La Versione di Banfi

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Enciclica sull'Europa

alessandrobanfi.substack.com

Enciclica sull'Europa

A conclusione di uno storico viaggio, il Papa parla sull'aereo. Sul Natale della Ue e non solo. Va liscio il primo giorno di Super Green pass. Conte rinuncia a Roma1. Biden-Putin sull'Ucraina

Alessandro Banfi
Dec 7, 2021
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Enciclica sull'Europa

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Ieri Papa Francesco, sull’aereo di ritorno da Cipro e Grecia, ha risposto, come sua abitudine, a ruota libera a tutte le domande dei giornalisti al seguito. I giudizi espressi sul tema dell’Europa e delle radici autentiche della nostra civiltà sono da meditare. Per equilibrio, comprensione della realtà attuale, ma anche per chiarezza di giudizio, sono considerazioni che non hanno paragone nei discorsi dei vari leader politici di questa travagliata fase del nostro continente. Colpisce fra l’altro il richiamo ad Alcide De Gasperi. Le battute sull’aereo completano e arricchiscono il messaggio dei discorsi storici pronunciati da Francesco, sulla democrazia ad Atene e sui migranti a Lesbo, che andranno per così dire capiti meglio e metabolizzati nelle prossime settimane.  

Ieri primo giorno di Super Green pass nel nostro Paese. Non c’è stata la fine del mondo, temuta da qualche commentatore. Ma certo il nodo dei controlli sui mezzi pubblici di trasporto non è del tutto sciolto. Le nostre forze dell’ordine, con sprezzo del pericolo, hanno multato a Roma, alla discesa di un bus, un cittadino rumeno. Primo sanzionato a causa dei nuovi divieti. La notizia davvero buona è che il boom delle vaccinazioni non si ferma e che in parallelo, nelle ultime ore, un milione e trecentomila italiani hanno scaricato il Green pass. Già così, è un successo. Interessante l’approfondimento del Fatto sui profitti delle Big Pharma, sull’onda emotiva della variante Omicron.

La politica italiana è turbata da un’altra iniziativa, non andata a buon fine, della dirigenza del Pd. Giuseppe Conte ha infatti rinunciato al seggio che fu di Gualtieri, “declinando” l’offerta degli alleati dem. Offerta che, a dire il vero, aveva suscitato critiche feroci di Calenda (il cui partito è risultato il primo a Roma) e di Renzi. Così va in crisi l’asse portante di quel “nuovo Ulivo” vagheggiato da Enrico Letta. E ora chi sarà il candidato alle suppletive di Roma 1? Si tratterebbe del 1009esimo elettore potenziale del nuovo capo dello Stato, secondo i calcoli di Ettore Maria Colombo che ne ha scritto sul suo Blog. A proposito di Quirinale, Cassese spiega che non c’è nessun rischio ingorgo se Draghi venisse eletto al Colle. Farebbe lui le consultazioni per il nuovo premier.

Dall’estero, vigilia dell’incontro Biden-Putin sull’Ucraina, previsto per le ore 16 italiane. Scandalosa sentenza in Myanmar contro San Suu Kyi. Visita di Malala a Washington per sensibilizzare sul destino delle ragazze afghane, che non possono più andare a scuola. Oggi terza udienza del processo contro Patrick Zaki. “Liberatelo” dice il Manifesto. Stasera, nel giorno di Sant’Ambrogio, c’è la prima della Scala: è di scena un Macbeth di Verdi, attualizzato in chiave “dispotica”.

È sempre disponibile un episodio da non perdere nel mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA CITTÀ TORNA MIA. Racconta la storia di Rebecca Spitzmiller, un’americana diventata italiana e romana al 100 per cento, che ha creato dal nulla un’associazione oggi diffusa in tutta Italia. Si chiama Retake ed è un’esperienza di recupero della città dal degrado e dalla sporcizia. Lei, Rebecca, ha cominciato dal muro del suo palazzo a Roma. E ora l'associazione può contare sull'aiuto di diverse persone nelle principali città italiane. Nell'ottobre di sette anni fa ha fondato Retake insieme ad altri. Da allora offre la possibilità di diventare volontari del bello e insieme responsabili del proprio ambiente. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-rebecca-retake-v2

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Primo giorno di attuazione delle nuove norme anti Covid. Il Corriere della Sera conferma che il governo tira dritto: «Green pass, no a deroghe». Il Giornale nota: Super Green pass boom di vaccinazioni. Il Mattino racconta del caos alla prima napoletana del film di Rubini sui fratelli De Filippo: I furbetti del Green pass. Ressa e caos al San Carlo. Il Messaggero denuncia: Falsi pass in regalo a Natale. La Verità accusa, polemizzando con chi dà poco spazio ai No Vax: Dopo le mascherine vogliono il bavaglio. Anche Il Fatto resta sulla pandemia ma per sottolineare i grandi profitti delle multinazionali del farmaco: Omicron, 10 miliardi ai soci di Big Pharma. Avvenire esalta le battute del Papa sull’aereo di ritorno dalla Grecia e allude alla “censura” Ue, poi ritirata, del Buon Natale: Ma non è laicità. L’agitazione decisa dai due sindacati è l’apertura del Quotidiano Nazionale: Sciopero di Cgil e Uil contro Draghi. Anche La Repubblica: Il sindacato sfida Draghi. E La Stampa vanno sullo stesso tema e sembrano quasi fotocopie: Il sindacato sfida Draghi: sciopero. Il Sole 24 Ore sceglie un altro argomento economico: Autonomi, ecco tutti gli sconti Irpef. Il Domani è contro il presidente della Liguria: Propaganda Covid, Toti si finanzia gli spot con i fondi della sanità. Il Manifesto sta sulla terza udienza del processo egiziano al giovane studente di Bologna Patrick Zaki: Liberatelo. Mentre Libero prende in giro i capi di Pd e 5 Stelle dopo il fallimento della candidatura a Roma: Letta e Conte coppia alla deriva.

L’ESORDIO DEL SUPER GREEN PASS

Non c’è stata l’apocalisse paventata, neanche sui trasporti pubblici. Il primo giorno di Super Green pass è andato liscio. Coraggiosa prima sanzione a Roma contro un rumeno. Mentre 1,3 milioni di persone si sono scaricate il nuovo certificato verde. La cronaca di Rinaldo Frignani sul Corriere della Sera.

«Il primo multato perché senza green pass su un mezzo pubblico si chiama Sorin, ha 50 anni ed è rumeno. Vive alla periferia nord della Capitale e ieri mattina i vigili urbani lo hanno controllato a piazzale Flaminio, dove era appena sceso da un bus. «Il green pass? Non ce l'ho - ha ammesso -. Ma giuro che devo fare il vaccino fra tre giorni. In Romania». Giustificazione che non gli ha evitato una multa da 400 euro. La prima in Italia, al debutto delle verifiche dei lasciapassare verdi con le nuove regole, in vigore fino al prossimo 15 gennaio. Controlli soft in tutta Italia, con la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese che esprime «profondo apprezzamento per lo spirito di collaborazione dimostrato dai cittadini. Le prefetture - avverte - verificheranno l'efficacia dei piani predisposti a livello territoriale, adottando, se necessario, un'eventuale rimodulazione delle misure». Da Nord a Sud la gente sembra comunque aver apprezzato l'impegno a verificare le carte verdi, anche in bar e ristoranti, proprio nel giorno del nuovo record di green pass scaricati in 24 ore: sono stati più di un milione e 300 mila, fra base e rinforzati, 970 mila dei quali per vaccinazione. Tutto sommato quella di ieri «è stata una partenza tranquilla», conferma il sindaco di Milano Beppe Sala: «I comportamenti sono stati abbastanza buoni e le sanzioni veramente minime». Non sono mancati tuttavia episodi particolari: il ristoratore veneziano senza green pass che controlla quello dei clienti, la cameriera di Orbetello che fa multare il principale, la pizzeria chiusa a Roma perché proprietaria e dipendenti sono fuori legge. Tensione a Genova con una quindicina di contestatori del «nazi pass» e in Valle di Susa, con la ferrovia bloccata un'ora da cinque incappucciati che hanno gettato catenacci sui binari. A Napoli, invece, ressa al botteghino alla prima al Teatro San Carlo del film di Sergio Rubini sui fratelli De Filippo, alla presenza dei presidenti di Camera e Senato Roberto Fico ed Elisabetta Casellati: il direttore della Asl Napoli/1 Ciro Verdoliva che ha fatto intervenire la forza pubblica. Ora si attende che i controlli entrino a regime. Anche quelli degli studenti minorenni sui mezzi pubblici: per ora hanno l'obbligo, con tampone per i non vaccinati, ma in qualche città - come Trento - le verifiche sono state sospese, mentre il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto chiede al governo «una deroga di buon senso». Per avere un bilancio definitivo delle sanzioni bisognerà attendere ancora. Non sono state molte, i controlli invece sì: solo a Roma circa 12 mila, anche se su diverse linee di bus e metro non ci sono state verifiche. Strategia a campione, più che capillare, con i controllori di Atac e Cotral che hanno allontanato 170 persone senza green pass, senza multarle. Verifiche per lo più nelle grandi stazioni, in alcune fermate della metropolitana, nei nodi di scambio. Non a tappeto, comunque».

Risultati interessanti di una ricerca italiana anti Covid. Lo studio è di tre scienziati che ora dicono: «Potrebbe diventare un nuovo farmaco, servono i fondi». Laura Cuppini per il Corriere.

