La Versione di Banfi

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«Errore di calcolo»

alessandrobanfi.substack.com

«Errore di calcolo»

Solidarietà del G7 a Zelensky. Ma Joe Biden non lavora per far cadere Putin: "Ha fatto un errore di calcolo". Lavrov apre ad un vertice a due. Meloni alla vigilia delle nuove Camere. Giorgetti al Mef?

Alessandro Banfi
Oct 12, 2022
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«Errore di calcolo»

alessandrobanfi.substack.com

Il G7 offre solidarietà e sostegno a Volodymyr Zelensky, dopo la pioggia di missili russi dell’alba di lunedì. Ma la diplomazia non si ferma e ci sono spiragli per un dialogo diretto Mosca-Washington. Il Presidente ucraino ha preso anche ieri una posizione molto netta. La sua “formula per la pace”, come l'ha definita alla riunione on line dei Sette Grandi di ieri, prevede che la Russia venga «completamente isolata e punita, sia politicamente sia con le sanzioni». Solo così Mosca sarà costretta al negoziato. «Non con Putin, però, con un altro presidente. O in un'altra configurazione che ci possa garantire». Il Presidente Usa Joe Biden, e i Paesi europei, pur non mancando nel sostegno all’Ucraina, non condividono fino in fondo questa posizione. Anzi la Casa Bianca ha fatto capire, nelle ultime ore, che gli americani non stanno affatto lavorando per un cambio di regime nella Federazione russa. Biden stesso, in un’intervista, ha detto che Putin non è un pazzo ma «un soggetto razionale che ha fatto un grave errore di calcolo». Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha aperto ad un possibile confronto diretto, al prossimo G20 di novembre, fra i due Presidenti. Intanto in Italia proseguono i preparativi per la manifestazione pacifista del Movimento Europeo Azione Non violenta, che si terrà domani a Roma all’Ambasciata russa. Ci sarà Enrico Letta, mentre mancherà Giuseppe Conte, che pure aveva cercato di prendere la guida del pacifismo italiano.  

Domani sarà anche il primo giorno per deputati e senatori. Si aprono ufficialmente i giochi della nuova legislatura con l’elezione dei due presidenti di Camera e Senato. Le voci dalle trattative fra gli alleati del destra centro riferiscono di una Forza Italia tutta arroccata su Licia Ronzulli e di un inedito asse Berlusconi-Salvini per contenere la premier in pectore. “Non fate scherzi” avverte Libero, giornale di area. Scrive il Corriere con Paola Di Caro: “Restano solo 24 ore prima del voto per le Camere: arrivarci divisi darebbe un pessimo segnale per il governo che verrà”. Vedremo. Comunque la soluzione del principale problema del nuovo governo, a chi affidare il Ministero dell’Economia e delle Finanze, potrebbe essere clamorosa. Alla scrivania di Quintino Sella si dovrebbe accomodare infatti Giancarlo Giorgetti, leghista di fede draghiana da qualche anno.

Poi ci sono i problemi reali. La questione del gas impegna ancora il dibattito europeo, oggi a Praga c’è la riunione informale dei Ministri dell’Energia dei 27. La Germania sembra stia pensando di uscire dall’isolamento per proporre un’azione comune della Ue. Intanto il Fondo Monetario internazionale prevede proprio per i tedeschi conti in negativo. Secondo l’Fmi anche l’Italia andrà in recessione nel 2023. Sempre su questo tema è previsto per oggi un meeting: ci sarà la riunione dei ministri finanziari del G20, compresi un panel con Kristalina Georgieva, direttore generale del Fondo monetario, e il numero uno della Banca Mondiale David Malpass.

Importante omelia di Papa Francesco ieri in occasione dei 60 anni dal Concilio Vaticano II. Il papa è tornato a condannare la “polarizzazione nella Chiesa”. Ha detto fra l’altro: «Sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo - o l'indietrismo - che rimpiange un mondo passato, non sono prove d'amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all'amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro». Per concludere, rivolgendosi al Signore ha aggiunto: «Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall'artificio diabolico delle polarizzazioni, degli "ismi"».

L’educazione è ancora un grande sfida nel nostro Paese. È nata così l’idea di Riccardo Bonacina e della redazione di Vita.it, di realizzare un nuovo podcast sul tema con Chora media e con la collaborazione della Fondazione Cariplo, che è da sempre impegnata sul fronte del contrasto alla povertà educativa e che dunque ha scelto di sostenere il progetto per valorizzare la figura fondamentale degli insegnanti.  Da oggi è disponibile il secondo episodio del podcast Maestre e maestri d’Italia. Si intitola: LA SCUOLA A CASA. Ed è dedicato ad uno straordinario personaggio della seconda metà del Novecento: il maestro Alberto Manzi, che con la sua celebre trasmissione televisiva, Non è mai troppo tardi, ha strappato all’analfabetismo, calcolano i sociologi, un milione di italiani. La sua vicenda è ricca di spunti e di insegnamenti anche per l’oggi, come dimostra l’esperienza della maestra Alice Mingardi e della sua classe, che ha seguito i corsi allestiti dal Centro Alberto Manzi di Bologna, guidato da Alessandra Falconi. Bellissime anche le testimonianze del figlio Massimo, oggi grafico di successo, e della ex allieva, oggi giornalista scientifica, Elisa Manacorda. Fra due anni si celebrerà il centenario di Alberto Manzi. Cercate questa cover…

… e troverete Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker e ascoltate il secondo episodio. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae padre Paolo Dall’Oglio, il sacerdote gesuita rapito in Siria nel 2013 e di cui non si hanno più notizie. Secondo il Corriere della Sera la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. A gennaio la testimonianza di un sedicente membro dell’Isis aveva rivelato che il sacerdote sarebbe stato ucciso subito dopo la sua scomparsa. Ma mancano i riscontri.

Foto Corriere della Sera

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera sottolinea la solidarietà occidentale verso gli ucraini: Il G7 contro Putin: più armi a Kiev. Avvenire ricorda: Pace unica scelta. La Verità critica le piazze: Pacifisti in guerra con il governo che non c’è. Il Fatto esalta le perplessità di Macron: Parigi: Biden ci strozza. Fmi: Italia in recessione. La Stampa invece dà credito a Lavrov: “Putin pronto a incontrare Biden”. Così come Il Messaggero: Mossa Putin, potrei vedere Biden. Il Manifesto gioca con le parole e teme i pensieri apocalittici di Mosca: Orgoglio e precipizio. Il Giornale è preoccupato delle prime mosse della Meloni: Vietato partire male. Il Quotidiano Nazionale è ottimista: Volata finale: Giorgetti verso l’Economia. Anche al Mattino piace il leghista draghiano: Giorgetti verso il Mef, la Ronzulli è un caso. La Repubblica ironizza sulla trattativa: Salvini-Berlusconi all’asta di governo. Libero dal suo versante conferma e avverte: Lite nel centro destra. Non fate scherzi. Il Sole 24 Ore ricorda la dura verità dei numeri: Fmi: Italia e Germania in recessione. Il Domani rivela: Ecco il patto segreto che autorizza i fondi privati a spolpare Autostrade.

BIDEN: PUTIN HA FATTO UN ERRORE DI CALCOLO

Joe Biden più prudente nei confronti dello Zar dice: «Putin ha sbagliato i calcoli». L'ipotesi dell'incontro a due al prossimo G20 di novembre. Giuseppe Sarcina nel retroscena per il Corriere.

«Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, fa sapere che Vladimir Putin «potrebbe prendere in considerazione» l'idea di un faccia a faccia con Joe Biden, a margine del summit del G20, in programma il 15 e il 16 novembre a Bali, in Indonesia. Lavrov ha aggiunto: «Naturalmente tutto ciò qualora ci venisse inoltrata una proposta». Il tono sussiegoso del ministro ha fatto infuriare i parlamentari del Congresso americano, già sconvolti dai missili lanciati sulle città ucraine in modo indiscriminato. Per tutti valgono le parole di Robert Menendez, democratico, presidente della Commissione Esteri del Senato: «Mi impegno a usare ogni mezzo a mia disposizione per accelerare l'appoggio al popolo ucraino in modo da annientare la macchina da guerra dei russi». A Capitol Hill si avverte uno stato d'animo simile a quello di inizio aprile, quando si scoprirono i massacri di Bucha. Indignazione, rabbia, spinta per una reazione durissima. Joe Biden non può prescindere da questi umori di fondo, diffusi anche nell'opinione pubblica americana. Tuttavia, nei giorni scorsi, il presidente americano «non aveva escluso» un vertice con Putin, definito ieri, in un'intervista alla «Cnn», «un soggetto razionale che ha fatto un grave errore di calcolo». Una posizione, quindi, diversa da quella di Volodymyr Zelensky.
Il leader ucraino continua a ripetere di «non essere disponibile» a trattare con la Russia, fino a che al vertice ci sarà Putin. Ma Biden e, soprattutto gli europei, non vogliono e non possono spingersi fino a tanto. Il governo Usa non sta lavorando per un cambio di regime a Mosca. Non ci sono, però, conferme ufficiali, solo indizi non verificabili di contatti in corso tra le diplomazie americane e russe, con il contributo, questo certo e palese, dell'iperattivo presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

L'Amministrazione Usa ha comunque tracciato il percorso di avvicinamento, da qui alla metà di novembre. Ieri Biden ha chiesto ai partner del G7, convocati d'urgenza dal presidente di turno, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, di «continuare a sostenere con decisione la resistenza ucraina, fino a quando sarà necessario». Parole poi riprese, praticamente alla lettera, nel comunicato finale. È l'ennesima dimostrazione che, come accade dall'inizio della guerra, la leadership americana è fuori discussione. Nessun cedimento, dunque, al ricatto putiniano. Al contrario: gli Usa e il blocco occidentale rilanciano. Oggi e domani, a Bruxelles, il segretario alla Difesa Lloyd Austin e il capo di Stato maggiore Mark Milley guideranno la riunione con i ministri della difesa Nato e poi con il gruppo dei 50 Paesi che forniscono armi a Kiev. Sul tavolo le ultime richieste di Zelensky: servono con urgenza sistemi di difesa area, in sostanza batteria di missili come i Patriot, carri armati e artiglieria con una gittata fino a 300 chilometri. Lunedì 10 ottobre, Biden ha chiamato il leader ucraino e gli ha assicurato che avrà i sistemi di difesa area. La questione, ora, è quando. Il Pentagono, per esempio, accelererà la consegna di due sistemi Nasams (National Advanced Surface to Air Missile System), missili terra-aria. Il pacchetto ne prevede altri sei, ma le aziende costruttrici, l'americana Raytheon e la norvegese Kongsberg hanno fatto sapere che saranno pronte «tra anni». È un problema più generale, basta dare un'occhiata ai dati raccolti dal Kiel Institute for the World Economy (Germania): gli Stati Uniti hanno promesso aiuti militari per 15,21 miliardi; ma, al 3 ottobre scorso, risultava giunto a destinazione solo il 16,7% (2,55 miliardi di dollari). Anche di questo si discuterà oggi sia in sede Nato che nel gruppo di contatto: è indispensabile velocizzare il più possibile la consegne, anche per mandare un segnale non solo militare, ma anche politico a Putin. La guerra va avanti, in attesa di capire se le mezze aperture del Cremlino siano credibili, oppure, come dice Zelensky, rappresentino solo delle manovre fuorvianti. Nello stesso tempo, sempre nel vertice Nato, Stati Uniti, con la sponda di Polonia e dei Paesi baltici, solleciteranno gli altri partner a potenziare ulteriormente il fianco Est europeo. Lo ha anticipato ieri l'ambasciatrice americana presso l'Alleanza atlantica, Julianne Smith: «Dobbiamo continuare a rafforzare il presidio di deterrenza sul versante orientale e arrivare a una maggiora capacità di integrazione tra le nostre forze».

ZELENSKY AL MONDO: O ME O LO ZAR

Il presidente dell’Ucraina appare ossessionato dalla riconquista di tutti i territori perduti. E avverte gli alleati, che vorrebbero un negoziato: "Io con Putin non tratto". Ma rischia di rimanere isolato. Fabio Tonacci per Repubblica.

