso negli Stati Uniti: esiste il tema dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento dei costi sanitari, a cui si aggiungono i problemi fiscali. Secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, il debito raggiungerà il 185% del Pil Usa entro il 2052, se le politiche attuali rimarranno invariate. Bisognerebbe limitare i costi della sanità e aumentare le tasse sui ricchi. Ma è certo che affrontare la lobby militare-industriale è il primo passo per mettere in ordine il bilancio americano: il passo fondamentale per salvare gli Stati Uniti, e forse il mondo, dalla politica perversa di un’America guidata dalle lobby».
ANTIMAFIA, ELETTA CHIARA COLOSIMO
La commissione parlamentare Antimafia elegge presidente Chiara Colosimo. Pd, 5 Stelle e sinistra lasciano l’Aula. La deputata di FdI chiarisce: «Nessuna amicizia con Ciavardini». Libera denuncia: «Ombre e ambiguità». Virginia Piccolillo per il Corriere.
«Prima le accuse, poi l’appello a cambiar candidato, quindi l’uscita dall’aula al momento del voto di Pd, Cinque Stelle e Alleanza verdi e sinistra. E così Chiara Colosimo, deputata di FdI, è diventata presidente della commissione antimafia soltanto con i voti del centrodestra. Sono stati 29 i sì (era assente per la maggioranza Valeria Sudano), un’astensione, mentre 4 voti sono andati a Dafne Musolino (Autonomie). L’esponente di FdI è finita nel mirino dell’opposizione per una foto che la ritraeva con l’ex Nar, condannato per la strage di Bologna, Luigi Ciavardini. Un’ombra secondo Salvatore Borsellino e altri familiari di vittime di mafia che chiedevano un candidato senza sospetti e per l’associazione Libera che ha parlato di «ambiguità e ombre capaci di minare la credibilità e la fiducia assoluta di cui deve godere l’Antimafia». Un’accusa dalla quale Colosimo, incontrando i cronisti dopo l’elezione che ha dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si è difesa così: «Io non ho amicizie. Ho espletato nelle funzioni di consigliere regionale quello che era un mio dovere: incontrare anche detenuti o ex detenuti». Quindi ha ribadito quanto aveva anticipato al Corriere : «Conosco Ciavardini come lo conoscono altri eletti di altre forze politiche perché è in un’associazione che si occupa, come da articolo 27 della Costituzione, di recupero dei detenuti». Ma gli attacchi delle opposizioni sono continuati. Anche se Pd e M5S hanno deciso di rientrare in commissione per l’elezione di vicepresidenti e segretari. E per questo sono finiti sotto il tiro del gruppo di Autonomie che li ha accusati di incoerenza per aver ottenuto l’elezione di un vicepresidente e di un segretario: rispettivamente il Cinque Stelle Federico Cafiero De Raho (13 voti) e il dem Anthony Barbagallo (13 voti). «Si sono spartiti gli incarichi» protestano dal gruppo delle Autonomie. L’altro vicepresidente è Mauro D’Attis di FI (29 voti) mentre il segretario di maggioranza è Antonio Iannone di FdI (30 voti). Raffaella Paita (Iv) e Giuseppe Castiglione (Az), rimasti in aula al momento del voto, hanno bacchettato i colleghi di opposizione: «Non si esce dalle aule del Parlamento, men che meno se si tratta dell’Antimafia». Trentasette anni, un esordio in politica al liceo, con le formazioni di Azione Studentesca, in sintonia con Giorgia Meloni dai tempi della militanza alla sede della Garbatella, Chiara Colosimo è stata eletta nel 2010 nel listino di Renata Polverini. E l’ha seguita, dalla scissione, in Fratelli d’Italia. «Nella mia vita hanno sempre parlato i fatti e le battaglie che fin qui ho condotto», ha rivendicato all’uscita da San Macuto la neopresidente. Lei dopo l’elezione ha citato Piersanti Mattarella e ha dichiarato: «La guerra alla mafia non si è ancora conclusa, visto che la mafia ha cambiato volto ma ancora esiste come dimostra l’arresto di Matteo Messina Denaro». Poi si è rivolta ai familiari delle vittime: «Per il profondo rispetto che devo loro li invito qui: questa è casa loro. Possono venire quando vogliono e indicare le priorità». Secondo Borsellino «correttezza e avrebbe voluto che il nome venisse condiviso. Ma se dimostrerà che le sue frequentazioni non incidono sul suo operato potrò pensare di andare in quella che in questo momento non considero casa mia». Lei comunque promette che si indagherà «su tutto quello su cui bisogna indagare» a cominciare «dalle infiltrazioni negli appalti e nel Pnrr».
A PALERMO PER FALCONE E BORSELLINO
Cortei studenteschi e cerimonia ufficiale. La Questura di Palermo vieta alla sfilata organizzata dalle associazioni studentesche e alla Cgil di raggiungere il palco ufficiale. Il presidente Sergio Mattarella ricorda le parole di Falcone: “La mafia è un cancro ma non è invincibile”. Alessia Candito per Repubblica.