«Nascondere la parte del recettore ACE2 che Sars-CoV-2 usa per entrare nelle cellule. L'idea è di tre scienziati italiani: una strategia per ostacolare la rapida diffusione del virus e quindi l'infezione. Lo studio ha coinvolto Istituto Italiano di Tecnologia, Scuola Superiore Sant' Anna e Università degli Studi di Milano ed è pubblicato sulla rivista Pharmacological Research. A marzo del 2020 Paolo Ciana (docente di Farmacologia all'Università di Milano), Vincenzo Lionetti (docente di Anestesiologia alla Scuola Superiore Sant' Anna) e Angelo Reggiani (ricercatore senior and principal investigator in Farmacologia all'ITT) si sono chiesti se esiste la possibilità di bloccare una qualsiasi variante del coronavirus mascherando un aminoacido chiamato K353, la porta di ingresso del virus nelle nostre cellule, che si trova sulla superficie della proteina ACE2. Gli esperimenti hanno dato risposta affermativa. Gli scienziati hanno quindi brevettato il primo tassello di quello che potrebbe diventare un nuovo farmaco, basato sull'uso di un «aptamero» di Dna, un breve filamento oligonucleotidico, capace di legarsi in modo specifico a K353 rendendolo inaccessibile alla proteina Spike del coronavirus. Per gli autori, «grazie a questo studio sarà possibile sviluppare un nuovo approccio terapeutico di precisione per prevenire l'infezione da Covid in forma grave, senza stimolare il sistema immunitario o avere effetti collaterali importanti». Abbiamo chiesto ad Angelo Reggiani di raccontare il percorso che ha portato a questa scoperta. Come si comporterebbe il nuovo farmaco anti-Covid? «Alla base del nostro studio c'è l'idea di creare uno schermo protettivo con cui nascondere al virus l'accesso alla cellula. Non potendo infettare il suo bersaglio, il virus muore. Abbiamo individuato due aptameri in grado di legarsi efficacemente al recettore ACE2, nascondendolo». Cosa sono gli aptameri? «Sono frammenti di Dna a singolo filamento che si comportano come farmaci, hanno un compito specifico e svolgono solo quello. Per capirsi, è come se mettessero una mascherina sulla porta di accesso del virus (l'aminoacido K353). Gli aptameri non entrano nel nucleo delle cellule e non sono in grado di interagire con il nostro Dna». Come si è svolto lo studio? «Abbiamo riprodotto al computer la porzione di ACE2 che contiene K353 e poi abbiamo eseguito uno screening in vitro su milioni di aptameri (frammenti di Dna creati artificialmente), trovandone appunto due che si legano molto bene a questa regione di ACE2, riuscendo a renderla invisibile per il virus. Quindi abbiamo condotto gli esperimenti su linee cellulari, prima utilizzando un pezzo di proteina Spike e poi sviluppando nelle cellule l'infezione vera e propria da Sars-CoV-2. I risultati hanno dimostrato che l'idea di partenza è giusta: grazie agli aptameri il virus non si legava alle cellule, non trovando quella che abbiamo definito "porta di ingresso", ovvero l'aminoacido K353». Come e quando si potrebbe assumere il farmaco? «In qualunque momento dell'infezione, ma ovviamente prima si inizia la terapia e meglio è. Presumibilmente andrebbe portata avanti fino alla guarigione. Il grande vantaggio è che l'aptamero è indipendente dalla presenza di mutazioni, quindi potrebbe funzionare con tutte le varianti. Le mutazioni infatti non riguardano la "porta di ingresso" nella cellula. A livello teorico, il farmaco potrebbe essere efficace contro ogni tipo di coronavirus che usa la proteina Spike per infettare le cellule umane tramite il recettore ACE2». Quali saranno i prossimi passi? «Per procedere nel lavoro e arrivare, come speriamo, ad avere una nuova terapia contro Covid servono due passaggi: il primo consiste nel trovare una formulazione che consenta al farmaco di arrivare là dove serve che agisca. Gli aptameri, una volta introdotti nel sangue, sono molto instabili: dunque è necessario trovare un sistema per evitare che si degradino rapidamente senza avere tempo di svolgere il proprio compito. Il secondo punto è dimostrare che questa eventuale terapia non è tossica per l'uomo. Sappiamo che gli aptameri non sono immunogenici, ovvero non scatenano una risposta immunitaria, ma non possiamo prevedere a priori se, come sostanza chimica, rischiano di provocare effetti collaterali». La ricerca per arrivare alla cura che ha descritto sta andando avanti? «I costi della fase di sviluppo di un nuovo farmaco sono altissimi e noi possiamo accedere solo ai fondi di ricerca dei nostri Istituti. La speranza è trovare un'azienda o un finanziatore che creda nell'approccio messo a punto. Abbiamo brevettato gli aptameri anti-Covid proprio per poter dare in licenza il brevetto in esclusiva a una società interessata a produrre il farmaco, una volta che saranno concluse le diverse fasi dei trial clinici sull'uomo».

A proposito di brevetti e società in grado di produrre farmaci, sul caso Omicron la Versione aveva sottolineato nei giorni scorsi “l’ombra della speculazione” (newsletter del primo dicembre). Oggi Stefano Vergine per Il Fatto mette a tema proprio i profitti delle Big Pharma.

«L'ultimo a gridarlo è stato Bernie Sanders. "Quel che è troppo è troppo", ha scritto il leader della sinistra radicale americana e senatore del Partito democratico: "La scorsa settimana otto investitori di Pfizer e Moderna hanno guadagnato 10 miliardi di dollari mentre si diffondevano le notizie della variante Omicron". Non è chiaro chi siano questi investitori menzionati da Sanders, a ogni nuova variante di SarsCov2 annunciata le speculazioni in Borsa sono dietro l'angolo, infatti la scorsa settimana i valori dei titoli hanno subito forti fluttuazioni mentre imperversava l'allarmismo su Omicron. Ma la sostanza del ragionamento è ormai condivisa da tantissimi, da destra a sinistra: medici, ministri, diplomatici, scienziati, attivisti; l'Oms, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale. "La sospensione sui brevetti dei vaccini anti-Covid è giusta ed equa", scriveva già a maggio Nature. Sono d'accordo ormai anche quasi tutti i Paesi del mondo, compresi Stati Uniti e Cina, eppure da oltre un anno la proposta avanzata dai governi di India e Sudafrica giace immobile sul tavolo dell'Organizzazione mondiale del commercio. L'ultima riunione, a inizio mese, doveva essere decisiva. È stata rimandata a data da destinarsi: la priorità è ora la gestione di Omicron, è stato spiegato. La questione dei brevetti ora non merita neanche una riunione su Zoom. Chi sta riuscendo a congelare la discussione? A fare da scudo ci sono l'industria farmaceutica, il settore finanziario e alcuni Stati. Chi continua a opporsi diplomaticamente alla moratoria sui brevetti sono Svizzera, Regno Unito e Unione Europea, quest' ultima seppur divisa al suo interno. La Germania di Angela Merkel, sede di Biontech, finora è stata contraria (non è chiaro cosa ne pensi il neo cancelliere Olaf Scholz). La Francia di Macron è d'accordo. L'Italia di Draghi ha tenuto finora una posizione sfumata: l'ultima volta che ne ha parlato, il premier ha detto che "l'Italia è aperta a questa idea (della sospensione, ndr), in modo mirato, limitato nel tempo e che non metta a repentaglio l'incentivo a innovare per le aziende farmaceutiche". Poi ha aggiunto: "So che Ursula (Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ndr) ha un'altra idea, che è anch' essa molto innovativa e che in prospettiva è più realistica". Era maggio, l'idea della Von der Leyen - puntare sugli accordi volontari tra case produttrici - non ha funzionato: a oggi i dati dicono che solo il 3% dei vaccini è andato in Africa, allora la quota era del 2%, pochi passi avanti. Senza l'unanimità, all'Organizzazione mondiale del commercio la sospensione dei brevetti non può passare. Intanto, mentre il tempo scorre c'è chi macina soldi. Il 2 novembre scorso l'americana Pfizer ha detto che quest' anno fatturerà grazie al vaccino 36 miliardi di dollari. Altrettanto dovrebbe fare la tedesca Biontech, cui vanno metà dei ricavi. L'altra americana, Moderna, prevede di incassare grazie al suo vaccino tra i 15 e i 18 miliardi di dollari. Totale: 90 miliardi circa. Anche i profitti sono dal leccarsi i baffi, perché le case farmaceutiche hanno puntato finora a vendere i propri prodotti al miglior offerente, vale a dire alle nazioni più ricche. Effetto collaterale: al momento solo il 3% delle dosi distribuite nel mondo è andato in Africa. Sulla base delle stime fornite dalle tre aziende, Oxfam ha calcolato che le tre società campioni del mercato vaccinale quest' anno faranno 34 miliardi di dollari di profitti lordi, equivalenti a 65mila dollari al minuto, più mille dollari al secondo. Tutto questo prima di aver pagato le tasse. Che, in due casi su tre, saranno parecchio basse. Mentre la tedesca Biontech ha scritto che la sua aliquota effettiva a fine anno sarà del 31 per cento, Moderna e Pfizer verseranno molto meno. La prima ad agosto aveva stimato un'aliquota effettiva del 7%, poi a novembre ha detto più genericamente che pagherà meno del 10%. Pfizer ha invece stimato che quest' anno i suoi utili saranno tassati al 16%. In entrambi i casi, molto meno di quanto versa una normale impresa americana (21%). D'altronde sono le leggi a permetterlo: tra vecchie perdite usate per abbattere il carico fiscale e società offshore (la holding di Pfizer è registrata in Delaware, quella di Moderna in Svizzera), le due società che più stanno beneficiando dell'emergenza-Covid verseranno pochissimo, e questo nonostante abbiano ricevuto "miliardi di dollari pubblici dai contribuenti di Stati Uniti, Germania e altri Paesi", hanno fatto notare gli attivisti della People' s Vaccine Alliance, di cui fanno parte moltissime ong tra cui l'italiana Emergency. Chi rischia di perdere di più da un'eventuale sospensione dei vaccini sono dunque gli azionisti di Pfizer, Biontech e Moderna. Il fondatore di Biontech, lo scienziato Ugur Sahin, da quando è iniziata la pandemia ha guadagnato 4 miliardi di dollari grazie al rialzo del titolo in Borsa. L'amministratore delegato di Moderna, Stephane Bancel, quest' anno ha aumentato il patrimonio personale di 4,8 miliardi di dollari. Sono però i grandi fondi internazionali, i colossi della finanza ad aver scommesso le fiche più pesanti sui brevetti dei vaccini. Due, in particolare. Blackrock ha partecipazioni in tutte e tre le aziende per un totale del 9,8%: ai valori attuali, sono 18,1 miliardi di dollari. The Vanguard, altro gigante del settore, è ancora esposto: possiede il 14,8% delle azioni delle tre società, per un controvalore di 28,5 miliardi di dollari al momento. La sospensione dei brevetti rischia di incenerire il valore delle loro partecipazioni, così come quello dei tanti altri fondi d'investimento che hanno scommesso soldi sulle aziende che producono i vaccini. A loro, la liberalizzazione non conviene».

