Eredi della Resistenza
L'Italia democratica nasce dalla lotta al Fascismo, lo ricorda Sergio Mattarella. Che ha apprezzato la lettera di Giorgia Meloni. Crisi Sudan, il ricatto dei migranti. Oggi conferenza sull'Ucraina
La Resistenza e la memoria condivisa. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto ieri a Cuneo un bel discorso sul 25 aprile (trovate l’integrale qui nel sito della Presidenza), richiamandosi ad un altro memorabile intervento, quello di Pietro Calamandrei sulla nostra Costituzione. Prima di recarsi in Piemonte, Mattarella era stato all’Altare della patria con la premier Giorgia Meloni, di cui ha apprezzato la lettera pubblicata ieri sul Corriere. La loro stretta di mano è una delle istantanee importanti della giornata di ieri. E del resto riconoscimenti allo scritto della Meloni sono arrivati da critici come Giuseppe Conte e Gianfranco Fini. La stessa Elly Schlein non ha voluto polemizzare, partecipando al tradizionale corteo pomeridiano di Milano, dove per una volta non ci sono state contestazioni interne. Oggi un paio di giornali della destra cercano di riaprire la polemica, mostrando un manifesto affisso a Napoli, coi ministri del governo Meloni a testa in giù. Ma il clima generale è quello di un’unità condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani intorno ai principi fondamentali della nostra Carta costituzionale e di un’Italia “figlia della Resistenza”. Ci sono pulsioni ideologiche ed estremiste, sia a destra che a sinistra, ma è assurdo insistere sull’Italia divisa, nella speranza di delegittimare chi è al governo.
Non mancano i problemi che vanno affrontati da tutti, maggioranza e opposizione, nello stesso spirito dell’ultimo governo Draghi, che andrebbe recuperato senza timori. A iniziare dalla difficile congiuntura economica: la nostra salute finanziaria è messa in discussione dalle agenzie di rating e dai mercati. Impressionante il fatto che l’ultimo rapporto sullo sviluppo globale della Banca mondiale segnali la situazione critica dell’Italia sulla crescita della popolazione. Se non sapremo gestire bene l’immigrazione nel nostro Paese, il nostro futuro è a rischio e lo dice un esperto nominato da Donald Trump.
A proposito di migranti, Nello Scavo su Avvenire racconta come il “modello Libia” sia stato usato anche dai miliziani protagonisti della guerra civile in Sudan. Il ricatto verso l’Europa (e verso l’Italia) è proprio quello di minacciare la partenza di ondate di profughi verso le nostre coste. Giustamente ieri il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, durante una visita sull’isola, ha rilanciato l’idea del Premio Nobel per la Pace a Lampedusa, sottolineando ancora una volta la necessità di una solidarietà internazionale per affrontare le ondate continue di sbarchi sulle nostre coste.
Le notizie sulla guerra in Ucraina riguardano ancora la preparazione dei piani della controffensiva ucraina, mentre Mosca torna a minacciare l’uso della bomba atomica. Oggi inizia a Roma la conferenza bilaterale per la ricostruzione dell’Ucraina, nella quale è previsto l’intervento, a distanza, di Volodymyr Zelensky. Partecipano 600 aziende italiane e 150 ucraine.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae piazza Duomo ieri pomeriggio a Milano, all’arrivo del corteo per ricordare la Liberazione. La città, Medaglia d'oro della Resistenza, ha ospitato come da tradizione la manifestazione nazionale cui hanno partecipato oltre 100mila persone.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
25 aprile, il giorno dopo commemorazioni e cortei tengono ancora banco. In particolare le parole del Capo dello Stato pronunciate a Cuneo. Il Corriere della Sera titola: «Noi figli della Resistenza». La Repubblica sullo stesso binario: Figli della Resistenza. Per La Stampa: «L’Italia è antifascista». Il Quotidiano Nazionale, su foto della stretta di mano tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, sottolinea: La festa di tutti. Per Avvenire è l’affermazione di una: Libertà senza nostalgie. Il Messaggero sintetizza così il presidente: «Il frutto del 25 aprile: la nostra Costituzione». Il Manifesto amplifica il messaggio del corteo di Milano: La senti questa voce. Il Giornale critica i critici della premier: Gli stalker della Meloni. Il Domani commenta: Mattarella oscura Meloni e La Russa: «La Costituzione è antifascista». Dall’altra parte dello schieramento politico editoriale, un manifesto affisso a Napoli coi ministri di centro destra a testa in giù, serve a Libero per dire: Antifascisti canaglie. E alla Verità per fare il verso al Capo dello Stato: Ora e sempre indecenza. Il Fatto insiste sul giustizialismo: Evadi, aderisci al condono, non paghi e sei prescritto. Mentre Il Sole 24 Ore riporta uno scenario di difficoltà in campo finanziario: Utili, finita la lunga corsa in Europa. Le Borse perdono quota con le banche.
MATTARELLA: “ITALIA FIGLIA DELLA LOTTA AL FASCISMO”
Un discorso molto chiaro e rigoroso di Sergio Mattarella, che celebra a Cuneo i 78 anni del 25 aprile. Il Presidente celebra «la rivolta morale di patrioti per il riscatto nazionale» e cita Pietro Calamandrei. L’analisi di Marzio Breda per il Corriere della Sera.
«L’ Italia è una Repubblica fondata sulla Costituzione, figlia della lotta antifascista». Coerente con sé stesso, il capo dello Stato celebra il 25 aprile senza correzioni interpretative, senza rendere più aspro o più edulcorato il giudizio e lasciando decantare le polemiche sul senso della ricorrenza. Basta rileggere quanto disse a Milano nell’analogo appuntamento del 2015, appena eletto, per sincerarsi che non c’è un Mattarella 1 e un Mattarella 2, pronto a cambiare registro magari con qualche cedimento perché al governo adesso c’è la destra. Il suo Dna non è modificabile. C’era dunque da aspettarsi che ieri fra Cuneo, Borgo San Dalmazzo e Boves, luoghi simbolo della Resistenza, lanciasse un messaggio concepito su quello schema di valori non revisionabili. E così è stato. Stavolta però con una carica emotiva forte e connessioni storiche nitide, tali da sgombrare qualsiasi ambiguità, da chiunque propalate. Una lezione di pedagogia civile che il presidente comincia evocando le celebri parole di Piero Calamandrei: «Se volete andare in pellegrinaggio nei luoghi dov’è nata la Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani...». È il caso di quest’angolo di Piemonte, terra di «34 medaglie d’oro, 174 d’argento e 228 di bronzo per la Resistenza», dove richiama in servizio Duccio Galimberti, intellettuale, azionista e partigiano. «La guerra continua» affermò il 26 luglio ’43 nella piazza di Cuneo. «Continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana… non possiamo accodarci ad un’oligarchia (capeggiata dal re e Badoglio, ndr. ) che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare sé stessa a spese degli italiani». Una diagnosi «straordinaria per lucidità e visione», che fa comprendere «valore e significato della Resistenza», dice Mattarella, ricordando la parabola di Galimberti: catturato, torturato e ucciso un anno più tardi. Quando, dopo il trauma dell’8 settembre ’43, nel Paese si impose «il tema della riconquista della patria e della conferma dei valori della sua gente, dopo le ingannevoli parole d’ordine del fascismo». Vale a dire, e qui fa l’elenco delle distorsioni da cui si lasciò ipnotizzare l’Italia: «Il mito del capo; un patriottismo contrapposto al patriottismo degli altri in spregio ai valori universali che animano, invece, il Risorgimento dell’800; il mito della violenza e della guerra; il mito dell’Italia dominatrice e delle avventure imperiali... combattere non per difendere la propria gente ma per aggredire. Non per la causa della libertà, ma per togliere libertà ad altri». Fatti, non teoremi. Il capo dello Stato li cita raccontando come la Resistenza fu «anzitutto rivolta morale di patrioti contro il fascismo per affermare il riscatto nazionale». Un moto di popolo che coinvolse vecchi, operai, contadini e montanari, giovani, soldati che «rifiutarono di aggiungersi ai nazisti per fare violenza alla propria gente». I partigiani imbracciarono le armi ed ebbero inizio le rappresaglie e le stragi di civili. La prima proprio a Boves, messa a ferro e fuoco dalle SS, mentre Borgo San Dalmazzo registrò una delle maggiori deportazioni di ebrei nei campi di sterminio. «Profughi alla ricerca di salvezza consegnati alla morte per il servilismo della collaborazione assicurata ai nazisti», puntualizza severo Mattarella. «Dura fu la lotta per garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo. Ci aiutarono soldati di altri Paesi, divenuti amici e solidi alleati: tanti di essi sono sepolti in Italia». Ed ecco la sentenza di Mattarella: «La crisi suprema del Paese esigeva un momento risolutivo, per una nuova idea di comunità, dopo il fallimento della precedente. Si trattava di trasfondere nello Stato l’anima autentica della Nazione... di dare vita a una nuova Italia». Che si forgiò grazie a diverse famiglie politiche, senza pretese egemonie di una sola parte. Tutto si giocò in pochi mesi. Dalla decisione di istituire un’Assemblea costituente, al referendum a favore della Repubblica per spezzare il patto con una monarchia «corresponsabile di aver consegnato l’Italia al fascismo», alla cesura per ristabilire «il principio della prevalenza della persona e delle comunità sullo Stato», cancellando i totalitarismi. Oggi, 78 anni dopo, la «vera identità italiana si esprime in una democrazia forte e matura nelle sue istituzioni e nella sua società civile». Società che si manifesta, onorando la Resistenza, con l’opera di medici, lavoratori, imprenditori, chi paga le tasse, i volontari, i giovani che tutelano l’ambiente... Chi si avventurasse a minare le libertà conquistate sappia, parola di Mattarella, che vale sempre il vecchio motto: «Ora e sempre Resistenza».
LA MEMORIA DI BOVES
Lezione di memoria tra i testimoni dell’eccidio di Boves. Il sindaco del paese tedesco dove è sepolto l'ufficiale della strage dice: “I fascismi possono tornare, noi dobbiamo fare la nostra parte”. Il reportage di Lodovico Poletto inviato per La Stampa.
