Europa fra guerra e pace
Meloni spiega la linea per il Consiglio Europeo. A Mosca elezioni "farsa" ma Salvini è assente. Borrell vuole i soldi presi ai russi. Schlein contro il premierato. A Pioltello la Diocesi col preside
Giorgia Meloni ha illustrato ieri in Senato la politica estera italiana in vista del prossimo Consiglio Europeo. Per la premier è stata l’occasione per commentare il voto russo. Ha così stigmatizzato le «elezioni farsa» nelle zone ucraine occupate dall’esercito di Mosca. Ma ha evitato di polemizzare direttamente con Matteo Salvini e con le sue frasi imprudenti sul sostegno popolare a Vladimir Putin. Salvini, da parte sua, non era presente in Aula e quindi la linea seguita da Meloni (“troncare e sopire” nei confronti del leader leghista) si è potuta sviluppare senza difficoltà. Se proprio si vuole cercare la polemica, quella di Meloni è stata contro Macron quando ha detto esplicitamente che l’Italia è contraria all’invio di truppe in Ucraina. A Bruxelles si discuterà in questi giorni della proposta di Josep Borrell, annunciata oggi dal capo della diplomazia Ue a qualche giornale europeo, di utilizzare per le armi in Ucraina i soldi della Banca centrale russa depositati in Euro nel nostro continente. Finora la Bce (e la Germania) si erano dette contrarie e sulla decisione può pesare la posizione di Viktor Orbán. Roberta de Monticelli per Il Manifesto torna a chiedersi se davvero l’Europa vuole entrare in guerra e ricorda il pacifismo di Simone Weil.
Quanto a Gaza, Meloni nel suo discorso è tornata al principio dei due popoli, due Stati. Ma ha voluto ricordare: «Non possiamo dimenticare chi è stato a scatenare questo conflitto, è stato Hamas». La premier quindi ha puntato il dito contro le «reticenze» ad ammetterlo che «nascondono un antisemitismo dilagante». Per poi concludere: «Nonostante questo ribadiremo la nostra contrarietà a un’azione di terra da parte di Israele a Rafah che potrebbe avere conseguenze ancora più catastrofiche sui civili». Dal Medio Oriente però le notizie indicano che questa invasione ci sarà, anche se gli americani vogliono conoscere prima ogni particolare del piano militare. In un drammatico diario da Gaza oggi Sami al-Ajrami scrive che anche le seconde file di Hamas stanno scappando dalla Striscia. A Rafah resta solo la povera gente (vedi Foto del Giorno).
In Italia si discute della rimodulazione del Pnrr, perché la Corte dei Conti ha trasmesso alle Camere un documento in cui critica le scelte del governo, che si sarebbe assunto troppi poteri. Vedremo se il parere dei giudici contabili costringerà a nuove modifiche. Elly Schlein punta sulle critiche al premierato nella sua campagna di opposizione al governo. Basterà a ricompattare un campo largo, che invece appare sempre più ristretto?
A Pioltello fa rumore l’ispezione mandata dal Ministro Valditara al preside della scuola che, rispettando la legge, ha istituito un giorno di riposo alla fine del Ramadan. La Diocesi di Milano è scesa in campo per difendere l’autonomia scolastica e la scelta di genitori e professori di Pioltello, con una dichiarazione molto chiara, oggi riportata solo da Avvenire di Roberto Pagani, diacono permanente, dal 2013 responsabile del Servizio ecumenismo e dialogo interreligioso. C’è da chiedersi: davvero abbiamo un governo contro la libertà religiosa?
Colpisce un’altra vicenda che riguarda la vita di tutti giorni. Oggi il Corriere pubblica un’intervista di Federico Fubini all’Ad di Uber, la società che offre trasporto privato a prezzi concorrenziali in tutto il mondo, a dir poco inquietante. Il nostro governo vuole mettere fuori legge tutte le NCC, le auto a noleggio con guidatore. Come Uber appunto. Sarebbe un altro clamoroso cedimento alla lobby corporativa dei tassisti. E qui c’è da domandarsi: davvero abbiamo un governo contro la libera impresa? O, come dice il manager di Uber: l’Italia è pronta a entrare nel 21esimo secolo o vuole rimanere bloccata nel passato?