«Botte, spintoni, urla. Una ragazza che porta le parole di Paolo Borsellino sulla schiena, sporche di terra. Vicino a lei, una giovanissima piange. «Ma cosa fate, è minorenne», urla a un poliziotto che strattona un ragazzino. Un altro scappa via da un agente che lo spintona. Siamo a Palermo, è il 23 maggio, in fondo alla strada campeggiano i volti sorridenti dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma lì a studenti, attivisti e sindacalisti della Cgil è stato impedito di arrivare. O almeno, la polizia in assetto antisommossa ci ha provato. Obiettivo, dichiarato con tanto di ordinanza: «Non arrecare disturbo o alcuna altra turbativa alla cerimonia ufficiale», con autorità schierate sul palco. «Purtroppo la politica è entrata anche in questo momento sacro per noi palermitani. Vedere amici bloccati dagli agenti solo perché protestano è un fallimento per tutti — dice Filippo Bonfiglio, che “da cittadino” non ha mai mancato un anniversario — C’è chi predica unità nella lotta antimafiosa ma poi non accetta dissenso». La vigilia è stata segnata dalle critiche che Alfredo Morvillo ha rivolto a Maria Falcone, per aver accettato in affidamento un palazzo dal sindaco Roberto Lagalla, che adesso la accompagna sul palco e un anno fa lei attaccava per «gli sponsor politici non adamantini», Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, entrambi condannati per reati di mafia. Restano giù dal palco, tra la gente, il procuratore Antimafia Giovanni Melillo e il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. Il corteo di studenti, associazioni e Cgil è però tagliato in due da un cordone di agenti. In via Notarbartolo ci sono sempre state le famiglie, le scuole, la Palermo che si ritrova nella battaglia contro quello che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito «il cancro mafioso». Ieri c’era paura, indignazione. Il palco non è poi così lontano dall’ultimo cordone che blocca sindacalisti e ragazzi, ma sembra quasi a distanza siderale. «Questo è il momento più bello della giornata, sono con la parte migliore della città», esordisce Maria Falcone, che «abbraccia » idealmente gli studenti e ricorda la tragedia dell’alluvione in Emilia-Romagna. «Palermo è cambiata dal giorno della strage — dice — Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro i giovani hanno esultato: si vede che la scuola ha avuto un grande ruolo». Ma molti degli studenti, sono bloccati dall’altra parte del cordone. E sono arrabbiati, stupiti. Mattarella ha definito ieri la mafia «una organizzazione di criminali per nulla invincibile, priva di qualunque onore e dignità». E ha sottolineato: «Nelle istituzioni, nelle scuole, nella società civile, la lotta alle mafie e alla criminalità è divenuta condizione di civiltà, parte irrinunciabile di un’etica condivisa. L’azione di contrasto alle mafie va continuata con impegno e sempre maggiore determinazione». Lungo il corteo di Palermo, dietro uno striscione che recitava, “non siete Stato voi, ma siete stati voi” i ragazzi hanno chiesto verità sulle stragi, hanno reclamato la fine dell’impunità per i responsabili o benefici ari non mafiosi di quella stagione, hanno chiesto diritti — alla casa, al lavoro, allo studio e a scuole e università strutturalmente adeguate, all’ambiente — per togliere ai clan la possibilità di trasformarli in favori. E poi hanno messo il dito nella piaga. «Il sindaco Roberto Lagalla ha detto che le istituzioni devono dare l’esempio. Ma che esempio arriva da lui, che da oltre un anno non ha preso le distanze da Cuffaro e Dell’Utri che l’hanno appoggiato? ». Ed eccolo, forse, il punto di frizione con le cerimonie ufficiali, quello che ha portato, forse per la prima volta nella storia della commemorazione delle stragi, ad una divisione. «Falcone e i martiri delle stragi non sono proprietà di nessuno, sono patrimonio dei cittadini che vogliono il riscatto», sottolinea il segretario regionale Cgil, Alfio Mannino, che ha visto i suoi bloccati e malmenati. «È stata un’offesa al ricordo di Falcone, il tutto per soffocare il grido. “Fuori la mafia dallo Stato”». E neanche i cordoni di polizia sono riusciti a impedirlo. Perché alla fine si sono sciolti e dopo la lunga lista di nomi di vittime, dopo il silenzio, dopo l’applauso, dalla folla in piazza quell’atto d’accusa è arrivato comunque. E sul palco non hanno potuto fare altro che salutare tutti in fretta».
PNRR, LETTERA DI FITTO AI MINISTRI
La lettera del ministro Raffaele Fitto sul Pnrr. Ai soggetti titolari restano solo quattro giorni per indicare gli «investimenti che presentano ritardi e difficoltà». L’obiettivo è inviare alla Commissione Ue la richiesta di revisione alla fine di maggio. La cronaca dal Sole 24 Ore.
«Tutte le proposte di revisione degli obiettivi Pnrr da parte dei singoli ministeri entro oggi, l’invio del nuovo Piano italiano entro la fine di maggio e l’entrata nel vivo del negoziato con la visita semestrale dei tecnici della Commissione europea prevista a metà giugno. Sono strettissimi i tempi dettati dal ministro per il Pnrr Raffaele Fitto nella lettera inviata nei giorni scorsi a tutte le amministrazioni titolari di interventi per definire davvero la ristrutturazione delle milestone e dei target del Piano in base all’articolo 21 del Regolamento sulla Recovery and Resilience Facility. La missiva è arrivata alle amministrazioni tra giovedì e venerdì e ha offerto, quindi, solo tre-quattro giorni lavorativi per confezionare le risposte. I ministeri, in pratica, dovranno «formalizzare l’elenco degli investimenti per i quali emergono ritardi o difficoltà tali da pregiudicare il pieno raggiungimento degli obiettivi e dei traguardi previsti nei tempi e nei modi previsti nel Pnrr». Il lavoro non è semplice e ha creato parecchia agitazione tra i destinatari della comunicazione chiamati a imporre una accelerazione drastica al lavoro di revisione che da mesi è al centro delle discussioni tecniche e politiche. È lo stesso Fitto a ricordare che «a partire dal mese di gennaio, è stato condotto un confronto tecnico tra ciascuna amministrazione responsabile degli interventi e la Struttura di missione Pnrr ai fini dell’istruttoria delle ipotesi di revisione del Piano». Ma è Bruxelles a chiedere di passare in fretta dall’«istruttoria sulle ipotesi» alle proposte concrete, come riconosce tra le righe il ministro quando, con un eufemismo, spiega che «la Commissione europea ha condiviso l’opportunità di accelerare la fase di revisione del Pnrr». Il calendario, del resto, non ammette dubbi: il 31 agosto non può che essere la data entro la quale il nuovo Piano dovrà prendere la sua forma definitiva, non certo l’inizio della trattativa per la sua modifica. Anche perché, come sottolinea più di un tecnico vicino al dossier, è la stessa esperienza della terza rata a confermare che i tempi del negoziato con la Commissione non sono brevi, soprattutto nel caso di una riscrittura profonda del programma. L’affanno sulla tabella di marcia coinvolge ovviamente in prima battuta i 96 obiettivi mancanti nel 2023, a cui sono collegate due rate da 34 miliardi in tutto. Il cronoprogramma prevede entro la fine di giugno il completamento di 27 tra milestone e target, tra cui si