È stata un'avventura senza ritorno
L'Occidente non vuole fare i conti con vent'anni di errori. Non era una "guerra giusta", mentre si scaricano le colpe sugli afghani. Emergenza profughi per la Ue. Apartheid mondiale dei vaccini
Anche oggi gran parte della Versione è dedicata alla conquista talebana di Kabul. Ieri è stata la giornata della conferenza stampa del nuovo Governo, che si è presentato al mondo in modo rassicurante e “democristiano” (copyright Il Fatto). Sul tema decisivo dei diritti umani e di quelli delle donne il portavoce talebano ha promesso che saranno rispettati “nel contesto della Sharia”. Non è una grande novità per gli islamisti. Già nella Dichiarazione del Cairo del 1990 sui Diritti umani nell’Islam, l’articolo 24 recita: “Tutti i diritti e le libertà enunciate nelle presente Dichiarazione sono soggette alla Shari'ah Islamica”. È evidente che la formula sottende una supremazia assoluta della dottrina della legge islamica su ogni altro principio. Ma che cosa significherà in pratica? Presto per dirlo. L’ambasciatore pachistano a Roma su Repubblica invita l’Occidente a dare credito ad una possibile evoluzione degli “studenti islamici”. Lo scetticismo però è d’obbligo. E certo sui diritti delle donne i riflettori del mondo sono puntati su Kabul. Almeno per ora.
Quanto al doveroso esame di coscienza dell’Occidente, dopo il clamoroso fallimento e la ritirata degli eserciti, la linea ufficiale dei giornaloni è chiara: colpa del presidente Biden, il debole, colpa anche di una lunga occupazione gestita male e soprattutto colpa di alleati afghani corrotti, come nota Quirico. Non si deve invece mettere in discussione la scelta di fondo: “l’avventura senza ritorno”, sempre criticata dai Papi, cioè la scelta della guerra come strumento di esportazione della democrazia. Il ricordo dei parenti dei caduti e delle vittime, anche se doveroso, sembra quasi strumentale in questa chiave.
Invece è legittimo chiedersi: è stata davvero giusta quella guerra? Tanto più che l’obiettivo posto a giustificazione di essa oggi non è stato raggiunto. L’arrabbiatura di Giuliano Ferrara sul Foglio sembra suonare a indiretta ma chiarissima conferma di questo ragionamento. Quanto alla geopolitica, è il Pakistan, garante e sotterraneo alleato dei talebani, il Paese del mondo cui tutti guardano ora per comprendere il nuovo equilibrio che si andrà creando. L’Europa fronteggia la crisi, che è soprattutto umanitaria, e si manifesta pragmatica nei rapporti con i nuovi padroni dell’Afghanistan. Draghi è allineato con Merkel e Macron.
La pandemia tiene ancora banco per il rischio “giallo” di Sicilia e Sardegna, ma si decide venerdì. Ieri sono state fatte 273 mila 333 iniezioni, è un agosto al 50 per cento degli obiettivi di Figliuolo. Venerdì comincia il Meeting di Rimini. Vediamo i titoli dei quotidiani, anche oggi con l’aggiunta di qualche giornale straniero.
LE PRIME PAGINE
La prima uscita pubblica del nuovo governo talebano a Kabul catalizza l’attenzione di tutta la stampa. Il Corriere della Sera: Talebani, promesse e paura. La Stampa ironica: Promesse da talebani. E anche Avvenire non sembra dare grande credito agli studenti islamici: Promesse da Taleban. Il Quotidiano Nazionale racconta le loro proposte: I talebani offrono perdono (e Sharia). Per Il Fatto: I talebani fanno i democristiani. La Repubblica usa una frase di Draghi per fotografare l’emergenza: «Salvare i profughi e le donne». Anche Il Messaggero cita il presidente del Consiglio, quando ricorda le nostre vittime: Draghi: i nostri caduti sono eroi. La crisi umanitaria viene sottolineata dal Domani: Draghi insegue Merkel e Macron per dare un ruolo all’Italia nella crisi. Il Giornale dà grande risalto ad una dichiarazione del leader di Forza Italia: Berlusconi: «Inaccettabile rassegnazione dell’Occidente». Per il Manifesto è iniziato: Il grande gioco. Il Mattino è diretto sulle intenzioni di Bruxelles: La Ue: trattare con i talebani. Il Sole 24 Ore nota che il mondo finanziario non si è fatto troppo impressionare: Borse fredde sulla crisi afghana, pesano di più Covid e inflazione. Libero stuzzica le donne di sinistra: Femministe col burqa. Le Figaro spiega le preoccupazioni della Ue: Afghanistan: l’Europa vuole evitare una ondata migratoria. Le Monde: Vittoria dei talebani: onda d’urto mondiale. L’inglese Guardian assicura: Il Regno Unito accoglie 20 mila profughi che scappano dal regime talebano. Il New York Times illustra la foto dei nuovi capi a Kabul con questo titolo: Un “amico dei terroristi” è ora al potere. La Verità di Maurizio Belpietro insiste con i titoli sulla pandemia: Arriva la minaccia della terza dose.
I TALEBANI PROMETTONO
Prima conferenza stampa a Kabul dei nuovi padroni dell’Afghanistan. La cronaca di Alessandro Farruggia per il Quotidiano Nazionale:
«Vogliono accreditarsi come i talebani dal volto umano. Non più cupi tagliagole e fanatici di una visione arcaica e ultrafondamentalista dell'Islam, ma musulmani conservatori e ragionevoli. Che hanno vinto e che ora perdonano tutti, non cercano vendette, giurano di blindare il Paese ai terroristi stranieri, promettono di stroncare la produzione di droga e giurano che tuteleranno persino, con molti se e molti ma, i diritti delle donne e i mass media. Pare troppo. Ma chissà. Kabul, ancora sotto choc, comincia a respirare, il caos all'aeroporto inizia a risolversi. Gli aerei proseguono con meticolosità il lungo lavoro di trasporto degli occidentali rimasti e dei tanti collaboratori afghani dei vari contingenti. I voli militari partono a volte semivuoti al volte stracarichi: a bordo di un C-17 Globemaster III dell'aeronautica americana c'erano 640 passeggeri, un record per questo tipo di aereo militare che ha una capacità di 188 posti. La foto della stiva di quel velivolo, con la gente stipata, è già diventata il simbolo della fuga da Kabul. Mentre gli occidentali sono impegnati nel ponte aereo, la dirigenza talebana, che ha il disperato bisogno di legittimazione internazionale, lancia l'operazione Taliban 2.0 e manda in conferenza stampa - aperta a stranieri e donne - il portavoce storico, Zabuhullah Mujahid. Che cerca di segnare una cesura rispetto al passato. «Il nostro Paese - dice - è una nazione musulmana, lo era 20 anni fa e lo è adesso. I nostri valori sono gli stessi. Ma per quanto riguarda l'esperienza, la maturità e la visione, vi è naturalmente una grande differenza fra noi ora e 20 anni fa. E c'è una differenza nelle azioni che intraprenderemo». E giù con le promesse, a pioggia. Basterebbe attuarne la metà per farli accettare alla comunità internazionale. «Abbiamo liberato l'Afganistan ed espulso gli stranieri - esordisce -, ma per noi la guerra finisce qui, abbiamo perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro di noi, non ci vendicheremo di nessuno, ci sarà una amnistia per tutti i dipendenti pubblici del vecchio governo, e tutti coloro che hanno lavorato per i contingenti stranieri non saranno puniti». Anzi, continua il portavoce talebano, «non vogliamo che i giovani se ne vadano, sono una risorsa. Prometto che nessuno busserà alle loro porte per chiedere con chi lavoravano. Non vogliamo nemici né esterni né interni, adesso stiamo lavorando per un nuovo governo che sarà inclusivo. Garantiremo la sicurezza delle ambasciate e degli stranieri, e contro le ong nessuna minaccia: potranno continuare a lavorare». Parole nette anche sul terrorismo e la droga. «Non lasceremo che nessuno usi l'Afghanistan per attività che minacciano altri Paesi - dice - e posso assicurare che l'Afghanistan non sarà più Paese di produzione e commercio delle droghe». E le donne? Qui le parole son più sfumate, da interpretare. «Ci impegniamo a rispettare i diritti delle donne - osserva il portavoce - nel contesto normativo stabilito dalla Sharia. Il burqa non sarà obbligatorio, basterà lo hijab. le nostre sorelle potranno lavorare spalla a spalla con gli uomini, svolgere attività in diversi settori e aree diverse, dell'istruzione, della salute e di altre aree, e faranno parte del governo. Potranno andare a scuola e all'università. Non ci sarà alcuna discriminazione». Quanto ai media indipendenti «potranno continuare a lavorare purché rispettino i valori islamici e gli interessi del Paese e potranno anche criticare l'Emirato Islamico, perché le critiche possono aiutare a migliorare». Ma alla domanda di una giornalista afghana che chiede se potrà continuare a lavorare la risposta è stata gelida: «Lo deciderà il nuovo governo, nell'ambito della Sharia». Già. Il diavolo si vedrà nei dettagli dell'applicazione della legge islamica. La strada per i talebani resta tutta in salita ma sono loro, oggi, a dare le carte a Kabul. E la comunità internazionale, sconfitta e ancora comprensibilmente assai diffidente, dovrà in qualche modo tenerne conto».
Che significa diritti alle donne, tenendo conto della Sharia? In realtà le donne afghane si preparano a resistere. La cronaca di Simona Verrazzo sul Messaggero.