IL PAPA SULL’AEREO SPIEGA L’EUROPA CHE VOGLIAMO

Papa Francesco, di ritorno dallo storico viaggio a Cipro e in Grecia, spiega sull’aereo il senso del suo richiamo alle radici autentiche della civiltà europea. "Il documento dell'Ue sul Natale è un anacronismo". E ancora: “Con i populismi e governi sovranazionali la nostra democrazia è in pericolo". Domenico Agasso per la Stampa.

«La democrazia è un tesoro e va custodita». Oggi rischia di «arretrare» a causa di «due pericoli: i populismi e i governi, gli "imperi", sovranazionali». Mezz' ora dopo il decollo da Atene del volo Aegean A34994 diretto a Roma, papa Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito nei giorni di viaggio a Cipro e in Grecia, con tappa a Lesbo. E lancia messaggi forti e chiari, diretti e talvolta anche duri e sorprendenti, come da suo stile. Bacchetta l'Unione Europea sulla questione migranti. Definisce un «anacronismo» il documento sul Natale. E difende l'arcivescovo di Parigi monsignor Michel Aupetit, accusato di una love story: «Ho dovuto dimetterlo perché ha perso la fama, ma il suo peccato carnale non è dei più gravi».

Santità, Lei ha parlato della democrazia che «arretra». A quali Paesi si riferiva?

«La democrazia è un tesoro di civiltà e va custodita, non solo da una entità superiore ma anche negli stessi Paesi. Contro la democrazia oggi vedo due pericoli. Il primo è quello dei populismi che stanno qua e là e incominciano a mostrare le unghie. Penso a un grande populismo del secolo scorso, il nazismo, che difendendo i valori nazionali, così diceva, è riuscito ad annientare la vita democratica e a diventare una dittatura, con la morte della gente. Stiamo attenti che i governi - non dico di sinistra o di destra - non scivolino su questa strada dei populismi che non hanno niente a che vedere con il popolarismo, che è l'espressone dei popoli liberi, con la propria identità, folklore, arte. Un secondo pericolo si ha quando si sacrificano i valori nazionali, li si annacquano in un "impero", una specie di governo sovranazionale. C'è un romanzo scritto all'inizio del Novecento da Robert Hug Benson, "Il padrone del mondo", che sogna il futuro in un governo internazionale che con misure economiche e politiche governa tutti gli altri Paesi. Quando si dà questo tipo di governo si perde la libertà».

Che cosa pensa del documento della Commissione europea che voleva «cancellare» la parola Natale?

«È un anacronismo. Nella storia tante dittature hanno cercato di fare così Napoleone, la dittatura nazista, quella comunista è una moda di una laicità annacquata, ma è una cosa che non ha funzionato nella storia. Credo sia necessario che l'Ue prenda in mano gli ideali dei padri fondatori, ideali di unità e di grandezza, e stia attenta a non seguire la strada delle colonizzazioni ideologiche. Perché tutto ciò potrebbe portare a dividere i Paesi e a far fallire l'Unione Europea. L'Ue deve rispettare un Paese per come è strutturato dentro, la sua varietà, e non uniformare».

Sul tema migrazioni che cosa si aspetta da Stati come la Polonia, la Russia, la Germania con il nuovo governo?

«Se avessi davanti un governante che impedisce l'immigrazione con la chiusura delle frontiere e con i fili spinati gli direi: pensa al tempo in cui tu fosti migrante e non ti lasciarono entrare, volevi scappare. Ma i governi devono governare e se arriva un'ondata migratoria non si governa più? Ogni governo deve dire chiaramente quanti migranti può ricevere, è un suo diritto, ma allo stesso tempo i migranti vanno accolti, accompagnati, promossi. Se un governo non può fare questo deve entrare in dialogo con altri Paesi. La Ue deve costruire armonia per la distribuzione dei migranti. In Europa non c'è una linea comune. I migranti vanno integrati: perché se non integri il migrante, questo maturerà una cittadinanza di ghetto. E avrai un guerriero. Certo, non è facile. I rappresentanti dei governi europei devono mettersi d'accordo. E se uno Stato manda indietro un migrante nel suo Paese allora deve integrarlo là, non lasciarlo sulla costa libica».

In Francia la commissione indipendente sugli abusi ha parlato di responsabilità istituzionale della Chiesa, di dimensione sistemica. Che significato ha per la Chiesa universale?

«Quando si fanno questi studi, dobbiamo stare attenti alle interpretazioni. Quando si considera un tempo così lungo (70 anni, ndr), si rischia di confondere il modo di sentire un problema: una situazione storica va interpretata con l'ermeneutica dell'epoca, non di adesso. Ma noi diciamo no alle coperture degli abusi nella Chiesa. Non ho letto la relazione francese ma ho ascoltato i commenti dei vescovi, ora verranno a Roma e domanderò loro che mi spieghino la situazione».

Perché ha accettato la rinuncia dell'arcivescovo di Parigi?

«Lei mi domanda: che cosa ha fatto di così grave da dover dare le dimissioni? Prima di rispondere dirò: fate un'indagine. Chi lo ha condannato? L'opinione pubblica. È stata una sua mancanza, contro il VI comandamento, ma non totale. Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria, così sta la cosa. E questo è un peccato, ma non grave. I peccati della carne non sono i più gravi. Quelli più gravi sono la superbia, l'odio. Così Aupetit è un peccatore come lo sono io, come è stato Pietro, il vescovo su cui Gesù ha fondato la Chiesa. Ma quando il chiacchiericcio cresce e sporca la fama di una persona, questa persona non potrà governare perché ha perso la fama. Per questo ho accettato le dimissioni, non sull'altare della verità ma sull'altare dell'ipocrisia».

Quando ci sarà il suo prossimo incontro con Kirill, patriarca di Mosca?

«È all'orizzonte. Il Patriarca deve viaggiare e io sono disposto ad andare a Mosca per incontrarlo. Per dialogare con un fratello non ci sono protocolli. Siamo fratelli e ci diciamo le cose in faccia».

Riccardo Maccioni per Avvenire traccia un bilancio conclusivo dello straordinario viaggio del Papa a Cipro e in Grecia: è stato un grande “richiamo all’essenza” della civiltà europea.

«È una questione di vocabolario, per chiamare l'orrore con il suo nome. Di braccia, che sollevano chi cade e tirano giù i muri. Di occhi, perché anche il cuore parla con il viso, e solo guardando insieme agli altri si può pensare e disegnare un futuro diverso. Il viaggio del Papa in Grecia e a Cipro è stato un richiamo all'essenza dell'umanità, dell'autentica civiltà europea, e a tutti modi che esistono per difenderla e farla crescere. Non solo l'ennesima denuncia della vergogna delle barriere contro i poveri, che pure c'è stata e forse mai con discorsi altrettanto perentori, ma un itinerario politico, nel senso più nobile del termine, che quando si sposa con il Vangelo esce dal recinto dell'ideologia per diventare servizio pastorale, cioè ricerca del bene comune declinato come carità, come amore. La visita in fondo ha toccato un fazzoletto di poche centinaia di chilometri però il suo respiro ha abbracciato un continente intero. E un sogno comunitario, quello dell'Unione, sempre più a rischio fallimento. A minarlo sono le scorciatoie per aggirare la complessità dei rapporti tra nazioni e dentro le società. Le ricette facili, rassicuranti dei populismi, l'autoritarismo «sbrigativo», la paura che arma la difesa del privilegio. E, dall'altra parte, la rinuncia a se stessi, l'annacquamento della propria identità, in nome di un politicamente corretto che diventa l'olio su cui far scivolare i conflitti, nell'illusione che evaporino come le polveri sottili dopo un giorno di vento. E invece stanno lì, quasi rafforzati dalla scelta del rinvio, che peraltro sembra non pagare più neanche a livello elettorale. Da Atene Francesco lo ha denunciato con chiarezza, oggi la democrazia è messa in pericolo dalle polarizzazioni esasperate, dal ridurre il pensiero alto a miseri interessi di bottega, dall'accettazione finanche del ridicolo pur di blindare il consenso. Una deriva cui il Pontefice ha opposto il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal tifo urlato dal balcone allo sporcarsi le mani nel nome del dialogo. In fondo, è la ricetta dei padri dell'Europa, e non a caso il richiamo è andato a De Gasperi e al suo discorso di Milano, del 1949: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti» verso «la giustizia sociale». Che alla luce del Vangelo significa molto più della tolleranza, vuol dire solidarietà generosa, «di fatto» come diceva Robert Schuman e, in un crescendo virtuoso, consapevolezza dell'appartenenza a un'unica famiglia umana, fraternità, comunione».

Luigi Accattoli per il Corriere commenta le battute del Papa sull’aereo a riguardo dei “peccati della carne”.