fanno notare in particolare gli obiettivi già segnalati come problematici relativi alle stazioni di rifornimento a idrogeno per il trasporto stradale e alle colonnine per la ricarica elettrica delle auto. Ma una montagna colossale da scalare appare all’orizzonte di fine anno, quando le scadenze sono 69 e contemplano tra l’altro il taglio dei tempi di pagamento in tutte le pubbliche amministrazioni, la riduzione della distanza tra la pubblicazione del bando e l’aggiudicazione del contratto negli appalti e l’aggiudicazione di tutti i lavori pubblici per piste ciclabili, metropolitane, filovie, funicolari nelle città metropolitane e per il rinnovo del parco autobus nel trasporto pubblico regionale. In questa manciata di ore, quindi, i ministeri sono chiamati a compilare e integrare «le proposte di revisione secondo il format allegato per le valutazioni della cabina di regia» in programma la settimana prossima, come anticipato sul Sole 24 di ieri. A complicare il lavoro c’è il fatto che il giro di vite sui tempi avviene all’indomani del cambio ai vertici della Struttura di missione a Palazzo Chigi e, soprattutto, delle nomine che hanno investito le principali società controllate dal Tesoro; in un ventaglio che da Rfi a Enel, da Eni a Terna, abbraccia alcuni tra i maggiori attori sulla scena del Pnrr e del RepowerEu. Il cantiere delle proposte di modifica è affollatissimo e spazia dall’avvio della riforma della contabilità allo slittamento dell’obbligo di rientrare nei trenta giorni chiesti dalle direttive comunitarie per i pagamenti della Pa, da alcuni tratti ferroviari agli asili nido. Ma quello che sembra prospettarsi è un intervento più radicale per spostare in avanti il redde rationem e la conseguente richiesta di pagamento della quarta rata: perché a fine giugno, scadenza prevista per quegli obiettivi, la trattativa con la Ue sul nuovo Pnrr italiano sarà appena iniziata».
“ACCOGLIERE CHI BUSSA, LA VITA VUOLE CASA E LAVORO”
Alla 77esima Assemblea generale della Cei l’introduzione del Cardinal Matteo Zuppi tocca tutti i temi di attualità. Nei pdf trovate l’integrale del suo intervento. Dice fra l’altro: “Chiudere la porta a chi bussa è alla fine nella stessa logica di chi non fa spazio alla vita in casa propria”. L’articolo per Avvenire è di Mimmo Muolo.
«Ci sono tutti i temi del momento. E anche le prospettive del Cammino sinodale nell’Introduzione di ieri mattina del cardinale Matteo Zuppi. Per il presidente della Cei è di fatto la prima assemblea generale che lo vede in carica dall’inizio (fu nominato dal Papa nel corso di quella dello scorso anno). E questo è dunque il primo discorso introduttivo. Una buona occasione per fare il punto e invitare a guardare avanti con speranza. L’introduzione si apre con un pensiero di vicinanza alla Romagna alluvionata e alla necessità della pace («la guerra è una pandemia che ci coinvolge tutti»). Nelle parole del porporato anche il grazie dei vescovi al Papa per l’incontro di lunedì e in attesa di quello di domani. Quanto al cammino sinodale, esso è giunto - ha detto Zuppi - al giro di boa («dalla fase narrativa passiamo a quella sapienziale»). Il porporato ha voluto sottolineare il «rinnovato impegno» contro gli abusi sui minori, da affrontare «senza opacità, ingenuità, complicità e giustizialismi». Ha invocato «politiche lungimiranti » per quanto riguarda la famiglia, la natalità, l’accoglienza («accoglienza e natalità non si contrappongono», ha ricordato citando il Papa). Inoltre, sul fronte migratorio, «è triste la società della paura. Chiudere le porte a chi bussa è, alla fine, nella stessa logica di chi non fa spazio alla vita nella propria casa». E ha sottolineato come «la vita per crescere e generare vita, ha bisogno di casa e di lavoro», denunciando la logica del lavoro povero e della precarietà. C’è inoltre bisogno di casa a costi accessibili. La protesta degli studenti è perciò «una spia significativa di un più vasto disagio silenzioso». Sulle riforme istituzionali, «decisivo è il metodo – ha detto il presidente della Cei –. Per cambiare la Costituzione è necessario ritrovare uno spirito costituente, come fu nel Dopoguerra, in cui tutte le parti sentirono la responsabilità comune». Per questo «un primo banco di prova è una legge elettorale adeguata e condivisa». Ricordata anche la lotta alla mafia e la necessità dell’educazione alla legalità. Proprio nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci. Il cardinale Zuppi ha dedicato un pensiero al trentesimo anniversario del discorso di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, ispirato dall’incontro con i genitori del beato Rosario Livatino. «Le mafie – ha sottolineato il presidente della Cei – non sono scomparse oggi, anzi si sono estese al Centro-Nord, dove prosperano largamente anche con metodi e volti in parte mutati». Quindi «c’è bisogno di una coscienza più ampia del pericolo. Dove il tessuto sociale è slabbrato, lo Stato lontano, la gente sola, disperata, povera, la scuola indebolita, c’è terreno di crescita per le mafie. La Chiesa, comunità viva e generosa, resiste alla forza disgregativa. Operiamo per la liberazione dal male e siamo nel cuore dello slancio dell’Italia verso il futuro». Anche per questo fa ben sperare «il desiderio di molti giovani - circa 60mila - di partecipare alla Gmg di Lisbona. Le difficoltà ci sono con il mondo giovanile, come sappiamo; ma le più grandi difficoltà sono la paura e l’impazienza». Più problematica la questione della denatalità. «Secondo alcuni demografi - ha ricordato Zuppi -, siamo un Paese in estinzione. In questo ambito, alcune diocesi italiane hanno segnalato da tempo il problema particolarmente acuto dello spopolamento delle zone interne e del travaso di giovani da sud a nord. Ma è tutto il Paese a soffrire una crisi ». Che fare, dunque? «La questione demografica e tutte le questioni sociali meritano attenzione e politiche lungimiranti. È sbagliato contrapporre o separare valori etici e valori sociali: sono la stessa cultura della vita che sgorga dal Vangelo». In ogni caso, non si può giustificare «la maternità surrogata, che utilizza la donna, spesso povera, per realizzare il desiderio altrui di genitorialità». Quanto alla pace, Zuppi ha notato: «Per noi la pace non è solo un auspicio, ma è la realtà stessa della Chiesa. Siamo il popolo della pace». Occorre continuare a pregare. Nessun accenno alla missione di pace per l’Ucraina, per tutelare la comprensibile riservatezza sul punto. Ma «chiedere pace per questa nazione non è evitare di schierarsi». Zuppi ha fatto anche un bilancio del cammino sinodale, non nascondendo le difficoltà incontrate. Ma soprattutto, ha esortato a una fede che deve diventare cultura (pena l’irrilevanza) e ricordato che, «nel decisivo impegno di incontrare tutti, appare essenziale ripensare l’annuncio cristiano, a cominciare dalle proposte della catechesi, dei sacramenti, della pastorale dei ragazzi, l’ambito della formazione, da quella iniziale dei seminaristi a quella permanente dei presbiteri, nonché dei laici in generale. Facendo intendere che è proprio quest’ultima una delle grandi sfide per il futuro. Anche ai fini di una presenza sempre più missionaria nel Paese».