«Resistere per non soccombere. È questo lo spirito delle donne in Afghanistan, dopo lo choc e il terrore che hanno accompagnato la presa di Kabul da parte dei talebani, la scorsa domenica, e la proclamazione della rinascita dell'Emirato islamico. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo mostrano l'aeroporto di Kabul e i velivoli sulla pista presi d'assalto da uomini di ogni età. Pochissime le donne riprese nei video amatoriali già diventati pezzi di storia. Ma non è mancata la reazione delle afghane. La prima risposta è arrivata da Zarifa Ghafari, che a soli 27 anni è la sindaca più giovane dell'Afghanistan, nella provincia di Maidan Wardak. In carica dal 2018, appena 24enne, conosce bene la furia dei talebani che le hanno ucciso, lo scorso anno, il padre. «Verranno per le persone come me e mi uccideranno ha dichiarato Sono seduta qui in attesa che arrivino. Non c'è nessuno che aiuti me o la mia famiglia. Sto con loro e mio marito. Non posso lasciarli. E comunque, dove andrei?». Da settimane la giovane donna denuncia il pericolo di ritorsioni. Ora il suo ultimo appello. L'immagine di Zarifa Ghafari è quella di una sindaca impegnata nel proprio ruolo istituzionale, ma anche di ragazza ventenne che ha speranza nel futuro. In una delle foto tratte dal suo profilo Twitter è ritratta seduta su un muretto, mentre dà le spalle al tramonto sulla sua città, Maidan Shahr, con il velo che le copre i capelli e la mascherina anti-Covid in mano. Le donne nel mondo delle istituzioni sono pronte a non rinunciare alle conquiste ottenute in vent' anni. Già lo scorso venerdì l'International Association of Women Judges aveva avvertito il pericolo che avrebbero corso quelle che ricoprono questa carica così come i loro familiari. Si stima che in Afghanistan vi siano circa 270 donne giudici, in tutti i livelli del potere giuridico, e che almeno un centinaio facciano parte dell'Afghan Women Judges Association. Soltanto a gennaio due donne entrambe giudici presso la Corte Suprema sono state uccise in pieno centro a Kabul. Il mondo dell'informazione è tra i settori che più di tutti teme il bavaglio dei talebani in nome del rispetto della religione islamica. Ed è proprio nel giornalismo che le donne afghane hanno saputo maggiormente affermarsi. La prova è arrivata grazie a Tolo TV, la più importante emittente indipendente del Paese. Ieri Beheshta Arghand è andata in onda come tutti i giorni, a volto e collo scoperti, truccata, e ha intervistato Maulvi Abdulhad Hemad, alto funzionario dei talebani, che ha incalzato con domande sul futuro delle donne. Per tutta la giornata le giornaliste di Tolo TV hanno continuato a fare il loro lavoro. La cronista Hasiba Atakpal ha raccontato della situazione a Kabul con un collegamento dal bazar, riferendo che «il numero di donne in città è diminuito dall'ingresso dei talebani». Anche chi non è più in politica non vuole arrendersi ed è pronto ad assumersi le proprie responsabilità, a volte più obiettivamente degli uomini. Hosna Jalil è stata vice-ministro dell'Interno, prima donna a ricoprire una carica così alta all'interno del dicastero. A lei è stata affidata la delega agli Affari femminili e si è contraddistinta per aver visitato 26 dei 34 distretti che compongono l'Afghanistan, cosa mai fatta dai suoi colleghi uomini. Il suo giudizio è lapidario. «Considerando che ci siamo arresi senza alcuna resistenza, direi che non abbiamo fallito militarmente, ma abbiamo fallito politicamente», ha dichiarato. L'istruzione è l'altra grande incognita. Sono di ieri i video in cui si vedono bambine e ragazze andare a scuola con l'hijab e non con il burqa, ma i timori restano. I presidi sono tra le figure più prese di mira dai talebani, soprattutto quelli degli istituti femminili. Se poi sono dirigenti scolastici donne il pericolo è ancora maggiore. Lailuma Khaliqyar è stata inserita nella lista dei migliori presidi dell'Afghanistan e teme che la sua scuola femminile, nella provincia di Parwan, venga fatta chiudere. Per adesso la sua scuola resta aperta, ma non sa per quanto. Anche lo sport non vuole cedere all'oscurantismo talebano. Dopo l'appello delle giocatrici di calcio, è arrivato quello di Zakia Khudadadi, prima atleta afghana a qualificarsi per le Paralimpiadi, in programma a Tokyo dal 24 agosto. «Ho ancora fiducia, vi prego: aiutatemi a partecipare. È il mio sogno, ho lottato 5 anni per arrivare dove sono», ha detto la lottatrice di taekwondo».
La ministra Mara Carfagna è stata intervistata da Repubblica. La sua idea è che il rispetto dei diritti delle donne sia “precondizione” per ogni rapporto della Ue con il nuovo regime di Kabul.
«Ministra Mara Carfagna, quale ruolo può avere l'Italia per arginare l'incubo in cui è precipitata Kabul? «Mi riconosco pienamente nell'impegno preso da Mario Draghi: la tutela dei diritti umani, e in particolare dei diritti delle donne, deve essere la priorità dell'Italia e dell'Europa in questa imprevista e catastrofica crisi». Avete già affrontato con il premier il tema cruciale dei diritti delle donne da difendere? «Sono in corso ovviamente molteplici contatti per individuare le linee di condotta più efficaci. Ma in tanto caos è questo l'elemento di certezza: il ruolo che l'Italia può esercitare nell'Unione, assai più determinante che in passato, nel porre come precondizione di ogni eventuale negoziato con i talebani il rispetto dei diritti delle donne. Questo è già oggi elemento centrale del confronto avviato tra le cancellerie». Cosa ha pensato di fronte alle immagini dolorose di Kabul? «La rapidità con cui si è dissolta la struttura del governo afghano è stata scioccante. E umanamente devastanti le immagini degli afghani ammassati all'aeroporto. Ho guardato con angoscia il video della studentessa da Kabul che piangeva: "Moriremo lentamente nella storia". Conosco bene la terribile condizione delle donne vittime del fondamentalismo, non solo negli Stati della Sharia ma anche qui, in Italia: la legge italiana che punisce i matrimoni forzati, pure se celebrati all'estero, l'ho voluta anche per questo». Lei si fida della richiesta dei talebani di aprire il governo alle donne, ovviamente sottoposte alla legge della Sharia? «Se sarà possibile fidarsi, lo vedremo. Mi sembra che la conferenza stampa del governo talebano sveli un desiderio di riconoscimento internazionale: sono consapevoli che il tema dei diritti sarà centrale in ogni approccio futuro. Nessun governo europeo può accettare relazioni con un Paese che uccide chi vuole imparare a leggere e scrivere"». L'associazione italiana Donne Magistrate ricorda che l'orrore era già stato annunciato a Kabul «dall'uccisione di due donne giudici della Corte Suprema afghana, dall'assalto a scuole femministe». E ricorda: «Non può esserci pace senza il rispetto dei diritti delle donne». «Siamo rimasti in Afghanistan vent' anni anche per questo. Il contingente italiano e il nostro volontariato hanno esercitato un ruolo di eccellenza nei programmi di protezione, formazione, istruzione delle donne e delle bambine. Quel lavoro non può svanire: ci dà anche forza e credibilità per imporre una leadership in Europa che deve pretendere il rispetto dei diritti umani prima di ogni cosa». Enrico Letta dice: «Serve una Ue unita, non tradiremo chi ha collaborato e creduto nel cambiamento». Ci riuscirete? «L'accusa di tradimento semmai pesa sul governo afghano, sui loro vertici militari che hanno alzato bandiera bianca senza nemmeno la fatica di una trattativa. L'Europa non deve tradire se stessa, il buon lavoro svolto, la speranza che ha suscitato: ha gli strumenti e stavolta deve trovare una politica comune». La petizione per aprire i Corridoi umanitari ha raccolto migliaia di firme. È d'accordo? «Di fatto, sono già attivi Corridoi per trasferire collaboratori e persone in oggettivo pericolo. Ogni futura decisione deve avere carattere europeo e guardare, soprattutto, ai milioni di afghani che vorrebbero restare nel loro Paese senza morire di fame o vessazioni: incentivi ai programmi umanitari, intese per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie, assistenza agli sfollati dalle zone di combattimento». Ma l'alleato Salvini non solleverà barricate? L'Italia rischia ulteriori spaccature? «Chi cerca polemiche nell'incendio di una crisi inaspettata e sconvolgente come questa, da una parte e dall'altra, dimostra solo scarso senso della realtà e dei doveri della politica». Molti leader, a cominciare dalla Merkel, riconoscono il fallimento. Dopo aver riconosciuto le proprie responsabilità: da dove si riparte? «L'Afghanistan è una durissima lezione per l'Occidente. E la sfida resta la lotta al terrorismo: dobbiamo trovare una via efficace per impedire che Kabul torni ad essere culla e rifugio del partito armato dell'Islam». Lei era Ministra alle pari opportunità quando nel 2009,a Kabul, furono uccisi 6 militari italiani in un devastante attacco kamikaze dei talebani. È stata una guerra sbagliata, oltre che persa? «Ricordo bene quei momenti, la rabbia e l'orrore dopo l'11 settembre, ma anche ogni giornata di lutto per i nostri 54 militari uccisi, per i tantissimi feriti, a cominciare da Monica Contrafatto, che perse una gamba per difendere una nostra base. Quella guerra fronteggiò un'offensiva terrorista che solo a New York aveva fatto quasi 3mila morti. Non bisogna dimenticarlo. Anche se la riflessione sugli errori occidentali nella gestione del dopoguerra è doverosa».