«I peccati della carne non sono i più gravi» diceva ieri Francesco sull'aereo: il popolo l'ha sempre saputo e ci sono pure i proverbi ad attestarlo. I moralisti tuttavia fino a ieri alzavano la voce e sostenevano che il peccato di sesso è sempre grave. Da qualche tempo le classifiche sono state riviste ma Francesco è il primo a dirlo da Papa. Non è tuttavia la prima volta che lo dice e mettendo insieme i suoi accenni in materia si ottengono indicazioni su quali siano, per lui, i peccati più gravi. Ieri ha detto la superbia e l'odio. Un'altra volta aveva accennato alla vanità. Tante volte ha indicato come gravissimi il commercio delle armi, le guerre, la tratta degli esseri umani, l'appartenenza alle mafie. Una volta ha detto che la pedofilia è un sacrilegio. Quanto alla gravità del peccato sessuale in un'occasione Francesco era giunto a rovesciare la classifica tradizionale dicendo a Dominique Wolton (nel volume Dio è un poeta , pagina 154) che «i peccati più lievi sono quelli della carne». In ciò avvicinandosi a Miguel de Unamuno che nella Vita di Don Chisciotte e di Sancho (1905) affermava della prostituta Maritornes che «si può dire a stento che pecchi». De Unamuno a sua volta seguiva il popolo, che ha sempre tenuto conto della debolezza della carne. «Pecài de mona Dio li perdona, pecài de pantaeòn pronta assoiussiòn»: asserisce un proverbio veneto che non fa differenze tra i peccatori maschi e femmine e tutti li vuole assolti. La paura del sesso è stata forte nelle Chiese cristiane degli ultimi secoli. Ma non fu sempre così. Dante mette i lussuriosi nel secondo girone dell'Inferno, subito dopo il limbo: cioè considera peggiori tutti gli altri peccati. Questo il suo ordine di gravità: golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi, eretici, violenti, fraudolenti, traditori. Dunque possiamo dire che con Francesco torniamo a Dante, ovvero alla Scolastica, a Tommaso d'Aquino. La voce grossa contro la sessualità - per quanto riguarda la Chiesa Cattolica - l'ha fatta la manualistica per confessori, che per secoli ha affermato come nelle cose dell'amore non si dia materia lieve: «In re venerea non datur parvitas materiae». È a motivo del celibato dei consacrati che il rigore contro la corporeità è salito, nei secoli della controriforma, a note acute».

LEGGE DI BILANCIO, SCIOPERO DI CGIL E UIL

Cgil e Uil hanno deciso di proclamare uno sciopero per il 16 dicembre contro la Legge di Bilancio del governo Draghi. Salvatore Cannavò per Il Fatto.

«Mario Draghi affronterà il suo primo sciopero generale. Cgil e Uil (senza la Cisl) hanno annunciato la protesta più dura con astensione dal lavoro di 8 ore per il prossimo 16 dicembre, "con manifestazione nazionale a Roma e con il contemporaneo svolgimento di analoghe iniziative interregionali in altre 4 città". Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, segretari di Cgil e Uil, interverranno alla manifestazione di Roma, che si svolgerà in piazza del Popolo. Sembra quindi una cosa seria anche se indetta di corsa per provare ancora a incidere sulla discussione della legge di Bilancio. Il giudizio dei due sindacati sulla manovra economica è impietoso: "Pur apprezzando lo sforzo e l'impegno del premier Draghi e del suo esecutivo - scrivono Cgil e Uil - la manovra è stata considerata insoddisfacente da entrambe le organizzazioni sindacali". Il cahier de doléance è lungo e verte "sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza, tanto più alla luce delle risorse, disponibili in questa fase, che avrebbero consentito una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un'occupazione stabile". La discussione interna al sindacato non è stata semplice. Landini aveva più volte inviato segnali di malcontento e la gestione del rapporto con i sindacati da parte del governo ha sempre confidato nel vecchio motto "l'intendenza seguirà". Però la Cgil non se l'era sentita finora di rompere con la Cisl che si è detta contraria ad acuire i contrasti con Draghi. La confederazione di Luigi Sbarra definisce "sbagliato" il ricorso allo sciopero che equivarrebbe a "incendiare il conflitto sociale". La Uil, invece, mantenendo la linea movimentista che l'aveva caratterizzata negli ultimi anni, ha detto sì e quindi lo sciopero si farà a due. Assetto che ricorda quello del 2014 quando le due organizzazioni manifestarono insieme contro il governo Renzi sul Jobs Act. "Doveva essere proclamato molto prima, non a ridosso di Natale a Finanziaria praticamente approvata", dice invece l'oppositrice interna alla Cgil, Eliana Como. Palazzo Chigi, infine, si limita a notare che "la manovra è fortemente espansiva e il governo ha sostenuto lavoratori pensionati e famiglie con fatti, provvedimenti e significative risorse"».

Il retroscena di Roberto Mania per Repubblica racconta la reazione allo sciopero di Palazzo Chigi, che è soprattutto di incredulità. L'annuncio coglie di sorpresa il Premier che fa sapere: "Sul lavoro nessun esecutivo ha fatto di più".

«Mario Draghi questo sciopero non se l'aspettava proprio e certo non ci è rimasto bene quando gli è arrivata la notizia. Aveva aperto alle richieste sul fisco dei sindacati fino ad incrinare i rapporti tra i partiti della sua larga maggioranza; con Cgil, Cisl e Uil aveva avviato un confronto sul modello europeo del dialogo sociale, uno scambio di informazioni costante privo dei vincoli però della concertazione, senza attribuire, infine, ai sindacati una funzione di supplenza alla debolezza della politica. Il metodo Draghi sul fronte sociale. Non è diverso, infatti, il rapporto costruito con la Confindustria di Carlo Bonomi. Ieri pomeriggio quando a Palazzo Chigi è arrivata la lettera firmata da Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri con oggetto "Proclamazione sciopero generale per il giorno 16 dicembre 2021" sono rimasti sorpresi, anche increduli. «Sciopero ingiustificato e immotivato», l'hanno definito. L'avvio di un conflitto sociale in una fase delicatissima, in cui accanto alla ripresa della pandemia si registra anche l'impennata dell'inflazione, fa immaginare scenari da anni Settanta: la spirale prezzi-salari con una crescente tensione sociale. Non è un caso che più volte nei suoi ultimi interventi pubblici Draghi abbia insistito sulla necessità di buone relazioni industriali e abbia lodato le iniziative positive messe in campo in questa direzione. Da ieri il quadro è cambiato con un doppio strappo: quello tra Cgil e Uil con il governo (e i partiti della maggioranza) e quello all'interno del movimento sindacale (come ai tempi dei governi Berlusconi e Renzi). C'è un profilo anche sociale nell'azione dell'esecutivo Draghi. A Palazzo Chigi spiegavano ieri sera che «non c'è governo che abbia fatto di più per i lavoratori in così poco tempo», esattamente in 296 giorni dal suo insediamento. E giù l'elenco degli interventi, dal primo step per la riforma fiscale con sette miliardi su otto indirizzati al lavoro dipendente e ai pensionati, ai quattro miliardi destinati dalla legge di Bilancio per l'occupazione e il mercato del lavoro (riforma degli ammortizzatori sociali in testa), ai 3,5 miliardi per la sanità. E poi le misure (quasi tre miliardi di euro) per contrastare il caro-bollette, la riforma dell'assegno unico per le famiglie, la conferma con alcuni ritocchi al reddito di cittadinanza, il decreto sulla sicurezza sul lavoro. Draghi aveva sfidato anche la sua maggioranza proponendo una sorta di "contributo di solidarietà" a carico dei contribuenti con reddito annuo da 75 mila euro in su, per venire incontro proprio alle richieste dei sindacati. Dall'altra parte quasi la metà (3,3 miliardi) del taglio dell'Irpef va ai redditi fino a 28 mila euro l'anno. Numeri e scelte che non possono essere sfuggiti a Landini e Bombardieri, tanto che proprio sulla base di essi il leader della Cisl, Luigi Sbarra, si è smarcato ed ha apprezzato la linea di Draghi. Dunque ci sono questioni di merito (Cgil e Uil giudicano insufficienti i passi avanti fatti dal governo), di metodo (Cgil e Uil chiedono un tavolo di trattativa vero e proprio non vogliono essere solo consultati), ma soprattutto ci sono questioni politiche. Lo sciopero proclamato dalla Cgil di Landini e dalla Uil di Bombardieri (sparute le voci dissenzienti all'interno dei rispettivi organismi dirigenti) appare soprattutto contro la maggioranza di governo. Contro lo stop al "contributo di solidarietà" da parte dei partiti del centro e della destra, Italia Viva, Forza Italia, la Lega di Matteo Salvini e gli stessi Cinquestelle. È come se Landini, con l'alleanza della Uil, abbia scelto la strada dell'opposizione sociale di sinistra, togliendo alla destra radicale di Giorgia Meloni l'esclusiva dell'opposizione al governo. Landini si muove da sempre sul confine tra politica e sindacato, rivendica una soggettività politica del movimento sindacale, punta a coprire gli spazi lasciati liberi dalla politica e dai partiti (immaginò ai tempi della Fiom la "coalizione sociale"). Con Draghi ha costruito in questi mesi un buon rapporto personale (significativo l'abbraccio tra i due dopo l'assalto fascista alla sede della Cgil) ma gli va stretto il ruolo del leader sindacale meramente istituzionale, non avendo in tasca, tra l'altro, alcuna tessera di partito. Su questa linea ha incrociato Bombardieri che da tempo si è disegnato un profilo di oppositore, coltivando l'idea di poter spostare la Uil su una posizione anti-Draghi. Si vedrà se lo sciopero generale del 16 dicembre non andrà oltre la funzione di mera testimonianza, ma intanto a Palazzo Chigi stanno anche pensando alla "mossa del cavallo": convocare i sindacati al tavolo della riforma delle pensioni prima dello sciopero generale separato».

CONTE DICE NO AL SEGGIO DI ROMA 1

Colpo di scena nei rapporti fra Pd e 5 Stelle. Giuseppe Conte “declina” l'offerta dem di candidarsi nel collegio che fu di Gualtieri a Roma. Intanto Appendino e Bonafede vengono nominati coordinatori del Movimento. Matteo Pucciarelli su Repubblica.