CATTOLICI E PD
In un commento per Avvenire l’ex parlamentare Giorgio Merlo invita a prendere atto dell’indifferenza del Pd verso l’addio di importanti “fondatori” cattolici.
«Il ritorno della politica e quindi dei partiti nel nostro Paese dopo la stagione populista, non può non contemplare anche la presenza delle tradizionali culture politiche, seppur aggiornate e riviste. È in questa cornice che si colloca il ruolo, la funzione e la stessa “mission” dei cattolici popolari e sociali. Ora, è evidente a quasi tutti che questa cultura non può ridursi a giocare un ruolo puramente ornamentale se non del tutto irrilevante. È sintomatico, al riguardo, quello che sta capitando nel principale partito della sinistra italiana, il Partito democratico, dove il commento di autorevoli esponenti del “nuovo corso” dopo l’abbandono per motivazioni squisitamente politiche di fondatori del partito stesso come Beppe Fioroni, è stato «per uno che se ne va altri 100 ne arrivano». Tesi, questa, rafforzata da altri storici simpatizzanti di quel partito, come Carlo De Benedetti che, dopo il disimpegno dal Pd di molti altri esponenti cattolici popolari e democratici in tutta Italia, si compiace pubblicamente e platealmente per questo esito. Questi elementi, legati alla cronaca quotidiana, ci portano però ad una sola conclusione. Ovvero, la cultura cattolico popolare e sociale non può ridursi ad essere “gentilmente ospitata” o simpaticamente “tollerata” all’interno dei rispettivi partiti di appartenenza. Perché, seppur nel pieno rispetto del pluralismo delle varie opzioni politiche dei cattolici italiani, è indubbio che si tratta di una cultura e di un retroterra ideale che non possono, e non devono, essere relegati a giocare un ruolo del tutto periferico e marginale nell’elaborazione del progetto politico del partito di riferimento. Certo, se ad oggi non ci sono ancora le condizioni politiche, culturali e storiche per dar vita ad un partito popolare di ispirazione cristiana, laico nel metodo ma riconducibile alla tradizione del cattolicesimo politico nel merito, è indubbio però che questo filone ideale continua ad avere un ruolo determinante e decisivo per orientare e condizionare l’intera politica italiana. E questo non solo perché in tutti i tornanti più delicati della storia democratica del nostro Paese l’apporto e il ruolo dei cattolici popolari e democratici è stato addirittura decisivo per affrontare e sciogliere i nodi più delicati e complessi che si affacciavano di volta in volta. Ma anche per la semplice ragione che il radicamento sociale e territoriale di questa cultura nel nostro paese resta un elemento costitutivo della sua stessa identità politica e storica. Altroché “gentilmente ospitati” nei partiti o semplicemente “tollerati”. È arrivato il momento, semmai, per riaffermare le ragioni politico, culturali, sociali e programmatiche dei cattolici popolari, sociali e democratici nell’attuale fase politica italiana. In partiti e movimenti politici dove, lo ripeto, non si viene relegati a militanti e simpatizzanti di serie B. E questo lo dobbiamo fare non solo perché questa cultura politica e questa tradizione storica continuano ad essere straordinariamente attuali e contemporanei, ma anche per un’altra ragione. E cioè, chi continua a rifarsi al “magistero” e alla “lezione” dei grandi leader e statisti del cattolicesimo politico del passato non può, e non deve, tradire quel giacimento di valori, di principi, di coraggio e di coerenza politica, culturale ed istituzionale che li hanno contraddistinti per svariati decenni sulla scena pubblica. Ne va della nostra credibilità, della nostra coerenza e anche, e soprattutto, della nostra serietà».
ROCCELLA: “SONO IO CHE HO FERMATO LA SICUREZZA”
Francesco Ognibene intervista per Avvenire Eugenia Roccella, ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità. Che dice: «Al Salone del Libro, davanti alle contestatrici, ho reagito da vecchia radicale e ho chiesto che le facessero rimanere».
«Quando ha visto il personale di sicurezza del Salone del Libro prepararsi a portar via le ragazze che occupavano lo spazio dove avrebbe dovuto parlare, ha reagito da «vecchia radicale» – come si definisce sorridendo – e gli ha chiesto di lasciarle al loro posto. Dove poi sono rimaste per ore, impedendole di prendere la parola, tra urla e cori. Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, ne ha viste tante, ma è ancora segnata dal fattaccio di sabato. Per quel che significa, anche più che per la vicenda in sé.
Di cosa è segno l’episodio di Torino?
