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Erdogan battezza la nuova Nato

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Erdogan battezza la nuova Nato

Ok turco all'ingresso di Svezia e Finlandia. Da oggi a Madrid l'alleanza lancia una nuova strategia: contro Russia e Cina. Liti fra 5 Stelle e nel centro destra. Altra strage di migranti in un Tir

Alessandro Banfi
Jun 29, 2022
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Erdogan battezza la nuova Nato

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È il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan a mettere un sigillo preventivo alla nuova, aggressiva e allargata Nato, che da oggi si riunisce in un vertice a Madrid. Erdogan ha infatti dato il via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza, dopo aver trattato per settimane. Nessuno pensava che la Turchia potesse davvero tener duro nel negare l’ingresso ai Paesi nordici, ma colpisce la capacità autonoma di questo Paese di interpretare solidarietà e alleanze. La Turchia non aderisce alle sanzioni economiche contro Mosca (come non aderisce Israele, che è pure garante del mondo occidentale in Medio Oriente) e non è nell’Unione Europea. Tuttavia sembra condizionare, complessivamente ben più dell’Europa, le mosse dell’Occidente. È simbolico il memorandum firmato alla vigilia di un vertice, che gli Stati Uniti hanno l’ambizione di considerare storico, perché potrebbe cambiare la missione strategica della stessa Nato. Cambiamento che si tradurrà certamente in una maggiore spesa militare per rafforzare il rinnovato fronte dell’est Europa e dei Balcani, ma coinvolgerà anche nuove iniziative nel fronte Sud (oggi La Stampa scrive che l’Italia darà 10 mila soldati in più per questo) e nel Pacifico, se è vero che oltre alla Russia, sarà la Cina il nuovo grande nemico della Nato.

Quanto al conflitto in Ucraina, il G7 si è concluso con la promessa dei Grandi di appoggiare fino in fondo Volodymyr Zelensky e di lasciare a lui i termini di un eventuale possibile compromesso con i russi. Compromesso che allo stato non è neanche lontanamente ipotizzabile. Sia La Stampa che il Corriere della Sera (La Versione riporta quest’ultimo) oggi raccontano che esistono però a Washington forti dubbi fra gli esperti militari. La Cnn in particolare ha riferito di tre considerazioni rimbalzate dal Pentagono: “1) È difficile che la resistenza riesca a conquistare i territori perduti. 2) Zelensky dovrà ridefinire il suo concetto di vittoria: lui ha sempre detto di non essere disposto a cedere un millimetro della propria nazione. 3) Sembra irrealistico che l'Ucraina possa tornare a essere quella dei confini del 24 febbraio”. L’Europa è tagliata fuori dal dibattito. Dobbiamo forse sperare in Erdogan?

Ci sono due fronti che animano le discussioni nella politica italiana. Il primo è lo scontro all’interno del Movimento 5 Stelle, acuito dalla discesa a Roma di Beppe Grillo che ha alternato clamorosi No (No all’uscita dal governo, No alle deroghe sul doppio mandato) a piccole concessioni e affettuosità nei confronti di Giuseppe Conte. Che cosa faranno i 5 S? Lasceranno il governo? E manderanno mai a casa la classe dirigente attuale, che ha già fatto due mandati? L’altro fronte è quello del centro destra. Giorgia Meloni è molto aggressiva e vorrebbe un vertice risolutivo, critica apertamente Forza Italia e Flavio Tosi per il caso Verona. Silvio Berlusconi si propone ancora come federatore della coalizione.  

Intanto oggi approda alla Camera, nel pomeriggio, la legge sullo Ius scholae. A proposito di migranti, dopo la strage di Melilla, per cui l’Onu chiede un’inchiesta indipendente, ieri nuova tragedia: in un Tir nel Texas sono state trovate morte 50 persone. Non si ha notizia che se ne siano occupati, finora, i grandi della terra.   

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la stretta di mano tra la svedese Magdalena Andersson e il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan, poco prima della firma del memorandum d’intesa, siglato ieri a  Madrid, alla vigilia del vertice Nato di oggi e domani. La Turchia ha ritirato infatti il veto per l'ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza atlantica. La Turchia "ha avuto quello che chiedeva" dai colloqui con Svezia e Finlandia sulla loro adesione alla Nato. I tre Paesi hanno firmato un memorandum d'intesa.

Foto Ansa/EPA.

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Molte questioni internazionali e qualche psicodramma italiano. Il Corriere della Sera titola così: Draghi, è scontro con Mosca. Anche Avvenire fa la stessa scelta: Scontro Draghi-Putin. La vicenda riguarda la partecipazione dello Zar al prossimo vertice dei grandi. La Stampa: Draghi-Putin, scontro sul G20. Il Mattino la vede in chiave di fedeltà atlantista: Draghi-Biden asse più forte, è scontro con Putin sul G20. Il Messaggero la unisce alla vicenda, per ora molto vaga, del tetto ai prezzi energetici: Un tetto per gas e petrolio. Draghi-Putin, tensione G20. Il Giornale è a stelle e strisce: Rinasce la Nato (e la Russia ora ha paura). Il Sole 24 Ore è più realista e pensa al costo del nuovo riarmo: Risparmio Ue, 600 miliardi a rischio Italia, 10mila soldati alla Nato. Il Manifesto è l’unico giornale che dedica l’apertura ai 50 migranti asfissiati nel Tir in Texas: Morti senza confini. La Repubblica titola sugli italiani di origine straniera: La sfida della cittadinanza. Il Domani nota invece che: Nei giorni della siccità il governo si schiera contro il clima in Europa. Il Fatto offre un retroscena per difendere l’ex premier dall’Elevato: “Draghi chiede a Grillo di fare fuori Conte”. Libero commenta così: Dai che ci liberiamo della piaga grillina. Il Quotidiano Nazionale avverte: Stop del governo al superbonus casa. La Verità è fatalista: Vogliono rendere inutili le elezioni.

LA NUOVA NATO COMINCIA DA ERDOGAN

Nell’immediata vigilia della due giorni della Nato, arriva il via libera di Erdogan a Svezia e Finlandia. A poche ore dal vertice di Madrid, la Turchia toglie infatti il veto ai due Paesi scandinavi e accetta di firmare un memorandum. Jens Stoltenberg ha progetti ambiziosi per la nuova Nato. Paolo Mastrolilli per la Repubblica.

«La Turchia ha tolto il veto su Svezia e Finlandia, aprendo loro la porta della Nato. Il segnale più concreto di come l'invasione dell'Ucraina decisa da Putin stia rivoluzionando la geopolitica, ma nella direzione opposta da quella che lui voleva. Un'autorevole fonte della Casa Bianca ha raccontato come fin da dicembre Biden avesse contattato i leader dei due paesi per convincerli ad aderire all'Alleanza, e ha spiegato che «i punti rimasti aperti erano l'atteggiamento di Helsinki e Stoccolma sul terrorismo, e l'embargo alla vendita di armi ad Ankara, che però non aveva chiesto gli F16 in cambio del via libera». Ieri mattina il presidente finlandese Sauli Niinisto e la premier svedese Magdalena Andersson, poco prima di andare a Madrid per l'incontro con Erdogan mediato dal segretario generale Stoltenberg, hanno sollecitato il presidente di intervenire. Biden ha chiamato il leader turco, «incoraggiandolo a sbloccare la situazione. Gli ha chiesto quali erano le sue ultime richieste e le ha girate alle parti». Durante i colloqui del pomeriggio, i giornali Helsingin Sanomat e Iltalehti hanno rivelato che Stoccolma, Helsinki e Ankara stavano preparando un memorandum comune. La premier svedese discuteva i nomi dei presunti terroristi curdi da estradare, lo stop al sostegno per gli alleati del Pkk in Siria e al movimento di Gulen. Poco dopo è arrivato l'annuncio dell'accordo, che aggiunge oltre 1.300 chilometri al confine tra Nato e Russia, cambiando i rapporti di forza e gli equilibri geopolitici a svantaggio di Putin. Si era illuso che Erdogan gli facesse da sponda, ma alla fine è rimasto ancora solo.
La crisi epocale però è appena agli inizi, come spiega la dichiarazione fatta dal consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan, durante il volo dell'Air Force One che lo portava con Biden a Madrid per il vertice Nato dopo il G7 in Germania: «Se i dispiegamenti militari russi avverranno, inclusi quelli nucleari in Bielorussia, sarà un elemento di preoccupazione per l'intera Nato, di cui dovremo tenere conto nella postura delle nostre forze». Significa che se Putin fornirà gli Iskander a Lukashenko, l'Alleanza potrà essere costretta a spostare le sue testate nell'Europa orientale. Ciò dà il senso della gravità del clima in cui si svolge oggi e domani il vertice Nato, e il motivo per cui Biden ha detto che l'invasione dell'Ucraina «ha fondamentalmente alterato l'ambiente strategico globale. Questa aggressione costituisce la minaccia più diretta alla sicurezza transatlantica e alla stabilità globale dalla fine della Guerra Fredda». Il G7 di Schloss Elmau, se non ha deluso Washington, quanto meno ha dimostrato le difficoltà nel tenere unita la coalizione contro Mosca. Invece di annunciare il tetto sul prezzo del petrolio russo, i leader si sono solo impegnati a delegare ai loro ministri il compito di definire il meccanismo. Peggio ancora per il gas, dove Draghi ha ripetuto l'auspicio che il tetto possa essere decretato in autunno. Ieri il dipartimento di Stato ha imposto nuove sanzioni sull'oro e l'apparato militare russo, ma bilaterali. Allora gli americani puntano forte sulla Nato. Oltre ad aumentare da 40.000 a 300.000 le forze di pronto intervento, Sullivan ha promesso che Madrid discuterà «altre forme di assistenza militare da fornire all'Ucraina nei prossimi giorni e mesi». Ha smorzato le voci che gli alleati avrebbero invitato Zelensky a ridimensionare le ambizioni di riconquista: «Gli obiettivi della guerra li stabilisce Kiev, il nostro compito a darle i mezzi per raggiungerli». Riguardo la postura, oltre all'aumento dei cacciatorpediniere Usa basati a Rota da 4 a 6, Sullivan ha preannunciato un rafforzamento del fianco est «non solo per la durata della crisi, ma di lungo termine». Ha evitato di chiarire se le forze aggiuntive saranno schierate a rotazione o permanenti, ma non ha escluso nuove basi in Europa orientale. Questo magari violerebbe le intese strette con Mosca alla fine degli anni Novanta, quando iniziò l'allargamento della Nato, ma Putin ormai ha violato anche le regole della decenza, e il mondo civile si sta solo adeguando».

CINA E RUSSIA NEMICHE DELLA NATO

La Cina non è più la potenza mondiale che pensa di conquistare terreno solo con l’economia e i suoi prodotti: il suo riarmo è strategico. Ecco perché è motivata la nuova linea dell’alleanza militare atlantica. Il commento è di Gianni Vernetti per Repubblica.

«Nel vertice Nato che inizia a Madrid, i Paesi dell'Alleanza sigleranno la nuova versione del "concetto strategico" nel quale la Cina verrà indicata come "fonte di preoccupazione" e per la prima volta verranno analizzate in modo sistemico le sfide alla sicurezza globale poste da Pechino. Le continue minacce a Taiwan con un crescendo di incursioni aeree dell'aeronautica di Pechino nello spazio aereo della Cina democratica; la dichiarata "alleanza senza limiti" siglata fra Xi e Putin lo scorso 4 febbraio, poco prima l'inizio del conflitto in Ucraina; la costante promozione da parte della Cina della narrativa russa e le accuse oramai quotidiane sull'allargamento a est della Nato, sono il contesto nel quale nasce la necessità di ridefinire da parte dell'Alleanza Atlantica una dottrina geopolitica e di sicurezza in grado di contrastare efficacemente l'accresciuta assertività della Repubblica Popolare Cinese. Ma se fino a ieri le sfide globali di Pechino erano sostanzialmente di carattere geo-economico, ben rappresentate dal progetto della Nuova Via della Seta con la quale Pechino ha provato a riscrivere le regole della globalizzazione e dell'integrazione delle economie di Asia, Europa ed Africa secondo parametri non democratici e finanziariamente insostenibili (la trappola del debito), oggi assistiamo ad un salto di qualità che investe la sfera militare e della sicurezza. La Repubblica Popolare Cinese dopo avere occupato illegalmente una grande porzione del mar Cinese Meridionale e trasformato gli atolli disabitati delle Isole Spratly e Paracels in grandi basi militari permanenti nonostante le molteplici, e legittime, rivendicazioni territoriali sugli stessi atolli di Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei che si affacciano su quello specchio di mare, ha iniziato una diffusa campagna nell'Oceano Pacifico con accordi sulla sicurezza (Isole Salomone), yuan diplomacy per far abbandonare il riconoscimento di Taiwan (Kiribati) ed un tentativo fin qui fallito di un accordo globale sulla sicurezza con i paesi del Pacific Islands Forum. Ma l'offensiva cinese si dispiega a tutto campo e sta assumendo i connotati di una vera propria "proiezione globale" di carattere militare. Tre scelte strategico di Pechino degli ultimi giorni hanno allarmato le cancellerie fra le due sponde dell'Oceano Atlantico. La prima la legge firmata il 13 giugno da Xi-Jinping che autorizza l'esercito popolare di liberazione a condurre "operazioni speciali militari" al di fuori dei propri confini. Il linguaggio è tecnicamente lo stesso di Putin e d'altronde se per il satrapo di Mosca l'Ucraina non esiste e non è altro che un appendice del mondo slavo e russofono, per Xi-Jinping Taiwan è soltanto una provincia ribelle da ricondurre alle regole della madrepatria con le buone o con le cattive. La riscrittura della storia è d'altronde una costante dei regimi totalitari. Il secondo fatto rilevante è rappresentato da quanto emerso nei giorni scorsi in merito alla costruzione della seconda base militare cinese in Cambogia, nel cuore dell'Indo-pacifico, poco a nord della base navale di Ream della marina reale cambogiana. La base militare cinese di Gibuti nel corno d'Africa, collocata all'imbocco del Mar Rosso, non è più sola. Infine il varo della terza portaerei cinese, la Fujan, la prima interamente progettata e costruita in Cina e con catapulta elettromagnetica. Ma accanto alla tecnologia di lancio (oggi presente soltanto nella flotta americana e francese), ciò che inquieta è la narrativa di conquista sottesa proprio nella scelta del nome: il Fujan è la provincia meridionale che si affaccia sullo stretto di Taiwan, quel tratto di mare di soli duecento chilometri nel quale la "libertà di navigazione" richiesta da Taiwan e dalla comunità dei Paesi democratici, potrebbe essere presto interdetta da un'autocrazia con ambizioni sempre più globali».