BIDEN COME BADOGLIO
È il punto più basso della Presidenza Biden. Lo spiega bene Federico Rampini su Repubblica:
«L'accusa più grave a Joe Biden viene da un giornale amico, il New York Times: il presidente ha mentito agli americani quando, ancora poche settimane fa, ha escluso un tracollo dell'esercito afghano durante il ritiro Usa. Già allora, secondo il quotidiano progressista, il presidente aveva ricevuto dall'intelligence un rapporto di segno opposto, dove la débacle delle forze governative era prevista. Come minimo, avrebbe dovuto tenerne conto nel pianificare le modalità della ritirata militare e dell'evacuazione dei civili, in modo da evitare le scene di panico e caos degli ultimi giorni. Non è un momento facile per Biden. Il suo discorso alla nazione di lunedì sera, pur esponendo con vigore e convinzione le ragioni per cui ha deciso di porre fine alla "guerra più lunga", non ha attenuato le critiche. Vengono da tutte le parti. I repubblicani insistono sulla catastrofica esecuzione del ritiro, parlano di una guerra perduta da Biden e solo da lui. Perfino Donald Trump - che aveva firmato gli accordi con i talebani dove l'unica condizione era l'incolumità per gli americani durante l'evacuazione - è tornato alla carica accusando Biden di una disfatta storica. La destra apre anche un nuovo fronte contro Biden, su un terreno che le è congeniale: alcuni politici repubblicani cominciano a paventare un'ondata di profughi. I democratici cercano di risparmiare il presidente ma anche fra loro cresce lo sgomento: nell'ala più terzomondista e umanitaria si denuncia l'abbandono delle donne afghane; nell'establishment internazionalista affiora il timore che tutti gli alleati traggano conseguenze perniciose da questa vicenda. I media progressisti sono severi quanto i conservatori. "La débacle in Afghanistan - intitola l'editoriale del Washington Post - è della specie peggiore: quella che si poteva evitare". Fa eco il titolo dell'editoriale del New York Tines : "La guerra doveva finire, ma non in questo caos". Molti sottolineano il crollo di credibilità dell'America, che può alimentare ogni sorta di scetticismo in Giappone, Corea del Sud, Europa; e di conseguenza rafforza nemici storici come la Cina, la Russia, l'Iran. Si segnala come una voce fuori dal coro, in quanto favorevole a Biden, quella dell'esperto di geopolitica Fareed Zakaria. Sul Washington Post , il suo è l'unico intervento che difende risolutamente la ritirata. Lo fa attingendo a un'opera che molti scoprono solo adesso: "The American War in Afghanistan" di Carter Malkasian, che fu per diversi anni in Afghanistan come funzionario civile nella provincia di Helmand, poi consigliere dello stato maggiore del Pentagono. Malkasian aveva appena concluso il suo studio sulla guerra ventennale, quando gli eventi sono precipitati. I dati che lui raccoglie smentiscono la teoria secondo cui gli Stati Uniti stavano mantenendo la pace in Afghanistan con poche migliaia di uomini, e che questa stabilità poteva protrarsi a tempo indefinito. L'apparente pacificazione era solo il risultato di una tregua offerta dai talebani in cambio della promessa del ritiro. Ma i talebani avevano sospeso solo gli attacchi contro le forze della Nato, mentre la guerra continuava a intensificarsi contro gli afghani. Il 2019 ha visto il record di vittime tra civili in un decennio. Nel 2018, quando le truppe americane erano ancora il quadruplo rispetto al 2021, ben 282.000 civili afgani erano stati costretti a fuggire dalle loro case. Nel contempo il livello di sostegno della popolazione verso gli americani continuava a scendere, nel 2018 era al 55% contro il 90% di dieci anni prima. Già nel 2016, peraltro, quando Barack Obama era stato convinto a rinviare per l'ennesima volta il ritiro delle truppe, e dunque la forza militare americana era all'apice, i talebani erano riusciti a riconquistare un quarto del territorio nazionale. Nell'assedio politico che subisce Biden un altro aiuto gli arriva dalla pubblicazione delle conclusioni ufficiali di un'indagine commissionata da molto tempo, quella dello Special Inspector General for the Afghanistan Reconstruction. L'inchiesta, in corso da 13 anni, dipinge un quadro fosco del conflitto. Accusa gli americani di avere sistematicamente sottovalutato le difficoltà sul terreno. Dà atto di progressi importanti, per esempio sulla scolarizzazione e i diritti civili, ma considera fallito il progetto di ricostruzione del paese, a cominciare dalle sue istituzioni. Il rapporto non è "figlio" dell'Amministrazione Biden ma finisce per confortarne la decisione, confermando che questa guerra era stata perduta molto tempo prima».
Domenico Quirico per La Stampa traccia una parallelo storico.
«La insinuazione offensiva ha atteso solo poche ore. E piove dall'alto del comandante supremo Biden, il Badoglio della fuga afghana, un presidente in cui quello che appare di più grande è la banalità. È tutta colpa dei soldati afghani, ha sentenziato, avevamo organizzato benissimo a Kabul, ma quelli hanno pervertito tutto arrendendosi senza combattere. Voilà. Le sconfitte si assomigliano tutte quanto meno nelle scuse dei vinti: è sempre colpa di qualcun altro, gli alleati inaffidabili, le quinte colonne, i traditori, i tiepidi, le fanterie... Colpisce, fragorosa, la assonanza: a scolpire la nostra Caporetto del 1917 fu il famigerato proclama di un altro comandante supremo, l'uomo dannunzianamente «scolpito nella roccia del Verbano», Luigi Cadorna. Spiegò tutto il disastro in due righe: «A causa di reparti della seconda armata vilmente ritiratisi...» e via diffamando lo sciopero militare. Allora siamo intesi: la parola d'ordine è che gli sconfitti sono gli afghani, questi infingardi a cui avevamo concesso il privilegio, dopo vent' anni, di farsi massacrare da indipendenti. Li si accusa, ormai scopertamente, della propria disgrazia e già si prenotano a loro colpe, anche quelle prossime venture, i profughi in fuga, i narco emirati conficcati nel cuore dell'Asia, le possibili nuove tortughe terroriste sui picchi dell'Hindu Kush. Si sgranano respiri di sollievo. Ci prepariamo ad attraversare, Alice occidentale, lo specchio di un malefico e vergognoso presente indenni, delegando la colpa alle vittime. Noi invadiamo ingombriamo ci disperdiamo e la colpa è degli altri. Pretendiamo non solo vittorie ma anche sconfitte a prezzo stracciato, a interessi irrisori o, ancor meglio, per cui paghino gli altri. Sfugge al comando supremo la domanda: ma per cosa i fantaccini afghani avrebbero dovuto combattere fino alla morte i diavoli scesi dalle montagne, quelli sì con buone ragioni nello zaino per essere implacabili, la vendetta, un dio degli eserciti, la fame? Forse per i palazzi dei ricchi, per politicanti corrotti e parolai, per una modernità di cui non hanno visto le remote delizie, per la borghesia occidentalizzata che li guardava con condiscendenza per la loro arretratezza? Avrebbero dovuto morire per gli illuminati editoriali del «New York Times» o per presidenti con la raffinata kurta di seta? Un quisling dei sovietici, Najibullah, almeno si fece ammazzare. Ma i nostri fantocci non si lasciano dietro certo ideologie o martìri, solo conti in banca. Andare in trincea per salvare il consenso degli amici americani che hanno sganciato bombe disinvolte su terroristi e matrimoni, baracche di pastori e nidi di guerriglieri: sono le necessità supreme della guerra al terrorismo, ecco qua... con il risarcimento compratevi due galline. Suvvia... Gli afghani sono combattenti, una razza guerriera avrebbe ammesso la vecchia antropologia degli imperi coloniali, da maneggiare con rispetto. Ma la guerra per cui hanno talento è fatta di agguati, notturna, veloce, tenace, impalpabile, da combattere in sandali. Le reclute invece le abbiamo travestite come noi, anche loro devono assomigliarci. Ma se gli metti gli scarponi, lo appesantisci di zaini, elmetti, se li fai dipendere da aerei e colonne blindate, allora la loro magia guerriera svanisce. Vivere come gli afghani nel Grande Gioco in un costante pericolo di morte, da decenni, insegna solo due cose: ad aver paura di morire e a morire. Ma non basta. Stiamo costruendo un nemico a misura delle nostre necessità. Lucifero, dimessa la forma diabolica o animale a cui più nessuno crede, ha preso l'aspetto dei taleban, è magnificamente condensato in un grappolo di barbuti. Il diavolo insomma, figlio della nostra notte, lo vogliamo identificabile, isolabile, maneggevole, oggettivo. Ci appare, ora che ci invade giorni i teleschermi, come una folla che si intende a misteriosi segni come le api e le formiche. Si annuncia: i taleban sono assetati di vedetta su coloro che hanno lavorato per noi, cercano gli elenchi dei nostri fedeli dipendenti e fornitori, dei giornalisti che hanno encomiato l'Afghanistan moderno e stramaledetto quello preistorico. Il popolo afghano nella nostra narrazione è formato solo da coloro che vogliono fuggire. Ma questa è stata una guerra civile: i datori di lavoro di questa crosta di Afghanistan moderno hanno cercato di annientare per venti anni l'Afghanistan dei taleban. Come pensare che questi non la vedano come un partito di traditori, di collaborazionisti, a cui pretendiamo chiedano scusa per essere sopravvissuti, per aver vinto? La maggioranza degli afghani ha resistito non facendo nulla, non ha mai votato a elezioni fasulle, non voleva né gli americani né il governo né i taleban, voleva solo esser lasciata in pace, coltivare la terra, eleggere i capi villaggio. Non abbiamo mai chiesto a questi afghani cosa volevano perché avevamo paura di farlo».
Ha perso la pazienza Giuliano Ferrara sul Foglio di oggi. Chi lo ha fatto arrabbiare è stato il segretario del Pd Enrico Letta, che nell’intervista di ieri a Repubblica aveva osato mettere in discussione la bontà delle guerre occidentali per “esportare la democrazia”.