«Le tracce del fuoco sui muri delle case le hanno cancellate 80 anni di vita. La memoria collettiva ha salvato i racconti dei vecchi, legati agli orrori di quel giorno. Quel che non si può tramandare e che, chi l'ha vissuto non dimentica, è la paura. Lo dice bene l'alpino Italo: «Ero un bambino, avevo sei anni. Ci nascondemmo con mia mamma in un campo di granturco. Restammo lì per ore». Mentre tutto intorno Boves sperimentava la ferocia nazista. Mentre bruciavano 350 case e morivano 23 persone. Bandiere italiane e bandiere tedesche appese appaiate alle finestre dei municipio in questo giorno di festa per l'arrivo del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Bandiere e strette di mano. Con un omone grande e grosso che è il sindaco della città della Germania dove è sepolto l'ufficiale nazista che ordinò quell'eccidio. Il suo nome è Alexander Herrmann e oggi è qui ad applaudire Mattarella che sfila nella piazza principale del paese. No, questa non è un'offesa alla memoria collettiva di una comunità di poche migliaia di anime che ha pagato un tributo di sangue pazzesco alla ferocia nazista e a quella fascista. La sua è una presenza che parla di pace e di riconciliazione, in un percorso cominciato con il sindaco di Boves nel 2013 e che ancora va avanti. «Avevamo qualche timore la prima volta che siamo venuti. Poi abbiamo capito che il modo giusto di fare era tornare a parlarci», dice Herr Herrmann. «Lo so siamo gli eredi di coloro che perpetrarono quell'orrore. Siamo gli eredi dei carnefici. Ma non siamo più quella gente lì: siamo amici con la gente di Boves, dobbiamo dare una chance alla pace, alla riconciliazione. Ma dentro di noi siamo sempre gli eredi dei carnefici». La lezione di Boves è una storia che non nega il passato. Ma che parla di riscatto. Di strade nuove da percorrere. Senza dimenticare i quasi 100 martiri del paese, i due sacerdoti trucidati mentre aiutavano la popolazione a fuggire, le case divorate dal fuoco. Le vite in frantumi. E questo è ciò che ha tentato di fare il primo cittadino del posto, l'avvocato Maurizio Paoletti. Che ci crede. Che non dimentica, ma costruisce ponti per un futuro diverso. Arriva il capo dello Stato. Suona la fanfara. La gente applaude. I bambini sventolano le bandiere: tutto come previsto. L'Anpi schiera i suoi vessilli. «Siamo in 52 iscritti a questa sezione», raccontano. I partigiani non ci sono più. Ignazio Vian è un ricordo che scolora, complicato anche da tramandare. Applausi. «Io c'ero quel giorno. Avevo 17 anni. Facevo la commessa a Cuneo. Abitavo con i miei genitori e le mie sorelle in frazione Mellana. Ad un certo punto abbiamo visto arrivare la gente: scappavano con i carretti, con qualcosa sopra. Con i bimbi piccoli nelle ceste. Li abbiamo accolti tutti, li abbiamo nascosti. La paura? Certo che avevo paura. Ma quella gente che arrivava aveva perso tutto: case, bestiame, spesso anche i loro famigliari». Questo è il racconto di una donna che ha 97 anni. Il suo nome è Lucia Fulcheris, e forse è la testimone di quel giorno più anziana del paese. Guarda il Presidente e applaude. E si commuove. «Finché c'è lui...». Boves è un mondo che avvolge. Che non dimentica ma va avanti. Ha un sindaco che si chiama Maurizio Paoletti ed è un esponente del centrodestra cuneese. Ha promosso la riconciliazione con i tedeschi. Ha imboccato la stessa strada con i greci: «Dove noi abbiamo fatto le stesse cose dei tedeschi». Ha costruito ponti di amicizia perché ciò che è stato non si può negare. E allora Boves festeggia il Capo dello Stato e il suo 25 Aprile. E l'alpino Italo Giubergia, il bambino che aveva paura mentre si nascondeva nel granoturco, si apre e si commuove: «Finché abbiamo Mattarella come presidente il fascismo non può più tornare. Fino a che abbiamo lui come argine, come garante, come baluardo i nostri principi saranno sempre quelli democratici». Su, al secondo piano del municipio, Alexander Herrmann dice che no: «I fascismi possono riaffacciarsi. Lo vediamo in Germania con l'avanzare di certe forze, lo vediamo anche qui, in Italia. Ma noi dobbiamo fare comunque la nostra parte». E racconta che nella sua piccola città, qualcuno ha già protestato: «Avevamo organizzato una manifestazione con gli italiani. Avevamo parlato di Boves e di quel che era accaduto. Qualcuno ha detto che era inopportuno. "Fate pure festa, ma basta con queste storie"». Alle sette di sera la signora Lucia è tornata a casa: è vedova da tanti anni. Suo marito si chiamava Bartolomeo. Lo sposò neanche due anni dopo la fine della guerra. Bartolomeo era stato partigiano».
IL CORTEO DI MILANO
Cronaca della tradizionale manifestazione pomeridiana dell’Anpi a Milano. Paolo Berizzi per Repubblica.
«Nessuno del governo, né sul palco né in corteo: si sapeva, ma è la cifra della giornata. Sole e pioggia, acqua sui fazzoletti rossi dell’Anpi e poi — quando qualcuno già presagiva un bis del diluvio del 1994, «intanto siamo passati da Berlusconi a Meloni, dalla padella alla brace», chiosa una coppia di quarantenni — di nuovo luce abbagliante e tanta, tanta gente, centomila perché forse è davvero così, Milano, fa notare il suo sindaco, «è profondamente antifascista». Ore 14.30: pronti, via. Il 25 Aprile milanese è da sempre un banco di prova. L’onore di città medaglia d’oro per la Resistenza e la responsabilità e il gusto di replicare con la “piazza” agli sbandamenti della classe di governo. «Oggi onoriamo la Resistenza », dice Elly Schlein quando le chiedono di rispondere alla lettera di Giorgia Meloni. È in testa al corteo che raggiunge piazza Duomo. “Bella Ciao”, bandiere della pace, una enorme, tanto Pd e tutti i partiti di minoranza (altro segretario presente oltre a Schlein, Nicola Fratoianni), sindacati, post-girotondini, qualche tricolore che ormai — dato l’abuso che ne fa la destra estrema — diventa notizia. «Meloni dica “siamo antifascisti”», va dritto al punto Beppe Sala. Dal palco: «Mattarella ha ristabilito la verità per tutti noi». Sullo striscione che apre il blocco Pd in corteo c’è lo slogan “nata dalla Resistenza”, risposta all’ultima “sgrammaticatura” di Ignazio La Russa: quella sulla Costituzione. Il nome del presidente del Senato è il più gettonato, insieme a Meloni, sui manifesti. “La Russa dimettiti!”, scritta che tappezza il camioncino su cui sfilano Unione popolare e Rifondazione comunista. «Siamo tutti eredi della Resistenza». Marco, 26 anni, ingegneria a Milano. Il riferimento è al La Russa di settembre 2022 (“siamo tutti eredi del duce”). La giornata inizia con una contestazione al ministro dell’Istruzione Valditara, di fronte al sacrario dei caduti, da parte di studenti antifascisti mentre lui deponeva una corona di fiori. «La chiamiamo festa della libertà perché il fascismo aveva conculcato le libertà individuali», replica Valditara. Libertà, dunque, non liberazione. Quest’anno la questione lessicale è stata al centro. Dopo giorni di ambiguità e contrapposizioni, Milano tiene il punto. “Un grande 25 Aprile per la democrazia e la Costituzione”. È il titolo scelto per la manifestazione dell’Anpi. Sullo schermo in piazza campeggia “Liberiamoci” (“dalla guerra, dal fascismo, dalla disumanità”). Ecco i cartelli neri degli ex deportati dell’Aned con i nomi dei lager nazisti. Dice Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche: «La Liberazione riguarda tutti, non solo una parte». Tra i manifestanti sfila anche la Brigata ebraica, quest’anno zero contestazioni. Unici momenti di tensione: fischi a uno striscione pro-Nato e una bandiera dell’alleanza atlantica strappata. Visti cittadini ucraini con bandiere azzurro e giallo; sentiti cori contro il “criminale Putin”. Tra gli interventi più applauditi quello (videotrasmesso) del 96enne Aldo Tortorella, ex partigiano ed ex parlamentare del Pci: «È il momento di un nuovo antifascismo». Nel primo 25 Aprile da quando FdI è al governo, le uscite di alcuni big del partito hanno surriscaldato il clima. A Napoli sono apparse foto di Meloni, La Russa, Valditara e Piantedosi a testa in giù. A Firenze una signora in piazza Signoria ha contestato Giovanni Donzelli. A Trieste Cgil e Anpi hanno denunciato “stravolgimenti organizzativi” che hanno impedito a centinaia di persone di partecipare alla Festa della Liberazione alla Risiera di San Sabba».
LA CRISI IN SUDAN, TREGUA VIOLATA
Ci porta all’estero la prima notizia dopo il 25 aprile. Questa volta non per l’Ucraina ma per il Sudan. La tregua nel Paese africano ieri ha funzionato a intermittenza, mentre monta l’emergenza profughi. Michele Giorgio per il Manifesto.