L’ITALIA DARÀ 10 MILA SOLDATI ALLA NUOVA NATO

Roma garantirà 10 mila soldati e varerà un nuovo decreto per altri cannoni all'Ucraina. I nuovi impegni militari presi in sede Nato potrebbero far salire il budget militare del nostro Paese oltre la soglia del 2 per cento del Pil. Il retroscena è di Ilario Lombardo e Francesco Grignetti per La Stampa.

 «La questione, presto o tardi, si sarebbe posta in questi termini. Come ha detto Pedro Sanchez, il padrone di casa, a Madrid, del summit Nato: non bisogna scoprire il fianco del Sud. «È ora che l'Alleanza riconosca la sua importanza in una strategia a 360 gradi», ha affermato il premier spagnolo in una dichiarazione congiunta con il presidente americano Joe Biden, dopo il loro incontro alla Moncloa. È l'identica preoccupazione che agita il governo italiano. L'Ucraina ha imposto l'urgenza di rafforzare i confini a Est. Uomini e mezzi che servono a dissuadere Vladimir Putin da altre iniziative belliche. Per questo motivo aumenterà il contributo dei singoli membri Nato in termini militari. Ma ogni scelta andrà ponderata, tenendo a mente che per i Paesi del Sud europeo il Mediterraneo è una frontiera bollente, ed è vitale tenerla in sicurezza. La diplomazia italiana lavora su questo aspetto da mesi. Già durante la visita di Mario Draghi a Washington era emersa la preoccupazione del governo di Roma. La crisi alimentare, che si è scatenata nell'effetto moltiplicatore della guerra, si somma agli altri fattori di instabilità geopolitica nell'area africana, mediterranea e mediorientale. La fame, la siccità, i cambiamenti climatici possono tutti trasformarsi in concause d'instabilità. Il terrorismo jihadista peraltro resta una minaccia concreta, seppur meno temuta che nel passato. Ieri Draghi è arrivato a Madrid, al termine del G7 in Germania, per partecipare assieme agli altri leader alla cena organizzata dal re Felipe di Spagna. L'occasione per intavolare i primi discorsi. Il premier italiano dovrebbe assicurare una sponda a Sanchez proprio sul fronte del Sud. Il primo ministro spagnolo ha parlato della necessità di una «risposta coordinata» dei Paesi Nato e ha menzionato il Sahel come focolaio preoccupante. Già, perché le migrazioni di massa potrebbero diventare numericamente spaventose per la cintura meridionale dell'Europa. E, in questo senso, i timori italiani per la Libia e la Tunisia si rispecchiano in quelli spagnoli per Ceuta e Melilla, le due enclave in Marocco, teatro di una strage di migranti in fuga verso il Vecchio Continente. L'invasione russa dell'Ucraina è naturalmente in cima alle preoccupazioni del governo italiano. Non mancherà nella settimana prossima un ennesimo decreto, il quarto, per l'invio di armi al Paese invaso. S' ipotizza il trasferimento di nuovi cannoni Fh70 da 155 millimetri e di vecchi cannoni semoventi M109, ormai dismessi dal nostro esercito. Il protrarsi della guerra, però, sta mettendo alle corde anche i nostri arsenali. Se pure abbiamo ancora armi da cedere, non si largheggia in munizioni. E spetterà allo Stato maggiore Difesa valutare il punto di equilibrio tra le richieste ucraine e le esigenze nazionali. Guai a dimenticare il Fronte Sud, però. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha appena licenziato una Direttiva sul Mediterraneo e ne ha parlato in un consesso di generali, appena prima di partire per Madrid. «Credo che l'attualità nella quale siamo immersi - ha spiegato nella cerimonia di chiusura dell'anno accademico al Centro alti studi Difesa - ci dica che dobbiamo riconfermare ancora una volta con drammatica chiarezza i concetti di fondo. L'aggressione russa ai danni dell'Ucraina nell'Est del nostro continente, ai confini della Nato e dell'Unione Europea, è un gravissimo atto di violazione dei principi internazionali. Rappresenta un'insidia per la stabilità internazionale, ma ha anche riverberi indiscutibili sul Mediterraneo. Dalla crisi alimentare, alla grande questione energetica, queste cose si intrecciano e si intersecano con l'area di riferimento dei nostri interessi primari». Ci preme moltissimo, insomma, che il Mediterraneo allargato ovvero Nord Africa, Sahel, Medio oriente, Corno d'Africa, non sia dimenticato dalla Nato. Dice sempre Guerini: «La relazione tra il Mar Nero e il Mar Mediterraneo, significa la tutela degli interessi energetici del nostro Paese e non solo. Significa la tutela della libertà e della sicurezza delle rotte di navigazione e di trasporto. Tutte cose che sono al centro del nostro lavoro. Noi vogliamo sia tenuto insieme in una Nato flessibile, capace di agire a 360 gradi». E però le ambizioni dovranno fare i conti con la realtà prosaica dei nostri arsenali e delle nostre attuali forze armate. Se sarà confermato il balzo in avanti delle forze di reazione rapida dell'intera Nato, che dovrebbero passare da 40 a 300 mila soldati immediatamente mobilitabili, ciò significherà che l'Italia dovrebbe garantire alla Nato dai 10 ai 15 mila soldati, pari a tre o quattro brigate a piena forza, bene armate e addestrate, con mezzi e logistica in grado di muoversi fuori dal territorio nazionale. Non basterà a quel punto nemmeno il famoso 2% del Pil per la spesa militare».

IL G7 FINISCE CON LO SCONTRO TRA DRAGHI E PUTIN

Il G7 si è concluso con la promessa dei grandi della terra a Volodymyr Zelensky che si proseguirà “fino alla fine” contro Mosca. Ma è Mario Draghi alla fine a scontrarsi apertamente col Cremlino. Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.

«La morale di un vertice con un programma condizionato anche dal Cremlino, dal timing di lancio dei missili sull'Ucraina, prende forma nelle parole di Mario Draghi alla fine dei lavori. Il premier rammenta un proverbio africano, negli anni '80 andava di moda «quando ero alla Banca Mondiale». È semplice, ma aderisce alla perfezione alla situazione geopolitica e internazionale: «Diceva che quando gli elefanti lottano è l'erba che soffre». Al G7 che si chiude hanno partecipato anche Paesi cosiddetti «minori»: dall'Argentina al Sudafrica, dall'Indonesia al Senegal, sino all'India. E tutti, ci tiene a rimarcare il capo del governo, hanno un atteggiamento «abbastanza neutrale» sulla guerra, ma anche perché finora «non sono stati avvicinati». Invece dalla discussione è emerso che «desiderano essere coinvolti». L'insegnamento del proverbio può essere declinato così, conclude Draghi: «Se i Paesi si sentono erba soffrono, ed è difficile chiedere loro di prendere parte». Si può prendere parte alle sanzioni che finora non si sono applicate, alle decisioni delle Nazioni Unite che dovranno essere condivise (magari a quella imminente sul grano e sullo sblocco del porto di Odessa), alla scelta che oggi più che mai - continua Draghi - «è per la difesa delle democrazie, l'avversione alle autocrazie». Per questo non si può emergere vincenti se non si prende consapevolezza «che noi del G7 siamo anche il foro internazionale più importante, più potente, più ricco, ma siamo minoranza, in termini di popolazione e opinione». E non si vince una guerra che è anche fra diverse visioni del mondo e del futuro se non si coinvolgono gli attori più piccoli, sino a «renderli compartecipi dei momenti fondamentali». Nel caso specifico tocca all'Indonesia sentirsi schiacciata dagli elefanti. Nel castello della Baviera è arrivato anche il presidente che a ottobre ospiterà il G20 e avrà una bella gatta da pelare: conciliare la presenza della Russia con quella degli altri Stati. Un tema molto sensibile, tanto che le parole di Draghi provocano l'immediata e piccata reazione del Cremlino. Per il nostro premier «il presidente Widodo lo esclude, con noi è stato categorico», Putin «non verrà, magari farà un intervento da remoto». Per i russi «non spetta a Draghi decidere. Probabilmente ha dimenticato che non è più il presidente del G20, l'invito a Putin è stato ricevuto e accettato». Mentre l'ambasciatore Sergey Razov rimane su un sentiero di provocazione: «La maggior parte delle aziende italiane, nonostante le pressioni, continua a lavorare sul mercato russo». Nelle parole del premier i giorni trascorsi in Germania hanno in ogni caso centrato degli obiettivi. Lui teneva più di tutti a rafforzare un percorso di avvicinamento a un price cap sul gas: ci è riuscito, la Commissione europea avrà un passo più spedito nel lavorare a una proposta, anche i ministri dell'Energia del G7 studieranno con urgenza dei meccanismi efficaci per mettere un tetto al prezzo di tutti gli idrocarburi russi. E poco male se «non siamo in grado di prevedere la durata della guerra», e anche se ci sono delle legittime «preoccupazioni» degli americani per i progressi sul campo di Mosca, l'importante per Draghi è che «i costi severi e duraturi» che l'Occidente ha impresso all'economia russa non cessino, l'importante è che «le sanzioni durino tutto il tempo necessario». Così come gli aiuti, finanziari e militari, che i sette leader presenti a Elmau hanno promesso a Zelensky».

SUL TETTO DEL PREZZO, ITALIA UMILIATA DAGLI INTERESSI NORDICI

Davide Tabarelli per il Sole 24 Ore commenta le difficoltà di Draghi e spiega senza mezzi termini: Olanda e Germania si oppongono al tetto del prezzo perché vendono parecchio gas del Mare del Nord.  

«Prima doveva essere sul gas in Europa, poi allargato anche al petrolio, poi solo sulle esportazioni dalla Russia. Il tetto al prezzo si complica, non potrebbe essere altrimenti. Intendiamoci, nessuno vorrebbe mai applicare una simile misura, è un obbrobrio, una violenza contro le regole di mercato, quelle dell'ottimale allocazione, che funzionano bene in condizioni normali, ma oggi siamo in guerra. Il nostro principale fornitore di energia, la Russia, il primo esportatore di gas e di petrolio al mondo, membro dell'OPEC Plus, ha riportato la guerra in Europa. Gli abbiamo fatto le sanzioni sul carbone, poi quelle sul petrolio, ci ha risposto, come era ovvio attendersi, con il taglio delle forniture di gas lo scorso 14 giugno, cosa che ha fatto infiammare di nuovo i prezzi del gas sul TTF da 80 per megawattora a 130 , nuova linfa questa per la spirale inflazionista. Un anno fa i prezzi erano a 20 per megawattora, 2 anni fa si erano appena risollevati dai minimi di 6 per megawattora, quello che Gazprom aveva definito il minimo, il suo costo, sotto il quale ci avrebbe perso. Ce n'è abbastanza per affermare che le condizioni normali non ci sono e che continuare ad affidarsi al dio mercato è ben peggio di non provare a fare qualcosa? Per il momento si tratta solo di un'ipotesi, peraltro, da studiare e il fatto che siano passati 8 mesi dalle prime proposte italiane dello scorso ottobre la dice lunga di come non piaccia ad alcuni paesi europei.
I tedeschi, gli olandesi, assieme ai norvegesi fuori UE, non vogliono il tetto al prezzo del gas. Non è una bella storia di solidarietà, perché la ragione è semplicemente che vendono parecchio gas, quello che producono soprattutto nel Mare del Nord.
Sarà difficile da applicare, certo, ma se lo fissiamo, per il gas, a 80 , è sempre un regalo enorme ai produttori, i cui costi non superano i 10 . Occorre tenere presente una regola tanto solida, quanto semplice, quella che non è nell'interesse dei produttori creare problemi con shock di prezzo che, nell'immediato, consentono grandi entrate, ma nel lungo allontanano i clienti che, invece, devono essere tranquilli e negli anni assorbire le loro immense riserve. Questo vale anche per Gazprom, la struttura più occidentale della tecnocrazia russa, vale per tutti gli altri paesi produttori e dobbiamo esigerlo anche dalla Norvegia. Noi importatori, però, non possiamo, da una parte, imporre un tetto ai prezzi e, dall'altra, limitare gli investimenti in fonti fossili, come sta facendo l'Europa con la tassonomia verde, nell'illusione che questo basti per fare arrivare le tanto desiderate rinnovabili, in ossequio ai comandamenti della religione climatica. Se siamo in una crisi peggiore di quelle degli anni '70 è colpa anche, non solo, di questa distrazione, dell'obbligo imposto dalla finanza a tagliare gli investimenti nelle fonti tradizionali per rispondere ai anatemi della religione climatica. Manca capacità produttiva in tutte le filiere dei fossili, non solo del gas e del petrolio, ma anche del dimenticato carbone, squilibrio che paghiamo sulle bollette e al distributore. Tetto ai prezzi si, ma più realismo sul futuro dei fossili: suvvia, un minimo di coerenza».