«Perché il segretario di un partito che ha nel nome la democrazia e di mestiere fa anche il professore di Scienze politiche si sente libero di dire queste balle? Il luogo comune ideologico improntato alla scuola disfattista cancella storia e realtà, procura consensi nei bassifondi dell'opinione pubblica mediatizzata e lobotomizzata nell'inerzia, ma non bisognerebbe riservare l'ignoranza agli ignari? L'interdipendenza dei sistemi di vita, dei regimi politici, delle culture, della rete dei diritti umani è un fatto. L'esportazione di democrazia e antidemocrazia è un elemento chiave di questo panorama, che certo non è composto di equazioni e teoremi brutali, di vie spicce, di esibizione muscolare della potenza, procede per vie curve, lungo sinuose piene di trappole e di errori, percorsi che non esprimono una moralità o superiorità antropologica da sbandierare, ci mancherebbe. La storia ripartisce violenze e forzature autocontraddittorie in ogni campo, basti pensare alla grande impresa politica e religiosa dell'eguaglianza di diritto e dell'indi - pendenza americana proceduta insieme con schiavitù e segregazione razziale per oltre un secolo e mezzo, al furore giacobino e napoleonico nell'affermazione dell'universalismo e dei droits de l'homme, ai drammi del colonialismo e del capitalismo nel suo spirito animale onnivoro. Il carattere naturalmente espansivo dei sistemi di vita e di organizzazione sociale, come l'affermazione dei princìpi dell'illuminismo in occidente, non è una lezioncina di etica pubblica, non è una passeggiata incantata tra bellurie e buoni propositi, ma se togli l'interdipendenza e la correlazione di fatti e criteri di valore hai tolto tutto quello che fa del mondo un luogo vivibile di ragione e di speranza. Ogni tanto sono preso dalla spiacevole sensazione che certi politici rispettabili, ma lesti nell'afferrare il peggio delle idées reçues e della bêtise per esercitare una retorica facile, dovrebbero tornare ai loro studi, e approfondirli».
I PROFUGHI E L’EUROPA
L’Europa come reagisce? E in essa come reagisce l’Italia? Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.
«Per Mario Draghi «i nostri caduti in Afghanistan sono eroi e questo nonostante l'epilogo della missione internazionale, nonostante la ripresa del potere da parte dei talebani e la sconfitta cocente per l'Occidente». Inizia con queste parole l'intervista al Tg1 del presidente del Consiglio. «Questo è il tempo di un bilancio di questi ultimi venti anni» di intervento militare - ha sottolineato il premier - ma soprattutto è il momento di «tracciare il futuro», magari in sede di G20, quindi in autunno in Italia, insieme ad altri attori internazionali, dalla Cina alla Russia, dalla Turchia all'Arabia Saudita. E si dice convinto che l'Ue «sarà all'altezza» sui temi dell'accoglienza e della sicurezza. «Prima di tutto vorrei ringraziare i nostri militari, i diplomatici, tutti i cooperanti. Per venti anni sono stati a Kabul, Herat, in tutto il Paese. Poi voglio rivolgere un messaggio di affetto sincero alle famiglie dei 54 caduti. L'Italia ha perso 54 soldati nel corso di questi venti anni e ha circa 700 feriti. Alle loro famiglie voglio dire che il loro sacrificio non è stato vano. Hanno difeso i valori per cui erano stati inviati», ha detto Draghi nell'intervista. Il capo del governo ha anche rassicurato sull'operazione di rientro: «L'opera di rimpatrio dei diplomatici, dei militari, dei collaboratori afghani continua. Sul campo ci sono ancora delle squadre militari e dei diplomatici (molto pochi) che dovranno aiutare l'evacuazione di altri nostri concittadini che sono lì e dei collaboratori afghani e delle loro famiglie quando le condizioni lo permetteranno». Per Draghi, però, l'esperienza fatta dalla comunità internazionale ha alcune lezioni da offrire: «Ricordiamoci che la guerra in Afghanistan è la prima risposta degli Stati Uniti all'attentato alle Torri Gemelle. Quindi il bilancio che noi traiamo non è un bilancio solo sulla guerra in Afghanistan, è il bilancio di questi ultimi venti anni e del ruolo che l'Occidente ha avuto in tutto il mondo arabo. Ma forse ancora più importante che guardare al passato e discutere di bilanci è tracciare il futuro». Draghi in giornata ha avuto una conversazioni telefonica con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Finora l'Europa nel suo insieme ha giocato un ruolo defilato, sicuramente insufficiente, in proiezione futura secondo Draghi qualcosa potrà cambiare: «Abbiamo soprattutto parlato delle operazioni di evacuazione dell'aeroporto di Kabul, ma abbiamo iniziato a tratteggiare quelle che saranno le linee fondamentali della cooperazione a livello europeo. Siamo tutti consapevoli che la cooperazione è assolutamente necessaria per affrontare due obiettivi: l'accoglienza e la sicurezza, di tutti coloro che si sono esposti in questi anni per la difesa delle libertà fondamentali, dei diritti civili, dei diritti delle donne. Questo è un piano complesso, richiede una cooperazione stretta fra tutti i Paesi ma soprattutto, in primis , tra quelli europei. Il secondo aspetto riguarda la sicurezza, dove dovremo prevenire infiltrazioni terroristiche». La Merkel ha sentito anche il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Boris Johnson. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, intervenuto al Consiglio Esteri della Ue, ha posto come priorità il rispetto dei diritti individuali ed in particolare delle donne: «Deve essere una chiara condizione da porre ai talebani pena l'isolamento internazionale». Ma per l'Alto rappresentante dell'Ue Josep Borrell bisogna prendere atto che i talebani «hanno vinto la guerra» e quindi l'Ue deve trattare con loro. Il presidente degli Usa, Joe Biden, ha sentito il premier britannico, Boris Johnson, per organizzare un vertice virtuale del G7 in cui discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Afghanistan».
Tonia Mastrobuoni per Repubblica spiega, da Berlino, la linea che sta prevalendo in Europa.
«È stata Angela Merkel a rivelare ieri la linea che sta prevalendo sul fronte internazionale. Al netto delle operazioni in corso per mettere in salvo europei e collaboratori afghani dei governi occidentali, l'Europa prende tempo su eventuali corridoi umanitari e sui profughi. Il grande spettro che ha dominato ieri i colloqui dei leader e la riunione dei ministri degli Esteri Ue è quello di una riedizione dell'esodo del 2015. Un tema che per le abissali differenze nelle politiche di accoglienza rischia di spaccare nuovamente il continente. Dunque, «prima di parlare di quote di ripartizione, dobbiamo parlare di opzioni sicure per i rifugiati nei pressi dell'Afghanistan», ha detto la cancelliera. Sui due fronti dell'Atlantico si sono mossi Boris Johnson e Joe Biden concordando di tenere un summit virtuale dei leader del G7 la prossima settimana per discutere una strategia e un approccio comuni. In serata, è stato Mario Draghi a riassumere la giornata: «la cooperazione internazionale è essenziale». Il presidente del Consiglio ha sentito Merkel al telefono, e la cancelliera ha avuto colloqui con il premier britannico Johnson, il presidente francese Macron e l'Alto commissario per i rifugiati Filippo Grandi. E i leader hanno concordato sulla necessità di procedere per gradi, convergendo sull'evacuazione da Kabul e accordandosi su iniziative comuni. Anche se il caminetto dei "Sette Grandi" ha impensierito qualche capitale europea: «è un formato divisivo in una fase in cui non possiamo escludere la Cina e la Russia dalla discussione sul futuro dei rapporti con l'Afghanistan», come riferisce una fonte diplomatica. Tanto che Johnson avrebbe già proposto di allargare il G7 proprio a Pechino e Mosca. I perni intorno ai quali si sta sviluppando la strategia europea per prevenire un esodo di massa dall'Afghanistan sono l'atteggiamento dei talebani e la cooperazione con "Paesi confinanti e Paesi terzi". In altre parole, prima di discutere l'accoglienza di miriadi di afghani, la Ue vuole capire come si comporteranno i talebani. I ministri hanno deciso già ieri che osserveranno attentamente i Taliban per capire se il loro nuovo governo «sarà inclusivo» e se «rispetterà i diritti umani», come ha riassunto anche il premier britannico Johnson. Parallelamente apriranno il dialogo con Paesi extraeuropei, anche quelli confinanti con l'Afghanistan, per garantire l'accoglienza dei profughi anche lì. Intanto, la Germania e altri Paesi hanno congelato gli aiuti allo sviluppo all'Afghanistan per spingere i talebani a mantenere i loro impegni. L'Alto rappresentante della Ue, Joseph Borrell è stato il più esplicito: «I talebani hanno vinto la guerra e noi dovremo parlare con loro ed evitare che torni il terrorismo», ha detto. Da qui a riconoscere il nuovo governo, per la Ue, ce ne passa. Ed è una linea identica a quella espressa ieri dalla Russia attraverso il suo ministro degli Esteri Lavrov. Peraltro, la cauta apertura è arrivata anche dopo che i nuovi padroni dell'Afghanistan hanno mandato segnali distensivi, annunciando un'amnistia per gli ex funzionari del governo e promettendo di non calpestare più brutalmente i diritti delle donne come sempre avvenuto in passato. Per dirla con il ministro degli Esteri tedesco Maas, «misureremo i talebani dai fatti».
Sfogo di Silvio Berlusconi sul Giornale, che pubblica la sua dichiarazione nell’articolo di Fabrizio De Feo.