«O lui, o Putin. Ogni discorso di Volodymyr Zelensky sulla guerra, ogni mossa strategica, germina da questa granitica dicotomia, condivisa da tutti gli uomini del presidente ucraino. Non c'è soluzione alternativa alla vittoria o alla sconfitta, non c'è negoziato possibile. «Non si può dialogare con l'attuale capo del Cremlino, non ha futuro», ribadisce ancora ieri durante la riunione di emergenza del G7, appena da Mosca fanno sapere di essere disponibili a un incontro Putin-Biden. È, attualmente, il suo timore più grande: essere scavalcato o abbandonato dall'Occidente, quindi ritrovarsi nelle condizione di non poter controllare più il destino della sua nazione. «Se cercate nel suo inner circle falchi e colombe, sbagliate approccio », avverte il giornalista Sergii Rudenko, uno che Zelensky lo conosce bene avendone scritto una fortunata biografia. «Mettiamola così: tutti gli ucraini oggi sono falchi, perché ci stanno uccidendo. Non abbiamo altra scelta che combattere. Bene fa il presidente a non accettare neanche l'idea di una trattativa, l'Ucraina è con lui». È vero. Il consenso di Zelensky nel Paese è altissimo, pubblicamente nessuno critica le sue scelte. Che lui, dall'inizio del conflitto, prende confrontandosi con le cinque persone a lui più fedeli: Reznikov, il ministro della Difesa; Yermak, il capo dell'Ufficio del presidente; Zaluzhny, il comandante in capo delle forze armate; Kuleba, il ministro degli Esteri; Budanov, il capo dell'intelligence militare. Persino lo storico nemico politico, Petro Poroshenko, sconfitto alle presidenziali del 2019, è un'entusiasta sostenitore della linea più dura, quella del «ci riprenderemo anche la Crimea, costi quel che costi». Nelle stanze di Palazzo Mariinskij, a Kiev, il discorso finisce spesso sulla minaccia russa di utilizzare l'arma nucleare tattica. «Non faccio dichiarazioni sull'atomica», ha detto Zelensky nell'ultima intervista rilasciata alla Bbc. «Se affermo che Putin non è in grado di usarla, lo provoco. Se prevedo che la userà, creo il panico a livello internazionale e in Ucraina ». Da quanto si riesce a carpire parlando con fonti a lui vicine, però, l'impressione è che il presidente dia ormai per certo di vedere il fungo atomico sul suolo ucraino. Che non sia una questione di se, ma di quando. La Crimea è la linea rossa da cui Putin non vorrà retrocedere: se la controffensiva riuscirà ad arrivare sin lì, il governo ucraino si aspetta la reazione più grave ed è convinto di reggerla e procedere con la riconquista del proprio territorio. «Sopporteremo anche questo, stoicamente», sostiene Rudenko, il biografo del presidente. «Abbiamo già passato tutti gli stati di paura». Zelensky ha ripreso a parlare con insistenza della Crimea, annessa dalla Russia nel 2014 ma parte dei confini ucraini riconosciuti internazionalmente sin dall'indipendenza del 1991, quando sul terreno le sue forze armate hanno cominciato a spingere con successo verso Est e verso Sud. È diventata il chiodo fisso dopo i referendum farsa nelle quattro regioni di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk. Nell'intervista alla Bbc, però, ha fatto un ragionamento articolato, distinguendo due fasi. «Nella prima - ha detto - l'obiettivo è quello di ritornare allo status quo del 24 febbraio. È importante liberare le nostre genti che soffrono nelle terre occupate. Il piano principale, comunque, è riprenderci i confini del 1991, quindi il Donbass e la Crimea: è giusto così». Tra la prima e la seconda fase, secondo alcuni analisti, potrebbe aprirsi lo spiraglio di una tregua che, per adesso, non si intravede. Ciò che Zelensky chiede è che l'Occidente, inteso come Stati Uniti ed Europa, continui a sostenerlo. Sempre di più. «Se avremo abbastanza armi, vinceremo. Quelle ricevute finora ci hanno consentito di recuperare terreno, ce ne servono altre e anche nuovi sistemi per creare uno scudo antiaereo». La sua "formula per la pace", come l'ha definita al G7, prevede che la Russia venga «completamente isolata e punita, sia politicamente sia con le sanzioni». Solo così il Cremlino, secondo lui, sarà costretto a negoziare. «Non con Putin, però, con un altro presidente. O in un'altra configurazione che ci possa garantire». Sempre che Zelensky non venga scavalcato. «Il timore che l'Occidente smetta di sostenerlo o che Biden si possa accordare con Putin è presente in lui», spiega Gennady Maksak, direttore del think tank Prizm basato a Kiev e a Bruxelles. «Sa che a Washington ci sono falchi e colombe, come il consigliere per la sicurezza Jake Sullivan. Tuttavia, credo che sia più focalizzato su alcuni Paesi dell'Ue, come l'Ungheria e Cipro, che possono rompere il sostegno unanime». Come finirà la guerra?, è stato chiesto di recente a Zelensky. «Con la nostra vittoria. Cosa potrà succederà dopo a Putin non mi interessa per niente».

MOSCA APRE AL DIALOGO CON BIDEN

È giallo sulla mediazione del miliardario americano Elon Musk. Il ministro degli esteri russo Lavrov prima apre, poi la smentita. L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa.

«Riconoscere i territori ucraini invasi da Mosca come russi, lasciare alla Russia la Crimea e il Donbass e trasformare l'Ucraina in un Paese neutrale: queste sono le condizioni della "pace" che Vladimir Putin vorrebbe proporre al mondo. Secondo il politologo americano Ian Bremmer, il presidente russo avrebbe esposto le sue richieste a Elon Musk, promettendo anche il ricorso alla bomba atomica nel caso l'Ucraina decidesse di riprendersi la Crimea con strumenti militari. Il magnate di Space X ha subito smentito di aver negoziato con il capo del Cremlino prima di aver lanciato, qualche giorno fa, i suoi controversi tweet che proponevano di cedere a Putin territori ucraini, e la Casa Bianca ha subito ricordato che in ogni caso Musk «non rappresenta il governo degli Stati Uniti». Nonostante la smentita, l'offerta che Putin avrebbe fatto a Musk corrisponde più o meno al contenuto dei messaggi inviati da Mosca in altre direzioni: il Cremlino sta cercando un negoziato, ma pone come condizioni imprescindibili di uscirne con nuove annessioni territoriali. Politologi ed esperti vicini al governo russo stanno scommettendo sul summit del G20 che si terrà tra un mese in Indonesia, e ieri il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov non ha escluso che potrebbe essere l'occasione di un possibile incontro tra Joe Biden e Vladimir Putin: «Se ci arriva la richiesta di un vertice, la prenderemo in esame». Non esattamente le parole giuste per descrivere un'apertura diplomatica, ma intanto un altro personaggio che parla spesso a nome della Russia, il premier ungherese Viktor Orban, auspica «un accordo tra americani e russi», riproponendo la vecchia idea di Mosca che l'Ucraina sia soltanto una "marionetta di Washington", invadendo la quale Putin avrebbe lanciato una sfida alla leadership statunitense. I segnali sono molteplici, e il primo a lanciare una offerta di negoziato è stato lo stesso presidente russo, alla cerimonia della "annessione" delle regioni di Kherson, Donetsk, Luhansk e Zapirizzhia, dieci giorni fa: si è dichiarato pronto a discutere, a condizione che i territori occupati dalla Russia rimangano "fuori dalla trattativa". Che il Cremlino vorrebbe mandare avanti con l'aiuto di Recep Tayyip Erdogan, con il quale Putin si incontrerà nelle prossime ore al vertice asiatico ad Astana. Il presidente turco ha parlato di "scogli e trappole" sulla strada del cessate il fuoco, e ieri una telefonata tra i ministri della Difesa di Mosca e di Ankara ha confermato che una trattativa è in corso. Nonostante il suo esercito stia perdendo terreno, Putin vuole fissare delle conquiste territoriali che gli permettano di presentare una guerra fallimentare come una vittoria. Il nuovo comandante delle operazioni russe Sergey Surovikin - al quale Putin ieri ha fatto personalmente gli auguri di compleanno - ha intensificato gli attacchi dall'aria anche per mancanza di risorse sulla terra. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha dichiarato che la Russia usa gli attacchi dall'aria come "segno di debolezza" dopo aver subito batoste in terra, facendo infuriare Dmitry Medvedev che gli ha dato del «parvenue con cervello rammollito». Dal vocabolario dell'ex presidente russo però sono sparite ieri le minaccie nucleari: forse un altro segno di "distensione", dopo che Stoltenberg ha riconosciuto che non ci sono segni dei preparativi russi a un attacco, promettendo comunque esercitazioni della Nato di "deterrenza atomica". La pioggia di missili sulle città ucraine viene considerata a Mosca come una "costrizione alla pace", espressione usata da molti propagandisti russi. Surovikin usa tecniche collaudate da lui sul teatro di guerra siriano, e anche ieri nei talk show televisivi russi gli ospiti hanno esultato per i bombardamenti delle infrastrutture civili e chiesto di ripeterli «tutti i giorni», lasciando gli ucraini «al freddo e al buio» per costringerli alla resa. Creare la percezione di una "grande potenza" aggressiva potrebbe aiutare le autorità russe a far dimenticare l'impatto delle ritirate sotto i colpi degli ucraini a Kharkiv e Kherson, e distrarre l'opinione pubblica dalla chiamata alle armi. Che intanto prosegue: ieri i governatori di Kursk e Rostov-sul-Don hanno annunciato la "seconda ondata" della mobilitazione, mentre proseguono le coscrizioni indiscriminate e le autorità della Crimea hanno proposto di vietare l'espatrio per i maschi sotto i 60 anni, per fermare la fuga dei russi all'estero».

I RUSSI TAGLIANO L’ELETTRICITÀ

L’offensiva dell’esercito russo ora si è concentrata su Bakhmut. Il punto militare di Andrea Margelletti per La Stampa.

«Proseguono, per il secondo giorno consecutivo, gli strike missilistici russi sulle infrastrutture critiche e le installazioni elettriche in gran parte del territorio dell'Ucraina. In particolare, tra le città oggetto di attacchi ci sono la capitale Kiev, Leopoli, Zaporizhzhia e Odessa. Droni kamikaze Shahed-136, di fabbricazione iraniana, hanno colpito, nuovamente, la centrale elettrica di Ladyzhyn, nell'Oblast occidentale di Vinnycja, al confine con la Moldavia. A seguito degli attacchi delle ultime 48 ore si registrano blackout e interruzioni alle forniture idriche in diverse regioni del Paese. Non si arresta, intanto, l'offensiva di terra delle forze di Mosca in direzione della città di Bakhmut, nell'Oblast di Donetsk, per il controllo della quale si combatte dalla scorsa estate. Nelle ultime ore, si sono intensificati gli assalti delle forze filorusse presenti nell'area contro le linee di difesa ucraine. In particolare, gli attacchi russi si concentrano nella periferia Sudovest della città dove, nelle scorse ore, le forze di Mosca hanno occupato il centro di Zaitseve. Particolarmente fluida appare la situazione nel Nordest del Paese, nei pressi dei centri di Svatove e Kreminna. In quest' area, mentre gli ucraini hanno rallentato le operazioni, verosimilmente, per facilitare l'accumulo di materiali e mezzi a Est dell'Oskil, i russi sembrerebbero intenzionati a riorganizzarsi per provare un contrattacco in direzione di Torske, situata circa 15 chilometri a est di Lyman. Prosegue la spinta delle forze di Kiev lungo il fronte meridionale del conflitto. In particolare, supportate da intenso fuoco di artiglieria, le truppe ucraine provano ad avanzare in direzione dei centri di Bruskynske e Sadok, nell'Oblast di Kherson. Al momento, le direttrici dell'attacco sono due e muovono, in direzione Sudovest, dai territori riconquistati di Davydiv Brid e Nova Kamyanka. Nelle ultime ore, le forze ucraine avrebbero anche attaccato una base militare russa nella città di Melitopol, snodo fondamentale per il rifornimento delle truppe dispiegate nel fronte Sud».