Di una sempre minore libertà di pensiero e di espressione: alcune cose non le puoi più dire, e nemmeno pensare. Nel mio passato, anche recente, ho fatto battaglie molto più accese, ma c’era ancora un confronto possibile. Di fronte alla contestazione fatta da un gruppo relativamente piccolo di persone, sebbene molto dura, mi sarei aspettata che ci fosse una solidarietà unanime, all’insegna del motto volteriano per cui anche se non sono d’accordo con le tue idee resto disposto a battermi perché tu le possa esprimere. Qui invece è stato detto che il dissenso va bene anche quando è censorio. Ma in democrazia la libertà di pensiero e di parola è sacra.
Cosa fa riflettere di più di quel che è accaduto?
Quella di Torino non è stata una semplice contestazione, che avrei capito, tanto che con tutta la gentilezza che mi ha insegnato mia madre ho invitato i rappresentanti del gruppo a salire sul palco, disposta a mettere da parte la presentazione del mio libro per dialogare con loro. Ma non era quello che cercavano: volevano proprio impedirmi di parlare. Non sono sorpresa dalla contestazione: sono sorpresa che a fronte di un atteggiamento così chiaro non si sia avvertito il dovere di prendere le distanze. Sono rimasta tre ore sul palco ad aspettare di poter parlare, ma non c’è stato assolutamente modo di farlo. Hanno continuato a urlare e cantare impedendomi di esprimermi. Questo non è dissenso: è togliere agli altri la libertà di parola. Peraltro, non ero a Torino come ministra ma come autrice di un libro (Una famiglia radicale, edito da Rubbettino, ndr). Al Salone del Libro è stata tolta a un’autrice la libertà di parlare della sua opera.
Perché a suo parere c’è stata una diffusa giustificazione di questo comportamento?
Perché questa è una modalità di azione che alcune espressioni della sinistra radicalizzante evidentemente ritengono normale. A sinistra si sono levate anche voci molto perplesse, se non di sostegno esplicito. Ma la linea espressa dalla segretaria del Pd Elly Schlein è stata all’insegna del rovesciamento della realtà, asserendo che sarei stata io a non tollerare il dissenso... È molto pericoloso cominciare a legittimare atteggiamenti intolleranti e aggressivi, perché poi le cose possono scappare di mano. Si vuole esasperare lo scontro, creare il nemico, e così si evita qualunque forma di dialogo.
Cosa la impressiona di più in questa vicenda?
Che ad attaccare una donna siano state altre donne. Peraltro con me sul palco c’era Annamaria Bernardini De Pace, anche lei con trascorsi radicali, esterrefatta pure più di me. Chi legge il mio libro trova molte battaglie femministe. Ecco, un’aggressione così per me è stata molto dolorosa, difficile da accettare.
E cosa può insegnare quello che è successo?
Ricordo anni brutti in cui si impediva alla gente di parlare, e che hanno generato fenomeni di violenza andata ben oltre il fatto di togliere la parola. Attenzione, perché è sempre iniziato così: tu non puoi parlare. Pensavo che la libertà di espressione ormai fosse un dato ovvio, e che se viene negata tutti reagissero. Invece ho dovuto constatare che è possibile tornare indietro. Sono grata a chi mi ha espresso vicinanza, dal sindaco di Torino Stefano Lo Russo a Matteo Renzi, a Luciano Violante, ma resta la ferita di un travisamento dei fatti per cui io sarei andata “a provocare” e sarei allergica al dissenso. Sono rimasta molto sorpresa da queste affermazioni, del tutto infondate.
Da dove nasce la delegittimazione di chi la pensa diversamente?
Dall’intolleranza verso un pensiero differente, non omologato. Per quel che mi riguarda, nasce dal fatto che sono diversa da come pensano che sia, o vorrebbero che fossi. La “cattolica di destra” dev’essere moralista, dura, cattiva, reazionaria. Una caricatura. In realtà rappresento una storia “irregolare”, del tutto diversa, che evidentemente compromette il tipo di scontro che si vuole rappresentare e mettere in campo. Mi vorrebbero criminalizzare per rendermi degna di odio.
Le viene rimproverata ancora la dichiarazione nella quale a chi le chiedeva se l’aborto fa parte delle «libertà delle donne» rispose «purtroppo sì»...
Ho sempre detto che l’aborto è una grande contraddizione per la donna, perché è una scelta libera ma è anche una ferita. Di questo contrasto drammatico il femminismo storico è sempre stato molto consapevole. Ci sono centinaia di citazioni che lo attestano. Mi pare che il mio pensiero in materia sia chiaro. Chi le impediva di parlare si diceva favorevole alla maternità surrogata, proposta nelle stesse ore a Milano in un contesto fieristico, come ha documentato Avvenire. A chi protestava contro il controllo sul corpo femminile ho detto di essere d’accordo con loro ma oggi la vera battaglia è sull’uso del corpo femminile che si esercita nella surrogazione di maternità, nella compravendita di gameti, nell’acquisto di decine di ovociti da ragazze pagate per produrne più che possono per soddisfare il mercato. A Torino ho chiesto se volessero lottare con me contro l’utero in affitto, ma sono stata sommersa dalle urla.
Michela Murgia l’ha accusata di aver fatto provvedimenti contro le donne.
Ma non ho fatto proprio nessun provvedimento! La proposta di legge per fermare la maternità surrogata, se è a questa che allude, è di iniziativa parlamentare. Ho espresso opinioni, certo, in linea con molte voci del femminismo. Spero di poterlo fare.
Cosa propone a chi l’ha contestata?
Di leggere il mio libro: si accorgerebbero che dentro c’è una persona, con una storia, nel mio caso piuttosto anomala, comunque non incasellabile nella figurina del nemico.
Da cattolica impegnata in politica, che lezione ricava da questa vicenda?
Che tocca a noi rispondere all’appello a suo tempo rivolto da Pasolini ai radicali: essere portatori di una visione alternativa a quella prevalente e propagandata, sulla vita, le relazioni, il senso dell’umano. Sono convinta che oggi spetti ai cattolici alzare questa bandiera».
PENA DI MORTE, I DATI DI AMNESTY
Veniamo alle altre notizie dall’estero. Pieremilio Sammarco per Libero riferisce dei dati forniti da Amnesty international.