«La rassegnazione di fronte a quello che sta accadendo a Kabul è inaccettabile. L'Occidente, l'Europa e anche l'Italia hanno dei doveri ai quali non possiamo sottrarci, senza venir meno ai valori e ai principi sui quali si fonda la nostra stessa idea di civiltà, di libertà, di dignità della persona» spiega il presidente di Forza Italia per il quale «la fuga disordinata alla quale stiamo assistendo, della quale l'Italia non ha obiettivamente alcuna colpa, ma che ci coinvolge direttamente, rimarrà come una pagina di vergogna per i paesi liberi, ma avrà anche un effetto dirompente sulle credibilità dei paesi occidentali nel mondo. Vedere un popolo al quale avevamo promesso la libertà ricadere nelle mani di un regime oscurantista, violento e fanatico provoca una stretta al cuore, vedere un paese strategico per gli equilibri dell'intera Asia cadere sotto la sfera di influenza dell'integralismo islamico oggi - e di Pechino in un prossimo futuro - è una grave minaccia per i nostri stessi interessi e per la nostra sicurezza. Quello che accade in Afghanistan ci riguarda due volte, come uomini liberi e come responsabili politici dell'Europa e dell'Occidente. In questa vicenda emerge ancora una volta - al di là dell'affrettato disimpegno deciso dagli Stati Uniti - l'incapacità dell'Ue di esercitare un ruolo politico e militare efficace, che implicherebbe quella politica estera e di difesa comune e quell'esercito europeo tante volte invocato. Ora l'unica strada è quella della diplomazia e del soccorso umanitario a chi vuole lasciare quel martoriato paese. Ma diplomazia non significa accettazione passiva della vittoria dei nemici della libertà. Altrimenti alle classi dirigenti occidentali si potranno ripetere le parole di Churchill dopo gli accordi di Monaco, che sacrificavano la Cecoslovacchia a Hitler: Si doveva scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra».
Alessandro Sallusti su Libero prova a ragionare sul tema dell’ “invasione dei profughi” che già mobilita le intenzioni dei leghisti:
«Adesso pare che il problema sia se dare o no asilo politico ai cittadini afghani che per vent' anni hanno collaborato con i nostri soldati dislocati ad Herat e quindi compromessi con le forze di occupazione. Penso che il solo dubbio non faccia onore al nostro Paese e alla civiltà che pensavamo di poter esportare. Parliamo al massimo di qualche migliaio di persone, e delle loro famiglie, che sfidando le tribù talebane e le loro spie si sono fidati delle garanzie date dall'Italia in termini di protezione, di persone a volte preziose- come mi hanno raccontato negli anni i colleghi inviati al fronte (parola ufficialmente e ipocritamente bandita perché tecnicamente l'Italia non era in guerra ma in missione di pace come impone la nostra Costituzione) - per la sicurezza e la logistica dei nostri uomini. E che dovremmo fare ora, a missione fallita, per ripagarli della loro fedeltà? Abbandonarli al loro terribile destino già scritto, fingere di non averli mai conosciuti e in un certo senso arruolati? Non scherziamo. Eppure c'è chi sui social sostiene: eh no, adesso basta profughi che ne abbiamo già abbastanza. I più stupidi arrivano a dire: mai terroristi talebani in casa nostra. Ecco, appunto: mai terroristi in casa, soprattutto perché se i nostri collaboranti afghani fossero talebani se ne sarebbero stati volentieri a Kabul e dintorni. Salvare le vite di chi ha aiutato i nostri soldati è un dovere, non una gentile concessione, e non c'entra proprio nulla con il problema dell'immigrazione clandestina fuori controllo. Chi scappa dal terrore non può essere tradito ancora. Sì, è vero: pensavamo di esportare democrazia e ci ritroviamo a importare profughi, ma la colpa è nostra e non loro. Sono certo: Oriana Fallaci, donna non certo tenera, non avrebbe mai messo in pericolo la vita degli autisti, interpreti e informatori- indipendentemente dalla loro fede - che l'hanno aiutata a girare il mondo per raccontare magnificamente guerre e tragedie. In questa assurda storia afghana in quanto a tradimenti e pasticci abbiamo già abbondantemente dato anche se, non sempre, per colpa o volontà nostra».
IL VERO ALLEATO DEI TALEBANI È IL PAKISTAN
Gli osservatori internazionali sanno bene che negli ultimi venti anni sono stati anche i servizi segreti pachistani a sostenere, sotterraneamente, la resistenza dei Talebani, “vicini di casa”. Danilo Taino sul Corriere della Sera sostiene che oggi il “posto più pericoloso della terra” oggi è il confine tra Pakistan e Afghanistan.
«Lo scorso 1° maggio, il settimanale Economist pubblicò una copertina con la quale individuava il «posto più pericoloso sulla Terra». E mostrava la mappa di Taiwan, minacciata di diventare in tempi non lontanissimi oggetto di scontro, potenzialmente anche armato, tra Cina e Stati Uniti. Tre mesi e mezzo dopo, il podio è cambiato. Sul gradino più alto sta salendo l'Afghanistan; meglio ancora, il confine tra Afghanistan e Pakistan. La tragedia del Paese nel quale i talebani hanno preso il potere è naturalmente l'aspetto più angosciante degli eventi di questi giorni: qualsiasi afghano abbia o abbia avuto speranze di un minimo di libertà, a cominciare dalle donne, è minacciato fisicamente e moralmente, terrorizzato. L'altra tragedia in formazione è geopolitica e non riguarda solo lo scioccante, caotico ritiro degli Stati Uniti dal terreno, con il conseguente crollo di credibilità che si riflette sull'Occidente intero: c'è anche un pericolo nucleare che fa impallidire l'eventualità che l'Iran costruisca la sua «bomba». L'allarme è ad alto livello nella diplomazia indiana a New Delhi ma certamente non è sconosciuto a Washington, a Pechino e in parecchie altre cancellerie. La presa di Kabul apre la strada alla destabilizzazione di fatto del Pakistan. Con ogni probabilità, non appena i talebani avranno consolidato il potere, tra le altre cose rivolgeranno lo sguardo verso il Paese confinante, con l'obiettivo di influenzarlo seriamente: i rapporti che ci sono tra i due lati della Durand Line, che traccia il confine, tra gruppi di terroristi, tra politici, tra militari e servizi di sicurezza sono stretti, spesso conflittuali ma anche di collaborazione. La vittoria in Afghanistan è destinata ad aumentare enormemente il prestigio, il potere e l'influenza dei talebani nella regione. La questione è che il Pakistan è una potenza nucleare: 160 testate. I governi che si sono succeduti a Islamabad, la capitale del Pakistan, hanno in genere negato di avere sostenuto i talebani afghani. In realtà, è internazionalmente riconosciuto che per decenni li hanno finanziati, hanno sostenuto le loro operazioni, fornito coperture diplomatiche, permesso che organizzassero il training dei miliziani sul loro territorio, fornito armi e assistenza. I militari pachistani, la forza più potente del Paese, li ha finora considerati non solo vicini dal punto di vista religioso e ideologico, soprattutto li ritiene un bastione contro l'influenza del rivale storico nella regione, l'India che negli scorsi decenni ha appoggiato i governi di Kabul in funzione anti-Pakistan. E i servizi di intelligence pachistani, l'Isi, sostengono i talebani afghani dagli Anni Novanta. Questo rapporto ha enormemente favorito lo sviluppo dei cosiddetti talebani pachistani, Tehrik-i-Taliban, che hanno l'obiettivo di rovesciare lo Stato e di recente si sono ripresi dopo essere stati cacciati in Afghanistan dall'esercito di Islamabad nel 2014. Questi ultimi si differenziano spesso dai loro ispiratori afghani, hanno obiettivi diversi, ma un governo talebano a Kabul darà loro più forza e creerà probabilmente problemi seri al governo di Islamabad guidato da Imran Khan, un leader debole, dipendente dall'esercito e incerto al punto di avere definito di recente i talebani «normali civili». Il ruolo ambiguo svolto dai politici e dai militari pachistani nei confronti dei talebani, mentre allo stesso tempo tenevano rapporti altrettanto ambigui con l'Occidente, rischia ora di volgersi contro di loro. Husain Haqqani, un ex ambasciatore pachistano negli Stati Uniti, dice che «l'estremismo islamista ha già diviso la società pachistana lungo linee di settarismo e l'ascesa degli islamisti alla porta accanto fornirà nuovo coraggio ai radicali di casa». Il poroso confine tra i due Paesi permetterà inoltre, come in questi anni, il passaggio di militanti da un lato all'altro, anche delle formazioni terroriste: da al-Qaeda agli affiliati dell'Isis. La caduta di Kabul complica ulteriormente una situazione già molto complessa e i governi e le diplomazie stanno rivalutando affannosamente il quadro che si è creato, sicuramente in India ma certamente anche a Pechino e a Mosca. La possibilità che il Pakistan, potenza nucleare, sia destabilizzato e che sull'uso degli ordigni possano avere prima o poi influenza i radicali islamisti è qualcosa di terrorizzante. La vittoria talebana a Kabul darà impeto ai movimenti terroristici in Asia, in Medio Oriente e in Europa. La conquista della «bomba» li galvanizzerebbe e metterebbe il mondo in una situazione difficilissima. Con la superpotenza americana sconfitta e in ridimensionamento, anche una crisi a Taiwan potrebbe essere più vicina. Si usa dire che l'Afghanistan è la «tomba degli imperi».
Repubblica, con Francesca Caferri, intervista proprio l’ambasciatore pachistano a Roma, per capire la posizione ufficiale del governo di Islamabad.