«Giuseppe Conte alla fine dice no: non si candiderà per il "fronte progressista" al collegio di Roma centro lasciato vacante dal pd Roberto Gualtieri, eletto sindaco della Capitale. Le perplessità del presidente 5 Stelle di fronte alla proposta dei vertici Pd - si voterà il prossimo 16 gennaio - si sono trasformate in una decisione negativa specie dopo la minaccia di Carlo Calenda di presentarsi contro di lui nello stesso collegio. Zona dove il leader di Azione aveva conquistato il 30 per cento giusto due mesi fa alle comunali. Insomma, per il capo del M5S sarebbe stata una battaglia campale e perciò assai rischiosa, visto anche il possibile appoggio o comunque la non belligeranza del centrodestra verso Calenda. «La mia dedizione al M5S è completa, in questo momento è impossibile dedicarmi ad altro, ringrazio Enrico Letta e il Pd per la disponibilità e lealtà della proposta», ha spiegato in conferenza stampa. Il problema non era solo quello di dover conquistare il collegio romano, ma anche il come. Con quale percentuale, quindi con quale legittimazione. Lì nel 2018 Paolo Gentiloni passò con dieci punti di distacco dal centrodestra e 24 dal M5S, nel 2020 Gualtieri superò il 62 per cento (col Movimento al 5). Insomma, meglio evitare paragoni. Anche perché il timore dei 5 Stelle era che lo stesso Pd non appoggiasse convintamente e in pieno la candidatura di Conte, con l'area ex renziana di Base riformista in realtà anch' essa attirata da Calenda. «Quando vedo certe uscite saccenti, sguaiate, che prefigurano più che un campo largo un campo di battaglia, ecco credo non ci sono gli atteggiamenti, i presupposti, per un "campo largo"», ha sottolineato Conte parlando di Matteo Renzi e di chi guarda a lui e al M5S come ad una minaccia per l'area di centrosinistra. Comunque l'assenza del presidente 5S in Parlamento in un passaggio complicato come l'elezione del nuovo presidente della Repubblica «non sarà di impedimento nel giocare un ruolo di protagonista - assicura - Saremo la forza politica che si dimostrerà più compatta nell'affrontare questo passaggio». Il suo augurio è che non ci sia un ritorno alle urne in anticipo rispetto alla fine naturale della legislatura, perché «il Paese non ha bisogno di elezioni». Quanto alla possibile candidatura di Draghi al Quirinale, l'ex premier sembra non vederla bene: «Sta guidando un governo con moltissime cose da fare, lasciamolo lavorare». Dopodiché l'incontro con i giornalisti aveva l'obiettivo principale di illustrare i componenti dei 17 comitati interni al M5S, uno degli ultimi atti della riorganizzazione. Oltre ai coordinatori, ne faranno parte altri quattro membri. In tutto una distribuzione generosa: 85 cariche. Tra gli altri ci sono Chiara Appendino (Formazione), Alfonso Bonafede (Rapporti territoriali), Pierpaolo Sileri (Salute), Nunzia Catalfo (Lavoro), Stefano Buffagni (Economia), Lucia Azzolina (Istruzione), Roberta Lombardi (Enti locali) e Vittoria Baldino (Politiche giovanili). La vicepresidente Paola Taverna, una dei cinque, sarà vicaria di Conte. In settimana infine verrà votato il nuovo capogruppo della Camera, sarà ancora una volta Davide Crippa; dopo una lunga mediazione coordinata da Riccardo Ricciardi, un altro dei vice di Conte, si è così evitato lo strappo com' era avvenuto al Senato il mese scorso».

Per Maria Teresa Meli sul Corriere, il logoramento del disegno dei dem è evidente.

«L'altro ieri sera aveva sussurrato un sì ai diversi ambasciatori del Pd. Poi Conte è stato assalito dai dubbi. I suoi e quelli dei 5 Stelle cui sembrava poco dignitoso diventare «ostaggi del Pd». Quindi sono sopraggiunti anche i timori. L'ex premier ha capito che l'annuncio di una candidatura contrapposta di Calenda non era certo da prendere sottogamba. Il leader di Azione in quel collegio ha preso più del Pd. La partita si sarebbe fatta ad altissimo rischio, tanto più che il centrodestra avrebbe potuto optare per una forma di desistenza mascherata. L'eventualità di perdere era concreta. E, comunque, anche una vittoria di stretta misura non avrebbe rappresentato un buon viatico né per l'alleanza con il Pd né per la leadership, già non saldissima, di Conte. Il quale, peraltro, non era sicuro nemmeno degli stessi voti grillini a Roma. Sicuramente non di quelli di Virginia Raggi. Perciò quel sì sussurrato a mezza bocca è diventato un no, grazie. Per ore Letta, Franceschini e altri maggiorenti dem hanno insistito per far cambiare idea a Conte: «Così ci metti in difficoltà, non lo capisci?», è stata la frase che l'ex premier si è sentito rivolgere più volte nei suoi colloqui di ieri. Ovvio, perché quel no, dopo che domenica era stato il Pd a far filtrare trionfalmente la notizia, mette nei guai il Nazareno e rimanda all'esterno l'immagine di un partito in difficoltà. Ma Letta non dispera: «La mia bussola, il mio dovere, è costruire il centrosinistra e allargare il campo al punto di proporre a un leader che è fuori dal Parlamento di entrare grazie anche al radicamento del Pd in quel collegio». Però a causa di questa operazione andata male il potere contrattuale dei vertici dem nelle trattative per il Quirinale potrebbe affievolirsi. Ma per amor di cronaca va sottolineato che non tutto il Pd era d'accordo con l'operazione. Innanzitutto perché a molti è apparsa come un'accelerazione di Letta verso le elezioni anticipate. «Così - si ragionava tra i dem - Enrico tenta di blindare l'alleanza con i 5 Stelle per andare al voto a primavera». Ma vi erano anche altre obiezioni. Base riformista, la corrente di Guerini e Lotti, riteneva un azzardo mandare avanti un'operazione «così delicata a pochi giorni dalle elezioni del Colle». Molti dubbi, dentro Base riformista, pure sull'opportunità di andare in questo modo alla rottura con Calenda. Anche la componente di Matteo Orfini era contraria. Indubbiamente adesso la partita per il Pd si complica su due fronti. Quello della costruzione dell'alleanza con il M5S, di sicuro. Ma nell'immediato si profilano problemi in vista anche per il Quirinale. I dem hanno infatti avuto la conferma che giocare di sponda con l'alleato grillino è tutt' altro che facile: fare affidamento sui 5 Stelle può rivelarsi un rischio. Non solo, tentando questa operazione della candidatura di Conte, il Pd ha, di fatto, provocato un rafforzamento dell'area di centro riformista che è scesa compatta in campo contro l'ex premier e che si ripromette di fare altrettanto quando si apriranno i giochi per il Colle. Ora sia Calenda che Renzi, che pure non si amano, gongolano. «Che figura il Pd che bacia la pantofola ai 5 Stelle e si fa anche dire di no», scherza il primo. «Il problema è che i dem non sono cattivi, sono incapaci», affondano i renziani».

Stefano Folli su Repubblica nota come il tentativo fallito dell’alleanza Pd-5 Stelle potrebbe riflettersi nelle prossime settimane in un “liberi tutti”, proprio nel voto sul nuovo capo dello Stato.

«Il cosiddetto "campo largo", cioè il nuovo Ulivo coltivato da Enrico Letta, è una buona idea che si scontra contro una realtà complicata. Non potrebbe essere altrimenti. Al momento si riduce più o meno all'alleanza con i Cinque Stelle, rappresentati da un leader, Conte, la cui reale influenza resta un mistero, nel senso che non si capisce se e fino a che punto controlli il suo esercito. Di conseguenza dubbi e polemiche sulla candidatura a Roma dell'avvocato pugliese erano inevitabili e hanno avuto l'esito prevedibile: una sconfitta dell'asse che si vorrebbe rafforzare e invece si è indebolito. La verità è che l'intesa Pd-5S, più la sinistra di LeU, trasmette un messaggio che può essere gradito o no, ma in ogni caso ha poco da spartire con l'Ulivo di Prodi. Quell'esperienza, che pure ebbe fortuna solo all'inizio, prese forma da un'ambizione riformista, testimoniata dall'adesione alla moneta unica e da uno slancio europeista. Oggi il "nuovo Ulivo", almeno finora, è soprattutto un patto di potere il cui orizzonte rimane ambiguo. Certo, il vertice del Pd aveva tutto l'interesse a coinvolgere l'avvocato pugliese, offrendo una sponda a lui e a coloro che ancora lo seguono. Conte eletto a Roma con i voti dei democratici, in un collegio considerato sicuro, avrebbe sancito che i 5S sono diventati una specie di corrente esterna del Pd. Un segnale utile nelle intenzioni a mantenere un po' di disciplina nel gruppo parlamentare "grillino" che rappresenta ancora, tra Camera e Senato, la maggioranza relativa. Infatti un minimo di compattezza nel movimento è indispensabile in vista del Quirinale. Quanti nel Pd aspirano a tirare i fili del grande gioco, da Letta a Franceschini a Gentiloni, hanno bisogno che i Cinque Stelle mantengano i nervi saldi. E soprattutto seguano le indicazioni di Largo del Nazareno. C'era quindi una logica. Ma, come si è detto, siamo lontani dal "nuovo Ulivo". Un tempo un candidato che si fregia del titolo di ex premier non si sarebbe tirato indietro. Invece l'uomo ha fatto i suoi calcoli e ha realizzato che non si trattava proprio di una passeggiata. Facile capire perché. L'intesa Pd-5S suscita ovvie reazioni avverse in un certo mondo ansioso di dar vita a un aggregato "centrista" come alternativa secca al rapporto privilegiato con il M5S. Così Calenda, che si considerava ormai l'interlocutore liberal-centrista della segreteria del Pd al posto di Renzi ormai messo ai margini, si è sentito preso in giro. Altro che interlocutore... al dunque il Pd sceglieva ancora Conte. Del resto i 5S hanno un peso che può essere quasi decisivo per eleggere il capo dello Stato, mentre i "centristi" sono abili nel gioco di palazzo, ma dispongono di una forza in apparenza modesta. E magari - ragiona qualcuno - possono essere recuperati in un secondo tempo. Il problema è che nel collegio centrale di Roma Calenda aveva raccolto una notevole percentuale di consensi appena un mese e mezzo fa. La sua candidatura, o quella di una figura "riformista" della stessa area (o della corrente renziana), era quindi in grado di compromettere l'operazione Conte. Almeno di agire come fattore di disturbo. Tanto è bastato per rimettere tutto in discussione, dimostrando che la tempra di combattente politico dell'avvocato è limitata. L'alleanza Pd-5S aveva la possibilità di indicare una prospettiva di medio termine, ma l'ha mancata. E ora rischia di soffrire più del previsto il confronto sul Quirinale».