«Nella Bibbia è scritto che «colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte», legittimando da secoli la pena capitale. In questi giorni è stato pubblicato da Amnesty International un dettagliato rapporto sulla pena di morte nel mondo. Il documento riporta interessanti dati e statistiche riferiti all’anno 2022 per tutti i Paesi del globo. Vi sono dati sulle condanne inflitte dalle corti e sulle effettive esecuzioni delle condanne a morte. Tuttavia, molti Paesi non rendono pubbliche le informazioni sulla pena capitale, classificandole come segreto di stato. Ad esempio, la Cina, il Vietnam e la Corea del Nord non pubblicano i dati, ma dai pochi disponibili, si stima che avvengano migliaia di condanne a morte ed esecuzioni ogni anno. Comunque, dai numeri ufficiali, il totale delle sen tenze di condanne a morte accertate nel 2022 è di poco più di 2mila. Nella classifica dei dati raccolti, il primato va all’Egitto con 538 sentenze capitali, poi vi è il Bangladesh con poco meno di 200, e l’India con 165; gli Stati Uniti d’America registrano 21 condanne a morte. La condanna alla pena capitale non è solo comminata per i reati di omicidio, ma anche per il traffico di droga (in molti Paesi arabi e dell’Oriente), la corruzione (in Cina, Vietnam e Corea del Nord), il sequestro di persona (Arabia Saudita e Iran), la violenza sessuale (Arabia Saudita, Egitto, India, Iran, Pakistan), fino all’apostasia (Libia). Quanto alle sentenze eseguite, il 2022 vede sempre al primo posto la Cina con una stima di circa 10mila esecuzioni, 1.000 per l’Iran, 196 per l’Arabia Saudita, 24 per l’Egitto e 18 per gli Stati Uniti d’America. In Europa, solo la Bielorussia ha eseguito una sentenza di condanna a morte con la fucilazione di un omicida. I metodi di esecuzione della pena capitale sono svariati: la decapitazione (Arabia Saudita), l’impiccagione (Bangladesh, Egitto, Giappone, Iran, Singapore), l’iniezione letale (Stati Uniti d’America, Vietnam), la fucilazione (Cina, Corea del Nord, Palestina, Somalia). A livello globale, il dato impressionante è che circa 30mila persone sono detenute nei bracci della morte delle carceri del mondo in attesa dell’esecuzione della pena. E tra essi, non è escluso che vi siano anche errori giudiziari: in America, l’anno scorso due uomini precedentemente giudicati colpevoli e condannati a morte hanno visto ribaltato il verdetto negli stati dell’Illinois e Pennsylvania, dopo che sono stati riscontrati per i loro casi vizi processuali e cattiva condotta dei pubblici ufficiali, portando a 192 il numero totale dei proscioglimenti dal 1973. Si registra anche un numero crescente di paesi abolizionisti: ad esempio, lo Zambia nel 2022 ha commutato 30 condanne a morte con l’ergastolo, mentre lo scorso dicembre, quasi due terzi degli stati che compongono le Nazioni Unite ha adottato una risoluzione biennale che chiedeva agli stati una moratoria sulle esecuzioni, tendente alla completa abolizione della pena di morte. Una iniziativa per letteralmente ridurre il potere di vita e di morte dei giudici».
SUDAN, INTESA FRAGILE SULLA TREGUA
A Gedda nuova intesa sulla guerra civile in Sudan imposta da Usa e sauditi. Si teme però che la tregua finisca come le precedenti. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Qualche sparo in lontananza e sporadici colpi di artiglieria. Ieri, per la prima volta in più di cinque settimane, gli abitanti di Khartoum hanno goduto di una calma relativa grazie all’inizio, lunedì sera, dei sette giorni di tregua che a Gedda i mediatori statunitensi e sauditi hanno, di fatto, imposto ai delegati dell’Esercito sudanese agli ordini del generale Abdel Fattah El Burhan e a quelli delle Forze di supporto rapido (Rsf) capeggiate da Mohammad Hamdan Dagalo, detto Hemeti. Si spera che la tregua consenta di aprire un negoziato, oltre a permettere agli operatori umanitari di distribuire aiuti essenziali a una popolazione esausta. Centinaia di migliaia di sudanesi sono sfollati o profughi nei paesi vicini, in particolare in Ciad e Sud Sudan. Lo scetticismo è forte, perché tutte le altre tregue proclamate dopo il 15 aprile, giorno di inizio dei combattimenti, sono state sistematicamente violate. I mediatori invece si dicono cautamente ottimisti. Stavolta, spiegano, i rappresentanti di El Burhan e di Dagalo hanno firmato l’intesa. Inoltre, per monitorare la tregua, è stato istituito un comitato di controllo composto da 12 membri: tre rappresentanti di ciascuna delle parti in guerra, tre degli Stati Uniti e tre dell'Arabia saudita. Fa la voce grossa il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, che minaccia le sanzioni. «Abbiamo facilitato il cessate il fuoco, se sarà violato lo sapremo e colpiremo i trasgressori responsabili attraverso sanzioni e altri mezzi», ha avvertito in un videomessaggio diffuso dall'ambasciata statunitense a Khartoum. Gli Usa promettono 245 milioni di dollari in aiuti umanitari al Sudan e agli Stati confinanti che stanno sopportando il peso maggiore della crisi dei rifugiati innescata dal conflitto. I segnali sono poco confortanti, nonostante la calma che, almeno ieri, ha regnato per ore nella capitale. Dagalo ha lanciato un messaggio bellicoso poche ore prima che l'accordo a Gedda diventasse effettivo, per avvertire che le sue truppe non si sarebbero ritirate «fino a quando non avremo posto fine a questo colpo di stato». Non sono mancate violazioni della tregua proprio Khartoum e dall'altra parte del Nilo, a Bahri e Omdurman. Lunedì sera dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco, ci sono stati due pesanti attacchi aerei a ovest della capitale. L’aviazione governativa da settimane compie raid contro le Rsf che nonostante l’inferiorità aerea mantengono il controllo di una porzione significativa di Khartoum. Aspri combattimenti si sono svolti lunedì notte intorno all’ospedale militare di Omdurman, con le due parti impegnate a guadagnare terreno prima dell’inizio del cessate il fuoco. Scontri a fuoco sono avvenuti anche ad Al Obeid, nei pressi della base aerea di Wadi Saeedna, usata dalle forze armate regolari, e di un piccolo aeroporto nell’area del Nilo Bianco. Gli operatori umanitari riferiscono di saccheggi nella capitale Khartoum e in tutto il paese, insieme alla mancanza di servizi di base, cure mediche, cibo e acqua. Si fanno inoltre insistenti le accuse di violenze sessuali contro donne a Khartoum e nella regione del Darfur occidentale. I miliziani delle Rsf avrebbero saccheggiato a nord della capitale, il New Alban Hospital, dove hanno aggredito il personale sanitario ed espulso i pazienti, e l'ospedale Ahmed Gasim, a Bahri, che poi hanno trasformato in una stazione militare. Le Rsf sono accusate di aver occupato diversi ospedali e di averli trasformati in basi militari. A Khartoum le strutture sanitarie sono impossibilitate ad operare regolarmente, a causa delle frequenti interruzioni di elettricità e della mancanza d'acqua».