«Afg-Pak. Pochi acronimi nella geopolitica mondiale hanno avuto tanto successo come quello che indica i due Paesi asiatici confinanti. Perché dire Afghanistan significa dire anche Pakistan: non ci sono vicende importanti che abbiano coinvolto Kabul che non abbiano avuto ripercussioni a Islamabad. E viceversa. L'ambasciatore Jauhar Saleem, rappresentante diplomatico del Pakistan in Italia lo sa bene: «Abbiamo legami storici e politici che non possono essere sottovalutati: e come molti altri Paesi siamo preoccupati per la situazione caotica che si è creata», dice. Ambasciatore, il mondo guarda con preoccupazione a Kabul in questi giorni. Come si esce da questa situazione? «Con un governo inclusivo. Il Pakistan vuole vedere un Afghanistan democratico e funzionale, dove i diritti umani siano protetti e ci siano reali possibilità di sviluppo per la popolazione. Sono obiettivi comuni a molti Paesi: per questo abbiamo facilitato il dialogo fra i talebani e gli Stati Uniti che ha poi portato agli accordi di Doha. Quello a cui auspichiamo che si arrivi ora è un processo di riconciliazione nazionale». Il Pakistan che ruolo può avere in questo processo? «Abbiamo con i talebani una relazione di vecchia data. A lungo siamo stati l'unico Paese a tenere aperti canali diplomatici con loro quando sono arrivati al potere la prima volta. Nelle loro fila ci sono i figli di rifugiati afghani cresciuti in Pakistan. Abbiamo sempre usato questi contatti in maniera positiva e lo faremo ancora. Ma vorremmo vedere una condizione realizzarsi». Quale? «Deve trattarsi di un processo di pace guidato dagli afghani e non imposto dall'esterno. Perché è chiaro a tutti ormai che gli afghani sono un popolo fiero e indipendente e non si fanno comandare: hanno fallito gli inglesi, poi i russi, ora gli americani». Il Pakistan è stato spesso accusato di aiutare i talebani contro il governo di Kabul: cosa risponde? «Ci ha accusato il presidente, Ashraf Ghani. Le faccio io ora una domanda: dov' è Ghani? E i suoi uomini dove sono? Come ha reagito il loro esercito che aveva alcune delle armi migliori del mondo, aerei, training di altissimo livello quando si è trovato di fronte a milizie arrivate dai villaggi. Per anni abbiamo messo in guardia il mondo da quello che poteva accadere. Per anni ci hanno detto che i disordini erano colpa nostra. Ora che è successo quello che avevamo previsto sarà chiaro che noi non siamo responsabili». Cosa dice ai Paesi europei spaventati da una possibile emergenza profughi? «Che solo il dialogo e la riconciliazione potranno creare uno scenario da cui le persone non vorranno fuggire. Ma che qualunque cambiamento non può essere imposto dall'esterno».
APARTHEID VACCINALE
Le ultime notizie della pandemia in Italia (Sicilia e forse Sardegna verso la zona gialla da lunedì) destano meno interesse delle preoccupazioni, sempre più diffuse, sulla mancata vaccinazione di mezzo mondo. Viviana Daloiso per Avvenire.
«Due mondi e un muro in mezzo, sempre più insormontabile. Di là, nei 50 Paesi più poveri del Pianeta (dove, per intenderci, della popolazione mondiale vive oltre il 20%) appena il 2% delle dosi disponibili di vaccino contro il Covid. Di qua, in Europa e negli Stati Uniti, l'Occidente ricco ed "evoluto", un miliardo di dosi dello stesso vaccino inutilizzate: accaparrate a prezzi vertiginosi, stipate nei grandi magazzini, lasciate scadere, rifiutate dai No vax. Gli ultimi conti sulle diseguaglianze nella campagna vaccinale li ha fatti ieri un durissimo editoriale pubblicato sul sito del British Medical Journal, tra le riviste scientifiche più prestigiose. In cui per la prima volta si parla di «apartheid vaccinale» ai danni del Sud del mondo, arrivando a definire la speculazione sulla pandemia messa in atto dalle case farmaceutiche - complici i governi occidentali - «un crimine contro l'umanità». I numeri, d'altronde, parlano chiaro. La corsa al vaccino di alcuni fra i Paesi ricchi «ha del vergognoso »: ad esempio, si legge nel testo, «il Canada si è procurato talmente tante dosi di vaccino da poter vaccinare i suoi cittadini 5 volte; la Gran Bretagna (che ha oltre il 70% della popolazione vaccinata con due dosi contro l'1% dell'Uganda) ha scorte pari a 4 volte la sua popolazione». Alla fine del 2021, insomma, i Paesi ricchi avranno accumulato un miliardo di dosi di fatto inutilizzate, mentre altrove di Covid ci si continuerà ad ammalare e a morire. E, come ha avvertito a più riprese anche l'Oms, col rischio enorme che il virus sviluppi nuove, inedite varianti capaci - come la Delta - di mettere a repentaglio la falsa sicurezza acquistata per sé a peso d'oro e chiusa in cassaforte. Tutto questo, nota ancora l'editoriale, mentre le case farmaceutiche si stanno arricchendo oltremodo con il «racket dei vaccini». «Nei primi tre mesi del 2021 Pfizer ha incassato 3 miliardi di euro e ha registrato utili per centinaia di milioni. Moderna, che ha ricevuto aiuti pubblici per il suo vaccino, guadagnerà diversi miliardi di dollari e così AstraZeneca, pur con il suo annunciato modello "no profit". Arricchirsi dalla pandemia - aggiunge l'editoriale - è dal nostro punto di vista una violazione dei diritti umani che richiede un'indagine ed esami minuziosi. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo afferma che tutti abbiamo il diritto di condividere e beneficiare delle scoperte scientifiche. Queste hanno portato ad un'accelerazione nello sviluppo del vaccino contro il Covid, che riducono il rischio di ricovero e di morte. Non condividere la conoscenza significa causare centinaia di migliaia di morti premature nei Paesi più svantaggiati». Il nodo della diseguaglianza vaccinale, d'altronde, è emerso chiaramente fin dalla nascita di Covax, il programma di condivisione dei vaccini guidato dalla stessa Oms e sostenuto dall'Ue, che avrebbe dovuto consegnare circa 237 milioni di dosi a 142 Paesi, molti dei quali in Africa, entro maggio di quest' anno: le dosi promesse si sono via via assottigliate, messe in coda rispetto alle esigenze dei singoli Stati (il G7 ha deciso di donarne meno dell'8% di quelle richieste, tanto per fare un altro esempio eloquente). A oggi sono appena 163 milioni quelle effettivamente recapitate, anche se l'organizzazione continua a sperare di poterne inviare 1,9 miliardi entro la fine dell'anno, mancando solo di poco l'obiettivo originale di 2 miliardi. Un obiettivo che al momento sembra irraggiungibile. Senza contare che il solo meccanismo della "carità vaccinale" non basta: Asia, Africa e Sud-America dovrebbero cioè essere messe in condizione di produrre vaccini e acquisire le competenze per farlo in futuro, come previsto da un altro programma messo in campo dall'Oms nel corso del 2020 (quello di costruire un hub apposito proprio in Africa) e clamorosamente fallito per la mancanza di collaborazione e trasparenza da parte delle case farmaceutiche. Infine la beffa dei brevetti: i negoziati in sede di Wto per arrivare almeno a una sospensione (una proposta sostenuta, in particolare, dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden a maggio) sono finora falliti. In questo caso la posizione dell'Unione europea è stata chiara: la proprietà intellettuale, motore di ogni innovazione, non si tocca. Ma lo «scandalo» che resta ancor più insopportabile secondo il British Medical Journal è il silenzio su quel che sta accadendo: «La distribuzione globale dei vaccini è basata su potere, sul vantaggio del più forte, sulla capacità di acquisto. Soprattutto, sulla complicità di tutti noi: perché chi lavora nelle case farmaceutiche o chi ne detiene le azioni non parla? Dove sono le proteste del mondo accademico sulla necessità che le conquiste della scienza siano di tutti? Dove sono i legali abituati a combattere per la giustizia globale, i capi di governo, gli scienziati, i medici?».