QUIRINALE, PARLA CASSESE: “I PARTITI SONO IN CRISI”

Su Repubblica Concetto Vecchio fa il punto con l’ex Presidente della Corte Costituzionale Sabino Cassese. Il giurista è preoccupato della crisi di un sistema in cui i partiti sono ossessionati dai giochi di Palazzo e divisi al loro interno. Quanto al presunto “ingorgo” istituzionale possibile con l’elezione di Draghi, per Cassese non ci sono problemi.

«Professor Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, lei ha dedicato qualche libro alla presidenza della Repubblica. Questa vigilia è diversa dalle altre?
"Oh, sì. C'è un eccesso di enfasi che mi preoccupa. Distoglie dalle cose più importanti di cui occorrerebbe occuparsi. La scuola. Le pensioni. La sanità. Il lavoro. E invece tutto ruoto attorno al Quirinale".

Non è un bivio decisivo?
"Ma non più importante delle politiche che bisognerebbe mettere in campo. La nostra classe dirigente è sempre stata così: attenta agli schieramenti, ai battibecchi, ai ragionamenti, non ai programmi. Un tempo i partiti esprimevano anche grandi politiche. La scuola media unica, la nazionalizzazione dell'energia, la Cassa per il Mezzogiorno, o il servizio sanitario, che ci ha salvato dalla pandemia, sono nati così".

Come spiega l'enfasi di queste settimane?
"Con l'obiettiva difficoltà del sistema politico. Quattro partiti hanno un consenso tra il 15 e il 20 per cento, e poi ce ne sono sei tra il 2 e l'8. La frammentazione è aggravata dal fatto che ciascuno è diviso al suo interno e quasi tutti stanno insieme in una maggioranza che, come ha ricordato il presidente Mattarella, non corrisponde ad alcuna formula politica".

Quindi questo parlare del candidato rivela una crisi?
"Sì, è il segnale di un vuoto, sui programmi, sugli indirizzi".

Pensa che toccherà a Draghi?
"Non mi faccia fare previsioni, perché in genere si sbaglia".

È favorevole a una donna?
"Molto, sarebbe ora".

Però non l'abbiamo mai avuta.
"Perché non ci piace l'eguaglianza".

Il Presidente della Repubblica è sempre figlio di un contesto politico?
"Inevitabilmente. Segni fu individuato da Aldo Moro per tranquillizzare la Dc conservatrice visto che si era alla vigilia del centrosinistra. Pertini rappresentò una risposta alla tragedia di Aldo Moro. Scalfaro venne scelto perché serviva un galantuomo all'indomani dell'uccisione di Falcone. Ciampi rassicurava i mercati".

Leone?
"Dovette sbrogliare otto crisi di governo e due scioglimenti delle Camere. Era un professore di diritto, e lo si chiamò per gestire una fase di turbolenza".

Cossiga?
"L'ho conosciuto bene. Fu una scelta di De Mita. Pensava che fosse una figura di equilibrio nel rapporto col Pci. Un presidente dialogante".

Invece venne fuori il picconatore.
"Fu una scelta sbagliata".

C'è una costante nei dodici inquilini del Quirinale?
"Sono stati ex presidenti della Camere, o ex premier o vicepremier, insomma figure che i 1008 grandi elettori debbono conoscere bene. Una delle grandi saggezze della Dc fu che non scelse mai un capocorrente, salvo Antonio Segni".

Cosa temeva?
"Checché se ne dica, il Presidente della Repubblica ha un grande potere, superiore a quello di un presidente degli Stati, se è omogeneo al governo ed è espressione della maggioranza parlamentare. Potrebbe, nel caso di un leader politico, potenzialmente disporre dei numeri necessari per fare passare i provvedimenti che gli stanno a cuore. Ecco perché si è sempre evitato di scegliere un capocorrente".

Se Draghi va al Quirinale chi fa le consultazioni per il nuovo governo?
"Lui".

La dottrina sembra divisa
"È un presidente in carica, per forza le fa lui, dopo avere giurato".

La convince la legge che vuol abolire il semestre bianco e imporre il divieto alla rielezione?
"È giusta nel merito. La rieleggibilità non è prevista neanche per i giudici della Consulta, secondo l'articolo 135 della Costituzione. Perché non dovrebbe valere anche per il capo dello Stato?".

È stato letto, nel Palazzo, come un favore a Mattarella. La convince?
"Per niente. Ha ragione Luigi Zanda: una simile proposta si presenta alla fine del settennato, non all'inizio".

Che stile ha avuto Mattarella?
"A metà strada tra Einaudi e Ciampi".

C'è chi immagina un successore a termine.
"Non si può fare violenza alle istituzioni. Stiamo parlando del Presidente della Repubblica. Nessun candidato potrebbe mai accettarlo".

Teme che verrà scelto un candidato non all'altezza?
"Penso invece che accadrà il contrario".

Cosa glielo fa dire?
"Perché in passato è sempre andata così, alla fine, in fondo, si sono sempre scelti dei buoni presidenti. La mia è una ragionevole speranza"».

DI MAIO, MELONI E IL CENTRO DESTRA

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha partecipato ieri alla tradizionale Festa di “Atreju” organizzata da Giorgia Meloni a Roma. Di Maio ha definito “affidabile” la Meloni e ha dialogato con l’altro esponente draghiano invitato alla kermesse, il leghista Giancarlo Giorgetti. La cronaca per il Corriere di Giuseppe Alberto Falci. 

«Io in questo momento temo molto di più che nel centrodestra ci sia una profonda spaccatura sul Quirinale, soprattutto ad opera di Matteo Salvini, che non so quanto possa essere affidabile. Di certo, io reputo più affidabile Giorgia Meloni». Al ministro Luigi Di Maio risponde, sullo stesso palco, il collega di governo, il leghista Giancarlo Giorgetti: «Questo è il momento del senso di responsabilità, meno dichiarazioni e più riflessioni». Mancano pochi minuti alla conclusione del primo dibattito di Atreju 2021, la festa dell'identità della destra, organizzata da Fratelli d'Italia. In piazza Risorgimento, a poche centinaia di metri dalla cupola di San Pietro, sotto un tendone gremito di dirigenti di partito e sostenitori, si parla di lavoro e futuro. Sul palco i ministri parlottano tra loro per tutto il tempo. «Staranno fissando la prossima pizza da Michele», scherza un meloniano. Al loro fianco ci sono anche Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI, l'azzurro Antonio Tajani, la presidente del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro Marina Calderone e il capo dell'Istat Gian Carlo Blangiardo; modera il direttore del Messaggero, Massimo Martinelli. La padrona di casa Giorgia Meloni ascolta in piedi. Ed è proprio quando tutto sta volgendo al termine che si inizia a parlare di Quirinale. Di Maio è il più diretto: «In questo momento temo molto di più che nel centrodestra ci sia una profonda spaccatura sul Colle, soprattutto ad opera di Matteo Salvini. Avere a cuore la nostra patria significa eleggere un presidente della Repubblica per l'interesse della nostra Nazione, non per giochi su se andare a votare nel 2022 o 2023». Molti in sala sorridono. Giorgetti invece sembra provare imbarazzo. Anche perché di lì a qualche secondo arriva la domanda: «Ministro, è più affidabile Meloni o Salvini?». Il numero due del Carroccio si difende: «Direttore, questa non era prevista». E allora Giorgetti la prende larga: «Questo governo di cui faccio parte, con questa maggioranza sicuramente anomala, nasce e risponde a una situazione eccezionale. Non è normale dialettica politica che la Lega stia al governo insieme al Pd. Ha senso un governo di questo tipo in una situazione di emergenza se può governare e prendere decisioni. Se guardando avanti ci si aspetta un anno di campagna elettorale in cui ciascuno fa campagna per le proprie bandiere, diventa difficile governare e governare anche l'emergenza». Il leghista, dunque, lancia un avviso a tutte le forze di maggioranza: «O c'è una presa di coscienza delle circostanze eccezionali, oppure mi sembra un po' semplicistico ridurre tutto il dibattito politico su chi va al Quirinale, chi fa il presidente del Consiglio». Tajani sul dossier Colle, che vedrebbe in corsa il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, si esprime così: «Per affrontare l'emergenza coronavirus serve Draghi a Palazzo Chigi». E il dirigente di FdI Lollobrigida auspica «un presidente della Repubblica arbitro con la speranza che dal 2023 non ci siano più governi che dividano la coalizione». Insomma, il centrodestra non appare esattamente unito e compatto. Non a caso Tajani minimizza: «Il grande merito del centrodestra in questi ultimi anni è stato quello di avere avuto la capacità sempre e comunque di fare sintesi». Nell'attesa, Silvio Berlusconi continua a corteggiare i pentastellati. Lo fa con un'intervista a Milano Finanza in occasione dei 35 anni del quotidiano: «Hanno dato voce a un disagio reale che merita rispetto e risposte». E se Di Maio definisce «significativa» la mano tesa dal Cavaliere, Giuseppe Conte rifiuta il corteggiamento: «Apprezzo il cambio di rotta ma non sarà lui il candidato del M5S».