La Versione si conclude con il messaggio scritto da papa Francesco per la prossima Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, prevista per il 21 aprile. Scrive fra l’altro il Papa: «In questo nostro tempo è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace».
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae una famiglia di profughi palestinesi a Gaza, in una cena di Ramadan davanti alle macerie della propria casa.
Foto: New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La premier spiega alla Camera la politica estera del governo. Il Corriere della Sera: Meloni: Russia, voto farsa. Per La Stampa l’assenza del vice primo ministro leghista dall’aula non è un bel segno: Russia, sgarbo di Salvini a Meloni. Libero la legge così: Meloni fischia la fine della ricreazione. Il Domani invece ipotizza una futura resa dei conti: Sulla Russia asse tra Meloni e Tajani. Anche la Lega pensa a una Salvinexit. Il Fatto sottolinea il nuovo bellicismo europeo: 700 incontri con le lobby: così l’Ue butta soldi in armi. Mentre il Manifesto commenta una foto di Ursula von der Leyen in divisa militare con un gioco di parole: Karma letale. Alle questioni interne si dedica La Repubblica che dà spazio alla memoria della Corte dei Conti contro la rimodulazione del governo: Pnrr sotto accusa. Il Quotidiano Nazionale riporta le richieste del ministro all’industria post Fiat: Urso a Stellantis: «Ora servono i fatti». Il Sole 24 Ore si occupa del commercio: Negozi, patto con le chiusure. Il Messaggero delle riforme ambientaliste: Bce, affondo sul green deal: «Rallenta la produttività». Il Giornale stigmatizza il gestaccio di uno studente in aula contro Meloni: Piccoli odiatori crescono. La Verità è in piena campagna xenofoba: Altro che ius soli, l’Italia ha il record Ue di cittadinanze. Avvenire sottolinea i risultati del Report 2023 preparato dall’Associazione Meter anti pedofilia: Corpi sfruttati.
MELONI: “VOTO FARSA IN DONBASS MA NOI CONTRARI ALL’INVIO DI TRUPPE”
La premier Giorgia Meloni parla in Senato della posizione italiana in vista del Consiglio Europeo. Stigmatizza le «elezioni farsa» nelle zone ucraine occupate dai russi, ma non polemizza direttamente con Matteo Salvini. Poi aggiunge in polemica con Macron: «Invio di truppe? noi contrari». Marco Galluzzo per il Corriere.
«No all’idea della Francia, nessun dispiegamento di truppe sul suolo ucraino. Il sostegno a Kiev deve andare avanti, ma senza l’intervento diretto. Nelle dichiarazioni in Senato in vista del Consiglio europeo Giorgia Meloni mette in chiaro che l’Italia «non è favorevole in alcun modo a questa ipotesi», avanzata dal presidente francese Emmanuel Macron, perché «foriera di un’escalation pericolosa da evitare invece ad ogni costo». Nell’Aula di Palazzo Madama la premier ribadisce da un lato l’impegno per «una pace giusta, duratura, rispettosa della dignità della nazione aggredita», ma dall’altro ricorda che «un ostacolo fondamentale a qualsiasi possibile negoziato sta nel fatto che fin qui la Russia ha sistematicamente violato gli accordi sottoscritti e il diritto internazionale». Quindi, è la domanda che rivolge all’emiciclo, dove è vistosa l’assenza di Matteo Salvini, «come ci si può ragionevolmente sedere a un tavolo di trattative con qualcuno che non ha mai rispettato gli impegni assunti?». Non solo, parlando della Russia e del rieletto Putin, e qui ancora ritornano nell’aria le parole di due giorni fa del vicepremier leghista, Meloni è netta nel condannare «lo svolgimento di elezioni farsa in territorio ucraino e le vicende che hanno portato al decesso di Aleksei Navalny, il cui sacrificio in nome della libertà non sarà dimenticato». Salvini è impegnato in alcune riunioni al Mit. Fonti del Carroccio fanno filtrare però «piena sintonia» tra il segretario leghista e la premier. Le considerazioni in Parlamento, alla vigilia del summit europeo, hanno un prologo nelle parole pronunciate ad Agorà , e indirizzate alla segretaria del Pd, Elly Schlein, «ho visto una