Salvatore Settis intervenendo sul tema ormai diventato stucchevole del Green pass sì, Green pass no, coglie l’occasione, in un articolo per La Stampa, di intervenire proprio sul tema dell’apartheid vaccinale:
«Tre punti di vista (alternativi) e due domande. Punto di vista A : il CoViD-19 ha colpito oltre 200 milioni di persone (cento milioni nei primi 12 mesi, altri cento nei 6 mesi successivi), con quattro milioni e mezzo di morti (in testa Brasile e Usa intorno a 600.000, e tra i Paesi con oltre 100.000 morti anche l'Italia); ma da quando sono disponibili alcuni vaccini il virus è diventato assai meno pericoloso. I contagi, la gravità delle infezioni, il numero dei morti sono diminuiti in proporzione alla diffusione dei vaccini in certi settori (o fasce di età) delle popolazioni. Ergo, vaccinarsi e poterlo documentare (Green Pass o simili) sono efficaci misure di contenimento: salvano vite umane e ci risparmiano sofferenze e limitazioni nei movimenti. Punto di vista B : la Terra è piatta, nessun uomo ha mai messo piede sulla Luna, le Torri gemelle furono abbattute dalla Cia, il virus di questa pandemia è un'invenzione di qualcuno (Bill Gates? Soros?) per installarci nel cervello, con la scusa del vaccino, un baco che controlla le coscienze e ci trasforma in automi o zombie. I vaccini provocano ogni sorta di malanno, e anche ammesso che un qualche contagio ci sia, basta la tachipirina. Mascherine, lockdown e quant' altro sono misure persecutorie escogitate dalla dittatura sanitaria dei poteri forti. Ergo, niente vaccini, niente mascherine, zero Green Pass, sì alle manifestazioni di piazza e affollamenti in stadio o in discoteca, la vita bisogna godersela finché c'è. Punto di vista C: il virus forse esiste, forse contagi e decessi sono qualcosa di reale, ma i dati sono gonfiati e vengono usati dai governi di tutto il mondo per controllare la società introducendo un perpetuo stato di eccezione. Si inaugura così, culminando un lungo processo di cui da anni si vedevano le avvisaglie, una fase della storia umana in cui i singoli e i gruppi sociali non sono che rotelle di un possente ingranaggio che stritola la libertà di pensiero, paralizza lo spirito critico, inaridisce la cultura, mortifica l'esperienza del vivere. Lo stato di eccezione diventa la regola, è un instrumentum regni che divora e annienta la libertà e la civiltà. Ergo, è giusto ribellarsi a mascherine, vaccini e Green Pass, che non sono misure sanitarie ma strumenti e simboli di assoggettamento politico. E ora le domande. Prima domanda: dato che i punti di vista B e C si basano su ideologie opposte (il B è «di destra», fra ignoranza, fascismo e new age; il C rivendica valori e usa linguaggi e concetti «di sinistra»), come mai finiscono col convergere in comportamenti identici, respingendo vaccini e/o Green Pass? E come mai i portatori sani del punto di vista C sono così restii a riconoscere e spiegare le proprie coincidenze con i portatori malati di quello che abbiamo chiamato B? Seconda domanda. Ammesso che sia vero invece il punto di vista A (come a me pare), finora il 30% della popolazione mondiale ha ricevuto almeno una dose di vaccino, ma questo vale solo per alcune aree del mondo: Europa, Nord America, Cina, Giappone, Australia e poco più. In vastissime aree del mondo, a cominciare da quasi tutto il continente africano, ha accesso al vaccino non più dell'1,5 % della popolazione, gli altri non possono permetterselo. Almeno quattro miliardi di esseri umani non hanno nessuna scelta, nessuna prospettiva di vaccinarsi nei prossimi 12 mesi: ciò vuol dire non solo che in quelle aree il virus continuerà a mietere vittime, ma anche che vi si formeranno nuove varianti virali che fatalmente colpiranno prima o poi tutto il resto del genere umano, nessuno sa con quale esito. Logica vorrebbe che, per doverosa solidarietà umana ma anche per proteggere noi stessi, i Paesi più ricchi obbligassero le ditte produttrici dei vaccini a liberalizzarne l'uso consentendone la diffusione più rapida possibile: un traguardo insieme politico ed etico, sanitario e umanitario, che si è già sperimentato positivamente per altri vaccini (per esempio, la vaccinazione di massa deliberata dall'Oms ha provocato in pochi decenni la completa eradicazione del vaiolo). La seconda domanda è dunque: come mai si spendono tante energie per lotte intestine alle società più opulente (vaccino sì vaccino no), e tanto poche per democratizzare l'uso del vaccino estendendone l'opzione a tutti gli umani? La salute dei nostri fratelli di Haiti o del Burundi non è abbastanza di sinistra?».
SCUOLA, LE NUOVE REGOLE POST DAD
Gianna Fregonara per il Corriere della Sera fa il punto sulle nuove regole anti pandemia nelle scuole italiane. Regole contenute in decreti e circolari, le leggi devono ancora essere approvate.
«La parola definitiva sulle vaccinazioni e i controlli del green pass, sul distanziamento e sulle altre misure per il ritorno in classe in sicurezza arriverà a scuole già riaperte con l'emendamento al decreto del 6 agosto annunciato dalla sottosegretaria all'istruzione Floridia e atteso da presidi, insegnanti e sindacati. La conversione in legge in Parlamento quasi sicuramente non avverrà in tempo per il 13 settembre - data di inizio delle lezioni nella maggior parte delle scuole italiane - tantomeno per il primo settembre, data di riapertura delle scuole. Per ora si viaggia a vista, tra protocolli, note tecniche e circolari che cercano di anticipare le questioni più complesse. Mentre come ogni anno gli occhi sono puntati anche sull'assegnazione delle cattedre: un ritardo potrebbe compromettere la ripartenza. Sul distanziamento in aula toccherà ai presidi districarsi tra le diverse interpretazioni della norma contenuta nel decreto. Nella nota firmata da Stefano Versari, braccio destro del ministro Patrizio Bianchi, si legge che mantenere il metro di distanza tra i banchi è una «raccomandazione» e che ove non fosse possibile rispettarla è escluso «l'automatico ritorno alla didattica a distanza», ma basteranno diverse misure di sicurezza. Nel protocollo firmato con i sindacati, invece, su richiesta di questi ultimi, si pretende in modo più secco «il rispetto di una distanza interpersonale di almeno un metro qualora logisticamente possibile e si mantiene anche nelle zone bianche la distanza di due metri tra i banchi e la cattedra». Per il controllo del green pass il ministero spiega che i presidi (o i loro delegati) dovranno scaricare l'App sullo smartphone ma per ora non devono farsi consegnare la copia cartacea del certificato di vaccinazione. I presidi insistono perché la responsabilità del controllo passi alle Asl e vogliono che vengano tolte le sanzioni a loro carico per mancato controllo. In caso di docenti no vax, che si rifiutino di fare il tampone (ancora mancano i dettagli su chi li pagherà e come), fino al quinto giorno di assenza non sarà possibile chiamare un supplente per evitare - in caso di ripensamento del titolare del posto - di avere due professori in contemporanea da pagare. Anche sulla questione dei trasporti c'è ancora incertezza: il ministro Giovannini aveva proposto di estendere gli scuolabus anche agli studenti delle superiori e sono stati stanziati 600 milioni aggiuntivi, ma il rischio degli assembramenti sui bus come lo scorso anno non è scongiurato. Deve essere per questo che la Regione Toscana e il sindaco di Firenze Dario Nardella hanno chiesto al generale Figliuolo, che pare favorevole, di fornire gratis agli studenti delle scuole superiori che usano i mezzi pubblici le mascherine Ffp2, che non sono obbligatorie dentro le scuole (il decreto prevede quelle chirurgiche). Sui tamponi ai docenti è attesa a giorni una circolare, per gli studenti sono invece stati stanziati 100 milioni che serviranno per campagne di tracciamento durante l'anno, anche per i più piccoli che non sono vaccinati. Il ministero dell'Istruzione sta anche immaginando, ora che la vaccinazione degli adolescenti entrerà nel vivo, di coinvolgere sportivi, cantanti e influencer in una campagna di informazione e di supporto all'operazione. Resta aperta anche la questione dell'areazione delle classi: il ministero indica come soluzione di aprire le finestre, anche d'inverno. Sono le scuole che dovranno dotarsi di condizionatori e filtri. Ieri il ministro dell'Economia Renato Franco e il ministro Bianchi hanno firmato il decreto che divide tra le 8 mila scuole italiane 350 milioni per la sicurezza».
HAITI, CATASTROFE UMANITARIA
Non fosse stato per Kabul, il mondo guarderebbe solo ad Haiti, dopo il terribile terremoto che ucciso quasi duemila persone e distrutto il Paese. L'isola è stata sferzata dalla tempesta Grace. Padre Miraglio denuncia: «Mancano acqua, medicine, benzina per raggiungere la gente dei villaggi che ha perso tutto». Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Sabato, padre Massimo Miraglio, sacerdote camilliano, da anni nell'isola, si trovava a Jérémie, capitale del distretto di Grand Anse, per supervisionare la costruzione della nuova clinica dell'ordine. Quel giorno, però, il violento terremoto di 7.2 gradi Richter e le numerose repliche hanno colpito l'intero occidente haitiano: i dipartimenti di Les Cayes, Nippes, Sud, oltre a Grand Anse. I morti sono saliti a quota 1.941, i feriti sono quasi 10mila, molti di più i dispersi. I lavori si sono interrotti. «La struttura non è stata danneggiata ma è ancora inagibile. Abbiamo, dunque, preso le poche medicine che avevamo e le abbiamo portate all'ospedale Saint Antonie. È il principale della città eppure, anche in condizioni normali, non è attrezzato per assistere le urgenze. I feriti più gravi sono stati, dunque, portati a Port-au-Prince in elicottero. È l'unico modo. La strada è bloccata e siamo isolati». Parla in fretta padre Massimo. Ha paura che cada la chiamata. La linea è inagibile. WhatsApp funziona a singhiozzo. «La centrale elettrica era in panne da prima del sisma. Per avere il Wifi devo accendere il generatore e lo faccio con parsimonia: mi restano solo due taniche di carburante. Ho trascorso l'intera giornata di lunedì a cercare di trovare della benzina da comprare. Senza non posso raggiungere le montagne ed è là il vero dramma». Già, le montagne. Mentre Jérémie è stata toccata marginalmente dal terremoto, i villaggi sparsi sugli altopiani intorno sono stati letteralmente sferzati dalle scosse. «Qualche sopravvissuto che è riuscito a raggiungere la città, a piedi, ci racconta delle cose terribili. Nessuno conterà mai quei morti, non c'è nulla per curare i feriti, le poche strade sono bloccate dagli smottamenti ed è impossibile raggiungerli ». Il terremoto ha distrutto le cisterne di Corrail e Pestel, unica fonte di approvvigionamento idrico per i loro 10mila residenti. «Ora sono rimasti senz' acqua potabile. Come faranno? Poi la tempesta complica ulteriormente la situazione: l'80 per cento degli abitanti del distretto di Grand Anse ha perso la casa. Ora sono costretti a dormire all'aperto, sotto il diluvio», afferma il sacerdote. E sull'arrivo dei soccorsi, dice, con amarezza: «Non li ho ancora visti». Il premier Ariel Henry ha riconosciuto la lentezza della macchina organizzativa, fatto scontato in un Paese con istituzioni fragilissime. Ma ha promesso «ulteriori sforzi» e anche il mondo si muove. Le necessità, tuttavia, nella nazione troppo a lungo dimenticata, sono enormi. Jérémie è irraggiungibile via terra: l'unico ponte è pericolante, i mezzi pesanti non possono attraversarlo. Fin quando non verrà riparato, restano i solo i - pochi - elicotteri. Con la tempesta, arrivata ieri, tuttavia, è impossibile volare. I convogli con i soccorsi non riescono nemmeno a raggiungere Les Cayes, allagata per le piogge. In alcune zone ci sono oltre 1,5 metro d'acqua. «Il livello del mare è salito per la pioggia. Le bidonvilles, che si trovano nella parte più bassa della città, sono completamente allagate - racconta Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi ad Haiti -. Abbiamo notizie di altre vittime, soprattutto, bambini, morti nella notte tra lunedì e martedì, ma è impossibile fare un bilancio». In questo momento di enorme dolore, la Chiesa dell'isola ha promosso una settimana di preghiera per il Paese, sferzato da una raffica di catastrofi. E il governo, da parte sua, ha proclamato tre giorni di lutto nazionale».