I MISSILI RUSSI SUI CIVILI, I VIDEO SMENTISCONO MOSCA

Le ultime notizie dal campo bellico. Il giorno dopo i 20 morti al centro commerciale di Kremenchuk: i video smentiscono la versione di Mosca. Andrea Nicastro per il Corriere.

«L'esplosione dei missili russi a Kremenchuk è stata registrata dalle telecamere di sicurezza di un parco pubblico poco lontano. Mancava un minuto alle 16, il sole scottava. Le persone che passeggiavano vicino al laghetto hanno avuto quasi dieci secondi da quando hanno sentito il fischio del missile al momento dell'esplosione. Un padre ha preso la figlia e si è nascosto dietro un albero. Un fidanzato si è buttato nel lago, lasciando la ragazza al suo destino. Dei giovani si sono riparati sotto un gazebo per rendersi conto dell'assurdità della scelta solo quando sono stati investiti dal lampo dell'onda d'urto. Lo stesso deve essere accaduto all'interno del centro commerciale. Solo che i passanti del parco sono stati protetti da un muro, i clienti del centro commerciale no, sono stati dilaniati dallo scoppio e schiacciati dalle travi di cemento collassate. Il bilancio è arrivato a 20 morti, 59 feriti e 41 dispersi. Si teme che di loro sia rimasto troppo poco per poterli riconoscere. Le telecamere del giardino aiutano a fare chiarezza tra le versioni contrastanti date da ucraini e russi. I primi ad accusare che si sia trattato di un attacco deliberato contro un obiettivo civile, i secondi a sostenere di aver colpito un deposito di armi. Hanno entrambi una parte di ragione, ma il risultato finale non cambia, ad essere colpito è stato (anche) un centro commerciale che nulla aveva a che fare con la guerra. Nelle clip del parco si vede un missile colpire ciò che le immagini satellitari permettono di riconoscere come una fabbrica. Le autorità ucraine dicono essere in disuso e le russe invece di ospitare armi occidentali. Non possiamo sapere chi menta. Non si vedono ulteriori scoppi, quindi, se c'era del munizionamento non è stato colpito. Ciò che, invece, si nota dalle riprese è che quando l'esplosione investe il laghetto, in direzione del centro commerciale, già si leva una spessa colonna di fumo. È plausibile, quindi, che pochi secondi prima un altro missile sia caduto sui negozi causando la strage. Il racconto dei sopravvissuti conferma questa tesi e sgombera i residui dubbi. In ospedale i feriti, ancora sotto choc e doloranti, sono concordi nella sequenza degli eventi: le sirene antiaeree d'allarme che nessuno ha considerato, l'affollamento nei negozi ospitati sotto la struttura di cemento, l'esplosione, il crollo, il fumo e, per chi riusciva a stare in piedi, la fuga. Nel comunicato del ministero della Difesa di Mosca si legge invece che «a Kremenchuk le forze russe hanno colpito un deposito di armi Usa e europee con ordigni ad alta precisione. La detonazione delle munizioni ha dato fuoco a un centro commerciale non in attività vicino al deposito». Falso tre volte. Gli ordigni non erano precisi: uno ha preso i negozi, l'altro il margine della fabbrica. L'incendio non è nato dalle munizioni in deposito. Il centro commerciale non era chiuso. Probabilmente Mosca ha tentato di distruggere quello che credeva essere un magazzino di armi, ma il primo colpo non è andato a segno, colpendo invece (come sostengono gli ucraini) uno shopping center (in attività). Più semplice il fact checking sull'altra affermazione russa: che mai Mosca attacca civili. Basta sentire l'odore dei cadaveri degli abitanti di Mariupol ancora sepolti sotto i palazzi distrutti per convincersene».

KALININGRAD, IL CORRIDOIO RUSSO CHIUSO DALLA LITUANIA

Viaggio nei pressi del confine che congiunge la Polonia alla Lituania e all'exclave russa di Kaliningrad, una striscia di terra chiamata "Corridoio di Suwalki". Da qui il blocco lituano alle merci russe potrebbe far allargare il conflitto ai Balcani, coinvolgendo la Ue. Reportage di Rosalba Castelletti per Repubblica.

«La strada che porta verso il confine incandescente corre all'ombra di due filari di "soldati della Wehrmacht", come i detrattori chiamano gli antichi pioppi piantati dai prussiani, e a tratti preserva l'originale pavimentazione germanica. Attraversa campi non falciati, manti erbosi e paludi e infine si inoltra tra le querce, i pini e gli abeti della "Krasny Les", la Foresta Rossa, portando fino a Lesistoe. L'ex villaggio prussiano Nassaven non è nient' altro che un grumo sparso di case coi tetti di tegole e le pareti di mattoncini rossi, una moderna cappella e una panchina intagliata nel legno affacciata sul laghetto Rybnoe, mentre due croci, una latina e una ortodossa, segnano la sepoltura dei caduti di opposti fronti di un'antica battaglia del 1915. È da qui, da Lesistoe, che dovrebbero partire i blindati russi - o arrivare quelli bielorussi - negli scenari più drammatici ipotizzati da diversi strateghi militari ora che i riverberi della cosiddetta "operazione militare speciale" russa in Ucraina sono arrivati fin qui. Oltre una collina alberata, a meno di una decina di chilometri, in una zona vietata agli stranieri e pressoché impraticabile per i locali, si incrociano i confini di Russia, Lituania e Polonia e inizia il famigerato "Corridoio di Suwalki" dal nome di una cittadina polacca. Przesmyk , "istmo", lo chiamano i polacchi. Koridor , "corridoio", i russi. Un riflesso delle opposte visioni. È una striscia di terra boscosa e paludosa attraversata da una frontiera serpentina di 104 chilometri che divide l'estremità nordorientale del voivodato polacco di Podlachia dall'ultimo lembo meridionale della contea lituana di Alytus. È l'unico collegamento tra le tre Repubbliche Baltiche e i partner dell'Unione europea e della Nato, ma anche tutto ciò che separa la strategica regione russa di Kaliningrad a Nord-Ovest dall'alleata Bielorussia a Sud-Est e, di conseguenza, dal "continente" o "Grande Russia", come qui chiamano il resto della Federazione. Un altro frammento di terra palleggiato dalla storia tra ducati e imperi fino a incarnare oggi un tallone d'Achille per l'Alleanza Atlantica e la "strada della vita" - così l'ha definita il sito filogovernativo Vzglyad - per l'emarginata exclave. «Lì c'è la Lituania», dice Viktor, sessantenne che vive di pesca, indicando con la sinistra un punto indefinito oltre il lago Rybnoe. «Lì la Polonia », aggiunge facendo un cenno speculare verso destra. «Siamo circondati dalla Nato. Vilnius prende ordini da "zio Sam". Il recente blocco lituano del transito delle merci russe è una provocazione. Vogliono testare le nostre soglie di resistenza. Bisogna reagire. L'opzione militare è l'ultima risorsa, certo. Ma se non cederanno con le buone, non ci resterà che sfondare Suwalki. Sappiamo tutti che prima o poi finirà così». Eppure qui nulla evoca una guerra. Non vedi carri armati né militari, solo pecore al pascolo, ordinate aiuole, staccionate colorate, bambini che scendono dallo scuolabus o bagnanti incuranti delle zanzare nel vicino lago Marinovo. La quiete è assoluta. «Parlano tutti dei temuti missili Iskander, ma io non ne ho mai visto uno in vita mia. Qui non ci sono soldati, solo gente pacifica che fa le sue faccende quotidiane», rimarca Elena, da 15 anni matrona della spoglia Dom Kultury, Casa della Cultura, di Kalinino. Melkemen nella Prussia orientale e Birkenmühle sotto i nazisti, oggi Kalinino è un altro avamposto russo sperduto nel verde il cui vanto sono una chiesa del Seicento abbandonata, un ponte germanico, una lapide commemorativa del Servizio del lavoro del Reich e il Museo della Cicogna. Eppure, come tutti in questo cuneo di terra, anche Elena è consapevole di camminare su carboni spenti pronti a infiammarsi al primo alito di contesa. «Sappiamo che il pericolo è dietro l'angolo. Temiamo per i nostri bambini, in caso di escalation non avremmo dove nasconderci». Qui si disquisisce solo su chi sarà il primo ad attaccare. «Reagiremo agli atti ostili. Se non ti difendi, ti bullizzano», è certo Sergej, la voce impastata d'alcol. «Non siamo invasori. Non raccogliamo le provocazioni. Ma per la Nato Kaliningrad è un pezzo di terra appetitoso. Al di là del confine ci sono i carri armati lituani. Li hanno visti tutti», assicura invece Elena, mentre dall'altro lato della frontiera, nell'eco di opposte sorde narrazioni, qualcuno a sua volta giurerà di aver visto i mezzi militari russi. I toni restano alti, soprattutto da quando Vilnius ha deciso di restringere il transito delle merci russe sanzionate dalla Ue. «Fa parte della "guerra per procura" che l'Occidente ha scatenato contro la Russia. Naturalmente adotteremo misure di ritorsione e saranno molto dure. Siamo in grado di bloccare l'ossigeno dei vicini Baltici che hanno intrapreso azioni nemiche », ha minacciato l'ex premier e presidente russo Dmitrij Medvedev, oggi numero due del Consiglio di sicurezza. Mentre gli hacker russi di Killnet ieri hanno colpito per il secondo giorno consecutivo decine di siti governativi lituani. «Vilnius ha violato tutti gli impegni vietando il transito delle nostre merci. Quello che so è che nella nostra regione di Kaliningrad ci stiamo preparando a essere autonomi energeticamente», dice la ventiseienne Lera, agente di commercio, scendendo da una delle poche auto che transitano di qui. «Come siamo soliti dire noi russi, temiamo il peggio, ma speriamo il meglio».

QUANDO FINIRÀ? TUTTI I DUBBI DI WASHINGTON

Andrea Marinelli e Guido Olimpio sul Corriere della Sera rilanciano alcune questioni strategiche sollevate dai media statunitensi. Fra cui la Cnn. Sembra irrealistico pensare che i confini dell’Ucraina possano essere quelli del 24 febbraio, prima che iniziasse l’invasione russa.

«Alla vigilia del vertice Nato emergono segnali anonimi, indirizzati verso Kiev. Ora, poiché passano attraverso canali ufficiosi, vanno presi come degli avvisi e non è detto che siano definitivi. Tuttavia non possono essere sottovalutati. All'interno dell'amministrazione Usa crescono di dubbi sull'andamento del conflitto. La Cnn ha raccolto giudizi allarmati sintetizzati in tre punti: 1) È difficile che la resistenza riesca a conquistare i territori perduti. 2) Zelensky dovrà ridefinire il suo concetto di vittoria: lui ha sempre detto di non essere disposto a cedere un millimetro della propria nazione. 3) Sembra irrealistico che l'Ucraina possa tornare a essere quella dei confini del 24 febbraio. L'analisi negativa è rinforzata dall'idea che l'aiuto occidentale è importante e ha contribuito a sventare parte dei piani del Cremlino, ma non è sufficiente per garantire una riconquista. Sono valutazioni non nuove, già trapelate nei giorni anche se «nascoste» in mezzo ad altre notizie belliche. È però significativo che escano in questo momento. Al tempo stesso l'emittente bilancia la visione pessimista ricordando che a Washington - e in campo alleato - non la pensano tutti così: c'è chi ha ancora fiducia nella capacità di riscossa degli ucraini, ritiene che i russi abbiano avuto perdite consistenti, ricorda come gli scenari catastrofici dei primi giorni di guerra, con Kiev minacciata, siano stati poi capovolti dalla realtà del campo. Il Cremlino è stato costretto a ridurre i suoi progetti e si è concentrato nel Donbass, dove è riuscito a imporre la propria potenza. I successi degli invasori nel settore orientale, però, per quanto limitati rispetto agli obiettivi iniziali, hanno risollevato i dubbi. Una situazione sulla quale ha inciso il tipo di conflitto, d'attrito, con un grande dispendio di forze e un uso massiccio dell'artiglieria. Non a caso la Cnn , nel suo articolo, è tornata sulla mancanza di munizioni, problema di entrambi gli schieramenti, ma più profondo per la resistenza. Fino a pochi giorni fa le retrovie di Mosca erano abbastanza al riparo, tuttavia nell'ultima settimana sono state colpite dai sistemi a lungo raggio fornite dall'Alleanza all'Ucraina (tipo Himars) e locali: secondo alcuni almeno 16 i depositi o siti raggiunti dai colpi».

“DOSTOYEVSKY E PUSHKIN IMPERIALISTI RUSSI”

Cancel culture e propaganda nazionalista ai margini della guerra. Aleksandr Pushkin e Fyodor Dostoyevsky, giganti della letteratura mondiale, vengono letti oggi attraverso le ombre imperialiste presenti nelle loro opere. Kiev vorrebbe anche rinominare la centrale piazza Lev Tolstoy con un autore ucraino. L’analisi di Anna Zafesova.