sinistra che negli anni ha lavorato sulla demonizzazione degli avversari e invece credo che la politica italiana abbia bisogno di riportare il confronto su una condizione di rispetto reciproco. Quando lavori sulla presunta impresentabilità, quando cerchi di trascinare la politica nella lotta nel fango ci perdono le istituzioni. Io ho rispetto per Elly Schlein, quindi forse lei è la persona che spero che voglia imprimere un cambiamento». Poi Meloni parla delle Europee: «Per me una vittoria sarebbe confermare i voti che mi hanno portato a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa, quando FdI raggiunge il 26%. «Cosa non facile — aggiunge — non accade spesso che dopo un anno e mezzo un governo possa confermare quel consenso». Nella risoluzione di maggioranza, che serve anche a mettere a tacere le incomprensioni delle ultime ore, il governo si impegna «a continuare ad assicurare all’Ucraina un forte sostegno declinato nelle diverse dimensioni, politico-diplomatica, economico-finanziaria, militare e umanitaria»; a «favorire ogni iniziativa diplomatica finalizzata ad una risoluzione del conflitto, rispettosa del diritto internazionale»; a «ribadire la condanna per la detenzione e la morte disumana di Alexsei Navalny e per la repressione delle pacifiche manifestazioni in sua memoria». Meloni aggiunge che si lavorerà affinché il Consiglio esprima una «posizione autorevole» sul conflitto tra Israele e Hamas, finalizzato alla risoluzione della guerra. «Non possiamo dimenticare chi è stato a scatenare questo conflitto, è stato Hamas». La premier quindi ha puntato il dito contro le «reticenze» ad ammetterlo che «nascondono un antisemitismo dilagante». «Nonostante questo ribadiremo la nostra contrarietà a un’azione di terra da parte di Israele a Rafah che potrebbe avere conseguenze ancora più catastrofiche sui civili». Quindi Meloni difende la sua politica estera, i risultati raggiunti nel recente viaggio in Egitto, il calo degli sbarchi dalla Tunisia, frutto di una strategia congiunta con la Commissione Ue. «Grazie a questa rinnovata cooperazione — rivendica — abbiamo raggiunto l’importante risultato della scarcerazione di Patrick Zaki, ma a differenza di quanto sostenuto da alcuni, non abbiamo interrotto, e non intendiamo interrompere, la ricerca della verità sul caso di Giulio Regeni».
MELONI MINIMIZZA, SALVINI NON È IN AULA
Il leghista è il vero convitato di pietra in Senato dopo le parole poco prudenti sul plebiscito di Vladimir Putin. La linea di Palazzo Chigi è quella di non alimentare polemiche. Lollobrigida tace. Il lodo-Lotito. La nota è di Adalberto Signore per Il Giornale.
«Quando dallo schermo al plasma della buvette del Senato spunta l’immagine di Giorgia Meloni che sistema il microfono pronta a intervenire in replica nella discussione sulle comunicazioni in vista del Consiglio europeo, Claudio Lotito ha appena finito di illustrare quello che sarà l’approccio della premier. Il senatore azzurro, ci mancherebbe, tutto vuol fare fuorché dar consigli a Meloni, che cita una sola volta e per dire che «lei è una che parla con i fatti». Però, a ben vedere, il ragionamento che fa rispondendo a chi gli chiede conto della sua flebile solidarietà a Ciro Immobile (aggredito verbalmente e fisicamente mentre accompagnava il figlio a scuola), torna perfettamente con l’approccio che la premier avrà nell’Aula del Senato nei confronti di Matteo Salvini. Immobile ha ben fatto a denunciare l’accaduto all’autorità giudiziaria, ma ha poi sbagliato a dare risalto mediatico al caso, spiega il presidente della Lazio. Perché, dice, così si ottengono solo due effetti: «Lo si amplifica e si aizzano gli emulatori». Di lì a qualche minuto, Meloni farà suo il lodo-Lotito. E, intervenendo al Senato, non nominerà neanche una volta Salvini, nonostante il leader della Lega sia il convitato di pietra di una giornata dove a Palazzo Madama non sono solo le opposizioni a interrogarsi sul sostegno del vicepremier a Vladimir Putin dopo lo scontato risultato delle