VANTAGGIO ITALIA, L’ESTATE DEI PRIMATI
Guido Maria Brera, uomo della finanza internazionale e autore del best seller “I Diavoli”, da cui una serie tv su Sky, ha scritto un articolo ottimista per La Stampa.
«Questa è l'estate in cui l'Italia strabilia il mondo e se stessa. Una serie di successi in campi diversi accende una stessa luce, in fondo alle nubi di pessimismo che la delusione aveva addensato. E che avevano portato il Paese a sentirsi nel buio, incapace di vedere la propria forza, anche solo potenziale. Come gli anelli delle Olimpiadi, i grandi risultati si infilano l'uno all'altro e formano una sequenza straordinaria. Le Olimpiadi, appunto, ci hanno detto che l'uomo più veloce del mondo, Marcell Jacobs, è italiano. Con gli Europei di calcio abbiamo scoperto che la nostra organizzazione può far meglio di grandi squadre che puntano tutto sui solisti. In politica, Mario Draghi ha portato l'Italia a rovesciare equilibri internazionali che sembravano fissi e addirittura a trainare l'Europa. Così come dovremmo inorgoglirci per la medaglia Dirac alla fisica Alessandra Buonanno, un premio di prestigio scientifico mondiale. E ancora, è significativo il trionfo social del giovane Khaby Lame, che attraverso la comicità e TikTok è oggi uno dei personaggi del web più seguiti del pianeta. A proposito di pianeta, facciamo un passo di lato e tocchiamo un tema apparentemente lontano. Sappiamo bene che la Terra si è consumata e i flussi di capitale hanno gonfiato a dismisura le metropoli che la punteggiano. Città tirate su come monumenti alla globalizzazione, vere e proprie città-Stato che contengono il mondo e intorno hanno un inquietante deserto. Mezzi di produzione indipendenti, centri sempre più liberi di autoregolarsi. I lockdown ci hanno mostrato le Global Cities come entità vuote, spettrali. Ci siamo anche convinti fosse normale la folle corsa delle merci per il pianeta, progettate in un luogo e prodotte in un altro e stoccate in un altro ancora. Ci siamo assuefatti all'idea che gli uffici dovessero concentrarsi in zone asfissiate dall'inquinamento, e che gli aeroporti fossero gli uffici dei lavoratori globali. Ci siamo lasciati travolgere da insensatezze che rompono gli equilibri nel rapporto tra l'Uomo e la Terra. Ma in ogni fase critica, dove pare impossibile distinguere un futuro prossimo, è custodita una svolta preziosa. Nel nostro caso ha la forma dei nuovi processi tecnologici, che rendono possibile lavorare da remoto abbattendo i costi del Commuting. Ha la forma di una nuova sensibilità culturale, che sollecita la riduzione delle emissioni e in generale si preoccupa della sostenibilità ambientale. Ha la forma di un mondo nuovo, dove la delocalizzazione è a misura delle nostre esigenze profonde. In cui si sceglie dove vivere, consumare e morire. Dove farsi curare, dove mandare a scuola i figli. Purtroppo non riguarda tutti, ma riguarda molti. Ed eccoci al punto. Nella corsa alla globalizzazione, l'Italia si è classificata ultima. Per ritardi cronici legati alla sua burocrazia, non ha intercettato i flussi delle città globali e ha preservato un minimo di welfare. Non ha smantellato del tutto i diritti sociali. Non ha assestato colpi mortali al sistema scolastico pubblico. Non ha consumato irrimediabilmente il suolo. Proprio per questo oggi può ritrovarsi improvvisamente avanti. Sembra un paradosso ma di fronte a un'inversione di tendenza così brusca, quella che risultava un'arretratezza può trasformarsi in un vantaggio. Riflettiamo su ciò che globalmente si intende per vivere bene. La ricchezza culturale, la dimensione dei borghi, la bellezza delle coste e delle montagne, la qualità del cibo che si mangia e dell'aria che si respira. Ecco: in un pianeta che cerca una casa confortevole per lavorare, l'Italia può candidarsi come luogo perfetto. L'ufficio più bello del mondo, nel mondo post-Covid. La globalizzazione sta entrando nella sua fase matura. Non certo una resa, ma un ripensamento. A spostarsi non saranno più le merci e le aziende ma le persone. L'essere umano avrà facoltà di tenersi lontano da città sovraffollate, da arie irrespirabili, da forme brutte ma funzionali. Il contrario del turismo predatorio da mordi e fuggi. Vivere bene sarà una scelta, la deurbanizzazione sarà un sollievo. Invece di un viavai frenetico, un movimento misurato e consapevole. Un trasloco. Radici nuove, cittadinanza, vera domanda interna. Da tutta Europa, da tutto il mondo. Questa sfida ci attende: guardare a quel che verrà e giocare d'anticipo. Migliorare i trasporti, la fibra, la scuola, la sanità. Investire dove non si è mai investito davvero: nelle aree rurali depresse, nelle zone interne spopolate. Così accoglieremo chi punta a una qualità della vita diversa, ora che può permettersi di lavorare dove desidera».
VERSO IL MEETING, PARLA SCHOLZ
Cesare Zapperi per il Corriere ha intervistato il presidente del Meeting di Rimini, Bernard Scholz, nell’antivigilia della manifestazione.
«Un anno fa invitaste Mario Draghi e a molti parve una investitura. Avevate previsto tutto? «Ma no - replica con un sorriso Bernhard Scholz, presidente del Meeting di Rimini - l'invito risaliva all'ottobre del 2019, quando la crisi politica non era prevedibile. Siamo, però, contenti che il suo intervento abbia attirato attenzioni a livello nazionale e internazionale e ci conforta che le sue riflessioni stiano trovando realizzazione». A quali si riferisce? «Il piano europeo Next Generation Eu raccoglie anche le sue sollecitazioni. È uno sguardo lungimirante rivolto alle giovani generazioni a cui noi da tempo siamo attenti». Come valuta i primi sei mesi del governo Draghi? «Ha avviato molto bene il Pnrr. Ora ci sono molte riforme difficili ed importanti da realizzare. Ma con Draghi l'Italia è tornata ad un ruolo di leader in Europa». Il Meeting 2021 si apre con il presidente della Repubblica. Cosa vi aspettate che dica? «Una riflessione sul futuro dell'Italia e dell'Europa. Mattarella è venuto a Rimini nel 2016 e già allora sottolineò l'importanza dei legami europei. Così come l'invito ai giovani a mettere in gioco i loro talenti». Eppure, il tema del Meeting («Il coraggio di dire io») sembra quasi un invito all'individualismo. «E invece è l'esatto contrario. Quel titolo, ripreso da Kierkegaard, nasce dalle esperienze virtuose che abbiamo vissuto durante il lockdown. Abbiamo assistito ad assunzioni di responsabilità straordinarie, ad una solidarietà diffusa che ci hanno consentito di affrontare la pandemia e di rialzare la testa. L'assunzione di responsabilità del singolo è diventata la forza collettiva, l'io si è trasformato in noi». Sembra una bocciatura del sovranismo. «L'importante è vivere un patriottismo equilibrato, l'appartenenza ad una patria va vissuta in modo accogliente. Solo così si può porre un argine a forme di nazionalismo che stanno rinascendo». Anche in Italia. «Per noi l'amore per la propria nazione non può essere disgiunto dall'amore per l'Europa. Nessuno può trovare uno sviluppo adeguato al di fuori del contesto europeo». Martedì 24 a Rimini saranno presenti i leader dei principali partiti (da Letta a Conte, da Meloni a Salvini). Un confronto che non ha eguali. Cosa gli chiederete? «Il tema che poniamo è "il ruolo dei partiti". La risposta ci può aiutare a capire come evolverà la democrazia. Perché i partiti devono tornare a promuovere occasioni di conoscenza e di dibattito. Non si può ridurre tutto a slogan e a singole leadership». In Italia oggi funziona così. «È un problema generale. Si tende a semplificare tutto mentre ci troviamo a vivere e lavorare in un mondo mai così complesso. Bisogna abbattere gli steccati e lavorare per il bene comune, lasciando da parte le ideologie». Parlerete anche di ius soli e ddl Zan? «Non in modo specifico. Quanto al primo, noi pensiamo che non ci sia vera integrazione senza formazione e lavoro. Quanto al secondo, il contrasto alle discriminazioni non può mettere a rischio la libertà di opinione». Quale messaggio vorrebbe uscisse dal Meeting? «Una rinnovata attenzione alle giovani generazioni e un invito alla società civile perché non deleghi tutto alla politica e concorra a costruire un futuro migliore».
Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.
Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.