«È tregua in Sudan ad intermittenza. Non è mai stata completa la cessazione – peraltro solo per 72 ore - di combattimenti e sparatorie annunciata lunedì sera dopo una intensa attività di mediazione svolta dagli Stati uniti e, in misura minore, dall’Arabia saudita. I miliziani delle Rsf di Mohammed Hamdan Dagalo e l’esercito agli ordini del generale Abdel Fattah al Burhan hanno continuato spararsi addosso anche ieri, solo più sporadicamente. L’intensità più bassa dello scambio di colpi ha comunque consentito alla popolazione di Khartoum di poter lasciare, sia pure con grande cautela, le abitazioni in cui è rintanata da dieci giorni, per andare alla ricerca di cibo e acqua potabile. È un’impresa reperire generi di prima necessità nella capitale, rimasta senza rifornimenti dalle campagne dal 15 aprile. Lo raccontano ai media africani e arabi gli abitanti meno timorosi di altri nell’avventurarsi in strada. Ieri a Ginevra, Nima Saeed Abid, rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Sudan, ha aggiornato a 459 morti e 4.072 feriti il bilancio di giorni di violenti scontri a fuoco che, in apparenza, hanno lasciato nelle mani dell’esercito quasi tutta Khartoum. Le Rsf invece avrebbero il controllo di parte della periferia della capitale e di diverse province del paese. Saeed Abid ha anche denunciato un «alto pericolo di rischio biologico» dopo che una delle parti in lotta ha occupato un laboratorio, senza pero fornire ulteriori particolari. Fino a 270mila persone, dice l’Onu, potrebbero fuggire dal Sudan verso il Sud Sudan e il Ciad. Le molte migliaia di persone già ammassate lungo i confini con quei paesi cominciano a rappresentare una nuova emergenza profughi. Continua anche l’esodo degli stranieri. Gli occidentali in gran parte sono fuori dal Sudan, più complessa è la situazione dei cittadini di quei paesi che non sono in grado di organizzare, assieme ai militari, una evacuazione rapida e con gli aerei la Germania ieri ha assunto dalla Francia il coordinamento dei voli dal Sudan - come hanno fatto gli Usa e vari Stati europei. Si tratta di indiani, pakistani, filippini, africani, arabi e anche di un paio di centinaia di palestinesi, in gran parte studenti di Gaza a Khartoum. Per loro la fuga dal paese è via terra verso l’Egitto o a bordo di traghetti che vanno in Arabia saudita. Sono sempre al loro posto 46 operatori internazionali di Emergency negli ospedali di Khartoum, Nyala e Port Sudan. «Sono giorni estremamente difficili e di grande tensione a Khartoum ma abbiamo deciso di rimanere qui per gli 81 pazienti in cura nel nostro ospedale. Non possiamo abbandonarli perché rischierebbero la vita», ha spiegato Franco Masini del Centro Salam di cardiochirurgia della ong italiana a Khartoum. Mentre i civili sopportano il peso maggiore dei problemi, El Burhan e Dagalo affermano ciascuno di combattere per salvare il Sudan dall’altro e di tentare di insediare un governo civile. Ma il capo dell’esercito è accusato di combattere per gli islamisti e per ciò che resta del regime del deposto presidente Omar Al Bashir. Il leader delle Rsf invece agirebbe nell’interesse di potenze straniere. Di sicuro nessuno dei due ha rispetto per i diritti umani e la democrazia e dietro di loro ci sono potenze straniere. Inoltre sono insistenti le voci, specie dopo un’inchiesta della Cnn, che vogliono la compagnia di mercenari russi Wagner stretta alleata di Dagalo nello scontro con El Burhan. I rischi di una destabilizzazione regionale, quindi, sono reali e le conseguenze del conflitto già si fanno sentire. Il Sud Sudan, devastato per anni da lotte intestine che hanno fatto morti, feriti e centinaia di migliaia di profughi e sfollati interni, si preoccupa per le entrate petrolifere che rappresentano circa oltre il 90% della sua valuta pregiata. Il Sudan è fondamentale per queste esportazioni con il suo oleodotto che dal sud arriva fino al Mar Rosso. Il Ciad invece teme l’arrivo in massa dei profughi attraverso le sue frontiere facilmente penetrabili. «Ospitiamo già 500mila rifugiati. Facciamo appello ai partner internazionali affinché ci sostengano in questa crisi umanitaria all’orizzonte», ripete il ministro ciadiano delle comunicazioni Aziz Mahamat Saleh convinto che la guerra in Sudan avrà un impatto sull’intera regione del Sahel. L’Egitto ha una lunga e antica storia in comune con il Sudan che in epoca faraonica si chiamava Nubia. Oggi molti membri dell’élite sudanese hanno legami con l’Egitto, dove hanno studiato, e gli ufficiali dell’esercito in molti casi sono stati addestrati al Cairo. Per l’Egitto è fondamentale avere Khartoum dalla sua parte nella difficile disputa con l’Etiopia sulle acque del Nilo. E vedere il suo alleato sprofondare nella guerra civile toglie il sonno ad Abdel Fattah el Sisi e il suo entourage. Trema anche Israele che vede in pericolo la permanenza del Sudan negli Accordi di normalizzazione del 2020 (detti di Abramo) e la firma del trattato di pace tra i due paesi prevista nei prossimi mesi. Tel Aviv mantiene contatti con El Burhan e Dagalo e si propone come sede di eventuali negoziati».
IL RICATTO DEI MILIZIANI SUI MIGRANTI
Modello Libia. Dal 2017 i miliziani sudanesi esigono finanziamenti per il controllo dei confini sottolineando che il Sudan «è area di transito per gli irregolari che vogliono raggiungere l’Europa». Le richieste arrivano direttamente a Roma e Bruxelles. Un «Libyagate» che si ripete più a Sud. La denuncia di Nello Scavo su Avvenire.
«È il 7 febbraio di quest’anno quando i paramilitari di Rsf inviano un messaggio a Roma e a Bruxelles. I capi dell’autoproclamata Forza di intervento rapido lo fanno esibendo ancora una volta sui social network i volti spaventati di alcune decine di migranti. Sono subsahariani catturati nel deserto. « Il Sudan – scrive Rsf – è un Paese di transito per gli irregolari che vogliono raggiungere l’Europa attraverso il Mar Mediterraneo, favoriti dalla mancanza di moderni sistemi di controllo lungo i confini con l’Egitto, la Libia e il Ciad». La richiesta di equipaggiamento per il controllo dei confini diventa così esplicita e non più sottobanco. La Rsf, capitanata dal vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione Mohamed Hamdan Dagalo, sa infatti che è specialmente l’Italia a voler installare lungo gli invisibili confini di sabbia un sistema di sorveglianza multiruolo. Fermare i migranti prima dell’ingresso in Libia, o riportarli in Sudan proprio dalle regioni meridionali libiche, è perciò il pretesto perfetto per accreditarsi quali interlocutori di riferimento, e intanto drenare risorse e mezzi da usare nel lavoro di gendarmeria frontaliera quanto nei combattimenti interni. La dottrina di Roma, affinata a partire almeno dal 2017, è chiara: sostenere chi si fa carico di contenere i flussi migratori adoperando fondi italiani e di Bruxelles, senza troppo sottilizzare sui diritti umani. È il “Libyagate” che si ripete più a Sud. Con il risultato di avere legittimato e armato i paramilitari che stanno mettendo sottosopra il Sudan e gettando scompiglio nell’intera regione. In ballo c’è un vecchio progetto “Made in Italy”, il cui valore nel tempo si è più che triplicato. Nel 2009 una delle aziende della ex Finmeccanica (oggi Leonardo) si era aggiudicata l’appalto da 300 milioni per il monitoraggio dei confini libici. Buona parte dei fondi li avrebbe messi a disposizione l’Unione Europea. Ma la rivoluzione contro Gheddafi mandò tutto per aria. Provarono a vendere il progetto anche ad Assad, in Siria, ma la guerra nel frattempo scoppiata anche lì spense la trattativa. Una porzione di quel vecchio piano è stata messa in prova nel Niger, attraverso compagnie private che mettono a disposizione uomini e mezzi aerei: se qualcosa va storto o qualcuno commette crimini, gli Stati potranno scaricare le colpe sui mercenari. In Sudan il lavoro sporco è stato appaltato proprio a Rsf che non di rado viene ammessa all’interno del territorio libico, da dove vengono operate le espulsioni di massa dei migranti. Nei giorni scorsi era stato il segretario generale dell’Onu a denunciare i respingimenti nel deserto, di comune accordo tra milizie libiche e paramilitari sudanesi. « Il 31 dicembre, il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale di Kufrah (nel Sud della Libia, ndr) ha espulso più di 400 migranti e richiedenti asilo - ha scritto Guterres la settimana scorsa -, tra cui donne e bambini, principalmente provenienti dal Ciad e dal Sudan, la maggior parte dei quali espulsi verso il Sudan». Le agenzie Onu avrebbero voluto visitare i migranti e intervistarli, ma «alle organizzazioni internazionali non è stato concesso l'accesso». Tuttavia grazie a contatti locali e testimonianze raccolte dopo la deportazione è stato possibile accertare che prima dell’espulsione i migranti sono stati sottoposti «a traffico di esseri umani, torture, violenze sessuali e di genere, estorsioni». A molti non viene data scelta. Diventano schiavi delle milizie. Vite a perdere da dare in pasto all’artiglieria. Già nel 2018 un report del “Clingendael”, l’istituto olandese per la formazione nelle relazioni internazionali, aveva accusato Bruxelles di avere fornito indirettamente agli ex janjaweed oltre 160 milioni di euro per rafforzare i gruppi armati confluiti nella Forza di reazione rapida (Rsf ). Tra loro diversi comandanti acusati di crimini di guerra e genocidio nella regione sudanese del Darfur. Un gruppo di attivisti per i diritti umani sudanesi ed eritrei ha scritto a Bruxelles. «L'Unione europea e i suoi Stati membri - è l’accusa hanno esternalizzato la politica migratoria attraverso la cooperazione diretta e indiretta con regimi e milizie del tutto irresponsabili». Nei mesi scorsi sono stati segnalati, e mai smentiti, alcuni viaggi di ufficiali dell’intelligence italiana in Sudan. Giunti a bordo di aerei dei Servizi segreti, avrebbero trattato con Dagalo e i suoi emissari. Poco dopo analoghi colloqui sono stati segnalati tra Rsf e inviati del Wagner group, l’esercito privato russo a disposizione del Cremlino, i cui aerei Ilyushin fanno la spola tra la base dell’esercito russo in Siria, a Latakia, e il confine sud tra Libia e Sudan. Con il risultato che in Ucraina Italia e Ue sostengono la resistenza contro la Russia e i mercenari Wagner, ma in Sudan, nel nome del respingimento dei migranti, si ritrovano dalla stessa parte».
PIANTEDOSI: “LAMPEDUSA MERITA IL NOBEL PER LA PACE”
L’emergenza profughi in Italia. Sono quasi 2.700 le persone presenti nell’hotspot dell’isola di Lampedusa a fronte di 400 posti disponibili. La maggior parte di chi è approdato in Italia proviene dall’Africa subsahariana ma ci sono anche tunisini ed egiziani che decidono di partire per conto proprio (senza scafisti né trafficanti). La visita del ministro Piantedosi. Daniela Fassini per Avvenire.