«La centralissima piazza di Lev Tolstoy a Kyiv potrebbe presto cambiare nome: un referendum online cui hanno partecipato milioni di cittadini ha scelto per la stazione della metropolitana omonima il nuovo nome di Vasyl Stus, un poeta dissidente morto per uno sciopero della fame in una prigione sovietica. Pushkin, Lermontov e Tolstoy vengono smantellati in massa dai piedistalli dei monumenti e dalle targhe con i nomi delle vie delle città ucraine, mentre una commissione ministeriale sta cancellando praticamente tutti gli autori russi dal corso di letteratura straniera, sostituendoli con i classici europei. "Guerra e pace" non potrà più trovare spazi nella didattica in quanto «opera che glorifica la potenza militare russa», ha annunciato qualche settimana fa il viceministro dell'Istruzione Andriy Vitrenko. Diverse regioni - tra cui la tradizionalmente russofona Odessa - hanno già cancellato corsi facoltativi di letteratura russa, e il ministero ora propone di ricollocare perfino autori russi di origine ucraina come Gogol nei corsi di letteratura nazionale. Una "purga" che fa gridare Mosca alla "cancel culture", e Vladimir Putin e i suoi propagandisti non perdono occasione di denunciare una campagna «russofoba». Il filosofo ucraino Volodymyr Yermolenko però respinge le accuse, e su Foreign Policy firma un saggio - "From Pushkin to Putin: Russian Literature' s Imperial Ideology", da Pushkin a Putin, l'ideologia imperiale della letteratura russa - nel quale lancia un dibattito finora impossibile. I classici russi, un Pantheon di intoccabili, si rivelano «pieni di discorsi imperialisti, romanticizzando la conquista e la crudeltà, e tacendo delle conseguenze». Il poeta romantico Mikhail Lermontov viene bocciato per aver raccontato le guerre del Caucaso con stereotipi colonialisti e razzisti sul «cattivo ceceno». Aleksandr Pushkin, considerato il padre della letteratura russa, presenta gli ucraini come «sanguinari» nel poema "Poltava", e in "Ai calunniatori della Russia" insulta e minaccia l'Europa che si schiera dalla parte dei polacchi ribelli con parole che sembrano uscite dal Telegram dell'ex presidente Dmitry Medvedev. Ma il premio al nazionalismo letterario va a Fyodor Dostoyevsky, il classico che più di chiunque altro aveva teorizzato lo scontro inevitabile tra Russia ed Europa, l'autore che bisogna leggere per "diventare russi", teorizza sul Kommersant lo storico Dmitry Razumov. La studiosa dello scrittore Lyudmila Saraskina ricorda la sua idea molto putiniana che «l'Europa non ci ama mai, anzi, non ci sopporta... l'unica cosa che non può non riconoscere è la nostra forza». Lo scrittore teorizza l'esistenza di una «anima russa» che dovrà svolgere una «grande missione», e riserva parole di disprezzo verso i «popolini slavi» che «calunnieranno la Russia» mentre «cercheranno i favori degli europei»: sembra la propaganda del Cremlino di oggi. Ovviamente il discorso di Dostoyevsky è complicato e contraddittorio: invocava anche l'Europa come «seconda madre» ed era contrario a portare i popoli slavi sotto lo scettro russo con la forza. Il problema non è quello che potevano scrivere 200 o 150 anni fa un ufficiale dello zar come Lermontov o un conservatore religioso come Dostoyevsky. Il problema è il modo in cui sono stati chiamati al servizio della propaganda, nella letteratura più politica della storia, che ha consegnato ai romanzieri il ruolo svolto altrove da politici e giornalisti. Il manuale di letteratura sovietico cooptava nel Pantheon dei classici in base a criteri ideologici, e mentre gli autori "non allineati" venivano cancellati non soltanto dai piani editoriali e didattici, ma spesso anche dalla faccia della terra, quelli graditi al regime diventavano modelli e icone della "grandezza russa". Più che invocare una "cancel culture" verso i russi, Yermolenko chiede di applicare loro «lo stesso discorso critico usato dagli studiosi occidentali verso la cultura occidentale», citando autori come Kipling o Conrad, facendo scendere Pushkin e Tolstoy dal piedistallo di profeti ed eroi intoccabili per contestualizzarli e criticarli. Un'operazione che in Russia non è mai stata compiuta, e i monumenti e le targhe a Pushkin che invadono anche quelle ex colonie russe dove non aveva mai messo piede, restano uno strumento di conquista. La "grande letteratura russa" oggi viene raccontata dal putinismo come componente essenziale del "mondo russo" che il Cremlino difende e diffonde a cannonate. È evidente che Dostoyevsky non ha appoggiato l'invasione dell'Ucraina, né sapremo mai se l'avesse fatto. Ma quando un uomo di cultura come il direttore dell'Ermitage Mikhail Piotrovsky dichiara ridendo che tutti i russi sono «militaristi e imperialisti», e che la guerra serve «ad affermare una nazione», la carica xenofoba e violenta fa sparire tutte le altre anime della letteratura russa e sovietica. Soltanto tre anni fa, gli abitanti di Kyiv avevano respinto la proposta di cambiare nome alla piazza di Lev Tolstoj. Oggi, non lo vogliono più».

SCONTRO NEL CENTRO DESTRA

Tensioni sul vertice del centro destra. Giorgia Meloni chiede esplicitamente: Vogliamo stare uniti o no? Torna quindi sul caso Verona: Tosi non vuole FdI, Forza Italia dica se è la sua linea. Salvini chiede un confronto al più presto. Paola Di Caro per il Corriere.

«Silvio Berlusconi lavora per organizzarlo in tempi «ragionevoli», ad Arcore dove farebbe il padrone di casa e il «mediatore» fra «i due litiganti». Che sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni, uniti nel pretendere un vertice «il più presto possibile». L'uno per rilanciare il centrodestra dopo la batosta elettorale di domenica: «Troppi sono i Comuni persi per divisioni poco spiegabili. Prima si prendono le decisioni e ci si chiarisce, meglio è». L'altra per avere «chiarezza», in un senso o nell'altro, anche se «noi non abbiamo piani B» precisa, quasi a suggerire che altri potrebbero invece averne. Ma contatti per vedersi ad horas non ce ne sono, servirà ancora un po' di tempo per arrivare all'incontro sapendo cosa si vuole e cosa si concede. La leader di FdI però scalpita, e nell'attesa accoglie al Westin Excelsior di Roma i delegati degli «Study Days» organizzati dal Partito conservatore europeo, del quale è presidente. «Sono estremamente lieta di darvi il benvenuto nella Capitale d'Italia, la culla della civiltà europea», dice agli spagnoli di Vox che ormai la amano visceralmente, ai finlandesi di Riforma Blu, a quelli di Armenia Prospera. Ma a margine, i toni si inaspriscono: «Un vertice non è ancora in calendario, ma penso ci si debba vedere prima possibile: è necessario fare riflessioni, non certo polemiche, su come proseguire, per guardare avanti e non indietro. Vogliamo stare insieme o no? Sarà questa la domanda principale che farò». La domanda nasce anche dalla convinzione che ci sia astio verso di lei, volontà di marginalizzarla. L'ultimo caso sono le parole di Flavio Tosi: «Ho letto alcune dichiarazioni di un esponente di FI che dice che bisogna liberarsi di FdI. Tosi sembra essere fiero di aver fatto vincere la sinistra a Verona e mi sembra che lo voglia fare anche a livello nazionale. Vorrei sapere se è la linea ufficiale del suo partito, oppure no. Ovviamente non lo credo». Già, oggi sembra che lo scontro più duro sia proprio tra FI e FdI. Per Ignazio la Russa nessuno si può arrogare il diritto di dirigere il centrodestra, nemmeno Berlusconi che «spesso ha rotto» con alleati e uomini del suo partito: «Noi chiediamo un luogo (quindi non per forza Arcore, ndr ), una data e un orario, per un incontro collegiale con un primus inter pares che è Salvini, capo del primo partito, nel quale si decida di agire sempre con tempi rapidi e per far vincere la coalizione, non far perdere un alleato». La Meloni è altrettanto dura: «Berlusconi federatore? La verità è che noi vorremmo essere tutti federatori del centrodestra. A me interessa la sostanza, lavorare per l'unità della coalizione. Poi su tutto il resto si lavora». L'obiettivo sono le Politiche: «Quando siamo nati FdI è stato dato per spacciato, ora secondo i sondaggi si impone come primo partito...». E ancora: «Ci aspetta una stagione difficile - dice alla platea -. Le nostre campagne elettorali non saranno facili ma noi siamo pronti e determinati».

Augusto Minzolini interviene con l’editoriale sul Giornale in quello che lui chiama “psicodramma a destra”, sostenendo che Giorgia Meloni dovrebbe rassegnarsi alla leadership del federatore Silvio Berlusconi.  

«Almeno per numeri assoluti raccolti nelle elezioni amministrative, il centrodestra non dovrebbe mettersi a lutto: ha preso mezzo milione di voti più del centrosinistra. Il problema semmai è come sia riuscito ad indispettire i suoi elettori al punto da non riuscire a riportarli alle urne al ballottaggio. E la spiegazione è semplice: i gruppi dirigenti hanno litigato e si sono fatti male l'un l'altro. Per cui si tratta di una questione di regole e comportamenti prima ancora che di linea politica e di programmi. È una malattia, ormai cronica, che spinge a turno una delle forze politiche del centrodestra in fase di crescita - prima la Lega, ora FdI - a giocare da sola, a seguire più gli interessi, gli egoismi di partito che non a privilegiare la coalizione.  Una delle cause della patologia, se non la principale, è lo schema per cui la premiership va al leader del partito che prende più voti. Dal punto di vista lessicale lo slogan è efficace e non fa una piega. Solo che racchiude in sé anche le ragioni di una competizione spietata, senza quartiere. In più rende i leader prigionieri dei loro partiti e non rappresentativi dell'intera coalizione. È fatale, inevitabile. E i numeri, va detto, potrebbero in alcuni casi non dare ragione a questa regola non scritta: mettiamo il caso, infatti, che Fratelli d'Italia raccolga il 22% e, dall'altra parte, la Lega il 15%, Forza Italia il 10%, i centristi un 2%. È evidente che la convergenza dei voti del Carroccio, degli azzurri e dei centristi su un altro nome lo renderebbero più rappresentativo della coalizione del leader di FdI. Ovviamente, non è detto che la Meloni anche in quel caso non possa raccogliere un ampio consenso nello schieramento di centrodestra, ma per raggiungere l'obiettivo dovrebbe o raggiungere una percentuale superiore a quelle degli altri messe insieme, o coltivare il rapporto con gli alleati, cioè tentare di rappresentarne le istanze. Dovrebbe agire esattamente, quindi, con la sensibilità e lo spirito del leader di coalizione. Quale potrebbe essere la strada, pardon, la regola per imporre un simile comportamento virtuoso? Demandare la scelta del premier all'assemblea di tutti parlamentari del centrodestra all'indomani delle elezioni. Di certo il nome che fosse indicato in quella sede sarebbe rappresentativo della coalizione e non di un singolo partito e già solo per questo sarebbe dotato di un'investitura politica superiore. L'obiezione, per la verità semplicistica, degli uomini della Meloni a una simile idea è che il Cavaliere in passato ha sempre sposato la regola per cui il premier è espresso dal partito che raccoglie più voti. In realtà non è così: Berlusconi è sempre stato il baricentro dell'alleanza oltre a guidare il partito che nella coalizione raccoglieva più consensi della somma di tutti gli altri. Basta guardare ai dati delle elezioni che lo hanno portato a Palazzo Chigi: nel 1994 Forza Italia raggiunse il 21%, Lega (8%) e Alleanza Nazionale (13,4%) insieme facevano il 21,4%, solo che erano talmente incompatibili che si erano alleate separatamente con Fi una al Nord e una al Sud. Nel 2001 gli azzurri raggiunsero da soli il 29,4%, gli altri partiti del centrodestra sommati (Lega, An, centristi) il 19,1%. Nel 2008 il Cav era il leader del Pdl che raggiunse il 37,4% e aveva come alleati la Lega (8,3%) e le autonomie del Sud (1,1%). Insomma, l'obiezione di FdI non regge: se ci fosse stata l'assemblea degli eletti anche in quei casi l'investitura, non fosse altro per i numeri, l'avrebbe avuta ugualmente Berlusconi».

Il caso Moratti, nel senso di Letizia, non è affatto chiuso. Se infatti Attilio Fontana è il candidato ufficiale, l’attuale Vice presidente non ha ancora rinunciato all’idea di essere lei la preferita dagli altri alleati del centro destra. Come racconta sul Corriere della Sera Stefania Chiale.