presidenziali in Russia. E Salvini non è assente solo nelle parole. Lo è anche nei fatti. In Senato non si presenta, come - va detto - già era accaduto nelle comunicazioni al Parlamento per il Consiglio Ue di metà dicembre. Però oggi è lui che aspettano tutti. Al punto che, già qualche ora prima dell’inizio dei lavori del Senato presieduti da Ignazio La Russa, c’è chi nota come gli uffici del vicepremier non abbiano dato risposta né alla convocazione informale che arriva ai ministri via sms, né a quella inviata via mail alle segreterie particolari dei singoli ministeri. Solo una mezz’ora prima, il Mit farà sapere che Salvini non ci sarà, perché «impegnato in una serie di incontri al ministero». Si materializza così, probabilmente solo per caso, il lodo-Lotito. Meloni ribadisce con forza la linea filoatlantica, conferma il sostegno italiano a Kiev, condanna le «elezioni farsa» in Russia e ricorda il «sacrificio in nome della libertà» di Alexei Navalny. Ma non un accenno, neanche generico, a Salvini. Per evitare, seguendo il ragionamento del presidente della Lazio, di «amplificare» e «aizzare emulatori». Nel primo caso, la notizia di giornata sarebbe stata «Meloni contro Salvini». Che - seppur verissimo perché non è un mistero che il rapporto tra i due sia ormai compromesso - non è certo un bel messaggio a meno di tre mesi dalle Europee. Nel secondo caso, se fosse stata la premier ad aprire pubblicamente le danze contro Salvini, sarebbe diventato difficile silenziare l’insofferenza ormai conclamata di colonnelli e seconde file di Fdi. Il mandato di Palazzo Chigi, però, è di smussare e minimizzare. Il ministro Francesco Lollobrigida, per dire, nella Sala Garibaldi del Senato si sofferma a lungo per commentare con soddisfazione l’ampio spazio al dossier agricoltura che Meloni ha riservato nel suo intervento. Poi, appena gli si chiede del leader della Lega, si smarca con un «Salvini chi?» e se ne perdono le tracce. Insomma, per tutti - premier compresa - la consegna è quella del silenzio. Non è un caso che a sera, durante le dichiarazioni finali di voto, il capogruppo del Pd in Senato Francesco Boccia torni sul punto: «Chiedo formalmente alla presidente Meloni di dirci cosa pensa delle parole di Matteo Salvini».
BORRELL VUOLE USARE I FONDI RUSSI PER LA GUERRA
La proposta di Josep Borrell, capo della diplomazia Ue: usare i profitti degli asset congelati della Banca centrale russa, che ammontano a circa 200 miliardi. Spinta in avanti «dopo mesi di discussioni e di dubbi giuridici» sollevati da alcuni Stati ma anche dalla Banca centrale europea. E c’è l’incognita di Orbán. Francesca Basso per il Corriere.
«Basta con i “ma”. Metto sul tavolo una proposta concreta e gli Stati dovranno dire se sono d’accordo oppure no». Oggi Josep Borrell, capo della diplomazia e della politica di sicurezza europee, presenterà ai Paesi Ue una proposta per usare i 3 miliardi di euro l’anno generati dagli extraprofitti straordinari dei beni russi congelati dalle sanzioni imposte a Mosca per l’aggressione all’Ucraina. «L’idea è quella di utilizzare la maggior parte di queste entrate per fornire a Kiev le attrezzature militari di cui ha bisogno per difendersi», ha detto Borrell parlando a un gruppo di media europei, tra cui il Corriere. Gli asset congelati della Banca centrale russa ammontano a circa 200 miliardi, la maggior parte dei quali in Belgio, ma il capitale non può essere toccato secondo il diritto su cui si basano le sanzioni. Si tratta di una spinta in avanti «dopo mesi di discussioni e di dubbi giuridici» sollevati da alcuni Stati ma anche dalla Banca centrale europea, che ha messo in guardia dal rischio di minare la fiducia nell’euro e nei mercati dell’Ue. Borrell ha però rassicurato che «la Bce è stata pienamente consultata» per la formulazione di questa proposta. È concreto il capo della diplomazia Ue: «La somma di denaro, 3 miliardi all’anno, non è straordinaria, ma non è trascurabile» e comunque «i russi non saranno molto contenti». La proposta finirà sul