BIDEN ATTACCA LA CINA PRIMA DELL’INCONTRO CON PUTIN

Il Presidente Usa Biden «boicotta» i giochi cinesi e chiama i leader europei, fra cui Draghi, prima del colloquio con Putin sull'Ucraina. La cronaca di Giuseppe Sarcina sul Corriere.

«La Casa Bianca annuncia il «boicottaggio politico» delle Olimpiadi invernali di Pechino, in programma dal 4 al 20 febbraio, e delle Paralimpiadi (4-13 marzo). Gli atleti americani, però, parteciperanno regolarmente a tutte le gare. Nella capitale cinese, invece, non ci sarà «alcuna delegazione diplomatica o ufficiale» a stelle e strisce, ha precisato Jen Psaki, portavoce di Joe Biden, aggiungendo: «Non possiamo fare finta di niente di fronte ai macroscopici abusi dei diritti umani e alle atrocità commesse dal Partito comunista cinese nello Xinjiang (persecuzione della minoranza musulmana degli Uiguri, ndr)». Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinesi, ha parlato di «ingiustificata provocazione», fino a irridere «i politici americani»: «Nessuno li aveva invitati, il cosiddetto boicottaggio è solo un atto velleitario, da esibizionisti». Segue una generica minaccia: «La Cina prenderà ferme contromisure». Così a tre settimane esatte dal vertice online tra Biden e Xi Jinping, impostato con toni distensivi, il pendolo dei rapporti tra Usa e Cina torna nella zona di massima allerta. Nelle ultime settimane, in realtà, nella politica americana si sono confrontate spinte opposte sulla strategia generale da tenere nei confronti di Pechino. Alla fine Biden ha scelto di mandare un segnale, con una formula inedita: il boicottaggio parziale dei Giochi, appunto. Psaki ha detto che il governo «non ha voluto penalizzare gli atleti». Ma soprattutto la portavoce ha detto che «l'Amministrazione ha informato i Paesi alleati». Quanti di loro si assoceranno alla protesta Usa? Per ora solo Australia e Regno Unito hanno fatto sapere che ci stanno pensando. C'è il rischio, quindi, che emergano di nuovo differenze di approccio nel blocco occidentale. Biden ha deciso di riaccendere le tensioni con Pechino proprio alla vigilia del summit virtuale con Vladimir Putin sull'Ucraina, in programma oggi alle ore 10 di Washington (le 16 in Italia). Ieri il presidente Usa ha iniziato un giro di telefonate con i partner europei. E qui c'è una novità importante da segnalare. Biden ha scelto di consultare il cosiddetto formato «Quint» della Nato, che comprende, oltre agli Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Da qui il contatto anche con il primo ministro italiano Mario Draghi avvenuto in serata. La Casa Bianca ha diffuso un comunicato in cui si afferma che «Macron, Merkel, Draghi e Johnson hanno condiviso la preoccupazione per il massiccio schieramento di truppe russe al confine con l'Ucraina». La nota prosegue con un appello a Mosca «per allentare le tensioni» e propone di rilanciare il negoziato con il formato Normandia, di fanno parte Russia, Ucraina, Germania e Francia».

MALALA IN USA PER LE RAGAZZE AFGHANE

Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace, si è sempre battuta per l'affermazione dei diritti civili e per il diritto all'istruzione delle giovani donne in Pakistan, dove è scampata ad un attentato talebano, e in Afghanistan. Alberto Simoni da Washington per La Stampa racconta la sua visita.

«Malala Yousafzai, la più giovane Nobel per la Pace, arriva nella Treaty Room affiancata al segretario di Stato americano, Antony Blinken, con passo deciso. Indossa un copricapo verde e leggero che le scende sull'abito scuro, alla mano sinistra porta un anello, e fra le dita di quella destra stringe delicatamente un foglio. È la lettera che la 15enne afghana Sotooda ha scritto e indirizzato al presidente americano Biden. Malala la legge e prega il capo della diplomazia statunitense di farsi messaggero presso il presidente americano. «Grazie», risponde annuendo Blinken. La giovane pachistana, che nel 2012 venne aggredita da un talebano che le sparò un colpo in testa sul bus che la riportava a casa da scuola, è arrivata a Washington per una serie di incontri legati alla sua fondazione. Il colloquio con il segretario di Stato Usa è il punto culminante. Blinken sottolinea «l'ispirazione che Malala fornisce a milioni di donne e ragazze» ed elogia i suoi sforzi per garantire l'accesso «all'istruzione a chi è nelle zone più svantaggiate». E l'Afghanistan fra queste si stacca ancora di più. Nel 2017, la Fondazione Malala ha investito 1,97 milioni di dollari in progetti con le Ong locali a Kabul e dintorni. L'avvento dei talebani ha reso drammatica la situazione in un Paese in cui retaggi culturali già rendevano complesso per le ragazze entrare in una classe. Quella secondaria è vietata e dei 3,7 milioni di bambini senza istruzione oltre il 60% sono femmine. Numeri pesanti e che ancora non tengono conto della scure che i talebani, insediati a Kabul in agosto, hanno fatto calare sui più elementari diritti. Ecco che Malala allora a Blinken chiede «un'azione immediata per consentire alle ragazze di tornare a scuola e alle donne di lavorare». Ricorda la situazione delle insegnanti lasciate senza salario e impiego. Per questo l'assistenza umanitaria è essenziale. Lo so - dice - che «è una sfida difficile, ma è necessario che Usa e Onu insieme agiscano». Il messaggio per Biden è racchiuso nelle semplici parole scritte da Sotooda. «Più a lungo le scuole resteranno chiuse - si legge - più il nostro futuro sarà in pericolo». Perché, evidenzia, «l'istruzione femminile è uno strumento potentissimo per costruire la pace e la sicurezza». Se le donne non studiano soffrirà tutto l'Afghanistan. Malala non ha scelto a caso Sotooda: la giovane è infatti diventata il volto della protesta inscenata contro i talebani a Herat. Fu lei in settembre a scendere con coraggio in piazza per chiedere ai nuovi padroni dell'Afghanistan di riaprire anche alle ragazze - così come qualche giorno prima era accaduto ai maschi - le scuole secondarie. Una pressione che aveva, a sorpresa, dato i suoi frutti. La prima visita di Malala nella capitale statunitense fu nell'estate del 2015, appena fresca di Nobel. Accompagnata dal padre - un insegnante nella valle dello Swat in Pakistan - aveva visitato il Congresso e incontrato alcuni senatori fra i più influenti fra cui lo scomparso McCain. Anche allora - così come ieri nell'incontro con Blinken - Malala ha sottolineato la necessità di garantire ai ragazzi un ciclo di formazione scolastica completo, ben oltre la primaria. «È tempo che gli Usa prendano un impegno netto e coraggioso, aumentare il finanziamento e il sostegno ai governi in tutto il mondo affinché garantiscano dodici anni di istruzione gratuita a tutti entro il 2030». Dal 2008 Washington ha garantito fondi e istruzione a oltre 3 milioni di ragazze afghane. Nel 2001 le classi di Kabul, Kandahar e le altre città e villaggi ospitavano 900 mila studenti maschi, nel 2020 la scolarizzazione raggiungeva 9,5 milioni di giovani, di cui il 39% di ragazze».

MYANMAR: 4 ANNI A SAN SUU KYI

Scandalosa sentenza nel processo farsa contro Aung San Suu Kyi. Paolo Salom sul Corriere della Sera.

«Il processo-farsa che vede alla sbarra Aung San Suu Kyi e i suoi più stretti collaboratori - il primo di molteplici procedimenti basati su un totale di 11 capi di accusa - si è concluso con una condanna a quattro anni di carcere per «violazione della legge sulla sicurezza nazionale» (regole sul Covid) e per aver «incitato al disordine» all'indomani del golpe militare del 1° febbraio scorso. Stessa sentenza per l'ex presidente birmano Win Myint. Non è chiaro se la Signora, 76 anni, agli arresti domiciliari dal giorno del colpo di Stato del generale Min Aung Hlaing, sarà trasferita in un carcere o se potrà scontare questa prima «punizione» nella sua villa sulle rive del lago Inya, a Yangon (ex Rangoon), dove ha già trascorso gran parte dei 15 anni di carcere comminati dal precedente regime militare. Ora rischia la prigione a vita. Pochi immaginavano una fine diversa per questa vicenda. E tuttavia, dieci anni di processo democratico avevano illuso il mondo che la Birmania, il Myanmar come il Paese è chiamato ora, potesse finalmente uscire da isolamento e sottosviluppo legati a mezzo secolo di ottuso regime militare. Non è andata così. E oggi appare facile elencare gli errori della nuova classe dirigente, fatta di civili, del Paese: troppo potere ai generali, fiducia eccessiva nella forza popolare, l'idea che i militari non avrebbero osato azzerare un percorso che stava comunque portando sviluppo economico, progresso e benefici per tutti. All'interno delle caserme la valanga di voti che aveva benedetto la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Suu Kyi alle elezioni di novembre 2020 era stata percepita come un pericolo da scongiurare. La Signora avrebbe potuto intaccare il tabù in vigore dall'indipendenza (1948): solo i generali hanno l'ultima parola. Dunque la condanna pronunciata dai giudici ieri non è che un ritorno alla «normalità» di una nazione schiava di una casta che si vede unica fonte di autorità in virtù della divisa. Una legittimità che nasce, ancora una volta, dalla punta del fucile».

NUOVA UDIENZA: LIBERATE ZAKI

A Mansoura oggi terza udienza del processo contro Patrick Zaki. La sua prigionia e le speranze di familiari e attivisti a Roma, durante la manifestazione “Più libri, più liberi”. Chiara Cruciati per Il Manifesto.