ANCHE LEOPOLI È SENZA LUCE

Dal terreno bellico: la strategia dei black out e i raid dei russi vicino alla Polonia. La cronaca del Corriere.

«All'indomani della pioggia di bombe che ha messo in ginocchio le reti energetiche ucraine e che ha provocato 19 vittime accertate e più di cento feriti, i raid di Mosca sono tornati a prendere di mira le infrastrutture civili strategiche. Ieri gli attacchi hanno colpito diversi oblast ucraini dell'ovest, vicino al confine con la Polonia. Senza elettricità è rimasta a lungo Leopoli, dopo «un raid a strutture energetiche» che ha lasciato un terzo della città senza luce né acqua. Andriy Sadovyi, il sindaco della città, ha chiesto ai residenti di fare scorta di acqua in vista di possibili interruzioni delle forniture, messe a rischio dai raid. «Ognuno è pregato di fare una piccola scorta d'acqua», ha scritto su Twitter Sadovyi. Il governatore della regione, Maxim Kozitski invece ha confermato su Telegram come ieri ci siano state almeno tre esplosioni, contro due impianti e ha chiesto ai residenti di adottare misure per risparmiare energia elettrica dopo che il 30 per cento della città di Leopoli era rimasto senza elettricità. Dopo mesi di relativa calma, dunque anche l'ovest del Paese torna sotto attacco mentre sale la tensione a livello diplomatico. La stessa regione che nei primi giorni dell'invasione era stata interessata dall'ondata di rifugiati in fuga verso l'Europa, ora vive una nuova emergenza. «Ormai l'intento di Vladimir Putin è chiaro: mettere in ginocchio il Paese dal punto di vista energetico prima dell'inverno ma anche bloccare - o quantomeno rallentare - l'arrivo degli aiuti militari che dalla Polonia transitano verso l'Ucraina. Un duplice obiettivo che rischia di compromettere tutta la catena di rifornimento», commentano gli analisti».

DOMANI IN PIAZZA PER LA PACE DAVANTI ALL’AMBASCIATA RUSSA

Domani previsto un sit-in del Movimento europeo di azione non violenta, il Mean, davanti all'Ambasciata russa: si chiede subito il cessate il fuoco. La Rete pace e disarmo annuncia una manifestazione nazionale a Roma, apolitica e senza bandiere, per la metà di novembre. Per Avvenire Daniela Fassini.

«In piazza per la pace, senza bandiere di partito e in modo del tutto apolitico: la società civile alza la voce e lo farà senza se e senza ma a Roma, a metà novembre. La grande manifestazione promossa dalla coalizione Europe for Peace e organizzata da Rete italiana Pace e disarmo assieme a molte altre realtà. fra cui Arci e Acli per chiedere che l'Italia si faccia promotrice di una conferenza internazionale di pace dovrebbe così svolgersi presumibilmente tra sabato 12 novembre e sabato 19 novembre. Potrebbe anche tenersi la domenica, subito dopo l'Angelus del Papa. Perchè quella di Francesco «è una delle poche voci che si erge, al momento, a favore della pace» spiega il presidente delle Acli, Emiliano Manfredonia. Almeno è questo l'orientamento emerso dagli incontri che si stanno svolgendo tra i rappresentanti del mondo dell'associazionismo in queste ore. Una cosa però è certa e su di essa tutti concordano: non ci sarà nessun "grande capo", non ci saranno bandiere, non ci saranno slogan politici. Nessuno metterà il proprio cappello sulla grande onda non violenta dei pacifisti "civili". «Le Acli hanno fin da subito condannato il vile attacco della Russia all'Ucraina e si sono adoperate per assistere la popolazione ucraina. Per questo è davvero avvilente sentire ancora, da parte di alcuni opinionisti, l'equazione "pacifisti uguale putiniani" - ha sottolineato ancora Manfredonia -. Noi siamo per la pace, sempre, perché non abbiamo un'altra opzione: o c'è la guerra, che può significare anche conflitto nucleare e conflitto mondiale, oppure c'è la pace». «Nei prossimi giorni - ha detto il presidente delle Acli - parteciperemo alle manifestazioni della Rete per la Pace e il Disarmo, tra il 21 e il 23 ottobre, in diverse città italiane e poi stiamo organizzando, con tante altre associazioni, una grande manifestazione nazionale che si terrà verso metà novembre e sarà aperta a tutti e senza alcuna bandiera politica, per gridare ancora più forte che noi vogliamo la pace». La città deputata ad ospitare il corteo è quindi Roma. Per essere vicini anche alla Santa Sede. La manifestazione però, ripetono come un mantra, dovrà essere assolutamente «apolitica e senza bandiere di partito». «La macchina organizzativa è in moto e i prossimi giorni saranno risolutivi sia per definire la data, sia per avere una piattaforma comune - ha dichiarato Daniele Lorenzi, presidente nazionale Arci -. Una cosa è certa: sarà un grande appuntamento collettivo, senza protagonismi né strumentalizzazioni di sorta. Saremo, insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo, in tante piazze italiane già nel fine settimana del 21-23 ottobre: una mobilitazione propedeutica alla grande manifestazione nazionale, per riaprire la via della pace e della diplomazia». E così col passare delle ore, crescono anche le prime adesioni. Padre Enzo Fortunato, già direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi, ha già confermato che ci sarà. Sarà anche lui nella piazza delle associazioni, dei sindacati e dei movimenti. «Sarò in piazza. E andrò ovunque ci sia un grido per la pace - ha detto -. È necessario uno scatto di unità e di orgoglio», osserva il frate francescano che a Pasqua andò a Kiev per portare aiuti agli ucraini. Padre Enzo va al di là delle bandiere politiche o di chi vuole mettere il "cappello" sulla manifestazione che ha al centro la pace. «Il Papa è stato chiarissimo - aggiunge -. Ha detto più volte che siamo in pericolo, che il mondo è in pericolo. Anche attraverso l'appello all'Angelus così accorato e senza precedenti. Io personalmente sarò ovunque ci sarà un grido di pace» ripete. Intanto c'è chi ha deciso di scendere in piazza con un sit-in davanti all'ambasciata russa. Per chiedere il "cessate il fuoco" e il "ritiro immediato delle truppe russe dal territorio ucraino". A guidare la protesta, la rete del progetto Mean, il Movimento europeo di azione non violenta. «Abbiamo deciso di non attendere più, di scendere in piazza, di andare a manifestare il nostro dissenso davanti alla ambasciata russa a Roma, domani 13 ottobre alle 18.30 - spiega il portavoce del Movimento Angelo Moretti -. Sarà un sit-in all'insegna della non violenza attiva».

ANCHE LA PACE DIVIDE CONTE DA LETTA

Il capo dei 5 Stelle non andrà domani in piazza col Movimento non violento. Il tema delle armi a sostegno di Kiev divide il fronte del centrosinistra: Letta invece sarà al sit-in sotto l'Ambasciata russa. Carlo Bertini per La Stampa.

«Sulla carta il Pd è compatto e si batte per la pace. Sulla carta. Le cose sono più complicate. C'è chi si spenderebbe per il disarmo e chi si spende per il sostegno all'Ucraina, anche con le armi, questo è il punto. La sinistra dem non gradisce ma si adegua all'iniziativa pro-Ucraina di Enrico Letta, di un sit-in domani davanti l'ambasciata russa per il cessate il fuoco immediato. Un sit in che fa il paio con quello del 24 febbraio e che serve a ribadire la posizione anti-Putin del Pd lettiano. Giuseppe Conte non si adegua: «Io non andrò perché è una manifestazione del Pd e ce ne è una nazionale senza cappelli», dice riferendosi alla piazza per la pace e il disarmo organizzata da Arci e Acli il 5 novembre. Piazze contrapposte dunque, quella di Letta e quella di Conte. Con i due leader assenti incrociati.
«Non andremo sotto l'ambasciata russa - annuncia Carlo Calenda - organizzeremo una grande manifestazione a Milano se Conte porterà in piazza quelli a favore della resa dell'Ucraina». E così, oltre ad ampliarsi il solco tra Pd e M5s, i dem si sfilacciano sull'Ucraina, con il blocco centrale del partito allineato a Letta
. E con la sinistra che aderisce al sit-in senza troppa convinzione: con scarse partecipazioni sul campo, se si eccettua quella di Matteo Orfini, convinto che «il popolo ucraino ha diritto a difendersi». «Noi aderiamo a tutte le iniziative di pace se indicano le colpe di Putin», chiarisce Letta, facendo capire che la piattaforma della piazza di novembre all'insegna del né con la Russia, né con l'Ucraina, è ambigua. «La storia è cambiata con la resistenza di Kiev e l'unità Ue, bisogna battersi per una pace giusta». La pensa così il candidato in pectore a succedergli, Stefano Bonaccini (che rinvia l'annuncio della sua candidatura più avanti): «Giusto partecipare al sit-in: dobbiamo augurarci che cessi il fuoco e anche distinguere nettamente le responsabilità». Come sull'invio di altre armi all'Ucraina, su cui i dem voteranno in Parlamento ma con opposti gradi di convinzione, anche sul sit-in c'è lo stesso problema. Ci andrà Laura Boldrini, che sarà pure con i pacifisti il 5 novembre. Filippo Sensi, che non sarà in piazza con i pacifisti dice «bene il sit-in ma non si può inseguire Conte». «Noi andiamo ovunque si chieda la pace», premette il ministro Roberto Speranza. Ma lo stesso leader di Articolo 1 non andrà al sit-in, impegnato in un convegno per la salute mentale. Non ci sarà Andrea Orlando perché a Praga (altrimenti sarebbe andato) e neanche Peppe Provenzano, che nega però una divisione del Pd. Il motivo dello scarso appeal della sinistra per il sit-in anti-russo lo spiega Arturo Scotto, neoeletto nelle liste dem e progressisti: «La piattaforma è ambivalente: se scrivi che vanno riconosciuti i confini dell'Ucraina antecedenti al 2014, quindi Crimea compresa, significa che non vuoi la pace, ma la resa di Putin: non lavori per fermare la guerra. La sinistra non deve piantare bandierine ma ricucire con il grande mondo pacifista».

PARLARE DI ARMAGEDDON SDOGANA L’ATOMICA

Commento critico di Barbara Spinelli sul Fatto nei confronti del presidente Usa Joe Biden: “È come se l'escalation e la banalizzazione dell'atomica fossero un'esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki”.