«Lui forte dell'ufficializzazione del suo partito a candidato «naturale» per le elezioni regionali del 2023. Lei fiduciosa che almeno uno dei due alleati della Lega penda a suo favore. Appare sempre più evidente che Attilio Fontana e Letizia Moratti stiano guidando la Lombardia da presidente e vicepresidente separati in casa, entrambi aspiranti a correre per la coalizione alla sfida per governare la Regione nei prossimi cinque anni. E non solo da venerdì scorso, quando l'assessora al Welfare ha offerto ad alta voce la sua «disponibilità al centrodestra». «Si sa da tempo che la vicepresidente era disponibile, d'altronde», ammettono le persone a lei più vicine per garantire che «l'atmosfera tra i due è assolutamente normale». Più verosimilmente la situazione è «bizzarra», commentano nei corridoi della presidenza. Lunedì Matteo Salvini ha «blindato» la ricandidatura di Fontana, in una riunione alla quale ha partecipato anche il ministro Giancarlo Giorgetti, a sigillare l'unità del partito. Pur sapendo fin dalla sua investitura a vicepresidente della Regione nel gennaio 2021 che Moratti puntava al 35esimo piano di Palazzo Lombardia, Fontana immaginava che a questo punto la sua vice avrebbe fatto un passo indietro. Che invece non è avvenuto: da qui l'attesa per quello che verrà deciso nel vertice tra i leader della coalizione. «Gli alleati li avevo sentiti in precedenza - dice fiducioso Fontana, «sorpreso» dalle dichiarazioni di Moratti -: sia Meloni che Santanché che Berlusconi, tutti quanti avevano già ribadito il loro sostegno a me». Ancora mai ufficializzato, però, in un contesto di Amministrative finite malissimo per la coalizione e con scenari del tutto aperti: la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni è infatti intransigente su un'altra riconferma, quella del siciliano Nello Musumeci. Solo un accordo dei tre sul suo nome potrebbe garantire anche Fontana. L'appoggio di Silvio Berlusconi al governatore lombardo sarebbe già in tasca, mentre potrebbe essere proprio Meloni la più favorevole a portare avanti il nome di Moratti alla candidatura del centrodestra, si sussurra, ricordando che fu lei a spingere l'ex sindaca di Milano alla corsa per il Quirinale. «Io ho semplicemente dato la mia disponibilità al centrodestra - ha detto ieri Moratti -. Quindi adesso aspetto di vedere quali sono le posizioni di tutta la coalizione. Per il momento non ho sentito nessuno». E per il momento il summit del centrodestra «non è in calendario», ha ammesso ieri Meloni. «Da tempo avevo dato la mia disponibilità - ha dichiarato Fontana -. Ora la Lega ufficialmente mi ha incaricato di andare avanti quindi a questo punto, visto che gli alleati avevano detto che mi sostenevano, riparto con determinazione. Voglio portare avanti il lavoro iniziato in questi cinque anni». Con la vicepresidente non si sono rivolti la parola da venerdì: «Non siamo ancora stati in giunta, non abbiamo avuto modo di confrontarci», fanno sapere entrambi. Anche al di fuori della Lega tanti convergono sulla ricandidatura dell'attuale governatore, pur definendo «legittimo da parte di Moratti proporsi», come dice l'assessore al Clima Raffaele Cattaneo. E se la coordinatrice regionale di FdI Daniela Santanché ribadisce che «la linea del partito è di confermare gli uscenti», è pur vero che «anche il partito ha nomi da mettere sul tavolo», dice il capogruppo in Regione Franco Lucente. Della candidatura in Lombardia di Letizia Moratti «non se n'è ancora parlato», dice il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani. Che conclude: «Se rimane Fontana lo sosterremo. Moratti è stata anche sindaca di Milano, ma sarà il centrodestra unito a decidere le candidature alle prossime Regionali, in Lombardia come nel Lazio».

GRILLO DESTABILIZZA CONTE INVECE DEL GOVERNO

Trattamento frastornante quello dell’Elevato nei confronti dei vertici 5 Stelle. Dopo un iniziale e durissimo no su tutti i fronti (Governo e regole interne), Beppe Grillo sembra aprire spiragli. Luca De Carolis per Il Fatto.  

«Scherza e fa sul serio, nega con decisione e poi conferma a metà, sembra promettere ma non intende mantenere. Il Garante che non ne vuole proprio sapere di mollare il timone del M5S, cioè Beppe Grillo, usa le sue maschere d'artista per gestire i tanti parlamentari che incontra nel secondo dei suoi tre giorni a Roma. Ma non cambia le sue posizioni, nè sul governo nè sui due mandati. Non vuole che il Movimento esca dalla maggioranza, è evidente, e ai giornalisti lo ripete di prima mattina: "Certo che restiamo dentro". Poche ore dopo, di fronte ai deputati contiani che lo assediano a Montecitorio invocando l'uscita dal governo apre con vaghezza a un appoggio esterno: "Rimaniamo dentro l'esecutivo, ma se non ci ascoltano possiamo toglierci le poltrone, ne parlerò con Conte" dice più o meno alla sua maniera. Ma nel primo pomeriggio, quando appare a Palazzo Madama per incontrare i senatori con una banana in mano e una cravatta ridicola - "me l'hanno data all'ingresso" - cambia di nuovo giocata: "Appoggio esterno? Ma siete esaltati, coprite con non cose le cose vere". Uno, nessuno e centomila, questo Grillo, che sulla regola dei due mandati è già meno ondivago. "È un principio fondante, inderogabile" ribadisce. Però qualcosa concede. "Si può pensare a qualche eccezione, qualche deroga". Ovvero, apre a un terzo mandato a chi si voglia candidare "a un organo monocratico". Cioè come sindaco o governatore di Regione. Potrebbe essere il lodo perfetto per il siciliano Giancarlo Cancelleri, che entro domani dovrebbe avere una deroga per potersi candidare alle primarie del centrosinistra. Il Garante non lo ama, e ai deputati lunedì sera lo aveva rispiegato così: "In passato mi ha attaccato più volte". Ma ieri Grillo ha suonato altre note: "So che in Sicilia è apprezzato, vediamo". E comunque, "anche di questo parlerò con Conte". Nell'attesa, ai senatori dice di "non vedere di buon occhio neppure un voto online" sui mandati. E sarebbe il ciaone per Cancelleri (l'alternativa sarebbe il consigliere regionale Nuccio Di Paola). Quindi l'ennesima, parziale virata del suo martedì. Tutto deve comunque ripassare da un nuovo vertice con l'avvocato, con cui nel pomeriggio si abbraccia in un evento pubblico in centro. Devono mostrarsi uniti. "Andiamo perfettamente d'accordo" giura Grillo ai cronisti. Però dal palco del convegno rifila all'avvocato una battutaccia: "Gli ho dato un progetto, ma darlo a lui è come buttarlo dalla finestra". Così non stupisce sentire i contiani che ruminano parole di fiele. "Beppe è ossessionato dalla permanenza al governo, così Conte viene commissariato", riassume un big. Mentre il vice capogruppo in Senato ripete la sua linea Gianluca Ferrara: "Per me dal governo dobbiamo proprio uscire se non ci ascoltano su superbonus, salario minimo e armi all'Ucraina". E Conte? "Sul governo non si espone, ma sa che dobbiamo uscire, presto" filtra dai contiani. Su un eventuale appoggio esterno l'avvocato fa melina, ma neppure troppo: "Noi siamo al governo con spirito costruttivo, non di fedeltà. Il nostro obiettivo è mantenere un impegno preso con i cittadini in un momento di assoluta emergenza. Ci stiamo a queste condizioni, se possiamo dare un contributo". Traduzione: se non ci danno retta altro che appoggio da fuori, sbattiamo la porta. Anche perché, ricorda, "la riforma Cartabia ci ha messo in difficoltà, ed è da lì che è partito l'attacco di un certo mainstream, il ricatto al M5S". Però diversi grillini vorrebbero restare. Il rischio di perdere altri pezzi è concreto, ma Conte ostenta indifferenza: "Chi non è convinto di rimanere, che vada. Abbiamo bisogno di gente motivata". Tra stanotte e domattina, dovrà prendere con Grillo una decisione sui due mandati. Definitiva. O forse no».

Stefano Folli su Repubblica non prevede nulla di buono dal pressing di Beppe Grillo sul leader del Movimento Giuseppe Conte. Ogni mossa può diventare controproducente.

«L’ultimo paradosso italiano è anche il più spettacolare. Da un lato, Mario Draghi che si muove da protagonista al G7 e subito dopo al vertice della Nato convocato per ridisegnare, in tempi di guerra, le priorità geopolitiche e militari dell'Occidente: un momento che potrebbe diventare storico, o quantomeno in grado di essere riconosciuto come tale fra qualche anno. Per adesso viene ribadita la solidarietà attiva con l'Ucraina e anche su questo punto il presidente del Consiglio è esplicito. Dall'altro lato, c'è lo spettacolo provinciale di una politica domestica che non riesce a sollevarsi dalle sue beghe. Draghi sembra muoversi sulla scena internazionale ostentando indifferenza, cioè senza curarsi delle convulsioni dei partiti che pure fanno parte della maggioranza di quasi unità nazionale. Dietro il rispetto formale del protocollo politico e parlamentare, s' indovina un distacco che un tempo sarebbe stato impensabile. Non è l'effetto dell'"arroganza tecnocratica", come dice qualcuno, bensì del collasso della politica. O almeno di quei segmenti che hanno dominato la scena negli ultimi quattro anni. Forse non è un caso se Draghi ha scelto di fare una valutazione molto politica quando ha insistito, a margine del G7: "La crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo". Frase che definisce una linea discriminante: e ciò proprio nei giorni in cui si misura il cortocircuito dei movimenti, appunto, populisti. Ne è conferma il fenomeno più clamoroso: i Cinque Stelle dopo la scissione del gruppo Di Maio. È comprensibile che Conte e i suoi si sforzino di sopravvivere, tuttavia è evidente che sono privi di qualsiasi idea che non sia la guerriglia pressoché quotidiana, ma di corto respiro, nei confronti del governo e del premier. Del resto, l'antico padre carismatico, Beppe Grillo, maschera a malapena il fastidio, se non il disprezzo, per la sua creatura. Lungi dall'essere venuto a Roma per dare una mano a Conte - a parte le frasi di circostanza - , egli si preoccupa di far capire a tutti di essere ancora la "guida suprema" di quel che resta del M5S. E di aver deciso che si continua ad appoggiare Draghi, quindi si resta nel governo. Collocazione che in verità Grillo, per motivi pubblici e privati, non ha mai messo in dubbio. Si dirà che un giorno o l'altro i "contiani" vorranno liberarsi dalla tutela del padre-padrone. Può darsi, ma non siamo certo a quel punto. Per ora l'avvocato del popolo si trova stretto nella solita tenaglia. Se sospende le ostilità verso Palazzo Chigi delude i più accesi tra i suoi sostenitori e si espone alla domanda ovvia: ma allora perché avete rotto con Di Maio sulla politica estera, se poi continuate a votare nello stesso modo? Se viceversa ascolta i consiglieri più bellicosi, deve preparare l'uscita dall'esecutivo e il reingresso nel movimento dell'irrequieto Di Battista, simbolo stesso della deriva massimalista. La mossa avrebbe una sua logica, visto che già oggi la scissione tende a spingere i 5S verso i confini della maggioranza. Ma esige una tempra che Conte non ha mai dimostrato di avere, tant' è che al momento il suo impegno è dedicato a introdurre eccezioni alla regola dei due mandati, nella speranza di costruirsi un piccolo cerchio di fedeli. Non proprio un orizzonte rivoluzionario. Ecco perché gli stessi che vogliono i 5S fuori dal governo desiderano anche affidare la risalita elettorale alla verve demagogica di Di Battista. Per Conte si preparano tempi cupi».

PARLA BERSANI, L’ULTIMO ALLEATO DI CONTE

Intervista di Francesca Schianchi della Stampa a Pier Luigi Bersani, fondatore di Articolo 1. Bersani è sempre stato un convinto alleato di Giuseppe Conte ed anche in questa complicata situazione lo difende. Nei fronti di Di Maio ma anche pensando al disegno neo ulivista di Enrico Letta.

«Non è più tempo di parole con la A accentata», sospira Pier Luigi Bersani nel piccolo ufficio del gruppo di Leu. In che senso? «Unità, solidarietà: per l'amor di Dio, bellissime parole! Ma non è più tempo di concetti astratti: stavolta se non mettiamo nettezza nella proposta non superiamo il distacco che c'è con la destra». A tre giorni dalle Amministrative, il fondatore di Articolo 1 gioisce per i risultati - «ci siamo tolti un po' di soddisfazioni, siamo piccoli ma leghiamo anche la sabbia», puro stile bersanese per dire della disposizione a tentare coalizioni e alleanze - ma già guarda al futuro, alle Politiche. E al segretario dem Enrico Letta che parla di «nuovo Ulivo» risponde chiedendogli l'apertura del partito e un manifesto incentrato sui temi sociali su cui costruire un'alleanza progressista. Perché, dopo essersi rallegrato per i risultati, «lunedì mi è venuta in testa una citazione di Orietta Berti». Dica. «Abbiamo risolto un bel problema, ma guardando alle Politiche ce ne restano mille».

La mucca resta nel corridoio, per dirla con la metafora con cui da anni lancia l'allarme sulla forza della destra?
«È in una fase di fermo, ma è ancora lì, incombente. Se qualcuno pensa che quando si voterà alle Politiche a Monza o a Verona non ci troveremo una destra in piedi, non ha capito».

Enrico Letta parla di campo largo, di nuovo Ulivo, la convince?
«Dalle elezioni viene una pista di lavoro: dove ci siamo tolti le migliori soddisfazioni, da Parma a Piacenza a Verona, c'erano programmi ben scanditi e l'aria di un campo progressista, non di un'alleanza tra bandierine. La gente si è sentita non larga, ma progressista».

La differenza qual è?
«La costruzione di un campo progressista è fatta di due cose: una proposta nuova sui temi sociali e sul lavoro, e una costruzione politica. Il Pd, come partito perno, è disponibile ad aprirsi e rafforzarsi? Può deciderlo solo lui. E poi serve un manifesto fondamentale su cui costruire questa alleanza».

Può nascere il nuovo Ulivo?
«L'Ulivo era la promessa di un orizzonte comune. Era un gesto politico coraggioso che metteva insieme forze diverse per un progetto condiviso. Era un percorso: ci sono oggi le condizioni per questo?».