«Quattro naufragi, quarantasette sbarchi in 24 ore e più di 1.800 persone arrivate. Due cadaveri recuperati, fra cui quello di una giovane donna, tre le persone (compreso un bimbo di 8 mesi) finite al poliambulatorio, 17 i dispersi, per i quali le ricerche vanno ancora avanti, e complessivamente 165 i superstiti portati all’hotspot. È il bilancio drammatico che si aggiorna di ora in ora. Tutti i barchini che sono giunti sull’isola o sono stati soccorsi dai mezzi delle Guardia costiera sono partiti dalla Tunisia. Ad imbarcarsi sono soprattutto cittadini subsahariani. Arrivano dal Burkina Faso dove, solo sette giorni fa ad esempio, uomini in uniforme hanno massacrato una sessantina di civili; dalla Costa d’Avorio, il maggior produttore e esportatore mondiale di caffè e con una popolazione di 22 milioni di abitanti dall’età media intorno ai 30 anni; dal Gambia (ma i migranti che arrivano da questo paese spesso si guadagnano un decreto di espulsione), dalla Guinea dove resta al potere la Giunta militare e le prossime elezioni saranno nel 2025; o dalla Liberia, uno dei paesi più poveri del mondo e dal Mali che, insieme al Niger e al Burkina Faso è uno dei tre Paesi africani con il maggior numero di sfollati interni per due cause: guerra e clima impazzito che rende inaccessibili le risorse naturali. Ecco, sono questi la maggior parte dei disperati che a bordo di carrette del mare assolutamente instabili raggiungono le coste italiane di Lampedusa, che cadono in acqua e vengono recuperati dai guarda coste. Che arrivano sull’isola con l’unico desiderio di restare in Europa (la maggior parte di loro vorrebbe proseguire il viaggio verso il Nord, da parenti e amici in Francia, in Germania o in Svezia e Norvegia). Ma non sanno che rischiano un provvedimento di espulsione. Perché molti dei Paesi di provenienza, dallo scorso mese di marzo, sono stati inseriti dalla Farnesina nell’elenco dei Paesi sicuri. Ma ci sono anche egiziani e tunisini che si organizzano e decidono di partire in modo autonomo, autofinanziandosi, senza l’aiuto o il supporto di scafisti o trafficanti. È quanto hanno raccontato ventotto, dei 705 migranti giunti nelle ultime ore. Sono stati rintracciati direttamente in porto dai militari della Guardia di finanza. Il gruppo, tutti uomini e una donna, ha raccontato d’aver autofinanziato il viaggio comprando il barchino di 7 metri e 10 taniche da 20 litri di carburante e spendendo 35 mila dinari tunisini. La loro traversata è iniziata venerdì sera da Sfax, in Tunisia, ed è stata fatta utilizzando una bussola e le app del cellulare. L’imbarcazione di legno è stato sequestrato dalla Guardia di finanza. E mentre l’hotspot dell’isola ritorna nuovamente ad essere in emergenza con 2.698 ospiti a fronte di una capienza di poco meno di 400 persone, il ministro dell’Interno Piantedosi raccoglie a sorpresa l’appello di molti (fra cui Avvenire, ndr) e del sindaco dell’isola. «Lampedusa meriterebbe molto altro, meriterebbe almeno il premio Nobel per la pace» ha detto il titolare del Viminale ieri al termine di una visita lampo sull’isola e dopo aver incontrato il sindaco, assicurando l’organizzazione di una task-force ad hoc per la gestione dell’emergenza. «Noi dobbiamo lavorare affinché Lampedusa diventi l’ingranaggio di un meccanismo più ampio che funziona. E nello stesso tempo - ha aggiunto il capo del Viminale - aiutare la gente che è all’addiaccio o in mezzo ai liquami». Il sindaco ha elencato i problemi che l’amministrazione e i cittadini devono affrontare quotidianamente: « Da 9 mesi ripeto sempre le stesse cose: i barchini abbandonati, i barchini sulle coste, la questione della spazzatura, la questione delle fogne, l’emergenza salme, i posti nei cimiteri. È stata dichiarata l’emergenza, dobbiamo accelerare su tutto » ha spiegato Mannino. I migranti che viaggiavano su 14 delle barche, agganciate fra la notte e l’alba dalle motovedette di Capitaneria e Guardia di finanza, hanno detto di essere giunti con “navi madre”. Forse pescherecci da cui poi sono stati calati in acqua i barchini di metallo di 6 o 7 metri. Per queste traversate, cominciate da Sfax in Tunisia, i migranti, originari di nazioni della West Africa hanno pagato fino a 3 mila dinari tunisini. Intanto sono sbarcate a Lampedusa anche le 47 persone soccorse da Open Arms. «Erano stipate in una barca di metallo per 2 giorni nel Mediterraneo. Dopo due giorni alla deriva e un naufragio, sono finalmente in un porto sicuro. Il mare è pieno di donne, bambini, uomini vulnerabili, c’è bisogno dell’aiuto di tutti» scrive la Ong su Twitter. A Ravenna è arrivata invece la nave Humanity con 69 migranti a bordo: trenta da Sudan, il paese in questo sbarco più rappresentato. Le Ong nei giorni scorsi hanno lanciato l’allarme di un nuovo esodo legato proprio alla crisi che si è aperta nel paese africano: secondo l’Unhcr in 20 mila si starebbero già spostando dalla regione sudanese del Darfur per cercare rifugio nel vicino Ciad che già ospita 400 mila profughi sudanesi. Dalla Libia infine arriva l’ennesimo orrore: la guardia costiera ha recuperato i corpi di 11 migranti annegati, tra cui un bambino, naufragati con l’imbarcazione che doveva portarli in Europa».
“L’ITALIA DEVE GESTIRE LE MIGRAZIONI IN MODO RAZIONALE”
Impressionante l’ultimo rapporto della Banca mondiale sullo sviluppo a livello globale: la mancata crescita dell’Italia è sotto osservazione. Per Repubblica Paolo Mastrolilli.
«Fa impressione leggere il rapporto pubblicato ieri dalla Banca Mondiale sullo sviluppo a livello globale, perché dimostra con i dati quanto siano velleitarie le speranze di risolvere la crisi demografica dell’Italia senza un ricorso ragionato alla risorsa dei migranti. A pagina 75, ad esempio, si legge: «Le politiche per la natalità hanno avuto un impatto misto e relativamente limitato in tutti i paesi. Poiché il declino demografico è già avanzato, è improbabile che si inverta presto, se non per niente. L’Italia, ad esempio, conta attualmente circa 2,4 milioni di bambine sotto i nove anni. Ognuna di queste ragazze dovrebbe avere 3,3 figli, se volessero costruire una generazione grande come quella dei loro genitori: un drammatico aumento del tasso di fertilità, rispetto a quello attuale di 1,3». Commentando con Repubblica, la Banca aggiunge: «Paradossalmente, uno degli elementi chiave dell’aumento dei tassi di natalità è l’assistenza all’infanzia, che in molti paesi è fornita in modo sproporzionato dai migranti. Migrazioni e politiche per la nascite non sono dunque due elementi di una semplice alternativa, ma anzi si completano a vicenda». L’istituto di Washington è diplomatico nel linguaggio, ma la realtà è che sperare di trovare la soluzione alla crisi nella promozione delle nascite è come credere che Don Chisciotte avesse una possibilità di sconfiggere i mulini a vento. L’attenzione quindi non andrebbe concentrata sull’inesistente complotto globale della “sostituzione etnica”, ma sul fatto che «l’Italia, con una popolazione di 59 milioni, dovrebbe ridursi di quasi la metà, a 32 milioni, entro il 2100». Anche ammesso che le politiche per la promozione delle nascite avessero successo, quante sono le probabilità che le prossime generazioni inizino a fare quattro figli per famiglia? E se pure avvenisse, i risultati non si noterebbero prima di una trentina d’anni: nel frattempo chi pagherebbe tasse, servizi, sanità e pensioni? Prima di proseguire è indispensabile un chiarimento politico, a scanso di equivoci. Il “World Development Report”, intitolato quest’anno “Migrants, refugees and societies”, è l’ultimo firmato da David Malpass, il presidente nominato da Trump. Quindi una persona che non ha pregiudizi contro i governi conservatori, e non può essere liquidato come un liberal irresponsabile che vuole spalancare ai migranti i confini dei paesi occidentali. Eppure Malpass, pur riconoscendo problemi e rischi posti dal fenomeno, scrive: «I paesi di destinazione possono sfruttare il potenziale delle migrazioni per soddisfare i loro bisogni a lungo termine del mercato del lavoro, in particolare far fronte alle carenze di manodopera innescate dall’invecchiamento o dalla mancanza di abilità specifiche. Possono migliorare gli sforzi per trattare i migranti in modo umano e affrontare la questione sociale e gli impatti economici sui propri cittadini ». La Banca nota che al mondo ci sono oggi 184 milioni di migranti. «Le popolazioni di tutto il pianeta stanno invecchiando ad un ritmo senza precedenti, rendendo molti Paesi sempre più dipendenti dalle migrazioni per realizzare il proprio potenziale di crescita a lungo termine ». La situazione è particolarmente grave in Italia, come si capisce dal drammatico grafico sulla nostra “piramide invertita”, dove si vede come nel 2050 il grosso della nostra popolazione avrà più di 60 anni. Per la precisione, gli abitanti sopra i 50 anni sono già raddoppiati, dal 21,5% del 1950 al 46,7% del 2022. E la tendenza è destinata a proseguire. Siamo una delle nazioni occidentali che naturalizza meno persone in arrivo, anche se «in media, i contributi fiscali netti dei migranti e dei cittadini naturalizzati nei paesi dell’Ocse sono più alti di quelli dei nativi». Rispondendo indirettamente alla premier Meloni, il rapporto aggiunge: «Italia, Grecia e Corea potrebbero potenzialmente aumentare la partecipazione delle donne al lavoro. Tuttavia, la portata di tali cambiamenti è alquanto limitata in molti paesi ad alto reddito, dove la partecipazione alla forza lavoro è già elevata». La soluzione quindi è obbligata, e passa attraverso una gestione razionale delle migrazioni».