«Circolano molte formule sconsiderate sul conflitto in Ucraina, da qualche tempo. "Siamo già nella terza guerra mondiale", annuncia qualche commentatore con aria compiaciuta più che inquieta. "L'Armageddon è possibile", constata Biden, per poi ravvedersi e domandarsi spaventato quale possa essere la "rampa d'uscita" che "permetta a Putin di non perdere né la faccia né il potere". Altro mantra tutt' altro che rincuorante, specie per noi europei: "L'uso delle armi tattiche nel teatro di battaglia è un opzione non paragonabile all'uso di quelle strategiche, devastante per il pianeta". Il 23 agosto scorso Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse "pronta a impiegare" le atomiche tattiche in difesa di Kiev ("con occhi smorti e un'espressione priva di emozioni", osservò il Guardian), ben prima che Mosca accennasse alle proprie armi non convenzionali. Minimizzazione dei danni già inferti dalla guerra; banalizzazione dell'atomica; perdita di memoria sull'uso che Washington già ne ha fatto, in Giappone nel '45: questi gli elementi dominanti nel discorso pubblico, diviso fra oltranzisti e spaventati a Washington come a Mosca e Kiev. L'ultima parola è spettata a Zelensky: il 4 ottobre -due giorni dopo l'appello del Papa a negoziare subito- ha vietato per decreto di trattare con Putin. Bergoglio "foraggia i nostri sensi di colpa" perché "poco occidentale", scrive il direttore del Foglio. Si scivolò barcollando come sonnambuli nell'inedito assoluto che fu la guerra del '14-'18, scrive lo storico Christopher Clark. E così oggi, ma con qualche variante: stavolta è in gioco il pianeta, che già sta messo male per i danni crescenti che gli stiamo infliggendo, grazie al revival del combustibile fossile, del carbone, all'acquisto di gas naturale liquefatto Usa (detto anche "killer del clima") e al moltiplicarsi di centrali nucleari che i nostri governi s' ostinano a definire innocue (innocue come Three Mile Island, Cernobyl, Fukushima, ecc.).
Altra variante rispetto al 1914: oggi sembra esserci del metodo nel barcollare sonnambolico. È come se l'escalation e la banalizzazione dell'atomica fossero un'esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki, usate non già per vincere il Giappone - era già sconfitto - ma per "testare" la bomba sulle popolazioni civili. Infatti da giorni si parla di test nucleari, quasi fossero un rischio da calcolare. La sperimentazione concepita dai sonnambuli potrebbe avere tre obiettivi. Primo: si tratterebbe di separare meglio le atomiche tattiche (impiegabili nel campo di battaglia) e strategiche (missili con bersagli a lunga distanza). Il campo di battaglia è chiaro: è l'Ucraina dunque l'Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato su questo giornale come le odierne armi tattiche siano in grado di distruggere un'area che comprende 10 città (sono ben più potenti della bomba di Hiroshima, di 15 kilotoni. Quelle moderne oscillano fra 0,3 e 170 kilotoni). Chi dice ancora che i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o dorme in piedi o mente sapendo di mentire. In secondo luogo si tratta di mettere in questione il tabù che fonda la deterrenza. In teoria il ricorso all'atomica è impossibile: chi volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che verrà a sua volta annientato da eguale e quasi simultanea potenza. Il paradosso della deterrenza (il catch-22 dell'atomica) consiste tuttavia nel fatto che la tua capacità di attacco deve essere "credibile": la bomba è al tempo stesso usabile e non usabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché l'atomica tattica usata nel teatro di battaglia è banalizzata, non prefigurando ancora l'Armageddon. La dottrina che vieta il primo colpo fa acqua da tempo, sia a Washington sia a Mosca. Il terzo test concerne le medie potenze che divenute nucleari si trasformano in "santuari", cioè inviolabili, grazie alla deterrenza. L'obiettivo è l'indebolimento selettivo del concetto di santuario. Stati come la Corea del Nord o l'Iran (insidiati sia dagli Usa sia dall'atomica israeliana) si sentono talmente minacciati dalle guerre tendenti a cambi di regime che finiscono col desiderare una sola cosa: divenire santuari. Il test metterebbe in questione tale desiderio. Difficile avviare un negoziato di pace senza capire che nell'era nucleare è improponibile il paragone con la guerra totale contro Hitler. La linea oltranzista in Usa, Russia, Ucraina, Europa non tiene conto che l'atomica cambia tutto: non si può tirare la corda a meno di non volere il suicidio parziale e/o totale. Bisogna trattare proprio ora che infuriano i bombardamenti se non si vuole l'Armageddon, come chiesto dal Papa, da politici e movimenti che indicono manifestazioni per la pace e da gran parte dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia. Per ottenere almeno una tregua non si potrà evitare di riesaminare le radici della rottura russa con l'Europa (probabile scopo degli Usa), e riconoscere gli errori occidentali senza nulla togliere alle massime colpe del Cremlino. Bisognerà bandire le guerre di regime change, perché è ormai accertato che i regimi destabilizzati faranno di tutto per dotarsi dell'atomica e divenire santuari. Non si può continuare a ignorare che se la Russia ha invaso l'Ucraina (e prima la Georgia) è anche perché Nato e Usa "abbaiano" da anni alle sue porte, avendo esteso l'Alleanza a Est e violato le promesse fatte a Gorbachev nel '91. Soprattutto, occorrerà dire a Zelensky che abbiamo voce in capitolo visto che riempiamo l'Ucraina di armi e di miliardi, e indicargli i limiti da non oltrepassare o già oltrepassati (uccisione della figlia di Dugin, distruzione del ponte verso la Crimea). Ha oltrepassato la linea rossa anche il 6 ottobre, quando ha auspicato "attacchi preventivi della Nato (preventive strikes) per vanificare qualsiasi ricorso russo alle atomiche". Purtroppo la Nato e Washington si fingono ciechi, tanto da prospettare l'installazione in Polonia delle basi nucleari chieste da Varsavia, ai confini con Bielorussia e l'enclave russa di Kaliningrad, sul modello della "condivisione nucleare" instaurata nella guerra fredda con 5 paesi europei tra cui l'Italia. Né sembrano aver appreso molto della crisi di Cuba del '62. Allora il negoziato fra Kennedy e Kruscev durò appena 35 giorni, e si concluse con lo smantellamento dei missili sovietici a Cuba e di basi Usa in Turchia, e la creazione di un canale di comunicazione permanente Usa-Urss (la hotline o Telefono Rosso). Oggi si va al rilento e la hotline è accesa ma non sempre. Si grida imbambolati "Non ci faremo intimidire!", come se lo spavento davanti al rischio atomico non fosse, oggi, la sola rampa d'uscita chiaroveggente».

GAS 1. DRAGHI AL G7 CHIEDE IL TETTO

Il premier Mario Draghi interviene al G7 in collegamento da Roma: "I prezzi dell'energia sono ancora troppo alti". Il pressing sugli alleati europei per sostenere la proposta di un price cap sul gas. Alessandro Barbera per La Stampa.

«Obiettivo numero uno: isolare lo Zar con ogni mezzo. La videoconferenza convocata in tutta fretta dalla presidenza tedesca del G7 per affrontare l'ultima offensiva russa in Ucraina ha confermato la necessità dell'Occidente di mostrarsi compatto. Gli otto (c'era anche Volodymyr Zelensky) hanno parlato anzitutto di come limitare i profitti grazie ai quali Mosca finanzia la guerra. Ieri mattina, prima della riunione, Mario Draghi ha chiesto a tutti di sostenere la proposta di un tetto al prezzo del gas. Volodymyr Zelensky lo ha scritto in un messaggio su Telegram: «Bisogna azzerare i profitti dello Stato terrorista». Emmanel Macron lo ha detto durante la riunione: «In Europa abbiamo migliorato la capacità di approvvigionamento, ma resta il tema dei costi dell'energia». Stessa cosa hanno fatto il premier giapponese Fumio Kishida e Olaf Scholz, sul tema fin qui oscillante. Joe Biden ha confermato il giudizio durissimo contro la decisione dell'Opec di tagliare le forniture di petrolio, un assist alla strategia russa di destabilizzazione dell'Europa. «I prezzi dell'energia sono ancora troppo alti, è un problema che dobbiamo affrontare uniti», ha detto Draghi collegato dalla sala schermata di Palazzo Chigi. «I bombardamenti russi devono rafforzare il nostro sostegno a Kiev». La tenuta delle democrazie contro la minaccia russa dipende ora da due appuntamenti. Il primo: il vertice dei Ventisette il 20 e 21 ottobre a Bruxelles. Gli sherpa lavorano a tempo pieno al compromesso per porre un limite al prezzo del metano importato da Mosca. Il secondo: il vertice del G20 di novembre a Bali. I sette hanno concordato una strategia di accerchiamento verso gli antichi alleati di Mosca: Cina, India e Indonesia. Al primo dei due incontri - quello di Bruxelles - la battaglia la farà ancora Draghi. Bali sarà invece uno dei primi (se non il primo) viaggio all'estero di Giorgia Meloni. E questa per Draghi è stata la parte più difficile del discorso: «Come sapete nel giro di pochi giorni lascerò il testimone a un nuovo governo. Sono sicuro che la linea di politica estera fin qui tenuta sarà confermata». Più che una certezza quello di Draghi è stato un auspicio. Già oggi il premier riporterà alla Meloni il contenuto più riservato della riunione. Starà a lei decidere se - come annunciato dai tedeschi - rafforzare ulteriormente le dotazioni militari per l'esercito ucraino. E starà a lei decidere quanto mettere a disposizione alla prossima conferenza di Berlino sulla ricostruzione. Fra gli alleati la preoccupazione per le ambiguità di Salvini e Berlusconi verso lo Zar è forte. Starà a lei rassicurarli».

GAS 2. SCHOLZ NELL’ANGOLO, GRETA PER IL NUCLEARE

Il Cancelliere tedesco Olaf Scholz vuole un patto Ue-Asia sul gas, mentre Greta Thunberg si schiera: "Non spegnere il nucleare". Tonia Mastrobuoni da Berlino per Repubblica.

«Sul tetto al prezzo del gas la Germania resta sulla sua posizione, ed è sempre più isolata. Anzi, da qualche giorno alla cancelleria si cerca di elaborare un'alternativa al price cap che ottenga lo stesso risultato: quello di abbassare i prezzi delle bollette che stanno attanagliando famiglie e aziende in tutta Europa. Ieri, al G7 virtuale, Scholz si è sentito persino rimproverato dal presidente ucraino Zelensky. Che ha chiesto agli europei di «mostrarsi uniti» sul tetto al prezzo del gas. Un messaggio con un solo destinatario: Berlino. Ma nella testa di Scholz il freno ai rincari può avvenire solo con un "cartello dei compratori", facendo convergere l'Europa con altri Paesi energivori come il Giappone o la Corea del Sud per strappare prezzi migliori ai Paesi fornitori. A Berlino restano convinti, come Scholz ha sottolineato prima del G7, che «non sarà possibile un'azione unilaterale della Germania o dell'intera Ue» per frenare i prezzi. Berlino continua, insomma, a respingere l'idea di un price cap. E pensa che la forza di un "acquirente unico", un po' come avvenuto con i vaccini anti- Covid, possa bastare per contrattare prezzi meno folli di quelli attuali. Quanto al "Recovery sull'energia", a un nuovo piano di debiti europei per affrontare la crisi, Scholz prende tempo. Ieri ha suggerito l'ovvio: che una parte dei soldi del vecchio Recovery vengano dirottati sull'emergenza. Ma mentre fonti governative raccontano di un cancelliere «non contrario» all'ipotesi di un nuovo piano ad hoc, è anche vero che il ministro delle Finanze, Christian Lindner, dopo la batosta della Fdp in Bassa Sassonia, potrebbe essere più riluttante a sottoscrivere nuovi debiti europei. Intanto sull'incandescente fronte della crisi energetica, la controversa decisione dell'Opec+ di ridurre la produzione di greggio per spingere sui prezzi ha suscitato l'ira degli Stati Uniti. La Casa Bianca ha annunciato a chiare lettere che sta «rivalutando » i rapporti con l'Arabia Saudita, dopo che Riad ha assecondato la Russia sul taglio dei barili. Il portavoce della Sicurezza nazionale, John Kirby, ha puntualizzato che il presidente Biden «è ovviamente contrariato dalla decisione dell'Opec e intende lavorare col Congresso per capire come debba procedere il giusto rapporto con l'Arabia Saudita». In serata, da Berlino è anche arrivata un'altra notizia: intervenendo nell'infuocato dibattito sul prolungamento delle centrali nucleari che sta dilaniando i Verdi e il governo Scholz, Greta Thunberg ha detto la sua. «Se già sono attive, penso che sarebbe un errore spegnere le centrali nucleari per affidarsi al carbone». A fronte di una crisi del gas che sta fermando i motori della prima economia europea, Berlino dovrà prolungare i tempi di funzionamento di due delle tre centrali ancora attive. E dovrà anche riattivare le cave di lignite per estrarre carbone. Ma tra i due mali, l'attivista più popolare del mondo sceglie il minore, in questa epocale crisi: l'atomo».

GAS 3. MA LA UE CONTINUA A FRENARE

Riunione oggi a Praga dei Ministri dell’Energia dei 27 Paesi europei. Francesca Basso sul Corriere della Sera.