«Speriamo nel meglio, ma come fatto negli ultimi 22 mesi ci aspettiamo il peggio». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia sintetizza in poche battute il clima alla vigilia della terza udienza del processo a Patrick Zaki. Si svolge oggi, a Mansoura, la sua città natale sul Delta del Nilo. Qui lo studente egiziano dell'Università di Bologna è stato da poco trasferito dalla prigione di Tora, al Cairo, suo «domicilio» forzato dal marzo 2020, appena un mese dopo il suo arresto all'aeroporto del Cairo, di rientro dall'Italia per una visita alla famiglia. Dopo mesi di carcere preventivo, rinnovato con crudele puntualità ogni 15 o 45 giorni, nel settembre scorso Patrick è stato incriminato. Quale sia l'accusa non è del tutto chiaro: diffusione di notizie false sulla base di un articolo che scrisse anni fa sulle condizioni di marginalizzazione della minoranza copta. Pare, perché prima il sistema giudiziario egiziano lo accusava anche di terrorismo per alcuni tweet. Quei tweet, mai resi pubblici, sono spariti dal quadro. C'è speranza, c'è sempre, ma anche paura. Non si sa se sperare in un verdetto o meno. Secondo la sua legale, Hoda Nasrallah, l'udienza di oggi dovrebbe servire a presentare la memoria difensiva degli avvocati di Patrick, dopo aver finalmente ottenuto gli atti del processo il 28 settembre scorso: prima di allora non gli era stato consegnato nulla di quello che la procura avrebbe in mano, a Nasrallah erano state concesse solo un paio d'ore per visionare il fascicolo in fretta. E poi si vedrà: i processi di fronte a tribunali della sicurezza dello Stato, deputati a decidere di casi che rientrano nelle fattispecie di reato previste dalla legislazione d'emergenza (ovvero quelli più utilizzati contro attivisti e società civile) sono molto più brevi degli altri. Poche settimane, al massimo pochi mesi. Oggi si potrebbe dunque assistere a un ulteriore rinvio oppure a una sentenza definitiva. Perché questi processi non prevedono appello. «Solo la grazia del presidente della Repubblica egiziana spiega Noury alla Nuvola, nell'evento di domenica a Più libri più liberi dedicato a Patrick Zaki - I legali la chiederanno in caso di condanna. In quel caso, nella richiesta di grazia sotto la loro firma dovrebbe esserci anche quella di Mario Draghi». L'Italia - i cui rappresentanti saranno oggi in aula a monitorare l'udienza insieme a diplomatici di altri Paesi - torna spesso nel dialogo di domenica, che ha coinvolto Mohamed Hazem Abbas, tra i migliori amici di Patrick e anima della campagna per la sua liberazione: «Il governo italiano non sta facendo molto, a differenza del Parlamento che chiede di riconoscergli la cittadinanza - dice Mohamed - Se fossero sulla stessa linea, la pressione potrebbe essere sufficiente a liberarlo visto i legami tra Italia ed Egitto. Europa e Stati Uniti hanno i mezzi per migliorare le condizioni degli egiziani». Sono pessime, fuori e dentro dal carcere. Fuori la povertà è in costante aumento, mentre repressione strutturale e leggi liberticide «hanno spazzato via l'intera società civile», aggiunge Noury. Ong, sindacati e media indipendenti, attivisti della comunità Lgbtqi+, artisti: «Non c'è settore che non sia stato toccato. Per questo Patrick è una storia egiziana». Come altri 60mila prigionieri politici stimati, ma potrebbero essere molti di più, vista la costruzione in corso di altre mega prigioni, dopo le decine già aperte dal presidente al-Sisi: «Abbiamo saputo che le sue condizioni fisiche e psicologiche sono peggiorate - Mohamed risponde così a una nostra domanda - Da più di 650 giorni dorme a terra, ha problemi alla schiena e alle ginocchia. In passato è stato picchiato dalle guardie carcerarie». Non ha accesso a prodotti igienici e sanitari, vive da quasi due anni in una cella piccola, sporca e senza aerazione. «Ci siamo conosciuti all'Università tedesca del Cairo - aggiunge nell'incontro pubblico - Siamo stati in piazza Tahrir insieme nel 2011». «È un amico e un compagno. La vera ragione della sua prigionia sono i suoi ultimi dieci anni di attivismo». Che continua comunque a portare avanti, anche dietro le sbarre. Lo dicono le parole consegnate alla famiglia quando ha saputo che all'Eur si sarebbe svolta un'iniziativa su di lui: «Ha mandato due messaggi - dice Mohamed Il primo: non dimenticatevi di me e dei 60 mila prigionieri egiziani. Il secondo: leggete il libro di Alaa Abd el-Fattah». Il blogger e pensatore egiziano è in carcere, come Patrick. E come Patrick è detenuto a Tora. La sua udienza si terrà il prossimo 20 dicembre, insieme a lui alla sbarra anche il suo avvocato Mohamed al-Baqer (arrestato in un palazzo di giustizia proprio mentre lo difendeva) e il blogger Mohamed «Oxygen» Ibrahim, tutti accusati di diffusione di notizie false e in detenzione preventiva dal settembre 2019. A Roma dall'Egitto, nell'attesa sfibrante dell'udienza, arriva anche la voce di Marise, la sorella di Patrick: «Ha sempre avuto il coraggio di difendere i diritti degli altri anche a rischio della propria libertà. Ora tocca a voi battervi per lui».

LA PRIMA DI MACBETH, IN VERSIONE DISTOPICA

Oggi è Sant’Ambrogio, giorno di festa a Milano e tradizionale inizio della stagione lirica alla Scala, che torna in presenza. Diretta stasera su Raiuno dalle 17,45. In scena il Macbeth di Giuseppe Verdi, con la regia di David Livermore e la direzione di Riccardo Chailly. Sarà un’edizione “distopica”, spiega Livermore che ha voluto il palco come un set hollywoodiano fra incubi e «inception», alla ricerca di un “teatro politico”. L’articolo di Giovanni Gavazzeni per il Giornale.  

«In un passato forse remoto, nell'approssimarsi della serata inaugurale della Scala, l'attenzione degli appassionati era concentrata soprattutto sugli interpreti vocali, sul direttore d'orchestra, sull'immancabile cornice mondana; alla messa in scena era chiesto di essere il più aderente passibile a quanto ideato dal compositore e dai librettisti. Il costume attuale, forte di uno spazio sempre più ampio guadagnato dal cosiddetto teatro di regia (negli articoli dedicati al Macbeth presentati nei giorni passati abbiamo citato quali registi e direttori d'orchestra abbiano riportato l'opera al rango che le compete), ha quasi rovesciato l'attenzione mediatica, mettendo spesso in ombra l'indiscusso primato del versante musicale su quello della messa in scena. I registi oggi si interrogano doverosamente su come riproporre al pubblico classici che hanno, come il Macbeth di Verdi, più di centosettanta anni di vita. Davide Livermore è giunto alla sua quarta inaugurazione consecutiva (onore che condivide con la famosa regista austriaca Margherita Wallmann, regina scaligera degli anni del boom economico, spesso svillaneggiata da neofiti scarsamente informati che la citano quasi fosse stata solo capace di far sventolare bandiere e non come una professionista di rango, educata alla scuola di Max Reinhardt). Livermore si è domandato per quale società Verdi scriveva Macbeth («Una società che cercava diritti sociali e unità nazionale. Noi non andiamo a teatro per vedere una ricostruzione storica, ma per essere toccati nel vivo del nostro presente. Macbeth non è ancora l'opera che volge al cinema, bensì il melodramma esemplare che deve educare la società di metà Ottocento. È teatro politico, che risveglia la coscienza dell'uomo e la scuote con ritmi scanditi e velocità furiosa. È un'arringa che, scrutando i rapporti di forza, esorta i sudditi all'emancipazione»). Per raggiungere i contemporanei Livermore opta per la «trasposizione», operazione ormai divenuta prassi comune, che il regista sente «dovuta». Sarà un mondo «distopico», «ispirato al film Inception di Christopher Nolan, un thriller fantascientifico del 2010, con le sue scatole cinesi di sogni condivisi, incubi comunicanti posti uno dentro l'altro». Un mondo visto attraverso la mente del tiranno Macbeth, rappresentazione di «una società contemporanea, distorta a vantaggio del prodotto, attraverso una manipolazione degli spazi e della gravità, che si manifesta in skyline rovesciate e distorsioni prospettiche: effetti-incubo che ci aiutano a raccontare». Le scene, opera del gruppo tricefalo che va sotto il nome di Giò Forma, si è ispirato a disegni e progetti razionalisti di Piero Portaluppi - meritato omaggio ad un architetto di grande presenza nel volto martoriato della Milano moderna. Un elemento molto importante promette essere il tentativo di sfruttare al meglio le proiezioni video. Lasciamo la parola ancora a Livermore: «Noi facciamo una mediazione "dal vivo" tra il teatro e il video. Ci siamo sforzati di creare un linguaggio che invada la scena e la trasformi in un set cinematografico in tempo reale. Per noi è sempre "buona la prima". Mi pare che i critici televisivi non si siano mai occupati di questa novità e della sua portata culturale». In attesa di verificare in diretta quanto la distopia di Livermore&Co. funzioni, in caso di piena realizzazione dei progetti registici, c'è forse il rischio di assistere ad uno spettacolo talmente coinvolgente da scuotere gli attuali "sudditi"? Da spingerli a pensare, forse a respingere, quanto di negativo il complesso politico-economico architetta quotidianamente? Non pensiamo che il pubblico dei pervenuti alla prima, abbia altre preoccupazioni diverse da quelle di essere visto o/e farsi vedere. Sarebbe già bello che ogni tanto ascoltasse».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 7 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/n3lqzisbe9jjsez/Articoli%20La%20Versione%20del%207%20dicembre.pdf?dl=0

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