MEDVEDEV TORNA A EVOCARE L’ATOMICA
Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina. Missili sul museo a Kupiansk mentre Mosca torna a evocare il nucleare. Uccise due donne nell’Est. Il russo Sergej Lavrov all’Onu dice: l’accordo sul grano salta se resta l’embargo ai nostri prodotti. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Gli effetti dei missili russi S-300 si rivelano terrificanti quando esplodono nei centri abitati. Sono potenti armi da guerra costruite per distruggere obbiettivi militari e se lanciati al cuore delle zone urbane ucraine abbattono palazzi interi, scavano crateri profondi oltre dieci metri, le loro onde d’urto lasciano il segno anche a centinaia di metri di distanza. E infatti ieri due S-300 hanno colpito il centro di Kupiansk distruggendo il museo di storia e uccidendo almeno due donne, oltre a ferire una decina di civili. I video girati subito dopo le esplosioni mostrano l’edificio sventrato con i soldati che scavano tra le macerie alla ricerca delle vittime. Il presidente Zelensky ha postato un messaggio in cui ricorda che «lo Stato terrorista sta facendo del suo meglio per distruggere con metodi assolutamente barbari la nostra storia, la nostra cultura e il nostro popolo». In poche parole: bombe ancora una volta mirate a cancellare le specificità ucraine e lo spirito di resistenza nazionale contro l’invasione russa. I testimoni locali ribadiscono che nelle stanze del museo non si trovavano armi o soldati. Sono del resto ormai almeno quattro mesi che questa cittadina, abitata da oltre 26.000 persone prima della guerra e oggi ridotta a meno di 5.000, è presa di mira dai russi. Si trova più o meno a metà strada tra Kharkiv e le province del Nordest confinanti col Lugansk. Le truppe russe l’avevano occupata già nei primi mesi di guerra, assieme a una parte del Donbass fino alla periferia di Kharkiv, e gli ucraini erano riusciti a liberarla durante la controffensiva di settembre. Ma già in dicembre i russi attestati a Svatove hanno provato a riprenderla: non ci sono riusciti e da allora Kupiansk viene colpita quotidianamente. Ieri un’altra donna è morta sotto le bombe nel vicino villaggio di Dvorichna. In questa fase tesa della guerra dominata dai preparativi della controffensiva ucraina, che ieri il New York Times citando fonti del Pentagono riteneva potesse scattare già a maggio, cresce anche il nervosismo di Mosca. L’ex vice di Putin, Medvedev torna a prospettare scenari apocalittici. «Il mondo è malato e probabilmente siamo sull’orlo di una nuova guerra mondiale». E addirittura mette in guardia sulla possibilità che la Russia possa ricorrere all’atomica se l’offensiva nemica avesse successo. «Non esiteremo a utilizzare l’arma nucleare se la nostra esistenza dovesse essere minacciata da armi non convenzionali e anche convenzionali», avverte. L’assenza di prospettiva negoziale sta tra l’altro mettendo a repentaglio anche l’accordo sull’export del grano ucraino attraverso il Mar Nero, come ha detto il ministro degli Esteri Russo Lavrov, ieri, all’Onu. Va ratificato ogni tre mesi, la prossima scadenza è il 18 maggio. Ora però la Russia, sempre parole di Lavrov, pretende l’abolizione dell’embargo sui suoi prodotti agricoli».
A ROMA LA CONFERENZA PER LA RICOSTRUZIONE
Inizia oggi a Roma la conferenza bilaterale organizzata dall’Italia sulla ricostruzione dell’Ucraina. Sono su trasporti, energia ed export i primi progetti allo studio. Iscritte 600 aziende italiane e 150 ucraine, focus su 7 settori. Carmine Fotina per Il Sole 24 Ore.
«L’Italia prova a mettere qualche base concreta per i futuri progetti di ricostruzione in Ucraina, al centro oggi a Roma, al Palazzo dei Congressi, di una Conferenza bilaterale coordinata dal ministero degli Affari esteri. Dopo Germania e Francia, che hanno già organizzato nei mesi scorsi le loro conferenze coinvolgendo il sistema imprenditoriale nazionale, l’evento di oggi ha visto l’iscrizione di circa 600 imprese italiane e 150 ucraine. Una sessione a porte chiuse composta da sette tavoli tematici, una sessione plenaria con i rappresentanti dei due governi e una serie di incontri business to business e business to government serviranno ad avviare quantomeno alcuni discorsi, per quanto si tratti di una situazione ancora aperta e sia oggettivamente complicato pianificare una vera ricostruzione a guerra ancora in corso. Le prime opportunità si riferiscono allo stadio del fast recovery, cioè, nelle zone uscite dall’occupazione russa, il ripristino delle infrastrutture critiche civili ed energetiche distrutte dall’offensiva, per il quale la Banca mondiale calcola un fabbisogno di 14 miliardi di dollari a fronte dei 411 miliardi totali per la ricostruzione. Più a lungo termine e con orizzonte almeno decennale, si inizia anche a ragionare sull’ammodernamento delle grandi infrastrutture. Sulla base della Conferenza internazionale di Lugano dello scorso luglio, l’Italia avrebbe nel Donetsk la regione di riferimento per donazioni e progetti di rilancio, anche se bisognerà capire se quella ripartizione per zone di influenza resta ancora valida. Oggi è prevista la firma di alcuni protocolli di intesa tra aziende, ad esempio nel campo del trasporto ferroviario e dell’energia. Ma dovrebbero essere siglati accordi o almeno delle pre-intese anche a livello istituzionale con il coinvolgimento dell’Ice (l’Agenzia per il commercio estero), del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica e del ministero delle Imprese e del made in Italy. Quest’ultimo, ad esempio, sta lavorando alla formazione di un consorzio per la creazione di una piattaforma ferroviaria di smistamento merci al confine con l’Ungheria. I sette tavoli tematici riguarderanno infrastrutture e trasporti, energia e ambiente, agroindustria, salute, digitale e servizi, spazio/avionica, siderurgia. Per il governo italiano sono in programma gli interventi del ministro degli Affari esteri e vicepremier Antonio Tajani, del ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso, del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini. Per l’Ucraina interverranno il ministro dell’Economia e vicepremier Julija Svyrydenko e il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. Le conclusioni della Conferenza, precedute dall’intervento del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, saranno affidate alla premier Giorgia Meloni e il primo ministro di Kiev Senys Shmyhal ed è previsto un videocollegamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky».
I CINESI: “DIALOGO BILATERALE CON L’ITALIA”
Rita Fatiguso ha intervistato per Il Sole 24 Ore il nuovo ambasciatore cinese a Roma.
«Soltanto la cooperazione può ottenere vantaggi complementari e realizzare risultati proficui per tutti. L’ambasciatore Jia Guide - al quale Il Sole 24Ore ha chiesto di fare un quadro dei rapporti tra Italia e Cina in un contesto globale - ama sottolineare questo concetto di derivazione confuciana.
L’economia cinese in questo primo trimestre del 2023 ha registrato un aumento del 4,5% del Pil. Come e in quali settori questa ripresa potrà favorire i rapporti bilaterali?
Gli ultimi dati brillanti favoriscono senza dubbio l’aumento della fiducia dei mercati globali, la Cina continua ad essere un importante motore per la crescita economica mondiale, fornendo una solida base per l’ulteriore sviluppo delle relazioni economiche, commerciali, di investimento tra Cina e Italia e delle eccellenze del Made in Italy. Invitiamo la parte italiana a cogliere e condividere le nuove opportunità dello sviluppo cinese indicate dal Consigliere di Stato e ministro degli Esteri Qin Gang nel suo discorso al Lanting Forum su «La Modernizzazione Cinese e il Mondo».
L’interscambio commerciale con la Cina, nonostante la pandemìa, è aumentato. Cosa devono fare Cina e Italia per bilanciare i rapporti bilaterali in campo economico?
Cina e Italia sono importanti partner economici e commerciali, con vantaggi complementari. La cooperazione economica e commerciale ha forte resilienza e un grande potenziale. Gli investimenti reciproci rimangono stabili. Noi non perseguiamo mai il surplus commerciale e desideriamo sviluppare una relazione equilibrata con l’Italia. Il 2023 è l’Anno della crescita dei consumi e l’Anno degli investimenti in Cina. Alla Fiera dei beni di consumo di Hainan, l’Italia era Ospite d’Onore, con ben 147 marchi; la premier Giorgia Meloni ha tenuto un video discorso, il sottosegretario Maria Tripodi guidava la delegazione. A fine giugno, Canton ospita la grande Fiera Internazionale per le Pmi. Siamo disposti a offrire un ambiente buono e stabile per tutte le aziende, incluse quelle italiane. Auspichiamo anche che il Governo italiano fornisca un ambiente imprenditoriale equo, giusto e non discriminatorio anche per le imprese cinesi in Italia.
Dopo anni di stop forzato la sesta China international import export (CIIE), a novembre si terrà in presenza.
La China International Import Expo è la prima fiera a livello nazionale al mondo dedicata esclusivamente all’import, è ormai una piattaforma per promuovere un’apertura di alto livello e un prodotto condiviso globalmente. L’Italia ha sempre partecipato è stata Ospite d’Onore della seconda edizione. Politici di alto livello, tra cui il presidente del Consiglio, sono intervenuti di persona o hanno pronunciato discorsi video. Il governo cinese continua ad offrire politiche di supporto, agevolazioni fiscali e facilitazioni nello sdoganamento e negli investimenti. Diamo il più sincero benvenuto a sempre più aziende italiane che parteciperanno, crediamo che ne valga sicuramente la pena.
Attrazione degli investimenti, specie cinesi. Finito il lockdown Pechino ha ripreso a investire all’estero. Quali prospettive per l’Italia?
Gli investimenti esteri si sviluppano costantemente: ogni giorno, un flusso di 320 milioni di dollari di investimenti diretti cinesi va per il mondo. La Cina attribuisce grande importanza alla partnership con l’Italia, tra le principali destinazioni. Siamo disposti a riavviare il meccanismo di dialogo, sfruttando il potenziale della cooperazione nei mercati verdi, digitali e di terze parti e a continuare a promuovere investimenti reciproci. Di recente ho incontrato i responsabili di diversi dipartimenti del Governo italiano che sono aperti ad attrarre investimenti cinesi.
Il Memorandum of Understanding sulla Via della Seta: dalla sigla dell’intesa a oggi il mondo è cambiato. È possibile un rinnovo con modifiche o aggiornamenti? E se si, quali?