«La commissaria Kadri Simson oggi illustrerà ai ministri dell'Energia dei 27 Paesi Ue, riuniti a Praga per un consiglio informale, i punti principali della proposta legislativa che sarà presentata dalla Commissione la prossima settimana per affrontare i prezzi del gas. Le attese sono per martedì 18 ottobre. E tra questi non ci sarà, salvo cambi di programma, un tetto al prezzo del gas.
La Commissione Ue continua la linea della cautela, in linea con i dubbi della Germania, nonostante le richieste di un gran numero di Stati membri. Secondo una fonte Ue, oggi l'intervento della Commissaria indicherà: la piattaforma per gli acquisti comuni di gas in vista della ricostruzione degli stoccaggi a partire da aprile; un meccanismo da applicare all'indice Ttf di Amsterdam per ridurre la volatilità sul prezzo del metano; un modello (template) obbligatorio di solidarietà tra gli Stati membri in caso di emergenza, finora sono stati chiusi sei accordi bilaterali tra cui quello Italia-Slovenia e Germania-Danimarca; la definizione più dettagliata di «consumo non essenziale tra i consumatori protetti», andando più nel dettaglio su quali industrie saranno toccate. Sarà poi spiegato che la Commissione «sta studiando l'applicabilità del modello iberico», che è quello che prevede un tetto al prezzo del gas usato per produrre elettricità, di fatto un prezzo amministrato che ricade sulle casse nazionali. Ma niente più. Il consiglio Energia è informale, non sono previste decisioni né conclusioni, ma la discussione sarà fondamentale per orientare la Commissione. Probabilmente sarà anche discusso se far scattare l'allerta per il gas, che implica la riduzione obbligatoria dei consumi come dall'accordo di fine luglio. Ma la Commissione sta lavorando anche per ottenere il mandato a definire un processo, in caso di emergenza, che possa condurre alla definizione della quota di gas che spetta a ogni Stato membro secondo una precisa chiave di allocazione e a un prezzo calmierato per evitare offerte al rialzo tra i Paesi Ue. Uno strumento simile a quello usato per i vaccini. Questo dossier potrebbe finire sul tavolo dei leader Ue al Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi, che ha l'obiettivo di rimuovere gli ultimi ostacoli per arrivare a un accordo sugli strumenti di emergenza. La proposta della Commissione sarà infatti esaminata nel dettaglio nel consiglio Energia del 25 ottobre ma per approvarla servirà una riunione straordinaria in novembre».

FMI: GERMANIA E ITALIA IN RECESSIONE

Le previsioni del Fondo Monetario: nel 2023 Roma e Berlino entrano in recessione. Mosca evita il tracollo. L'avvertimento sul futuro riguarda proprio la crisi energetica: non sarà transitoria, il peggio deve ancora venire. Alberto Simoni per La Stampa.

«Il vento della recessione soffia sull'economia mondiale. Nel 2023 un terzo dei Paesi avranno indici di crescita in calo, l'inflazione - che quest' anno si attesterà all'8,8%, doppiando quasi il livello del 2021 - calerà molto più lentamente del previsto navigando attorno al 6,5%, ben lontano dall'obiettivo del 2%.
Il Fondo monetario internazionale dipinge uno scenario fosco per i prossimi mesi e il suo capo economista Pierre-Olivier Gourinchas, nel corso di una conferenza stampa a Washington nella quale ha illustrato i dettagli del Report economico globale, non nasconde che «le cose potrebbero ben peggiorare», in un contesto globale dove guerra in Ucraina, crisi energetica, Covid e supply chain chiedono il conto. Se la crescita globale nel 2022 è invariata al 3,2%, rallenterà invece sino al 2,7% nel 2023 con addirittura il 25% delle chance che non arrivi al 2%.
L'Italia è fra i Paesi che pagherà di più. Quest' anno trainata da turismo, in ripresa dopo il buio della pandemia, e produzione industriale il nostro Paese registrerà una crescita al +3,2%, il prossimo anno il termometro andrà in territorio negativo: sarà di -0,2%, un decimale meglio della Germania (-0,3%), i peggiori di Eurolandia. Per l'Italia viene evidenziato l'aumento per il 2023 della disoccupazione (9,4% contro l'8,8% di quest' anno), ma si registra il miglioramento dei conti pubblici, con debito e deficit in calo. Il Fondo ha tagliato le previsioni di crescita per 143 economie, il 92% del Pil globale. Nessuna grande area è immune dallo choc e le tre economie maggiori - Europa, Usa e Cina - ristagneranno nel 2023. Negli Usa il Pil scenderà dall'1,6% all'1%, nell'eurozona si fermerà nel 2022 al 3,1% per poi frenare il prossimo anno allo 0,5%, lo 0,7% in meno rispetto alle stime diffuse in luglio, già al ribasso rispetto a quelle dei report primaverili.
Sostanziale stagnazione per la Gran Bretagna che crescerà appena dello 0,3%, ora alla prova della ricetta economica della neopremier Liz Truss. Resiliente il Giappone (più 1,7%), mentre la Cina ripiomba indietro di quarant' anni con una crescita del 3,2% quest' anno. La Russia va meglio delle aspettative considerando sanzioni e limitazioni a import ed export imposte dall'inizio del conflitto in Ucraina: il Pil calerà del 3,4% nel 2022 e del 2,3% nel 2023. Fmi e Banca Mondiale - il cui summit autunnale si è aperto ieri a Washington e durerà fino a venerdì - fotografano una realtà complessa come già aveva anticipato la direttrice dell'Fmi intervenendo la scorsa settimana alla Georgetown University. Allora Kristalina Georgieva era ricorsa a metafore, «l'economia si trova a navigare in acque agitate» e «nubi di tempesta», ma aveva sottolineato la necessità di individuare soluzioni per evitare appunto che ci concretizzi lo «scenario peggiore». Il contrasto all'inflazione è vitale. «Le banche centrali devono continuare ad agire in modo risoluto per riportare l'inflazione al loro target», spinge il Fmi sottolineando che è necessario accelerare sulla strada dell'inasprimento della politica monetaria. L'attenzione è sulla Fed e sulle conseguenze delle sue scelte che non solo possono raffreddare la spirale inflazionistica negli Usa, per ora meno frenata rispetto alle aspettative, ma hanno un impatto globale anche sul super dollaro. La Fed in novembre potrebbe aggiungere un altro 0,75% al costo del denaro. Sullo stato di salute e le prospettive dell'economia mondiale pesa la crisi energetica. Impatta in maniera importante - è la riflessione di Gourinchas - soprattutto su alcuni Paesi europei come l'Italia. Per questo il Fondo si aspetta «una recessione tecnica» per Roma nei prossimi mesi e l'outlook resta al ribasso. «Lo choc energetico - ha avvertito il capo economista del Fmi - non sarà transitorio». Oggi ci sarà la riunione dei ministri finanziari del G20. E a un panel con Georgieva e il numero uno della Banca Mondiale David Malpass, presenzierà da remoto anche Volodymir Zelensky. Che ribadirà il sostegno delle istituzioni finanziarie al suo Paese la cui crescita segna -35%».

MELONI: HO UNA PROPOSTA PER CHIUDERE

Le trattative della premier in pectore alla vigilia delle aperture di Camera e Senato. C’è un asse Salvini-Berlusconi. Si tratta sul ruolo di Licia Ronzulli. Forza Italia chiede il Mise con le deleghe sulle tv e la Giustizia. Paola Di Caro per il Corriere.

«Una giornata frenetica, un tourbillon di incontri, vertici a due (Salvini e Berlusconi), sherpa in continuo contatto, crisi di nervi, rassicurazioni e, alla fine, la situazione resta difficilissima, i nodi per la squadra non sono sciolti - anzi sono sempre più intricati -, i rapporti tra gli alleati sono tesissimi. Tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, raccontano, sarebbero addirittura «al minimo storico». Ma la premier in pectore, in serata, sparge ottimismo: «Le cose vanno molto bene. Poi leggo curiose ricostruzioni che saremmo "in ritardo" nella formazione del governo: immagino sappiate che non abbiamo un incarico. State tranquilli, quando lo dovessimo avere, non perderemo un minuto di tempo per fare il governo. Sono molto ottimista». Si sta «lavorando» sulla presidenza delle Camere e «non vedo grossi problemi», aggiunge, annunciando che con Berlusconi e Salvini oggi «penso che ci vedremo».
Si va verso un vertice quindi, indispensabile per sciogliere il ghiaccio e sbloccare una situazione impantanata. E Meloni oggi, raccontano, farà di tutto per risolvere la situazione: ha in mente una «proposta generosa» verso gli alleati, che dovrebbe venire incontro alle loro richieste: quelle della Lega, con un numero congruo di ministeri almeno in parte richiesti, e per FI: se insistono per avere la Ronzulli, un posto si troverà, ma a scapito di altri possibili ministri. Non Tajani, che la leader di FdI vuole agli Esteri. Lei stessa in serata aveva avvertito: «Coinvolgeremo le persone più adatte: nessuno si illuda che cambieremo idee e obiettivi rispetto a quelli per i quali siamo stati votati. Il nostro sarà il governo più politico di sempre». Un modo per dire no a diktat degli alleati ma anche che non ci saranno troppi tecnici nel suo governo. Quello che, evidentemente, ieri non era stato così chiaro o convincente per Berlusconi e Salvini. Eppure i tentativi di arrivare a un'intesa sono stati tanti. In mattinata ci hanno provato gli sherpa: in via della Scrofa, La Russa e Lollobrigida, Molinari e Calderoli, Ronzulli e Barachini hanno provato a mettere punti fermi. Ma invano. FdI vuole la presidenza del Senato, da affidare a La Russa, con Molinari alla Camera, e conta che l'accordo sia a un passo; la Lega - nonostante insista per Calderoli a Palazzo Madama - potrebbe accettare ma conta il peso della seconda carica dello Stato almeno come «due ministeri», ovvero serve una rappresentanza al governo maggiore e più di spicco per loro. Urge insomma un accordo complessivo. Bloccato dalle richieste di tutti ma anche dallo scontro feroce sul nome di Ronzulli. Berlusconi continua a chiedere per lei un ministero, anche non di primissima fascia (il Turismo potrebbe andare), ma Meloni era orientata sul no: ormai la situazione le sembrava talmente pregiudicata a livello di immagine, dopo le iniziali richieste fatte per la fedelissima del Cavaliere (il ruolo di capo-delegazione al posto di Tajani e un dicastero pesante), che non vedeva opportuna la sua presenza al governo. Lo avrebbe spiegato anche alla stessa Ronzulli, in un colloquio riservato ieri. A notte, l'apertura: se ne può parlare, ma peserà sulla bilancia. D'altronde Berlusconi si era infuriato davanti al veto sulla sua fedelissima, alzando la posta: ora chiede il Mise per Tajani, la Giustizia per Casellati, il Sud per Prestigiacomo, e appunto un ministero per Ronzulli, oltre che altri ruoli per Bernini, Bachini, Gasparri, Pichetto. Un muro contro muro: Meloni e Berlusconi fino a ieri sera non si erano nemmeno parlati, mentre Salvini è andato a trovare il Cavaliere appena arrivato a Villa Grande per cercare di ammorbidire un po' le posizioni ma anche per fare una sorta di asse e argine comune di fronte al rischio che Meloni decida - dicono da FI - di scegliere lei «in casa degli altri partiti». È d'altronde il caso del Mef, il più delicato dei ministeri ancora da attribuire, ad essere illuminante: il nome di Giorgetti come possibile ministro è stato messo sul tavolo da FdI, ma la Lega non vuole che sia eventualmente conteggiato in propria quota, proprio perché non indicato da loro. Oggi quindi vertice decisivo. Cercasi ministri, presidenti e mediatori. Restano solo 24 ore prima del voto per le Camere: arrivarci divisi darebbe un pessimo segnale per il governo che verrà».

GIORGETTI LA SOLUZIONE PER IL MEF?