Lo chiedo io a lei. O vede il rischio che più che all'Ulivo si approdi a un bis della litigiosa Unione?
«L'inerzia della politica, combinata a una legge elettorale che espropria l'elettore, porta a una specie di Unione. Ma mi pare che Letta sia consapevole del rischio».

Come vede il M5S dopo la sconfitta nelle urne e la scissione di Di Maio?
«C'è tutto un mondo che il Movimento può ancora candidarsi a rappresentare. Certo in misura minore di prima, ma pensare di potere prescindere dal M5S è uno sbaglio».

A breve verrà fatto un nuovo decreto interministeriale per inviare armi all'Ucraina. Pensa che Conte potrebbe far fibrillare il governo ancora?
«Non penso. Ma credo sia giusto correggere un po' del modo di procedere sul tema guerra: qui sembra che il Copasir sostituisca il Parlamento, invece non è il suo mestiere. Ci vuole più trasparenza».

Bisognerebbe desecretare la lista di armi?
«Se in Germania si può leggere la lista delle armi su Internet, è curioso che da noi la conosca solo il Copasir».

Come giudica la scissione di Di Maio?
«È apparsa come un gioco di Palazzo. Non ho ancora visto un profilo politico di quest' operazione, può darsi che arrivi: se non arriverà, si metteranno dove vedono un po' di spazio».

Anche Di Maio sembra interessato al centro, che però è po' affollato: ci sono già Calenda, Renzi, Brugnaro…

«Gran parte di questi che alludono a terzi poli a un certo punto andranno un po' di qua e un po' di là, per portare a casa un'utilità marginale. Resta solo la posizione non trasformistica, assertiva, di Calenda: lui si richiama a una nobilissima tradizione - Mazzini, Rosselli, il partito d'Azione - ma faccio sommessamente notare che quelle culture non le ho mai viste mettersi nel mezzo».

Come si fa a fare un'alleanza di centrosinistra superando i veti e i controveti degli uni contro gli altri?
«Se fossi chi dirige il traffico non li accetterei. Fisserei quattro cose sul lavoro, il sociale, i diritti, l'ambiente, e selezionerei così, con la chiarezza. Senza accento sulla A».

C'è chi vede già un Draghi dopo Draghi l'anno prossimo, che ne pensa?

«Pensare con questo stesso assetto a un Draghi dopo Draghi significa partire dal presupposto di un'emergenza continua: se è una previsione, è piuttosto negativa. Se è l'intenzione di qualcuno, a me sembra un tradimento degli interessi del Paese».

Come sta oggi il governo Draghi? Dura?
«Questo governo è necessario ma non sufficiente. Sì, deve durare, ma i temi che abbiamo di fronte pretendono una maggioranza più coerente».

Difficile che diventi più coesa nell'anno preelettorale. Draghi cosa può fare?

«Alle condizioni date, Draghi è senza dubbio il meglio che potevamo trovare. L'unica cosa, da lui mi aspetterei una pedagogia più netta».

Cosa intende?

«Ci sono temi che, anche senza poterli risolvere, vanno enunciati. La fedeltà e la progressività fiscale, ad esempio. O il principio per cui, quando c'è una crisi, chi ha di più deve dare di più».

Pensa alla patrimoniale?

«Penso al taglio del cuneo fiscale su cui tutti sono d'accordo. Ma pensano a un bonus? Ci vuole una soluzione strutturale. A parità di pressione fiscale e contributiva bisogna trovare 16-20 miliardi ogni anno: Draghi chiami tutti e faccia una riunione in cui si individua dove trovare quei soldi».

Il salario minimo?

«Sta perfettamente dentro una legge sulla rappresentanza e la contrattazione, contro i contratti pirata. Quanto alla dilagante precarietà, ci sono porte spalancate dal punto di vista normativo, poi però diamo una ventina di incentivi alle imprese perché addolciscano la pillola. È come se per fermare l'acqua alta anziché alzare le barriere del Mose si buttasse fuori l'acqua con la scopa».

Il Pd ritiene una priorità approvare la legge sullo ius scholae: lei ha speranze?

«Un po' di ottimismo ce l'ho. Ma vede, diritti sociali e civili s' intrecciano nel vissuto delle persone: quello stesso ragazzo che ha fatto la maturità in questi giorni e non ha nessun problema se ha un compagno di colore o omosessuale, avrà presto il problema della precarietà. Diritti sociali e civili non vanno separati mai perché se no non parli alle persone così come sono».

E su un cambio della legge elettorale è ottimista?

«Io sono per una legge proporzionale, per il principio basico che ci si allea per governare e non solo per vincere. Ma non credo verrà fatta la riforma, alla destra non conviene».

Bersani, lei vuole fare parte del campo progressista e ricandidarsi l'anno prossimo?

«Mi piacerebbe dare una mano per un manifesto a partire dai temi sociali. Questo non vuol dire ricandidarsi».

IUS SCHOLAE OGGI ALLA CAMERA

Braccio di ferro alla Camera dove approda nel pomeriggio lo ius scholae. La destra fa ostruzionismo, Forza Italia vacilla. Valanga di emendamenti della Lega. Carlo Bertini per La Stampa

«State usando i bambini per la vostra campagna elettorale!», attacca la leghista Simona Boldonari, spalleggiata dal collega in cravatta verde Edoardo Ziello, che per non far mancare nulla al dibattito chiede libertà sull'outfit istituzionale. «Siccome il presidente si è tolto la giacca, la togliamo pure noi!».
Debora Serracchiani, che del Pd è la capogruppo, ha allertato tutti: pronti alla seduta fiume, la destra vuol far saltare l'arrivo in aula domani (oggi,
ndr) dello ius scholae dilatando i voti sul Pnrr, per impedire il voto in commissione che sblocca la legge sulla cittadinanza. Trappola sventata: lo ius scholae passa in commissione e oggi è in aula. La destra ruggisce: «Volete la sharia in Italia, con i genitori che decidono per i loro bambini!», urlano i pasdaran, come la forzista Laura Ravetto. «Siamo a un passo dalla svolta liberale», si fanno forza i renziani e i dem, la sinistra e i grillini. «Loro dicono di no, invece cambia eccome avere la cittadinanza!», dice Boldrini. Sala del Mappamondo, quella delle grandi occasioni, ore 17,30: mentre in piazza Capranica in un flash mob si snocciolano i numeri di You trend («il 60% degli italiani, anche di destra, vuole lo ius soli. E un milione di ragazzi attende la cittadinanza»), cento metri più in là, in piazza Montecitorio, si combatte la battaglia dello ius scholae. La legge che la destra vuole stroncare sul nascere e che la sinistra vuole battezzare. I leghisti e i meloniani si inventano un «doppio ostruzionismo», per dirla con Andrea Giorgis, che del Pd è uno dei difensori di questa «norma minima di civiltà», per concedere lo status di italiani ai bambini che frequentino un ciclo scolastico di cinque anni. Doppio ostruzionismo, dunque, in aula e in commissione: uno sugli ordini del giorno del Pnrr in modo da impedire che in commissione - secondo ostruzionismo - si voti il mandato al relatore per portare la norma sulla cittadinanza oggi in aula come previsto dal calendario. Dettaglio non da poco, per provare a saltare un altro mese e arrivare ad agosto. L'azione a tenaglia della presidenza grillina di Giuseppe Brescia e dei giallorossi fa sì che alla fine si voti l'ok alla legge, senza aver finito di esaminare 200 dei 500 emendamenti. La maggioranza si divide: Lega e Fdi votano no, Fi si spacca a sua volta: Polverini dice sì, la Calabria no. Dopo tre mesi di lotta, dopo aver provato a contingentare i tempi, Brescia infatti forza la mano, «una cosa poco simpatica», lo attacca Igor Iezzi, braccio destro di Salvini. Pronto a scodellare in aula un migliaio di emendamenti per strappare un rinvio che suoni come campana a morto: «Ci saranno i decreti urgenti, poi la sessione di bilancio a settembre, e via». Dettaglio cruciale: se la legge fosse arrivata in aula a luglio, salterebbe il voto a settembre per una questione di regole. «Venticinque sedute per votare centinaia di emendamenti», scuote la testa il capogruppo di Leu, Federico Fornaro, «ed è chiaro cosa vogliono fare: niente». Il motivo è semplice: il fronte del sì alla Camera potrebbe ottenere il primo via libera: il Pd, tutti i grillini, «anche tendenza Di Maio», Leu, Iv e anche mezza Forza Italia. «Noi - annuncia Iezzi - faremo ostruzionismo, useremo tutte le armi. E poi chiedo: se un ragazzo non è d'accordo ad avere la cittadinanza italiana, chi lo protegge? Nessuno lo sa». Forza Italia è divisa alla meta: aveva votato il testo base, ma ora ha condizionato il suo sì a una modifica che allunghi il periodo di frequentazione scolastica a otto anni, elementari e medie. «Bisogna eliminare qualunque automatismo», frena Anna Grazia Calabria, dopo aver litigato con Renata Polverini, la più morbida tra gli azzurri. Dietro le quinte, il mandatario di Letta, Matteo Mauri, sta provando a stringere un accordo con i berlusconiani, dando l'ok alla richiesta di essere promossi alle elementari per avere la cittadinanza. «Lo fanno solo per i genitori - insiste Iezzi - che con il figlio italiano non saranno mai espulsi...». Veleni e colpi di coda».

Axel, Susanna e Grazia: sono nati e cresciuti in Italia, eppure vengono sempre trattati da stranieri. Ecco le loro storie. Stefano Pasta per Avvenire.

«Sguardi torvi, passeggeri sull'autobus che si scansano, altri che stringono la borsetta, prese in giro, incredulità perché un nero si laurea e diviene un professionista affermato. Da questi vissuti - un rapporto europeo dice che nell'Ue il 39% degli afrodiscendenti si è sentito discriminato per il colore della pelle - è nata la rete nazionale di 25 giovani Afrodescendants fighting against racism (Afar), in campo per la lotta al razzismo anti-nero e l'afrofobia. Dalla Costa D'Avorio all'hinterland milanese, dal Congo alla provincia di Bologna ma anche da Zambia, Angola, Nigeria, voci e volti di un'Italia afrodiscendente si sono uniti per contrastare e decostruire linguaggi e atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone di provenienza africana. Axel Beugre, 22enne studente di Relazioni internazionali alla Cattolica, racconta di quando, a San Giuliano alle porte di Milano, la sua era ancora l'unica famiglia nera del quartiere: «In terza elementare, dopo l'ennesima giornata di insulti per il colore, cercai di convincere mia madre a mandarmi a scuola imbiancato dal borotalco. Mi sentivo considerato diverso e avevo paura a parlare, stavo zitto». Oggi Axel lo racconta sorridendo, ma sono episodi che nel vissuto quotidiano di un bambino, e ancora di più di un adolescente, lasciano segni. Per questo gli Afar hanno deciso di far sentire la loro voce. Finora hanno prodotto dei video e dei podcast, periodicamente pubblicati sul sito stop-afrofobia.org. L'azione si colloca nel progetto Champs di Amref, Csvnet, Festival Divercity, Le Réseau, Razzismo Brutta Storia, Osservatorio di Pavia, Arising Africans, Carta di Roma e Csv Marche. Susanna Owusu Twumwah, una delle responsabili del progetto, collega il cambiamento culturale da realizzare nella società con la responsabilità delle istituzioni. Il pensiero va subito allo Ius scholae, la riforma all'esame della Camera in questi giorni: «Negare la cittadinanza a chi è cresciuto in un Paese significa colpire le vite dei più giovani. Possono subentrare problemi identitari quando stai crescendo e ti senti di fatto non riconosciuto, trattato come un cittadino di serie B, costretto in fila con la mamma per il rinnovo del permesso di soggiorno». Susanna, ventottenne di origine ghanese nata e cresciuta in Italia, con orgoglio sottolinea che si sente romana: «I deputati dovrebbero avere il coraggio di cambiare una legge che è anacronistica e rappre- sentare un Paese che, come è normale che sia, è cambiato». L'attuale legge è del 1992: aggiornava le norme del 1912, ma in realtà l'impianto è rimasto quello dell'età giolittiana, quando il Regno d'Italia era un Paese di emigrazione (e quindi occorreva mantenere "il sangue" degli italiani che andavano all'estero) e non di immigrazione. Così oggi è italiano un giovane che nasce dall'altra parte del mondo con un trisavolo del Belpaese, anche se non ha mai messo piede in Italia e non ha alcun legame con la lingua e la cultura italiana. È invece straniero "a casa propria", cioè non è italiano, un ragazzo che nasce in Italia e frequenta le scuole qui. «Nel mio caso sarei potuta andare in Inghilterra con tutta la mia classe, anziché rimanere a Roma» spiega Susanna. Era in quarta superiore, aveva 17 anni ed «era troppo complicato, per soldi e tempo, chiedere il visto. Dovetti augurare buon viaggio ai mie compagni italiani in partenza».
Quando poi spense le 18 candeline, presentò la domanda per "diventare" italiana: «I miei genitori - racconta - erano stati precisissimi dopo che, poco tempo prima, lo Stato aveva respinto quella di mio fratello, anche lui nato e cresciuto a Roma». Il motivo? Un buco di residenza di alcuni mesi in 18 anni di vita, un'esperienza molto comune per le famiglie immigrate che basta a bruciare i sogni di un giovane.
Grazia Fainelli, 31 anni, è un'altra degli Afar, figlia di una coppia mista italo- senegalese di Torino. Lei ha avuto subito la cittadinanza: per la legge attuale, basata sullo Ius sanguinis, si eredita con il sangue di almeno un genitore. «Invece - precisa - i miei cugini, nati e cresciuti anche loro in Piemonte da genitori senegalesi, hanno avuto diversi problemi, come perdere l'opportunità dell'Erasmus».
Per Grazia l'italianità è ancora associata nella percezione comune a un esclusivo colore della pelle: «Nei nostri vissuti ci sono episodi definiti microaggressioni: quelle volte in cui mi viene chiesto come sia possibile che io sia italiana, come mai parli italiano in modo così corretto ». Concorda anche Loretta Maffezzoni, 27 anni, di origini nigeriane e adottata da una famiglia italiana: «Il razzismo anti-nero è radicato nella nostra società, riemerge a diversi livelli». Lei, neolaureata in legge con l'obiettivo di diventare giudice, ne sottolinea uno: «La sotto rappresentazione dei neri in alcune categorie professionali, talvolta resi invisibili. Per questo con il progetto Champs abbiamo anche lo scopo di normalizzare la presenza di corpi neri nei media».