IL COVID TORNA A FAR PAURA IN CINA
Si temono fino a 65 milioni di contagi a settimana. L’impennata di casi è dovuta alla variante Xbb. Per gli esperti, però, la nuova ondata non sovraccaricherà gli ospedali.
«Il Covid-19 torna a far paura in Cina. Il gigante asiatico potrebbe dover fare i conti con una nuova ondata di contagi, dovuti alla diffusione della variante Xbb, particolarmente virulenta. Si parla di 65 milioni di contagi alla settimana entro la fine di giugno. La previsione arriva dal più noto pneumologo cinese, Zhong Nanshan, che in una conferenza a Guangzhou, nel sudest della Cina, ha affrontato il tema posto dalla diffusione della variante Omicron, ritenuto responsabile di un aumento dei contagi in Cina a partire dalla fine di aprile scorso. Xbb potrebbe causare 40 milioni di infezioni alle settimana in Cina dalla fine di maggio, fino a toccare il picco di 65 milioni entro la fine del mese prossimo. L’aumento di contagi «è quello che ci aspettavamo», ha commentato lo pneumologo cinese, citando l’approvazione di due vaccini specifici contro la variante Xbb, più altri «tre o quattro» che saranno approvati presto, ha detto, aggiungendo che «possiamo essere in testa a livello mondiale nella ricerca di vaccini più efficaci». La nuova ondata attesa nelle prossime settimane ripresenta il problema della lotta al virus in Cina dopo la fine delle restrizioni, ritirate in seguito alle proteste antilockdown avvenute in molte città cinesi a fine novembre scorso. Gli esperti cinesi, come lo pneumologo Wang Guangfa del Primo Ospedale dell’Università di Pechino, citato dal tabloid Global Times, ritengono, però, che la nuova ondata non sovraccaricherà il sistema sanitario. Eppure il balzo nei contagi c’è stato: secondo dati del Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Ma-lattie cinese (Cdc) il tasso di contagio da Xbb, una ricombinante di Omicron, è passato dallo 0,2% di metà febbraio al 74,4% di fine aprile, per arrivare all’83,6% di inizio maggio, e la proporzione di infezioni legate alla variante continua a crescere, nel giudizio dell’ente cinese. Il numero di contagi della nuova ondata sarebbe allo stesso livello, se non addirittura lievemente superiore rispetto alle cifre dell’ondata di contagi dello scorso inverno: tra dicembre e gennaio scorsi il virus si diffuse incontrollato in tutta la Cina al termine della quasi triennale politica di tolleranza zero verso il virus, e un’ondata di contagi e di decessi mai quantificati ufficialmente colpì tutta la Cina, gravando sul sistema sanitario e sugli obitori. Il grande interrogativo delle prossime settimane riguarderà l’efficacia dei nuovi vaccini nel contrasto alla diffusione del virus».
RON DESANTIS SI CANDIDA PER LA NOMINATION
Il governatore della Florida sarebbe alla vigilia della candidatura alla nomination nel partito repubblicano. La cronaca del Corriere.
«Dopo settimane di speculazioni sulla data, ieri è arrivata la conferma: il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis annuncerà questa sera la propria candidatura per la nomination del Grand Old Party in vista delle presidenziali del prossimo anno. Due fonti hanno confermato e fornito alcuni dettagli: primo su tutti, il fatto che DeSantis darà ufficialmente il via alla propria corsa in una conversazione trasmessa via Twitter con Elon Musk, proprietario della piattaforma social e molto discusso per alcune sue prese di posizione sulla libertà d’espressione. In novembre l’imprenditore aveva scritto proprio su Twitter che avrebbe sostenuto la candidatura di DeSantis, che ha 44 anni ed è stato riconfermato proprio a novembre alla guida del «Sunshine State». Secondo la Fox , DeSantis ha già preparato tutta la documentazione da inviare alla Commissione elettorale federale e ha organizzato, sempre per oggi, il primo evento di raccolta fondi in vista del quale ha convocato per due giorni a Miami alcuni grossi donatori del partito. Da questa sera, dunque, nel campo repubblicano che già vede sei candidati (e diversi altri prossimi all’annuncio) entrerà l’avversario più scomodo per l’ex presidente Donald Trump. Che, infatti, è tornato all’attacco e ha coniato sul suo social Truth quello che potrebbe essere il nomignolo con cui definirà il governatore per tutta la campagna elettorale: «Il “piccolo” Ron è alto solo un metro e settanta» (Trump sfiora il metro e novanta, ndr ). Una definizione che richiama quel «Joe l’assonnato» utilizzato nel 2020».
RITORNO A BARBIANA
Il giorno esatto dell’anniversario cade il 27 maggio, quando il presidente Sergio Mattarella e il cardinal Matteo Zuppi saranno a Barbiana per ricordare don Lorenzo Milani nel centenario della nascita. Viaggio sulle tracce del priore nel paese del Mugello. Riccardo Michelucci per Avvenire.