Il ministro leghista (di fede draghiana) si mostra scettico: "Per il Mef bisogna avere uno standing internazionale". Matteo Salvini sostiene: se lo scelgono non è in quota Lega. Ilario Lombardo e Luca Monticelli per La Stampa.

«Giancarlo Giorgetti ha raccontato spesso agli amici della Lega che quando nel 2018 gli capitò di ricevere l'offerta di sedere da ministro dell'Economia nel governo gialloverde, fu preso talmente tanto dai tormenti che andò a chiedere alla madre cosa ne pensasse. Fu lei, con tutto l'intuito che può avere una madre, a dirgli di lasciar perdere. Erano i giorni della grande paura: l'Europa si interrogava su dove avrebbe portato la presa del palazzo dei populisti in Italia. A Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che cercavano disperatamente un candidato al Tesoro per il governo Lega-M5S, dopo la bocciatura di Paolo Savona da parte del Quirinale, il leghista spiegò di non avere le competenze necessarie per sedersi alla scrivania di Quintino Sella. E oggi? Con alle spalle un'esperienza da ministro dello Sviluppo economico nel governo di Mario Draghi quelle competenze le ha acquisite? Giorgetti, sorseggiando un caffè di prima mattina alla buvette, risponde sorridendo: «Ho imparato a fare il ministro dello Sviluppo economico...». Insomma, il vicesegretario leghista sembrerebbe sfilarsi ancora una volta dalla corsa al dicastero dell'Economia: «Per stare al Tesoro - dice - ci vuole uno standing internazionale». Una frase che, arricchita dalle chiose di chi lo conosce bene, non chiude completamente la porta a questa possibilità. Ci credono poco, i leghisti che Giorgetti lo frequentano da anni. Dicono che se non lo ha fatto quattro anni fa, quando il mare dell'Economia globale era più tranquillo, perché farlo ora che si sta andando incontro a una tempesta, con la recessione che sembra ormai certa? La prima risposta è quella più banale, ma è anche quella che ti dà chiunque nel centrodestra: perché Giorgia Meloni non riesce a trovare nessun altro. E allora Giorgetti sarebbe «la mossa della disperazione», come da Forza Italia e dalla Lega dicono, senza troppo nascondere la soddisfazione di vedere la leader di Fratelli D'Italia in difficoltà. Il no di Fabio Panetta, membro del board Bce, candidato alla carica di governatore di Bankitalia, e il no del ministro uscente Daniele Franco, che ieri Meloni ha visto assieme ai responsabili economici del partito - anche lui in gara per lo stesso posto a Via Nazionale -, tengono di fatto bloccato l'intero cantiere del governo. Ma mettiamo in fila i fatti per capire chi davvero crede che la scelta cadrà su Giorgetti, chi spinge perché si realizzi, e chi frena. Innanzitutto, ancora nessuno ha formalizzato la proposta al diretto interessato. È un'ipotesi che non nasce all'interno della Lega. Sono i forzisti i primi a farla circolare. Da FdI non la smentiscono ma precisano che la priorità resta l'opzione del super-tecnico.
Una strada che riporta a Panetta o agli altri nomi usciti in questi ultimi dieci giorni (Da Gaetano Micciché a Domenico Siniscalco a Luigi Buttiglione). Salvini considera l'offerta a Giorgetti poco più che una polpetta avvelenata, ma non può apertamente negare al suo numero due quel traguardo. E così, in mattinata, il segretario organizza un confronto per decidere la linea con i suoi due vice, Giorgetti e Lorenzo Fontana, con il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari e con Edoardo Rixi. Il vertice serve anche a chiarire che sarà Molinari ad aggiudicarsi la presidenza della Camera se non dovessero spuntarla sul Senato, dove Meloni vuole Ignazio La Russa e non il leghista Roberto Calderoli
. Giorgetti ci sperava. Non ha mai nascosto che a questo giro preferirebbe sedere sulla poltrona della terza carica dello Stato, più che entrare nel governo. Ma è uomo di partito, come ripete sempre, e farà quello che dice Salvini. Anche se crede poco al Mef. E poco ci crede anche il segretario. Fa filtrare che «per la Lega sarebbe motivo di orgoglio» ma il capo del Carroccio in cuor suo farebbe tranquillamente a meno del Tesoro. È il ministero più importante ma anche quello che può portare solo grane. Per questo ha già pronta la risposta a Meloni, se e quando gli proporrà Giorgetti: «Va bene ma non va calcolato nelle quote dei ministeri stabilite per la Lega». Il ragionamento di Salvini è semplice: perché dobbiamo fare noi da parafulmini e prenderci questa responsabilità, e non il primo partito della maggioranza? Chi tifa Giorgetti sostiene che ha come sponsor il premier uscente Mario Draghi, è apprezzato da tutti i partiti, alleati e avversari, è stato per tanti anni a capo della commissione Bilancio e ha una buona reputazione in Europa. Inoltre, è un teorico da sempre «del debito buono», e non sarebbe contrario allo scostamento di bilancio che Salvini chiede da mesi: l'unico punto su cui ha sempre detto di vederla diversamente da Draghi».

PARTE LA “TRATTATIVA STATO-RONZULLI”

Ironia e battute si sprecano nel centro destra, turbato dal caso Ronzulli. Simone Cannettieri sul Foglio.

«Prima mattina, Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia, chiama i colonnelli meloniani per sapere se ci sono novità. E' la prassi. E loro, abbastanza imbarazzati, gli rispondono: "A dire il vero abbiamo un vertice con voi tra poco: stiamo aspettando Licia". E infatti in Via della Scrofa si materializza l'inedita coppia Ronzulli-Alberto Barachini, una novità ai tavoli degli sherpa del centrodestra. Tutta la filiera che fa capo ad Antonio Tajani è stata fatta fuori. Zac. Silvio Berlusconi intanto è atterrato nella Capitale e ha preso possesso delle sue stanze a Villa Grande. Ronzulli raggiunge il centro: parla a nome del partito e vuole andare a trattare di persona anche la sua posizione, nonostante i dubbi di Giorgia Meloni. Le due non si stanno simpaticissime. Intanto, però, sta succedendo qualcosa dentro Forza Italia. Di forte. Anzi, di violento. Tajani, compare alla buvette di Montecitorio nel pomeriggio. Ha preso il primo aereo da Bruxelles. E sta qui al bancone, come il Nottambulo di Hopper, circondato da un gruppo di fedelissimi. E' scandalizzato. "Quella vuole un ministero con il portafoglio", dice Tajani ai parlamentari azzurri che lo circondano in cerca di spiegazioni e quasi lo sorreggono con lo sguardo vista l'aria che tira. Per la fedelissima del Cav. si parla del ministero del Turismo, dopo aver fatto un pensierino sulla Sanità e sulla Scuola. Ma sono quasi dettagli. "Già, e non è solo una questione di governo: quella si vuole prendere anche il partito", si lamenta un deputato con Barelli. Il quale è costretto ad annuire, ma anche a ricordare, più che altro a se stesso, che "Antonio è il numero due di Forza Italia, ha esperienza e standing internazionali di primissimo livello". Invece tutto sta cambiando. Con ferocia. Fino a due mesi fa Tajani e Ronzulli stavano sulla stessa sponda contro i ministri draghiani - Gelmini, Carfagna e Brunetta - che alla fine hanno fatto la valigia. Adesso invece sono separati in casa, con la differenza che le chiavi sono saldamente nelle mani di Ronzulli. Che va in via della Scrofa, si mette seduta con i vertici di Fratelli d'Italia - ci sono Francesco Lollobrigida, Giovanni Donzelli e Ignazio La Russa - e poi si presenterà anche negli uffici parlamentari meloniani con la speranza di ricucire con la premier in pectore. "Giorgia lo sa che Licia dice di lei cose cattivissime, Giorgia sa tutto", si sfogano in un capannello i deputati con Barelli. Costretto dalla situazione a dire di nuovo di sì con la testa. Tajani mette la mani avanti. E annuncia che non rilascia dichiarazioni, e anche questo è un unicum per un politico che nasce come giornalista. Va provocato: onorevole, siamo davanti a una trattativa stato-Ronzulli? "Questo lo dice lei", risponde Tajani mettendo su la faccia di chi non sa se ridere o scuotere la testa davanti agli eventi che sembrano precipitare (per lui si parla di Mise, anche se la sua ambizione rimane la Farnesina). C'è un pezzo di Forza Italia che assiste a questo cambio di equilibri "sconcertato", non tanto dalla risolutezza di Ronzulli ma "perché è incredibile la posizione di Berlusconi che le dà mano libera". Sono riflessioni che vanno fatte sotto voce, si sa. Dentro Fratelli d'Italia, per esempio, non si parla d'altro. Erano abituati a un altro assetto, almeno a Roma. Ignazio La Russa passa la giornata in Via della Scrofa, testimone oculare di questo cambio della guardia in un mondo che conosce bene. Lo ferma un deputato di FdI: "Ignazio, ma dov' è Tajani?". Risposta: "E' scomparso: l'hanno mandato in Siberia". Segue la risata, arcinota, dell'aspirante presidente del Senato. Si cerca di sdrammatizzare. Ronzulli rinfaccia al vicepresidente di Forza Italia di non aver saputo condurre le trattative con gli alleati quando si è trattato di dividere i collegi uninominali. E così la Lega, a parità di voti o quasi, ha preso molti più seggi del Cav. Il quale sembra fidarsi totalmente di chi, su benedizione della figlia Marina Berlusconi, ha preso le redini del comando ad Arcore. Che poi spesso e volentieri coincidono con il cellulare dell'ex presidente del Consiglio. L'ala tajanea in questa fase rinfaccia a Matteo Salvini "i soliti casini". Una conduzione schizofrenica delle trattative con Meloni, una girandola di nomi e desiderata sparati in aria. Ronzulli, invece, ha con il capo della Lega un rapporto solido e di fiducia. Tajani risponde al cellulare: è Maurizio Gasparri, un altro della vecchia guardia in cerca di notizie. Meloni intanto sta lassù, sempre al sesto piano della Camera, ben consapevole delle spaccature interne degli alleati con i quali sarà costretta a governare. In serata a Villa Grande ecco l'incontro fra Salvini e Berlusconi. Con il leader della Lega che dice di mettere la pace fra Forza Italia e FdI. Gli azzurri vorrebbero anche il vicepremier per Tajani, ma a patto che Ronzulli entri nella squadra di governo. Meloni che oggi incontrerà i leader prova a reggere l'assalto. Sa che Salvini e Berlusconi sono pronti a saldarsi. Tutto passa dalla presidenza delle Camere. La Russa sembra tranquillo al Senato, la Lega è convinta di ottenere lo scranno più alto di Montecitorio. Berlusconi intanto è cercato da mezzo partito. Ma il telefono è nelle mani di Licia».

Alessandro Sallusti, nell’editoriale di Libero, avverte i partiti alleati di Giorgia Meloni: piuttosto che rompere sulla poltrona per Ronzulli, meglio non cominciare.