MORTE NEL TIR AL CONFINE CON IL MESSICO

Nuova strage di migranti: scoperto un Tir con 50 morti nel Texas. Le vittime venivano da Messico, Guatemala e Honduras. Dodici le persone salvate. Papa Francesco in un tweet scrive: «Preghiamo per questi nostri fratelli morti mentre inseguivano la speranza di una vita migliore». Luca Miele per Avvenire

«Il mezzo è fermo, abbandonato vicino ai binari di una ferrovia, periferia di San Antonio, Texas. Sembra un mastodontico, placido "bisonte", arenatosi in una delle strade più trafficate della regione, percorse ogni giorno da migliaia di camion, molti dei quali nascondono "carichi" umani. Dall'esterno nulla sembra suggerire quello in cui quel camion si è trasformato per un gruppo di migranti latinoamericani: la loro tomba. Sono morti così per il caldo, per le temperatura che tocca i 39 gradi, per asfissia, per la brutalità umana, cinquanta migranti, in gran parte provenienti da Messico (22 persone), Guatemala (sette) e Honduras (due): 19 quelli ancora non identificati. Altri dodici - tra questi anche quattro bambini - sono sopravvissuti: soccorsi sono stati ricoverati. Si sono salvati perché qualcuno ha sentito le grida soffocate che arrivavano dall'interno del camion. Sul mezzo - hanno raccontato gli uomini della Homeland Security Investigation, l'agenzia specializzata nei casi di traffico di esseri umani - non c'era traccia d'acqua. Uno dei vigili del fuoco della città ha raccontato di aver visto «una pila di corpi». Aggrovigliati. Inermi. Come i corpi dei migranti di Melilla. Solo nell'ultimo mese 44mila persone hanno attraversato il confine illegalmente fra Del Rio e Eagle Pass, le città di confine più vicino a San Antonio, da anni importante centro di passaggio per milioni di migranti. «Ho appreso con dolore le notizie delle tragedie dei migranti in Texas e Melilla. Preghiamo insieme per questi nostri fratelli morti mentre inseguivano la speranza di una vita migliore; e per noi, perché il Signore ci apra il cuore e queste disgrazie non accadano più», ha scritto, in un tweet, papa Francesco. Le autorità hanno al momento sotto custodia tre persone legate alla strage. Non è chiaro se fra queste ci sia l'autista del mezzo pesante, fuggito poco prima che il camion venisse scoperto. L'ipotesi è che il veicolo sia stato utilizzato per attraversare illegalmente il confine tra Messico e Usa. «È drammatico - è sbottato il sindaco, Ron Nirenberg, parlando di quella che ha definito come una «orribile tragedia umana» - . Sappiamo di 46 persone che non sono più con noi, che avevano famiglie, che probabilmente erano in cerca di una vita migliore. E abbiamo 16 persone che lottano per la vita in ospedale ». La tragedia ha dato fuoco alle polveri anche alla polemica politica. Il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, ha "aperto il fuoco" contro il presidente Joe Biden. «Queste morti sono le sue. Sono il risultato della sua politica mortale dei confini aperti e mostrano le conseguenze del suo rifiuto ad attuare la legge», ha affermato. La replica della Casa Bianca non si è fatta attendere. «Sfruttare individui fragili per lucro è vergognoso così come per fini politici», ha detto il presidente Joe Biden che ha definito la strage «orribile e devastante». La strage di San Antonio è una delle peggiori della storia recente americana. Nel 2003 diciannove migranti furono trovati morti in un camion in Texas: l'autista del mezzo aveva chiesto 7.500 dollari a persona per il "passaggio" e non aveva mai acceso l'aria condizionata tanto che all'interno del camion le temperature avevano superato i 70 gradi. Nel 2017, dieci migranti sono stati trovati morti, sempre in Texas, a bordo di un camion in un parcheggio di Walmart».

L’ONU VUOLE UN’ INCHIESTA SU MELILLA

L'organismo delle Nazioni Unite ha chiesto ufficialmente a Spagna e Marocco di scoprire la causa di morte delle 37 vittime della strage di Melilla. E vuole un'indagine indipendente. Marco Santopadre per il Manifesto.

«Ieri anche il Comitato dell'Onu per la Protezione dei Lavoratori Migranti ha chiesto a Spagna e Marocco di indagare, in forma immediata ed esaustiva, sulla strage di Melilla di venerdì, quando nel tentativo di penetrare nell'enclave spagnola in Marocco hanno perso la vita almeno 37 migranti, per lo più sudanesi. L'organismo delle Nazioni Unite ha sottolineato l'urgenza di stabilire se le vittime siano decedute a causa dell'azione dei militari che si sono adoperati per respingerli, utilizzando bastoni, lacrimogeni e pietre. Il Comitato ha chiesto anche all'Ue di assicurare ai migranti «condizioni sicure e ordinate per poter accedere al continente», «garantendo i diritti delle persone a cercare e ottenere asilo» e «rispettando i diritti umani, il diritto alla vita e alla dignità». Anche i soci di governo di Unidas Podemos, partiti che con i loro voti hanno finora permesso a Sánchez di governare - dagli indipendentisti baschi e catalani a forze regionali come Compromis - ed altri di opposizione non cessano di rimproverare al premier un'assoluta mancanza di empatia ed umanità rispetto alla tragedia. Da più parti si è chiesta a gran voce l'apertura di un'inchiesta indipendente sulla brutalità della gendarmeria marocchina elogiata invece sia dal leader socialista sia da alcuni ministri, da quello degli Interni Marlaska alla titolare della Difesa Robles. Ma l'esecutivo ha tentato a lungo di schivare un'inchiesta effettiva e rapida, mentre le autorità marocchine sembrano impegnate a far scomparire il prima possibile le prove dell'orrore.
Nel tentativo di trarsi d'impaccio Sánchez aveva scelto di affidare l'indagine al Defensor del Pueblo, una sorta di Difensore Civico che però non ha né gli strumenti per condurre un'inchiesta seria e tempestiva né l'interesse, visto che la carica è ricoperta da Ángel Gabilondo, ex dirigente di punta del Psoe. Nel pomeriggio, finalmente, la Procuratrice Generale dello Stato Dolores Delgado ha ordinato l'apertura di un'inchiesta della magistratura.
Ma le polemiche non si placano e gli elogi all'operato della polizia marocchina potrebbero costare al leader socialista un prezzo politico più alto del previsto. La sua difesa sperticata della strategia di Rabat, denunciano in molti, risponde alla volontà di non mettere in discussione l'alleanza recentemente stipulata con il regime di Mohammed VI, alle cui forze di polizia la Spagna ha di fatto demandato - costi quel che costi - la difesa dei confini di Ceuta e Melilla. Per masse crescenti di diseredati in fuga da conflitti, regimi e catastrofi climatiche però le due città incastonate in territorio marocchino, retaggio del passato coloniale spagnolo, rappresentano delle fondamentali porte d'ingresso nel continente europeo, le uniche a disposizione via terra nel continente africano. Per questo, avvisano sinistre e associazionismo, la strage di Melilla non sarà l'ultima se la Spagna e l'Unione Europea non cambieranno le proprie politiche migratorie. Dopo le decine di proteste realizzate domenica scorsa, numerose organizzazioni per la difesa dei migranti hanno convocato altre iniziative diffuse per venerdì prossimo. Da parte sua, invece, il Ministro degli Esteri Albares ci ha tenuto a sottolineare che anche la Procura di Rabat ha aperto una sua inchiesta - in realtà non sulle morti, ma contro decine di migranti arrestati con l'accusa di vari reati, per i quali verranno processati dal prossimo 23 luglio - non mancando di segnalare la necessità di rafforzare ulteriormente la collaborazione con il regno alawita che invece accusa il governo algerino di aver favorito l'assalto alle recinzioni che "proteggono" Melilla. Secondo l'Ambasciata del Marocco a Madrid, sarebbero stati dei «miliziani esperti» infiltratisi dalla frontiera algerina a guidare un manipolo di migranti violenti e addestrati, armati di bastoni, coltelli, machete e pietre. Sulla base di questa interessata versione dei fatti, inizialmente le autorità di Rabat avevano parlato di alcuni morti e feriti gravi tra i gendarmi che hanno difeso la frontiera spagnola, ma poi il bilancio è stato ridimensionato ad alcune decine di contusi e a un solo poliziotto ricoverato in ospedale».

TRUMP VOLEVA GUIDARE L’ASSALTO

Nuovi particolari inquietanti emergono dalla ricostruzione fatta dal Congresso dell’assalto a Capitol Hill. La cronaca è di Massimo Gaggi per il Corriere.

«Un Donald Trump furioso che il 6 gennaio dello scorso anno, sapendo che molti dei manifestanti in marcia su Washington erano armati, intimò al servizio segreto di lasciarli arrivare fino alla Casa Bianca e al Congresso senza passare per i metal detector perché «non ce l'hanno con me». Poi cercò di andare fino al Congresso col suo popolo e reagì con violenza quando i suoi assistenti glielo impedirono per non esporlo a gravi conseguenze legali: provò ad afferrare il volante di The Beast, la limousine presidenziale, poi prese per il collo l'agente dei servizi che la guidava. La furia di Donald La testimonianza resa ieri sera da Cassidy Hutchinson, allora assistente di Mark Meadows, il capo di gabinetto del presidente, davanti alla Commissione parlamentare che indaga sull'assalto al Congresso di un anno e mezzo fa, ha gettato nuova, livida luce sulle ore più drammatiche vissute dalla democrazia americana. Dettagliata la ricostruzione di quanto avvenuto dietro le quinte: un hearing che ha confermato le voci di un Trump furioso col suo vice fino al punto di non dolersi del desiderio dei manifestanti di impiccarlo. Un leader fuori controllo fino al punto di spingere il suo avvocato, Pat Cipollone ad avvertire Meadows che il presidente stava rischiando gravi conseguenze penali per ostruzione delle elezioni. La Hutchinson aveva già reso una lunga testimonianza alla Commissione, ma in questo nuovo hearing straordinario ha accettato di ricostruire quasi minuto per minuto quanto avvenuto alla Casa Bianca quel 6 gennaio e nei giorni immediatamente precedenti: dall'organizzazione (con la regia di Rudy Giuliani e di altri trumpiani) dell'assalto al Congresso con l'obiettivo di convincere Pence e i parlamentari a non ratificare la vittoria di Joe Biden, fino al rifiuto di Trump di fermare gli assaltatori del Congresso guidati dai suoi fedelissimi Proud Boys. Trump l'ha subito attaccata, negando tutto: «Una falsa totale e una delatrice». La Hutchinson, interrogata dalla deputata repubblicana Liz Cheney (che ha notato come quasi tutti i testimoni dell'indagine siano conservatori) ha srotolato gli eventi di una giornata drammatica partendo da quando, affacciandosi sulla piazza dell'Eclipse, luogo del suo comizio incendiario, Trump si infuria perché vede grossi spazi vuoti: i manifestanti che entrano in piazza devono lasciare le armi proprie e improprie che hanno addosso e molti, allora, preferiscono restare alla larga. Trump sa che sono armati ma la cosa non lo preoccupa: «Non ce l'hanno con me». E chiede al servizio segreto di rimuovere la barriera dei metal detector. Il viaggio in limousine Quando, più tardi, gli insorti sfondano le barriere di polizia a protezione del Congresso (che alla Casa Bianca sapevano essere insufficienti) e minacciano di impiccare Mike Pence, l'avvocato Cipollone sollecita Meadows a fare qualcosa per costringere Trump a fermare il suo popolo. Ma si sente rispondere da uno sconsolato capo di gabinetto (nelle parole riferite dalla testimone oculare Cassidy): «L'hai sentito: lui pensa che Pence se lo meriti. Pensa che loro non stiano facendo nulla di male». Sono le 2 del pomeriggio e, nonostante le pressioni dei leader repubblicani, dei conduttori della Fox a lui vicini e dei suoi stessi figli, per altre due ore Trump si rifiuterà d'intervenire. Finito il suo comizio, The Donald cerca di raggiungere i manifestanti sulla sua limousine. Gli avvocati avvertono: sarebbe un suicidio legale. Allora Meadows e il suo vice, Tony Ornato, decidono per il ritorno alla Casa Bianca. Trump si ribella: «Sono io il fottuto presidente», cerca di afferrare il volante, poi prende per il collo l'autista. La Hutchinson rivela altri suoi attacchi d'ira: quando il ministro della Giustizia, Barr, a dicembre rende noto di non aver trovato irregolarità nelle procedure elettorali, Trump scaglia il piatto col pranzo contro una parete di una sala della Casa Bianca. Accessi d'ira sempre più frequenti dopo la sconfitta elettorale fino al drammatico 6 gennaio quando alcuni collaboratori, davanti alla sua folle ostinazione, pensano per un momento di attivare la procedura costituzionale per la rimozione del presidente per evidente incapacità di intendere e di volere».