«Quasi tutto è rimasto come allora. Nei locali della canonica ci sono ancora i tre tavoli di legno che i ragazzi di don Milani disponevano a ferro di cavallo per trascorrere lunghe giornate di studio insieme al priore. Appese alle pareti ci sono le mappe che disegnarono per illustrare le varie fasi della Seconda guerra mondiale, la conquista del diritto di voto in Italia, le tappe della decolonizzazione in Africa. E poi la lavagna, le sedie spaiate, la piccola biblioteca con i libri dell’epoca, la foto di Gandhi e il Padre nostro scritto trascritto in cinese, il tecnigrafo e l’astrolabio che i ragazzi costruirono con le loro mani. Infine quella tavoletta di legno inchiodata a una porta con la scritta “I care”, divenuta un invito universale a reagire alle ingiustizie, per continuare a credere che il ruolo dell’insegnante possa davvero cambiare il mondo. «D’inverno facevamo lezione dentro la canonica, eravamo tanti e talvolta si stava anche un po’ stretti. La corrente elettrica arrivò soltanto nel 1965. Prima non avevamo altro che candele e lampade a gas. D’estate ci spostavamo all’aperto, sotto al piccolo pergolato davanti all’ingresso». È Guido Carotti, uno dei primi “ragazzi” di Barbiana, ad accompagnarci nei locali della scuola attraverso lo sguardo sicuro della sua infanzia. Nel dicembre 1954, quando Lorenzo Milani si affacciò per la prima volta in questo cumulo di case arroccate sull’Appennino tosco-emiliano, Carotti aveva appena cinque anni e viveva con la sua famiglia a pochi passi dalla canonica. Sarebbe cresciuto con lui restandogli accanto fino alla fine. Durante la grave malattia che lo costrinse a uno stillicidio di cure e ricoveri fu uno dei ragazzi che lo circondarono d’affetto nei suoi ultimi mesi di vita. Oggi, mentre si avvicina il centenario della nascita del priore, ne parla quasi come se il tempo si fosse fermato. «Studiavamo a tempo pieno, i ragazzi più piccoli insieme ai più grandi, e le lezioni finivano solo quando tutti avevano compreso pienamente ciò di cui si stava parlando. Fino ad allora l’ignoranza era stata per noi e per le nostre famiglie un fatto ineludibile. Con lui lavorammo per consentire a tutti di conoscere e di saper usare la parola, acquisendo gli strumenti per diventare cittadini sovrani». Sul prato di fronte alla scuola c’è ancora quel che resta della piccola piscina fatta costruire da don Milani affinché i ragazzi imparassero a nuotare. La definì “il loro mare che profuma di montagna” ed è circondata da un silenzio che sovrasta. Dalla scuola una piccola rampa di scale conduce alle due stanze in cui furono allestite l’officina e la fucina. Ci sono ancora gli attrezzi alle pareti, accanto a una grande foto in bianco e nero dei ragazzi al lavoro. «Qui il priore ci insegnò a lavorare il ferro e il legno. Costruivamo gli oggetti che ci servivano per la scuola ma i più bravi di noi divennero anche un punto di riferimento per la gente di Barbiana. Spesso i contadini, quando rompevano qualche attrezzo per lavorare la terra, si rivolgevano a noi per farselo riparare». Dal piano terreno della canonica si accede anche alla vecchia chiesetta, piccola e spoglia, illuminata da un filo di luce che filtra dalle vetrate colorate di una nicchia. È il mosaico del “Santo scolaro”, un’altra opera realizzata collettivamente dai ragazzi della scuola. Raffigura un piccolo monaco con un libro tra le mani a coprirne il volto, per far sì che chiunque potesse riconoscersi in lui. Da tempo è uno dei simboli di quel modello scolastico rivoluzionario che don Milani realizzò istruendo i figli analfabeti della gente del posto, poche decine di contadini e montanari, fino ad allora costretti a lavorare nei campi per sedici ore al giorno. Ancora oggi Barbiana è una manciata di casolari sparsi, collegati da sentieri sterrati che al tempo del priore erano difficilmente percorribili, al punto che una delle sue prime battaglie lo vide chiedere al comune di Vicchio la costruzione di un ponte per permettere a Luciano, un bambino di otto anni, di arrivare a lezione senza fare un giro lunghissimo all’alba. A distanza di oltre mezzo secolo la canonica annessa alla chiesa, il piccolo cimitero in cui don Milani riposa – dove papa Francesco si recò a pregare il 20 giugno 2017 - restano uno spazio sacro che continua a dare voce a tutti i senza voce del mondo. Un luogo di silenzio, di preghiera e di profonda ispirazione conservato anche grazie al lavoro della Fondazione Don Milani e degli ex ragazzi del priore come Guido Carotti, che negli anni sono riusciti a cristallizzare questo luogo alimentandone la memoria senza farla scadere mai nell’agiografia o nel nostalgismo. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita del priore che cade il 27 maggio prossimo, si è insediato un Comitato nazionale per le celebrazioni di cui fanno parte una quarantina di personalità del mondo ecclesiale, della scuola, delle istituzioni, del sociale. Nella sua Toscana e nel resto d’Italia non si contano le iniziative organizzate per celebrarlo e ricordarlo. Ma come accade spesso in questi casi, c’è chi teme che il suo messaggio anticipatore dei tempi possa essere di nuovo equivocato e travisato. Il giudice Beniamino Deidda, l’ex procuratore generale di Firenze che continuò a insegnare ai ragazzi di don Milani dopo la sua morte, mette in guardia di fronte a questo rischio. «Temo che queste celebrazioni per il centenario non saranno affatto unanimi – ci dice – perché dietro di esse si nasconde un grande equivoco. Don Milani fu un sacerdote, un educatore e un profeta controcorrente che riuscì a saldare il Vangelo alla giustizia sociale. Ma chi lo conobbe da vicino sa che non fu affatto obbediente. E questo non piace a molti. Alcune interpretazioni stanno tentando di attenuare quegli sproni aguzzi presenti nel suo pensiero e rappresentano un tentativo di distorcerlo, magari anche inconsapevolmente. Credo invece che, mai come in questo caso, sia necessario far parlare lui attraverso i suoi scritti, facendo risuonare forte la sua voce. Perché è proprio il modo in cui parlava, scriveva e agiva che segnò la contraddizione col mondo».
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