«Gli attriti e le tensioni da sempre accompagnano la formazione di un nuovo governo, qualsiasi sia il suo colore. Non mi stupiscono quindi le voci che danno ai ferri corti in queste ore i tre alleati, in particolare Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi con Salvini in una inusuale veste di mediatore-paciere. Parafrasando una celebre frase di Andreotti, le poltrone logorano chi non le ha e quindi è normale che ognuno cerchi di evitare futuri logoramenti. Per altro gli italiani in queste settimane hanno ben altre preoccupazioni che non la sorte di questo o quell'aspirante ministro o ministra. Parlando di tre persone, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, che godono della fiducia di voi lettori facciamo nostro il famoso detto di non mettere il dito tra moglie e marito ma non possiamo non metterli in guardia - penso a nome vostro dal fatto che la lite ci sta se breve e risolutiva, altrimenti qui si rischia una falsa partenza che noi cittadini elettori, e quindi tutto il Paese, non ci meritiamo. La questione tutto sommato, e vista da fuori, non è poi così complicata. Primo: se Giorgia Meloni avrà la responsabilità del governo è giusto e logico che l'ultima parola sulla formazione da mettere in campo tocchi a lei, altrimenti non si capirebbe che cosa stia lì a fare oggi ma soprattutto domani. Secondo: siccome i ministri devono essere accettati e nominati dal Presidente della Repubblica ovvio è che il perimetro dentro il quale Giorgia Meloni può muoversi è ampio ma non infinito. Terzo: i due soci di maggioranza hanno tutto il diritto di indicare in modo autonomo i loro uomini non senza però non tenere conto dei punti uno e due di cui sopra. Insomma, e fuori di metafora, mi rifiuto di pensare che questo governo partirà e partirà bene solo se Licia Ronzulli, fedelissima di Silvio Berlusconi, sarà o no ministra e se sì con che delega. Lo ripeto a scanso di equivoci: non tocca a noi dare giudizi e tantomeno consigliare scelte ma se questo, in un modo o nell'altro, fosse davvero un insuperabile motivo di crisi, beh allora forse non vale la pena neppure di incominciare questa avventura che ben altri ostacoli e difficoltà si troverà ad affrontare lungo il suo percorso».

IRAN, PIÙ SOLDI AI SOLDATI

Le altre notizie dall’estero. Gli ayatollah scelgono la linea del bastone e della carota: Teheran aumenta i soldati e i salari ai militari per frenare la rivolta popolare. Per il Manifesto Farian Sabahi.

«I vertici della Repubblica islamica sperano di spaccare il fronte della protesta aumentando del 10 percento i salari e le pensioni dei dipendenti della pubblica amministrazione e delle forze armate. Ad approvare la misura è stato il Parlamento. Nonostante le minacce della magistratura e del governo di punire con severità i «rivoltosi», le proteste continuano. Secondo rapporti non confermati ufficialmente, circa 190 persone, tra cui 28 minori, sono morte dall'inizio delle proteste, soprattutto nella provincia del Sistan e Balucistan. Centinaia i feriti ma, per timore di essere fermati, non tutti si sono recati in ospedale. Molti dimostranti sono stati arrestate nelle università, nei bazar e nelle strade di varie città. Le prigioni si sono riempite a tal punto che alcuni degli arrestati sono stati trasferiti in carceri di altre città. Nelle ultime settimane le proteste si sono estese anche nelle aree povere di Teheran e hanno coinvolto gli operai del settore petrolifero. Gli studenti continuano a boicottare le lezioni e a manifestare negli atenei Amirkabir, Allameh, Al-Zahra, Art, Modarres, Tarbiat-Moallem e Beheshti della capitale Teheran ma anche nel Gilan, a Shiraz e a Isfahan. Oltre ai manifestanti che osano scendere in strada, sono in molti a esprimere dissenso gridando slogan dalle finestre delle loro abitazioni e suonando a ripetizione il clacson delle automobili. I pericoli sono però tanti: i video condivisi in rete riprendono le forze dell'ordine che camminano tra le vetture ferme in coda o in lento movimento, mentre usano i manganelli per spaccarne i vetri. I dimostranti hanno comunque lanciato un nuovo appello per manifestare anche domani. Per quanto riguarda il velo, a protestare sono sia alcune donne che si tolgono il foulard a cui appiccano il fuoco, sia molte altre con il chador dalla testa ai piedi che si sono unite alle dimostrazioni di domenica sera a Teheran, Karaj, Kermanshah, Mashhad, Rasht, Isfahan, Torbat-Heidariyeh, Kashan, Kazeroun, Saghez, Boukan e Sanandaj. Ed è proprio in quest' ultima località, capoluogo della provincia iraniana del Kurdistan (ovest) di cui era originaria Mahsa Amini, che desta preoccupazione l'atterraggio di un aereo militare per dare rinforzi alle forze armate già presenti in loco. In arrivo anche bus di soldati. Lo stesso copione si sta riproponendo nel Sistan e Balucistan (sud-est). Si tratta di province di frontiera, caratterizzate dalla presenza di minoranze al tempo stesso etniche (curde e baluci) e religiose (sunnite). In entrambi i casi, il ministro degli Interni Ahmad Vahidi ha ribadito che si tratterebbe di «rivolte sostenute, pianificate e messe in atto da gruppi terroristi separatisti». Come sta reagendo la stampa iraniana di fronte alle proteste e alla repressione? Alcuni quotidiani riformisti, tra cui Shargh, Etemaad e Jahan-Sanat, invitano le autorità ad ascoltare la voce dei manifestanti, correggere gli errori del passato e porre fine alla repressione di manifestanti e studenti che hanno protestato non solo per la morte di Mahsa Amini ma anche contro la classe dirigente. Per il quotidiano riformista Jahan-Sanat «le giovani generazioni hanno ragione perché non riescono a vedere alcuna prospettiva per il loro futuro». Per questo motivo «serve un grande intervento politico, economico e sociale, basato sulle esigenze del momento attuale, per alleviare l'ira della nazione, che non può trasformarsi facilmente in calma». Di opinione diametralmente opposta la stampa filogovernativa e quindi integralista. E infatti un quotidiano vicino ai pasdaran scrive: «Cosa significa? Come possiamo ascoltare i manifestanti mentre dicono che i religiosi devono lasciare il governo? Non vogliono la Repubblica islamica». Nel frattempo, l'ex parlamentare e attivista per i diritti delle donne Faezeh Hashemi Rafsanjani è stata accusata di «collusione, disturbo della quiete pubblica e propaganda contro la Repubblica islamica». Figlia dell'ex presidente Ali Akbar Rafsanjani, Faezeh era stata arrestata a Teheran il 27 settembre per aver incitato a manifestare. Resta in carcere anche la travel blogger romana Alessia Piperno. Con lei ci sono pure cinque cittadini francesi. Ieri sera un altro straniero è stato arrestato nella città sud-orientale di Kerman con l'accusa di «spionaggio per i servizi di intelligence del regime sionista». Alla luce di questi eventi, la Farnesina ha alzato il grado di rischio Paese e invitato i cittadini italiani a evitare di recarsi in Iran».  

STORICO ACCORDO FRA LIBANO E ISRAELE

Il 20 ottobre verrà siglato il documento che chiude la storica controversia sulla spartizione del gas e del petrolio nei bacini antistanti le coste dei due Paesi. Aoun: «Preservati i nostri diritti». Lapid: «Rafforzerà la sicurezza». Per Avvenire Camille Eid.

«C'è l'accordo tra Libano e Israele per la demarcazione della frontiera marittima e la conseguente spartizione delle risorse energetiche al largo delle rispettive coste. Un passo che apre le porte allo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Il presidente libanese Michel Aoun ha giudicato «soddisfacente » la bozza dell'accordo, raggiunto grazie al mediatore statunitense Amos Hochstein che ha fatto diverse volte la spola tra Beirut e Tel Aviv. «La presidenza libanese - si legge in un comunicato - ritiene che la formula finale abbia preservato i diritti del Libano sulle sue ricchezze naturali, in un momento importante per la popolazione». Soddisfazione espressa anche dal premier israeliano uscente Yair Lapid, che ha parlato di «accordo storico» e ha convocato per oggi una riunione del gabinetto politico di sicurezza per approvarlo. «Il progetto di accordo - ha twittato Lapid - è pienamente conforme ai principi presentati da Israele in materia di sicurezza ed economia. Questo è un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell'economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale ». Anche il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha giudicato il nuovo accordo «giusto e positivo per entrambe le parti», confermando che l'intesa risponde a tutti i bisogni di sicurezza di Israele. L'unica nota dissonante è arrivata dal capo dell'opposizione Benjamin Netanyahu, che ha definito l'accordo «una resa storica» agli Hezbollah. «Per oltre un decennio - ha detto Netanyahu - il mio governo non si è piegato alle minacce degli Hezbollah e non abbiamo avuto guerra. Poi - ha proseguito - è arrivato Lapid e in tre mesi si è arreso completamente a tutte le richieste». Al centro della disputa tra i due Paesi, formalmente in stato di armistizio dal 1948, un braccio di mare di alcune centinaia di chilometri quadrati e due giacimenti di gas naturale già noti, Karish e Qana. Per gli israeliani la priorità è sempre stata quella di poter iniziare l'estrazione dal campo di Karish senza il rischio di escalation: Hezbollah aveva infatti ripetutamente minacciato di condurre un'operazione militare contro il sito se le operazioni di estrazione fossero iniziate prima che il Libano potesse fare la stessa cosa nel giacimento di Qana, rivendicato dal Libano nella sua totalità all'interno della propria zona economica esclusiva. Negli ultimi giorni, la Francia ha svolto un'intesa azione diplomatica per superare l'impasse dopo che Israele aveva respinto le ultime osservazioni formulate dal Libano, soprattutto per quanto riguarda la quota israeliana dal giacimento di Qana. In pratica, sarà la compagnia francese TotalEnergies - cui è affidata l'esplorazione del gas nelle acque libanesi - e non il governo libanese a versare a Israele una quota dei propri proventi. Gli israeliani richiedevano un compenso a titolo di risarcimento per la concessione dell'esclusiva sul giacimento in questione. Inoltre, il mediatore Hochstein ha risolto il nodo relativo all'ambiguità tra due espressioni- chiave («status quo» e «fatto compiuto») circa la cosiddetta linea dei galleggianti. L'intesa sarà siglata il 20 ottobre, pochi giorni prima della scadenza del mandato presidenziale di Aoun, ma anche in vista delle elezioni israeliane del primo novembre. La firma offre al Libano, in piena bancarotta economica e affamato di elettricità, una buona opportunità. E soprattutto una riappacificazione - accettata da Hezbollah - ai suoi confini meridionali. Le tensioni tra i due Paesi vicini si erano inasprite nel giugno scorso quando tre droni del Partito di Dio, privi di armi, erano stati inviati nella zona della piattaforma di Karish in una sorta di avvertimento».

ANCHE IN ASIA CORSA AGLI ARMAMENTI

Anche sul fronte asiatico è corsa agli armamenti. La Cina punta al dialogo, ma la crisi coreana si complica. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.