Il mondo è davvero cambiato negli ultimi anni. Ma dobbiamo pensare: su cosa bisogna insistere? Che cosa si deve cambiare? Ho notato che l’Italia ha di recente alzato l’obiettivo di crescita economica per il 2023 dallo 0,6% all’1%. Ciò dimostra che di fronte all’incertezza della ripresa economica globale, l’Italia è fermamente ottimista sulla propria ripresa e ha aspettative positive per le prospettive di cooperazione. I fatti contano più delle parole. Dalla firma dell’accordo, il volume degli scambi ha toccato nel 2022 quasi 78 miliardi di dollari; dal 2019 al 2021, le esportazioni italiane verso la Cina sono cresciute del 42%, superando di gran lunga i livelli precedenti la firma; l’Italia è il Paese della Ue con il maggior numero di accordi sulle esportazioni di prodotti agricoli verso la Cina e ha partecipato attivamente alle fiere internazionali cinesi. Questi risultati sono inseparabili dalla firma del MoU che non è un’intesa giuridicamente vincolante, ma che riflette la volontà politica delle due parti di rafforzare la reciproca cooperazione concreta in vari campi.
L’Italia è tornata a far sentire la sua presenza in Africa, anche nei Paesi nei quali investe la Cina.
La cooperazione con i Paesi africani non è esclusiva di nessun Paese. Promuovere la cooperazione in Paesi terzi è un importante consenso raggiunto durante l’incontro tra i nostri due leader al G20 di Bali. Finora, Cina e Italia hanno stabilito due turni di elenchi di progetti chiave per la cooperazione bilaterale in Paesi terzi, nel petrolio, industria chimica e finanza, in molte aree, inclusa l’Africa. È in corso la selezione di programmi inclusi nel terzo turno degli elenchi di cooperazione. Negli ultimi anni, i progetti di cooperazione sino italiana in Paesi terzi, come la costruzione di centrali idroelettriche in Africa e lo sfruttamento delle risorse petrolifere e di gas sul mare, hanno ottenuto risultati tangibili.
L’Italia gioca un ruolo importante nell’ambito europeo nei rapporti con Pechino. Come sta cambiando il suo peso politico?
La Cina considera sempre la Ue come una forza strategica nel quadro internazionale. Nell’attuale contesto, i Paesi devono essere aperti o chiusi? Cooperare o competere? Molti leader lungimiranti in Europa hanno lanciato segnali chiari, in linea con gli interessi fondamentali dei propri Paesi e della parte europea. Credo che queste azioni inietteranno più stabilità ed energia positiva nel mondo. L’Italia è stata a lungo in prima linea nella cooperazione e negli scambi dei Paesi Ue con la Cina: è anche un attivo promotore dello sviluppo delle relazioni tra Cina e Ue. Ci aspettiamo che continui a svolgere un ruolo costruttivo».
SUI MERCATI TORNA IL RISCHIO ITALIA
Dopo Goldman Sachs, anche Moody's mette Roma nel mirino: “Ipotesi declassamento”. Doppio allarme sui nostri conti: Pil debole per il Pnrr rallentato e debito più caro per il rialzo dei tassi. Fabrizio Goria per La Stampa.
«Dopo Goldman Sachs, Moody's. Il rating dell'Italia è a rischio, si sottolinea. A un passo dal livello "junk", ovvero spazzatura. E c'è la possibilità di un declassamento il prossimo 19 maggio. A preoccupare è l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ma anche la crescita anemica e i maggiori costi di finanziamento, come rimarcato dall'agenzia di rating statunitense. Su quest'ultimo punto, si sottolinea, incidono i rialzi dei tassi d'interesse da parte della Banca centrale europea (Bce). Che continueranno, e che metteranno sotto pressione i titoli di Stato italiani. Che dovranno essere emessi a tassi più significativi di quelli dell'ultimo decennio. La perdita della fiducia sull'Italia può materializzarsi. Se è vero che S&P Global Ratings, la maggiore agenzia di rating mondiale, non ha toccato il giudizio sull'Italia venerdì scorso, è altrettanto vero che la collega Moody's ha lasciato intendere che nulla è scontato quando si parla di Italia. Non è un caso che l'agenzia newyorkese abbia ricordato, a pagina 8 del suo rapporto di ieri, quanto sia precaria la situazione italiana. Sei righe e due grafici, uno su disavanzo e debito pubblico e uno sulla crescita del Pil, per definire una situazione che rischia di deragliare. Netto il giudizio, che sa più di sentenza: «L'Italia è attualmente l'unico Paese sovrano con rating Baa3 e outlook negativo». Vi sono, secondo Moody's «maggiori rischi che il Piano nazionale di ripresa e resilienza dell'Italia non venga pienamente attuato a causa della debole capacità amministrativa di alcuni governi locali, dei limiti di capacità nei mercati del lavoro e dei prodotti, dell'inflazione elevata e del fatto che alcuni progetti si sono rivelati più ambiziosi di quanto originariamente previsto». A preoccupare è il quadro d'incertezza, che resta elevata e potrebbe incidere su un'economia già vulnerabile come quella di Roma. «Una crescita lenta e costi di finanziamento più elevati potrebbero indebolire ulteriormente la posizione fiscale dell'Italia», sottolinea Moody's. Sebbene siano state prese «importanti misure per ridurre il consumo di gas e diversificare le forniture al di fuori della Russia», la significativa dipendenza dal gas per la sua energia continua a esporre l'Italia a «rischi di approvvigionamento e all'aumento dei prezzi del gas naturale». I timori dei mercati, tuttavia, non si sono ancora materializzati in azioni concrete. La raccomandazione di Goldman Sachs potrebbe diventare realtà, ma per ora non ci sono state fluttuazioni di rilievo sullo spread fra Btp e Bund, che resta sotto quota 190 punti base. Secondo Fabrizio Pagani, senior advisor di Vitale & Co., «l'Italia non è nel radar dei mercati, per fortuna». Anche perché «non ci sono grossi problemi di finanza pubblica». Mentre c'è una questione generale di «riduzione del debito pubblico» e di «spesa per interessi, che quest'anno sarà intorno ai 70 miliardi di euro, che passeranno a circa 80 il prossimo anno». Guardando i numeri del Documento di economia e finanza, spiega Pagani, c'è un quadro considerato come «realistico», anche se la crescita del Pil all'1 per cento è definita «ambiziosa» ma allo stesso tempo «non è irrealizzabile». Alla luce di questo, fa notare, «il sentimento fra gli operatori economici è ancora positivo, anche se si comincia a vedere un rallentamento». Piuttosto, rimarca, «bisogna guardare al saldo primario, che attualmente è negativo». Un impatto potrebbe esserci dai rialzi dei tassi. «È pacifico che l'Italia sia vulnerabile alla normalizzazione della politica monetaria», hanno sottolineato gli analisti di Citi. I quali hanno consigliato a loro volta di assumere un atteggiamento cautelativo sul debito del Paese. Specie perché si avvicina il prossimo incremento del costo del denaro. "I dati attuali indicano che si dovrebbe alzare i tassi il 4 maggio, questo non è ancora il momento giusto per smettere di aumentarli», ha evidenziato il capo economista della Bce, Philip Lane, in una intervista a Le Monde. Uno scenario, quasi inevitabile, che potrebbe mettere ancora più pressione a Roma».
PATTO DI STABILITÀ, LA RIFORMA UE
Nuovo patto di stabilità, la mediazione di Paolo Gentiloni frena le richieste di Berlino. Il commissario Ue dice: proposta equilibrata. Pesa l’incognita Moody’s. Per il Corriere Francesca Basso.
«L’assalto della Germania alla riforma del Patto di stabilità e crescita per l’introduzione di parametri quantitativi per il momento è stato respinto. Questa mattina il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni insieme al vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis presenteranno una proposta che trasforma in profondità le regole di governance economica dell’Ue, rendendole più chiare e applicabili ma soprattutto flessibili e adattabili alle esigenze dei singoli Paesi. Un risultato impensabile tre anni fa, quando è stato avviato il cantiere di riforma. La proposta prevede percorsi di aggiustamento del debito pubblico in quattro anni fino a sette concordati dai singoli Paesi con la Commissione europea, sul modello dei Pnrr con l’impegno a eseguire riforme e investimenti nei settori considerati prioritari. L’obiettivo è aumentare la titolarità ( ownership ) degli Stati come in Next Generation Eu . Al termine dei quattro anni, anche in caso di piano di rientro in sette anni, il rapporto debito/Pil dovrà essere inferiore rispetto all’inizio del percorso. E questo per andare incontro alle richieste tedesche di introdurre parametri quantitativi oggettivi. Ancora ieri il ministro delle Finanze Christian Lindner in un intervento sul Financial Times chiedeva «invece di procedure e negoziati bilaterali» un sistema funzionante di «regole fiscali che porti alla parità di trattamento di tutti gli Stati membri». Ma un target preciso di riduzione da monitorare ogni anno (Berlino propone per i Paesi ad alto debito pubblico come l’Italia una taglio annuo dell’1% del debito/Pil) è stato ritenuto dalla Commissione controproducente per la crescita economica, ritenendo preferibile concentrarsi su indicatori sotto il controllo dei governi. L’indicatore preso in esame sarà la spesa pubblica primaria. Inoltre i Paesi Ue dovranno mantenere la crescita della spesa netta al di sotto della loro crescita economica a medio termine. È anche previsto che lo sforzo di aggiustamento fiscale da parte dei governi sia attuato fin dall’inizio e non lasciato a fine periodo. Rispetto al vecchio patto di Stabilità rimangono i parametri di Maastricht del tetto del deficit al 3% e del debito pubblico al 60%. E rimane anche la regola per i Paesi che superano il 3% di deficit del rientro annuo pari allo 0,5%. È prevista una clausola di salvaguardia per la sospensione del Patto, che sarà oggetto di una specifica proposta contenente in modo più esplicito le circostanze specifiche che permetteranno di attivarla. A differenza delle vecchie regole, ci sarà anche una clausola «nazionale», che potrà essere attivata in presenza di situazioni particolari a livello dei singoli Stati. Il Patto di stabilità è sospeso da tre anni, dal marzo 2020 a causa dello choc economico che ha colpito tutta la Ue con la diffusione del Covid. Sarà però ripristinato dal gennaio 2024. Il nuovo Patto prevede sanzioni di entità minore ma applicabili più regolarmente rispetto a quelle passate. Gentiloni, che nei giorni scorsi ha fatto da argine al pressing tedesco anche all’interno della Commissione nei confronti dell’ala più in sintonia con l’approccio rigido ai conti pubblici dei Paesi nordici, ieri si è detto soddisfatto dell’equilibrio raggiunto. Il confronto ora si sposta a livello di Stati: la Germania, ma anche l’Olanda e gli altri «frugali» non faranno sconti ai Paesi altamente indebitati come l’Italia. Il primo appuntamento è sabato all’Ecofin informale di Stoccolma: anche se la presidenza svedese non ha messo la riforma all’ordine del giorno dato il breve lasso di tempo dalla presentazione, sarà però al centro dei colloqui a margine tra i ministri. Il negoziato entrerà nel vivo solo in autunno e l’obiettivo dell’Ecofin è arrivare a un’intesa entro fine anno. Intanto l’Italia, riferisce Bloomberg , è l’unico Paese tra quelli analizzati dalla società di rating Moody’s che rischia di perdere l’«investment grade». Moody’s, la cui prossima valutazione del credito sull’Italia è prevista per il 19 maggio, lo valuta Baa3, un gradino sopra la «spazzatura».