LA PROF CHE TRADUSSE PER PRIMA VACLAV HAVEL

Ubaldo Casotto per il Foglio racconta la storia di Antonietta Tartagni, l’insegnante di Forlì che fu la prima a tradurre Vaclav Havel in italiano, dieci anni prima della caduta del Muro.

«Antonietta Tartagni. Pochi lettori del Foglio la conoscono. E' morta ieri a Forlì. Aveva settantotto anni. E' stata per decenni insegnante di latino e greco. Ogni persona è unica, Antonietta Tartagni è particolarmente unica perché è stata la prima traduttrice di Václav Havel in un Paese occidentale. E' successo nel 1979, quando il Muro di Berlino era ancora su e in Italia in molti idealizzavano il "socialismo reale", nonostante la repressione violenta della rivolta d'Ungheria del 1956, nonostante i carri armati nelle strade cecoslovacche nel 1968 a stroncare la Primavera di Praga, nonostante l'espulsione del premio Nobel Aleksandr Solgenitsin dalla Russia nel 1974, nonostante i Gulag Antonietta era redattrice di Cseo, il Centro studi Europa orientale fondato da un geniale e vulcanico prete di Forlì, don Francesco Ricci, che girava con i suoi ragazzi, tra questi Antonietta, i paesi d'oltrecortina (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Polonia), animato da quella che definiva "la cultura dell'incontro": incontravano, scrittori, poeti, filosofi, preti, operai, studenti, famiglie "cercando all'est quello che poteva aiutare anche l'ovest", come disse Antonietta tre anni fa a un convegno a Forlì in occasione della mostra su "Il potere dei senza potere. Interrogatorio a distanza con Václav Havel". Cseo pubblicava, prima e unica rivista in occidente per anni, le testimonianze di questi dissidenti fatte uscire di nascosto, e non senza rischi, dai loro paesi. Era il fenomeno del Samizdat.
In uno di questi viaggi don Ricci conobbe un sacerdote ceco che poi si rifugiò in Italia e che, nel 1979, gli consegnò un plico, giunto a Roma in una scatola di cioccolatini boemi, contenente cento sottilissime veline battute a macchina: era, grazie alla carta carbone, la quinta, forse la sesta copia di un dattiloscritto. L'autore, Václav Havel, un drammaturgo ceco, in quel momento era in carcere a Praga.
Don Ricci decise di pubblicarlo subito: "E' l'autodifesa che Havel non potrà pronunciare nel processo che lo attende". Era Il potere dei senza potere , il manifesto del dissenso nei paesi comunisti dell'est Europa. Antonietta lo tradusse di notte - di giorno insegnava - appassionandosi e affezionandosi a quel verduraio praghese (il protagonista del libro) che, stanco di vivere nella menzogna, si ribella e non espone più tra patate e zucchine il cartello consegnatogli dal partito: "Proletari di tutto il mondo unitevi". Un tentativo di vivere nella verità da cui partì la Rivoluzione di velluto che nel 1989, in modo assolutamente non violento, portò al rovesciamento del regime comunista cecoslovacco e all'elezione di Havel alla presidenza della Repubblica. Quando nel 1984 un'altra redattrice di Cseo, Annalia Guglielmi, riuscì a portare ad Havel una copia dell'edizione italiana, incontrandolo clandestinamente nel suo appartamento di Praga - era appena stato scarcerato - il futuro presidente si stupì e disse che era la prima edizione in occidente. Anni dopo, inizio gennaio 1990, durante i festeggiamenti per la sua elezione, vide nella folla di piazza San Venceslao un giovane che agitava un libro tenendolo alto sopra la testa, era Luigi Amicone, all'epoca giornalista del Sabato e poi fondatore e direttore di Tempi, che per attirare l'attenzione di Havel usava "Il potere dei senza potere" che, quando era all'università, aveva acquistato e letto appena pubblicato, ne aveva ricavato manifesti poi affissi nel chiostro della Cattolica di Milano, e uno slogan con cui partecipò alle elezioni universitarie: "La prima politica è vivere". Havel riconobbe la copertina e ricordò la ragazza che gli aveva portato quel libro sei anni prima: "Fatelo passare - disse alla sua guardia del corpo - questi sono amici". Amicone ne ricavò un autografo e, mesi dopo, un'intervista. La prima di questi amici, è morta ieri a Forlì Aveva imparato il ceco quando ancora non esistevano scuole per interpreti, per poter incontrare quelli come Havel».

NON SOLO SUOR LUISA, I CRISTIANI SONO PERSEGUITATI

Il Domani prende spunto dall’omicidio della missionaria di origini lecchesi suor Luisa dell’Orto, uccisa ad Haiti, per fare una ricognizione sulla persecuzione dei cristiani nel mondo. Lo fa con un articolo del direttore di SettimanaNews Lorenzo Prezzi.

«Il 25 giugno ad Haiti è stata uccisa la piccola sorella del Vangelo suor Luisa Dell'Orto. Il 20 giugno vengono trucidati a Urique (Sierra de Chihuahua - Messico) due gesuiti. Il 5 giugno in una chiesa di Owo (Ondo, in Nigeria) si registra un massacro di 40 persone con decine di feriti. Sempre in Nigeria il 25 e 26 giugno, sono uccisi due preti e, poche settimane prima, un terzo ha perso la vita durante un sequestro. Una manciata di giorni, decine di vittime e una condizione comune: la testimonianza del Vangelo. È solo un frammento, il più recente, di un fenomeno di ampie dimensioni, eppure scarsamente compreso e comunicato, cioè le nuove persecuzioni anticristiane. In questi primi vent' anni del secolo si registrano mutamenti e migrazioni significative del senso delle persecuzioni. Nella nostra cultura mediale si resiste all'idea che il cristianesimo sia la religione attualmente più perseguitata, anche per la difficoltà di leggere il complesso sovrapporsi di tensioni etniche, fondamentaliste, nazionaliste, religioni di maggioranza e minoranze, in contesti culturali e geografici assai diversi. In parte anche per un pregiudizio laicista. I rapporti e studi di ricerca di governi e partiti, di organismi internazionali, di centri indipendenti, di istituzioni confessionali e inter-confessionali convergono nella constatazione della crescita del problema. Si parla oggi di oltre 360 milioni di credenti esposti alla persecuzione. Il fenomeno interessa una buona parte dell'Asia, attraversa il medio oriente, entra (per la prima volta) nelle aree dell'Africa sub-sahariana, e si allarga a una buona parte dei paesi dell'America del sud e del centro. Le persecuzioni riguardano tutte le confessioni cristiane (cattolici, ortodossi, protestanti sia delle chiese tradizionali che nuove) e, più in generale, colpiscono tutte le minoranze religiose e civili. La crisi e la restrizione della pratica democratica e dei suoi principi liberali lasciano spazio a leggi, prassi e giustificazioni che colpiscono la libertà religiosa e le pratiche di fede.
La forma della persecuzione può essere violenta e devastante ("a martello") o piuttosto "a pressione", con un progressivo restringimento delle libertà. Tre i motori più attivi: il tribalismo esclusivo, il laicismo estremo, i poteri abusivi e malavitosi. Gli attori maggiori delle persecuzioni nei due decenni scorsi sono stati il fondamentalismo islamico, l'islamismo statuale, il radicalismo religioso di tipo nazionalista, l'assenza dell'autorità dello stato con la criminalità organizzata e il narcotraffico, la tradizione antireligiosa dell'ideologia comunista. Fondamentalismo islamico Gli omicidi ricordati all'inizio dell'articolo illustrano due degli attori ricordati: il fondamentalismo islamico e l'assenza di autorità statuale. Secondo il Rapporto per il 2022 di Open Doors International sui 5.898 morti addebitabili ad azioni anti-cristiane l'88 per cento avviene in Africa e in Nigeria, da sola, il 76 per cento. Nel paese la tradizionale convivenza di popolazione di pastori del nord (generalmente musulmani) e quelle agricole del sud (musulmani e cristiani) si è deteriorata per l'azione di gruppi fondamentalisti islamici (Boko Haram, stato islamico e altri gruppi armati). Organizzati in bande di predoni affrontano le popolazioni stanziali con stragi, intimidazioni e sequestri che costringono a lasciare il territorio alla ricerca di luoghi più sicuri. Il fondamentalismo, coltivato economicamente dai paesi del Golfo e militarmente dalle spore del Califfato, ha preso in ostaggio un paese di oltre cento milioni di abitanti. Così come sta condizionando tutta la fascia dei paesi sub-sahariani. Il caso dei due gesuiti uccisi in Messico è invece addebitabile alla assenza dell'autorità dello stato oltre che alla ferocia delle bande del narcotraffico. La colpa dei due religiosi è di non aver consegnato un parrocchiano ai delinquenti. Nel 2021 sono stati registrati a livello nazionale 33.308 omicidi. L'uccisione dei preti e del personale religioso si colloca in questo dramma.
La figura del religioso è spesso uno dei pochi riferimenti locali autorevoli. Ucciderlo significa togliere di mezzo un testimone scomodo, imporre il terrore e la cultura del silenzio.
La tiepida reazione delle istituzioni nazionali è una firma sotto la loro impotenza. È facile trovare altri esempi paralleli in America Latina (come la Bolivia e, per certi tratti, il Venezuela) e in Africa (Somalia). Il caso più evidente di persecuzione ideologica è la Corea del Nord. È da decenni al vertice delle liste dei paesi più pericolosi per i credenti, ma le informazioni sono scarsissime per la chiusura ermetica di quello stato. Da quando si è installato il regime comunista nel 1948 le persecuzioni non si sono mai interrotte. Quando i cristiani vengono riconosciuti, anche solo per il possesso di una Bibbia, vengono catturati e inviati nei campi di lavoro dei prigionieri politici. I detenuti sarebbero da 50.000 a 70.000. il 75 per cento muore per le violenze e le torture che i pochi fuggitivi (in Corea del Sud e in Cina) raccontano. Diverso il caso della Cina dove Xi Jinping persegue la "sinizzazione" delle fedi. Poche le uccisioni, misurate le violenze (soprattutto amministrative), ma un progressivo controllo e disciplinamento la cui formulazione più raffinata è l'estensione del riconoscimento facciale (per tutti i partecipanti al culto) e il sistema di credito sociale che attribuisce alle fedi un valore negativo e penalizza i singoli in tutte le scelte di vita.
Islamismo statuale Un segnale di cosa significhi l'islamismo statuale è la diffusione delle leggi nazionali sulla blasfemia. Per non essere esposti alle critiche del populismo fondamentalista molti stati islamici rafforzano le istanze di difesa della religione di stato. Sono un'ottantina i Paesi che hanno adottato una legge punitiva per quanti mancano di rispetto alla religione prevalente e quasi un centinaio i Paesi che puniscono il "proselitismo" o annuncio. Come annota un rapporto del governo tedesco del 2021 le leggi sulla blasfemia discriminano le minoranze religiose, limitano la libertà di espressione e puniscono la conversione ad altre fedi. Il peso persecutorio del radicalismo religioso è registrabile nella svolta filo-induista del governo indiano di Modi e in quella filo-buddista dell'esercito di Myanmar (peraltro contestata da numerosi monaci). In India gli episodi di violenza anticristiana registrati nel 2019 sono 447. Più di 100 chiese sono state chiuse e nei confronti della violenza induista e nazionalista si può parlare di impunità. In questa modalità si colloca anche la denuncia verso l'ortodossia russa, privilegiata a tal punto dallo stato, da confinare nella marginalità le altre fedi, se non allo sradicamento (come nel caso dei Testimoni di Geova). Drammi antichi e immagini nuove Rispetto alle persecuzioni del Novecento imputabili in prevalenza al laicismo (in Messico) e soprattutto al totalitarismo di stato (nazismo e comunismo) con un'appendice nella responsabilità della destra cristiana nel caso dei golpe militari della seconda metà del Novecento in America Latina, la forma contemporanea delle persecuzioni ha cambiato pelle e colori. In parte perché il cristianesimo è la religione più diffusa e si è sviluppato negli ultimi decenni soprattutto nel sud del mondo, restringendosi in occidente. In parte, perché questo ha significato essere minoranza all'interno dei singoli Paesi e nazioni. Ma anche per il fenomeno della de-territorializzazione (non esistono più le "nazioni cristiane") e il venir meno della "tutela" politica dell'Occidente. Inoltre il marchio della persecuzione colpisce spesso le minoranze in generale e la qualifica religiosa è un elemento di ulteriore aggravio, ma non sempre evidente. L'insufficiente percezione occidentale del fenomeno è determinata dalla marginalità economica e politica di questi eventi, rilevati solo quando determinano l'azione pubblica, come nel caso del fondamentalismo islamico o dell'attuale ruolo dell'ortodossia nell'aggressione militare della Russia all'Ucraina. Più in generale, il principio della fondamentale libertà religiosa è progressivamente assorbito nei "diritti personali", ignorando la dimensione fondante delle fedi. Si può anche aggiungere il ruolo talora conservatore e passatista delle chiese e l'evidente ambiguità di alcuni dei difensori politici, sia nazionali che internazionali del cristianesimo. Forse non mancano neppure il pregiudizio e la pigrizia. Le lacrime di molti restano invisibili».

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