«Le onde sismiche causate dalla nuova escalation in Ucraina si propagano in Asia, crocevia di potenziali secondi fronti ma anche di possibili negoziati. Magari al summit del G20 di Bali, in Indonesia, dove non è escluso un incontro tra Joe Biden e Vladimir Putin. E dove dovrebbe essere presente anche Xi Jinping, che in questi giorni si prepara al XX Congresso del Partito comunista cinese chiamato a conferirgli uno storico terzo mandato. Oggi, intanto, il vicepresidente Wang Qishan è ad Astana per il forum sulla sicurezza a cui si incontrano Putin ed Erdogan. Pechino non ha cambiato il suo approccio sul conflitto. Subito dopo i raid russi di lunedì, la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning ha ribadito la solita formula: «Tutti i paesi meritano il rispetto di sovranità e integrità territoriale», in riferimento all'Ucraina, e «occorre tenere conto delle legittime preoccupazioni di sicurezza di ogni paese», in riferimento alla Russia. Chiedendo poi una de-escalation. Sui media cinesi si aggiusta parzialmente il tiro: più Mosca alza l'asticella e più Pechino deve mandare piccoli segnali che i due amici «senza limiti» non sono allineati sul conflitto. Ma le responsabilità vengono sempre individuate nelle azioni di Usa e Nato, accusati di gettare «benzina sul fuoco» invece che favorire il dialogo. Lo scenario potrebbe presto ripetersi, quantomeno sotto il profilo retorico, anche sulla penisola coreana. Se si arrivasse a una vera e propria crisi Pechino sarebbe chiamata a un ruolo più attivo rispetto a quello esercitato sull'Ucraina. Il ministero degli Esteri si è detto pronto a «rivestire un ruolo costruttivo nella risoluzione politica» ma ha anche invitato Washington «a creare le condizioni per la ripresa di un dialogo significativo». Condizioni che al momento non paiono esserci. Lunedì, in occasione del 77esimo anniversario del Partito dei lavoratori, i media nordcoreani hanno diffuso le immagini di Kim Jong-un mentre presiede i lanci balistici. Viene inoltre spiegato che sono stati simulati attacchi nucleari «tattici» contro obiettivi sudcoreani. I preparativi per un nuovo test atomico, il primo dopo 5 anni, sarebbero allo stadio finale. Se avvenisse prima della fine del Congresso, potrebbe essere percepito come un affronto da Xi. La vicenda sta peraltro spingendo Giappone e Corea del Sud l'uno tra le braccia dell'altro. E a Seul l'opposizione protesta. Il capo del Partito democratico Lee Jae-myung, più dialogante con Pyongyang, ha addirittura palesato un futuro in cui i militari di Tokyo potrebbero tornare a far sventolare la bandiera nipponica sulla penisola. Riferendosi a ferite storiche mai rimarginate e sulle quali Yoon Suk-yeol e Fumio Kishida hanno deciso di sorvolare per riavviare il dialogo. Questioni storiche aperte anche sullo Stretto di Taiwan, dove la calma è solo apparente. Il ministero della Difesa di Taipei segnala che Pechino dispiega in media 4-6 navi da guerra nelle acque a cavallo della «linea mediana», in aggiunta alle incursioni dei jet. Durante le celebrazioni del «doppio dieci», l'anniversario della rivolta di Wuchang che portò alla fondazione della Repubblica di Cina (ancora denominazione ufficiale di Taiwan), la presidente Tsai Ing-wen ha invitato Pechino al dialogo per trovare un «accordo reciprocamente accettabile», affermando che il confronto militare non è un'opzione. Allo stesso tempo, si è impegnata ad aumentare la produzione di massa di missili di precisione e a sviluppare la forza bellica asimmetrica. La Repubblica Popolare non ha mai aperto al dialogo con Tsai per il suo mancato riconoscimento del «consenso del 1992» e del principio di una sola Cina. Taipei si prepara all'estensione della leva militare da 4 a 10 mesi. Tutti i governi della regione continuano ad aumentare il budget difensivo in una corsa agli armamenti che gli sviluppi in Ucraina e quelli regionali rendono ancora più difficili da rallentare».

60 ANNI DAL CONCILIO, IL PAPA: “SUPERIAMO LA POLARIZZAZIONE”

«Una Chiesa che è innamorata di Gesù non ha tempo per scontri e polemiche». Il Papa mette in guardia i cristiani dalla tentazione di essere divisi in progressisti e conservatori. Ecco il testo dell'omelia pronunciata da papa Francesco durante la Messa per i 60 anni dell'apertura del Concilio Vaticano II, pubblicato oggi da Avvenire.

«“Mi ami?”. È la prima frase che Gesù rivolge a Pietro nel Vangelo che abbiamo ascoltato ( Gv 21,15). L'ultima, invece, è: «Pasci le mie pecore» (v. 17). Nell'anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II sentiamo rivolte anche a noi, a noi come Chiesa, queste parole del Signore: Mi ami? Pasci le mie pecore. 1 Anzitutto: Mi ami? È un interrogativo, perché lo stile di Gesù non è tanto quello di dare risposte, ma di fare domande, domande che provocano la vita. E il Signore, che «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi» ( Dei Verbum, 2), chiede ancora, chiede sempre alla Chiesa, sua sposa: “Mi ami?”. Il Concilio Vaticano II è stato una grande risposta a questa domanda: è per ravvivare il suo amore che la Chiesa, per la prima volta nella storia, ha dedicato un Concilio a interrogarsi su sé stessa, a riflettere sulla propria natura e sulla propria missione. E si è riscoperta mistero di grazia generato dall'amore: si è riscoperta popolo di Dio, Corpo di Cristo, tempio vivo dello Spirito Santo! Questo è il primo sguardo da avere sulla Chiesa, lo sguardo dall'alto. Sì, la Chiesa va guardata prima di tutto dall'alto, con gli occhi innamorati di Dio. Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi. Sempre c'è la tentazione di partire dall'io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo - o l'indietrismo - che rimpiange un mondo passato, non sono prove d'amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all'amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro. Mi ami tu? Riscopriamo il Concilio per ridare il primato a Dio, all'essenziale: a una Chiesa che sia pazza di amore per il suo Signore e per tutti gli uomini, da Lui amati; a una Chiesa che sia ricca di Gesù e povera di mezzi; a una Chiesa che sia libera e liberante. Il Concilio indica alla Chiesa questa rotta: la fa tornare, come Pietro nel Vangelo, in Galilea, alle sorgenti del primo amore, per riscoprire nelle sue povertà la santità di Dio (cfr Lumen gentium, 8c; cap. V). Anche noi, ognuno di noi ha la propria Galilea, la Galilea del primo amore, e sicuramente anche ognuno di noi oggi è invitato a tornare alla propria Galilea per sentire la voce del Signore: "Seguimi". E lì, per ritrovare nello sguardo del Signore crocifisso e risorto la gioia smarrita, per concentrarsi su Gesù. Ritrovare la gioia: una Chiesa che ha perso la gioia ha perso l'amore. Verso la fine dei suoi giorni Papa Giovanni scriveva: «Questa mia vita che volge al tramonto meglio non potrebbe essere risolta che nel concentrarmi tutto in Gesù, figlio di Maria grande e continuata intimità con Gesù, contemplato in immagine: bambino, crocifisso, adorato nel Sacramento» ( Giornale dell'anima, 977-978). Ecco il nostro sguardo alto, ecco la nostra sorgente sempre viva: Gesù, la Galilea dell'amore, Gesù che ci chiama, Gesù che ci domanda: "Mi ami? " Fratelli, sorelle, ritorniamo alle pure sorgenti d'amore del Concilio. Ritroviamo la passione del Concilio e rinnoviamo la passione per il Concilio! Immersi nel mistero della Chiesa madre e sposa, diciamo anche noi, con san Giovanni XXIII: Gaudet Mater Ecclesia! ( Discorso all'apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). La Chiesa sia abitata dalla gioia. Se non gioisce smentisce sé stessa, perché dimentica l'amore che l'ha creata. Eppure, quanti tra noi non riescono a vivere la fede con gioia, senza mormorare e senza criticare? Una Chiesa innamorata di Gesù non ha tempo per scontri, veleni e polemiche. Dio ci liberi dall'essere critici e insofferenti, aspri e arrabbiati. Non è solo questione di stile, ma di amore, perché chi ama, come insegna l'Apostolo Paolo, fa tutto senza mormorare (cfr Fil 2,14). Signore, insegnaci il tuo sguardo alto, a guardare la Chiesa come la vedi Tu. E quando siamo critici e scontenti, ricordaci che essere Chiesa è testimoniare la bellezza del tuo amore, è vivere in risposta alla tua domanda: mi ami?. Non è andare come se fossimo a una veglia funebre. 2 Mi ami? Pasci le mie pecore. La seconda parola: Pasci. Gesù esprime con questo verbo l'amore che desidera da Pietro. Pensiamo proprio a Pietro: era un pescatore di pesci e Gesù lo aveva trasformato in pescatore di uomini (cfr Lc 5,10). Ora gli assegna un mestiere nuovo, quello di pastore, che non aveva mai esercitato. Ed è una svolta, perché mentre il pescatore prende per sé, attira a sé, il pastore si occupa degli altri, pasce gli altri. Di più, il pastore vive con il gregge, nutre le pecore, si affeziona a loro. Non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Il pastore è davanti al popolo per segnare la strada, in mezzo al popolo come uno di loro, e dietro al popolo per essere vicino a coloro che vanno in ritardo. Il pastore non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Ecco il secondo sguardo che ci insegna il Concilio, lo sguardo nel mezzo: stare nel mondo con gli altri e senza mai sentirci al di sopra degli altri, come servitori del più grande Regno di Dio (cfr Lumen gentium, 5); portare il buon annuncio del Vangelo dentro la vita e le lingue degli uomini (cfr Sacrosanctum Concilium, 36), condividendo le loro gioie e le loro speranze (cfr Gaudium et spes, 1). Stare in mezzo al popolo, non sopra il popolo: questo è il peccato brutto del clericalismo che uccide le pecore, non le guida, non le fa crescere, uccide. Quant' è attuale il Concilio: ci aiuta a respingere la tentazione di chiuderci nei recinti delle nostre comodità e convinzioni, per imitare lo stile di Dio, che ci ha descritto oggi il profeta Ezechiele: "andare in cerca della pecora perduta e ricondurre all'ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata" (cfr Ez 34,16).
Pasci: la Chiesa non ha celebrato il Concilio per ammirarsi, ma per donarsi. Infatti la nostra santa Madre gerarchica, scaturita dal cuore della Trinità, esiste per amare. È un popolo sacerdotale (cfr Lumen gentium, 10 ss.): non deve risaltare agli occhi del mondo, ma servire il mondo. Non dimentichiamolo: il popolo di Dio nasce estroverso e ringiovanisce spendendosi, perché è sacramento di amore, «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» ( Lumen gentium, 1). Fratelli, sorelle, torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni; che ha ritrovato la sorgente dell'amore non per rimanere a monte, ma perché la Chiesa scenda a valle e sia canale di misericordia per tutti. Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell'autoreferenzialità, , che è un modo di essere mondano. Pasci, ripete il Signore alla sua Chiesa; e pascendo, supera le nostalgie del passato, il rimpianto della rilevanza, l'attaccamento al potere, perché tu, popolo santo di Dio, sei un popolo pastorale: non esisti per pascere te stesso, per arrampicarti, ma per pascere gli altri, tutti gli altri, con amore. E, se è giusto avere un'attenzione particolare, sia per i prediletti di Dio: per i poveri, gli scartati (cfr Lumen gentium, 8c; Gaudium et spes, 1); per essere, come disse papa Giovanni, «la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri» ( Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo a un mese dal Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 settembre 1962).
3 Mi ami? Pasci - conclude il Signore - le mie pecore. Non intende solo alcune, ma tutte, perché tutte ama, tutte chiama affettuosamente "mie". Il buon Pastore vede e vuole il suo gregge unito, sotto la guida dei Pastori che gli ha dato. Vuole - terzo sguardo - lo sguardo d'insieme: tutti, tutti insieme. Il Concilio ci ricorda che la Chiesa, a immagine della Trinità, è comunione (cfr Lumen gentium, 4.13). Il diavolo, invece, vuole seminare la zizzania della divisione. Non cediamo alle sue lusinghe, non cediamo alla tentazione della polarizzazione. Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre! Quante volte si è preferito essere "tifosi del proprio gruppo" anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, "di destra" o "di sinistra" più che di Gesù; ergersi a "custodi della verità" o a "solisti della novità", anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti fratelli nella Chiesa, tutti Chiesa, tutti. Il Signore non ci vuole così: noi siamo le sue pecore, il suo gregge, e lo siamo solo insieme, uniti. Superiamo le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più "una cosa sola", come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi (cfr Gv17,21). Ci aiuti in questo Maria, Madre della Chiesa. Accresca in noi l'anelito all'unità, il desiderio di impegnarci per la piena comunione tra tutti i credenti in Cristo. Lasciamo da parte gli "ismi": al popolo di Dio non piace questa polarizzazione. Il popolo di Dio è il santo popolo fedele di Dio: questa è la Chiesa. È bello che oggi, come durante il Concilio, siano con noi rappresentanti di altre Comunità cristiane.
Grazie per la vostra presenza! Ti rendiamo grazie, Signore, per il dono del Concilio. Tu che ci ami, liberaci dalla presunzione dell'autosufficienza e dallo spirito della critica mondana. Liberaci dell'autoesclusione dall'unità. Tu, che ci pasci con tenerezza, portaci fuori dai recinti dell'autoreferenzialità. Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall'artificio diabolico delle polarizzazioni, degli "ismi". E noi, tua Chiesa, con Pietro e come Pietro ti diciamo: "Signore, tu sai tutto; tu sai che noi ti amiamo" (cfr Gv 21,17)».

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Articoli di mercoledì 12 ottobre

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