SICCITÀ, MANCA ANCORA IL COMMISSARIO
Nonostante le buone intenzioni, manca ancora la nomina del commissario per la siccità. La cronaca dal Fatto.
«Il commissario straordinario per l’emergenza idrica doveva essere nominato entro ieri. Dopo quasi due mesi di attesa. Il decreto Siccità lo dice chiaro: “Entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa delibera del Consiglio dei ministri” e il decreto è finito in Gazzetta Ufficiale, dopo lunga gestazione, il 14 aprile. Ma di commissario non c’è traccia, tanto che venerdì scorso la presidente del Consiglio ha fatto i suoi auguri istituzionali a Matteo Salvini, a cui ha conferito “la delega a presiedere la cabina di regia avente funzioni di indirizzo, coordinamento e monitoraggio per il contenimento e il contrasto della crisi idrica”: peccato che la delega in questione fosse solo una formalità, già prevista dal decreto uscito dal Cdm il 7 aprile. Insomma, nessuna novità. Se non che dopo una comunicazione così, Salvini potrà sognarsi il ruolo di commissario, che con ogni probabilità andrà a un tecnico, e comunque senza soldi da spendere (se non per sé e collaboratori): si fa insistentemente il nome di Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile, che risponde al ministro Nello Musumeci, di Fratelli d’Italia. Una cabina di regia che dà ordini a un commissario che prende ordini da un ministro diverso non sarebbe certo il massimo per ottenere misure in tempi brevi: ma ormai è sempre più chiaro, c’è un’emergenza, c’è bisogno di un commissario, ma, con calma, prima di tutto gli equilibri di governo. Per la siccità può pur sempre piovere».
PNRR, FITTO OGGI IN SENATO
Prevista oggi l’informativa al Parlamento sul Pnrr. Il ministro Raffaele Fitto relaziona sui ritardi del Piano e sulla corsa del governo per la seconda tranche dei soldi Ue. Giuseppe Colombo per Repubblica.
«Raffaele Fitto l’ha battezzata «operazione verità». È questo il titolo che porterà a mezzogiorno nell’aula del Senato, dove sarà chiamato a rispondere dei passi falsi del Pnrr (il bis dell’informativa urgente, a Montecitorio, è previsto a metà pomeriggio). Se il ministro che ha la delega al Piano di ripresa e resilienza ha in mente questa formula è perché vuole provare a evitare un nuovo tiro al bersaglio. Con il governo di nuovo sotto accusa, anche per i ritardi sugli obiettivi ereditati dal governo Draghi. ll precedente scotta ancora: l’esame del decreto che ha riscritto la governance, concentrando i poteri a Palazzo Chigi, si è trasformato in uno scontro permanente con le opposizioni. L’incidente non si è chiuso. Anzi si è allungato, costringendo Fitto a ritornare in aula per riferire sullo stato dell’arte del Pnrr «con particolare riferimento alla revisione del sistema di governance», come riporta l’ordine del giorno dei lavori parlamentari. Ancora una volta ribadirà che la riorganizzazione è funzionale ad accorpare strutture e competenze, rendendo più spedito l’iter delle decisioni. Ma i passaggi sensibili saranno altri. Perché l’intervento si concentrerà anche sulla terza e la quarta rata del maxi-finanziamento, che valgono rispettivamente 19 e 16 miliardi. E qui «l’operazione verità» prenderà due strade differenti. Fitto illustrerà il lavoro fatto negli ultimi giorni per chiudere la trattativa con la Commissione europea e sbloccare così la tranche legata ai 55 obiettivi del secondo semestre dell’anno scorso. I tecnici europei stanno esaminando i documenti, l’auspicio è che i soldi possano arrivare a inizio maggio. Parlerà anche di due target inclusi nel pacchetto sotto esame: i progetti per la riqualificazione dello stadio di Firenze e per il Bosco dello sport di Venezia, entrambi bocciati dall’Ue. Numeri e date saranno funzionali, nel ragionamento del ministro, a spiegare che la colpa non può essere scaricata sul centrodestra al governo. Per questo il richiamo al decreto interministeriale Mef-Interno che ha approvato i Piani urbani integrati, al cui interno sono stati inseriti i due progetti. È datato 22 aprile 2022: a Palazzo Chigi c’era Draghi, al Tesoro Daniele Franco. Altro riferimento: gli stadi compaiono anche nella relazione semestrale, presentata il 5 ottobre scorso, sempre dal vecchio governo. Poi toccherà ai 27 obiettivi che vanno raggiunti entro il 30 giugno. E qui Draghi non c’entra. Fitto non nasconderà le difficoltà. Parlerà di «criticità» che rendono difficile rispettare la tabella di marcia. Citerà un caso su tutti: gli asili nido. Il monitoraggio della misura non sta restituendo segnali positivi; i problemi sull’assegnazione dei lavori sono emersi anche durante un incontro tra i tecnici del ministero dell’Istruzione e quelli della Commissione europea. La revisione della scadenza non è tabù, in una strategia che punta a rinegoziare con Bruxelles anche gli obiettivi semestrali, oltre a una fetta dei progetti. «L’operazione verità - dicono fonti di governo - punta sul coraggio di dire che un intervento non si realizza se oggi non sono partite neppure le gare». C’è un problema, però. A essere d’accordo devono essere in due, governo e Bruxelles. E l’esito è tutt’altro che scontato».
BIDEN SI RICANDIDA: “DOBBIAMO FINIRE IL LAVORO”
Le altre notizie dall’estero. Con un video, Joe Biden ha annunciato ieri ufficialmente la sua ricandidatura. I dubbi e le paure sull’età sciolti dalla sua ostinazione e dal ritorno di Donald Trump. Avrebbe 86 anni a fine mandato. Viviana Mazza per il Corriere.
«Dobbiamo finire il lavoro». Joe Biden annuncia la sua ricandidatura con queste parole che nel video appaiono scritte a penna, di suo pugno, in un corsivo che non si insegna più in molte scuole americane. Questa è la sua quarta candidatura alla Casa Bianca. La prima nel 1988, a 44 anni, fu disastrosa e si chiuse tra accuse di plagio. La seconda, nel 2008, lo portò a otto anni di vicepresidenza, la terza nel 2020 alla vittoria. Allora Biden aveva promesso di essere «un ponte» verso la nuova generazione: alcuni pensavano che avrebbe corso per un solo mandato, ma lui non è pronto a passare il testimone. Il video-annuncio di ieri è il trailer dell’ultimo capitolo di una lunga vita pubblica, iniziata nel 1970 con l’elezione al consiglio della contea di New Castle in Delaware e trascorsa per 36 anni al Senato. La ricandidatura preannuncia una possibile replica di uno scontro con Trump: è qualcosa che la maggior parte degli americani dice di non volere. Il 51% degli elettori democratici, secondo una rilevazione di Nbc, afferma che Biden non dovrebbe ricandidarsi e la metà esprime preoccupazione per la sua età: a 80 anni è già il più anziano presidente degli Stati Uniti, ne avrebbe 86 alla fine del secondo mandato. Il suo tasso di approvazione è al 42%, più basso di 10 dei 13 predecessori a questo punto della presidenza. Però, allo stesso tempo, tre quarti dei democratici sono soddisfatti del lavoro che ha fatto. Ripetuti sondaggi hanno mostrato che i democratici vorrebbero un volto nuovo, ma non sanno chi dovrebbe essere. La decisione di Biden è accolta con stoicismo più che con entusiasmo. Il partito ha concluso che se, a un certo punto della campagna o di un secondo mandato, Biden non riuscisse ad andare avanti, la sua corsa diventerà una staffetta. Al suo fianco ci sarà Kamala Harris, nonostante i dubbi anche in campo democratico. La spinta a contestare la sua ricandidatura si è spenta dopo i risultati (assai migliori del previsto) ottenuti dal partito nelle elezioni di midterm. E Trump è una forza che unisce i democratici: la discesa in campo dell’ex presidente a novembre ha contribuito a coagulare di nuovo il partito intorno a Biden, come nel 2020. Anche l’ala sinistra è rimasta in riga, benché Biden abbia ultimamente manifestato — su temi come l’immigrazione, il clima, il crimine — uno spostamento verso il centro. A partire da oggi e per i prossimi 18 mesi, il presidente dovrà convincere gli scettici: conta di farlo girando il Paese (a differenza del 2020 quando la pandemia lo costrinse spesso a restare in Delaware) ma ci vorrà tempo prima dell’inizio effettivo dei comizi. Eventi come quello di ieri a Washington presso i sindacati mirano a dimostrare la sua energia e rivendicare i risultati concreti: a capitalizzare il vantaggio di essere un presidente in carica. «Non paragonatemi all’Onnipotente, ma all’alternativa», dice spesso Biden. E quando nel filmato parla degli estremisti «Maga» che minacciano la libertà degli americani, vengono inquadrati sia Trump che il governatore della Florida, Ron DeSantis. Il partito democratico spera che «l’alternativa» sia Trump, nella convinzione che Biden l’ha battuto una volta e potrà farlo ancora e che, per quanto ambivalenti possano essere gli «swing voters» (gli elettori in bilico) sull’attuale presidente, non vogliono un ritorno al predecessore. Ma anche i repubblicani si dicono soddisfatti che il rivale sia Biden. I sondaggi mostrano che sarebbe una sfida competitiva. Sarebbe anche la prima volta dal 1956 che ritornano gli stessi contendenti delle elezioni precedenti (quando Dwight D. Eisenhower batté per la seconda volta Adlai Stevenson). Biden ha ripetuto che si vuole candidare per impedire il ritorno di Trump, ma non è l’unico motivo. Frank Bruni sul New York Times ricorda quanto deve aver pesato a Biden, dopo aver servito fedelmente Obama come vicepresidente, vederlo scegliere Hillary Clinton per la successione. Invita a non dimenticare l’ostinazione con cui Biden restò in corsa nel 2020 dopo gli umilianti risultati nelle primarie in Iowa e in New Hampshire. Ha atteso di diventare presidente più di chiunque altro. Rinunciare a inseguire un secondo mandato sarebbe stato come ammettere un fallimento. È tutta la sua vita».
PAKISTAN, CRISTIANI ARRESTATI PER BLASFEMIA
Due coniugi cristiani, analfabeti e bidelli in un istituto femminile del Punjab, sono stati accusati dalle autorità scolastiche, senza prove, di aver dato fuoco a pagine scritte in arabo durante la pulizia di un locale. Stefano Vecchia per Avvenire.
«Da qualche tempo dal Pakistan non uscivano notizie di atti persecutori verso i cristiani, ma una nuova vicenda riaccende l’attenzione verso, soprattutto, la facilità con cui l’accusa di blasfemia viene accolta, mettendo a rischio come più volte è successo la vita degli accusati. Il 15 aprile la polizia ha aperto un’indagine e arresato Musarrat Bibi e Mohammad Sarmad, due coniugi cristiani di Arifwala, cittadina del Punjab accusati, in un primo tempo attraverso una telefonata, di avere profanato il Corano nella scuola superiore femminile dove entrambi lavorano. All’arrivo nella scuola, i poliziotti hanno trovato la coppia, lei inserviente e lui giardiniere, già sottoposta a inchiesta da parte delle autorità scolastiche e circondata da una piccola folla. Secondo una prima ricostruzione, ai due era stato chiesto di ripulire un locale adibito a magazzino e aveva bruciato quanto raccolto, incluse alcune carte. Analfabeti, non sarebbero stati in grado cdi comprendere di che cosa si trattasse, ma per l’accusatore sarebbero state pagine del libro sacro ai musulmani. Da qui l’obbligo per la polizia di accogliere la denuncia in base all’articolo 295-B della legge antiblasfemia e di mettere la coppia sotto custodia nel locale commissariato. Come rilevato da Nasir Saeed, direttore di Claas, organizzazione impegnata nella tutela di cristiani accusati di blasfemia, «è assai triste che due persone analfabete siano accusate di blasfemia. Entrambe stavano soltanto facendo il loro lavoro». L’accusa «dovrebbe essere cancellata – prosegue Saeed – e dovrebbero essere eventualmente puniti per la loro leggerezza coloro che hanno chiesto alla coppia di pulire il magazzino e non ne hanno controllato il lavoro». La vicenda di Musarrat Bibi e di Mohammad Sarmad ricorda quella di un altro cristiano incaricato di bruciare documenti nell’ospedale dove lavorava e accusato da un passante di avere incenerito pagine con scritte in arabo. Di conseguenza la polizia fu obbligata ad aprire un’indagine per blasfemia, un’accusa che – se non immediatamente dichiarata infondata – apre non solo a procedimenti giudiziarie prolungati e dispendiosi con condanne che possono arrivare alla pena capitale, ma anche al rischio di subire con congiunti e avvocati difensori le ritorsioni degli estremisti religiosi. Il caso più doloroso è forse quello di Shama e Shehzad, una coppia di lavoratori-schiavi in una fabbrica di mattoni non distante da Lahore, capoluogo del Punjab. Nonostante la mancanza di prove e che la giovane donna fosse incinta del quinto figlio, i due furono bastonati e gettati in una fornace il 4 novembre 2014 da una folla inferocita».
TURCHIA, MAXI RETATA “ELETTORALE”
In Turchia c’è stata una raffica di arresti «elettorali». Giornalisti, attori, avvocati: 150 in cella accusati di finanziare il Pkk curdo. Mentre il Paese si appresta ad andare al voto tra 20 giorni. Monica Ricci Sargentini per il Corriere.
«Una maxi retata è scattata ieri in Turchia a meno di tre settimane dalle elezioni presidenziali e politiche che vedono per la prima volta in bilico il «regno» ventennale di Recep Tayyip Erdogan. In carcere sono finite almeno 150 persone tra cui avvocati che dovrebbero controllare la sicurezza dei seggi, giornalisti indipendenti che potrebbero denunciare possibili frodi e politici coinvolti nella campagna elettorale ma anche attori, scrittori e politici. Per tutti l’accusa è di finanziare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) o di reclutarne membri. L’operazione è stata condotta in 21 province, tra cui quella di Diyarbakir, a maggioranza curda, nel Sudest del Paese, già duramente colpita dal terremoto. E non è un caso perché saranno proprio i voti dei curdi ad essere l’ago della bilancia il 14 maggio. L’Hdp, il partito filocurdo, è il terzo partito in Parlamento e ha un bacino elettorale che equivale al 10% dei consensi. «Alla vigilia delle elezioni, per paura di perdere il potere, sono ricorsi nuovamente alle operazioni di detenzione ma non vi salverete dalla sconfitta», ha dichiarato su Twitter il vicesegretario generale dell’Hdp Tayip Temel. Sulla stessa linea il cofondatore del partito Selhattin Demirtas che dal carcere, dove è rinchiuso dal 2016, ha twittato: «Süleyman Soylu (il ministro dell’Interno ndr ) ha fatto arrestare più persone di quelle che si presentano ai suoi comizi. Ma nessuno potrà impedire l’arrivo della pace, della prosperità e della democrazia». Sulla formazione filocurda pende la spada di Damocle di un pronunciamento della Corte Costituzionale che potrebbe decretarne lo scioglimento per i presunti legami con il Pkk che però l’Hdp ha sempre negato. Per questo il partito ha deciso di non avere un suo candidato alle presidenziali e di appoggiare dall’esterno Kemal Kiliçdaroglu che corre in nome dell’Alleanza della Nazione, formata da sei partiti tra cui secolaristi del Chp e i nazionalisti di Meral Aksener. I parlamentari dell’Hdp, invece, si presenteranno con il partito della Sinistra Verde. Finora i sondaggi danno Kiliçdaroglu in vantaggio di un paio di punti su Erdogan. Considerato un’organizzazione terroristica da Stati Uniti, Unione europea e Turchia, il Pkk conduce da decenni una lotta armata contro Ankara per una maggiore autonomia della minoranza curda. Più di 40.000 persone sono state uccise nel conflitto. Nel mirino anche il mondo dell’informazione. Mlsa, l’associazione che si occupa di promuovere la libertà di espressione, ha denunciato che tra le persone arrestate ci sono Abdurrahman Gok, direttore della Mesopotamia News Agency , Osman Akin, caporedattore del quotidiano Yeni Yasam , i giornalisti Ahmet Kanbal e Beritan Canozer. «Queste operazioni — ha detto il project coordinator di Mlsa, Muntaz Murat Kok — non solo paralizzano i media indipendenti, ma minano radicalmente anche la sicurezza delle elezioni nella regione». Una condanna netta è arrivata anche dal presidente dell’associazione degli avvocati di Diyarbakir, Nahit Eren, che ha definito l’operazione «un colpo ai diritti e alle libertà fondamentali». «Questi arresti arbitrari sono un chiaro abuso di potere e una tattica intimidatoria prima del voto» è la denuncia di Emma Sinclair-Webb, direttrice di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale».
NIENTE LUNA PER LA SONDA GIAPPONESE
Fallisce l’allunaggio della sonda giapponese. L’annuncio della compagnia privata «ispace». A 10 metri dal suolo la Hakuto-R ha smesso di mandare segnali. Per il Corriere Paolo Virtuani.
«Anche il Giappone non ce l’ha fatta. La sonda nipponica Hakuto-R Mission 1 alle 18.40 di ieri sarebbe dovuta arrivare nel grande cratere Atlas (87 km di diametro e 2 di profondità) nel Mare Frigoris, a nord-est dell’emisfero visibile della Luna, ma mezz’ora dopo di trepida attesa, in una mesta conferenza stampa al centro di controllo di Tokyo, Takeshi Hakamada, capo esecutivo della compagnia ispace ha dovuto ammette che «i contatti sono stati persi a un’altezza di 10 metri dal suolo e a una velocità di 25 km/h. Dobbiamo ritenere che l’atterraggio non è riuscito. Cercheremo di metterci in contatto con la sonda, siamo comunque orgogliosi di quanto raggiunto da Mission 1». Se Hakuto-R fosse riuscita a depositarsi sulla superficie del nostro satellite naturale avrebbe realizzato tre primati: la prima volta sulla Luna di un’impresa privata — ispace nei giorni scorsi ha detto che si quoterà alla Borsa di Tokyo — la prima volta del Giappone e anche degli Emirati Arabi. A bordo del lander alto 2,30 metri e di 340 chili di peso, c’era infatti anche il piccolo rover Rashid costruito negli Emirati per lo studio del plasma lunare e di come diversi materiali interagiscono con le particelle presenti sulla Luna. A bordo c’erano anche sistemi canadesi di intelligenza artificiale e di ripresa delle immagini. L’Agenzia spaziale europea aveva fornito il supporto per le comunicazioni. Hakuto (significa «coniglio bianco» e si riferisce a una leggenda giapponese di un coniglio bianco che vive sulla Luna) era stata lanciata lo scorso 11 dicembre da Cape Canaveral con un razzo Falcon 9 Space X di Elon Musk. Dopo un lunga traiettoria ellittica a bassa energia durata 4 mesi e mezzo che l’ha portata fino a 1,4 milioni di chilometri dalla Terra, era entrata in orbita lunare il 20 marzo. La manovra di discesa, da un’altezza di 100 chilometri, è durata un’ora. Nel 2024 ispace, azienda con solo 200 dipendenti, ha in programma il lancio della seconda missione di Hakuto-R. Finora soltanto Stati Uniti, Russia e Cina sono riusciti a raggiungere la superficie della Luna ed è prossimo il ritorno sulla Luna della Nasa con una missione umana. Nell’aprile 2019 era fallito l’allunaggio di Beresheet, della compagnia israeliana SpaceIL. Pochi mesi dopo a settembre si era schiantata anche la sonda indiana Chandrayaan. Arrivare sulla Luna resta un’impresa complicata».
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