tavolo del Consiglio europeo di domani, però per decidere i leader Ue avranno bisogno di più tempo. Ancora lunedì, al Consiglio Affari esteri, «alcuni membri si sono mostrati preoccupati per la base giuridica, per la conformità con il diritto internazionale, per le conseguenze sui mercati finanziari», ha spiegato Borrell auspicando che «i leader siano d’accordo sulla proposta per inviare un messaggio ai loro ministri per l’attuazione». Per il capo della diplomazia Ue non c’è più tempo da perdere perché «la guerra si deciderà quest’estate, la Russia presto prenderà l’iniziativa» e «la nostra priorità è continuare a sostenere l’Ucraina con tutto ciò che serve per prevalere». Cosa farà l’Ue con questi soldi? Li destinerà per la maggior parte alla European Peace Facility, lo strumento intergovernativo per la pace che non deve rispettare gli stessi standard giuridici del bilancio Ue o essere approvato dal Parlamento europeo. «L’Epf è stata creata per sostenere diversi Paesi, soprattutto i partner africani, quando ancora non c’era la guerra in Ucraina — ha ricordato Borrell —. Questo perché il bilancio europeo non può essere usato per comprare armi: è la dottrina costante del servizio legale. Potrà essere contestata in futuro, ma al momento questo è ciò che prevedono i Trattati». Dallo scoppio della guerra l’Epf è stato usato per rimborsare i Paesi Ue per le armi che hanno fornito all’Ucraina e lunedì scorso i ministri degli Esteri dei Ventisette hanno concordato di stanziare altri 5 miliardi per il Fondo per l’Ucraina previsto all’interno dell’Epf. Non tutti i 3 miliardi annui generati dagli extraprofitti andranno allo strumento per la pace, si tratta del «90%, mentre il 10% andrà al bilancio Ue per rafforzare l’industria della difesa ucraina. Serve però che gli Stati Ue siano d’accordo», ha proseguito Borrell. Per convincere i pochi Paesi contrari a inviare armi all’Ucraina ad accettare la proposta, come ad esempio l’Ungheria, è previsto che saranno destinate a Kiev le quote in proporzione a quanto un Paese contribuisce all’Epf. Quindi non tutto il 90% andrà all’Ucraina. E questo, secondo Borrell, permetterà ai Paesi contrari di dire che non hanno fornito aiuto militare a Kiev. Se basterà a convincere Budapest lo vedremo presto. «Serve l’unanumità» per approvare l’uso degli extraprofitti e in genere il premier ungherese Orbán non si tira mai indietro quando può esercitare il suo diritto di veto. Nei mesi passati la discussione sull’uso degli extraprofitti era partita dalla necessità di recuperare ingenti investimenti per la ricostruzione dell’Ucraina ma Borrell ha osservato che «la cosa migliore è evitare che qualcosa venga distrutto». La percezione è cambiata ed è evidente che l’esito della guerra è legato alla capacità degli alleati di fornire aiuti militari a Kiev. In Europa è diventato centrale il dibattito su come finanziare la difesa. «Ma non siamo ancora in un’economia di guerra», ha sottolineato Borrell, aggiungendo che servirà «creatività finanziaria» e soprattutto «volontà politica». Gli eurobond sono ancora lontani».
PUTIN VUOLE CREARE UNA ZONA CUSCINETTO
La strategia del Cremlino. Dopo la vittoria elettorale aumenta la pressione sulle regioni ucraine dell’Est anche per respingere con ogni mezzo i battaglioni filo-Kiev a Belgorod. Daniele Raineri per Repubblica.
«La fase post “elezioni” di Putin comincia con una spinta per prolungare e intensificare la guerra in Ucraina e già nel discorso che celebrava la vittoria c’era un passaggio che è un annuncio di escalation. «È possibile — dice il presidente russo — che considerati i tragici eventi in corso saremo costretti a un certo punto a creare una zona sanitaria nei territori controllati da Kiev. A creare una zona di sicurezza, che sarà molto difficile da superare con i mezzi di distruzione usati dai nemici ». La frase di Putin è arrivata quando nell’incontro pubblico gli è stata posta la domanda: «È necessario conquistare la regione di Kharkiv? » e tutti l’hanno intesa come un’anticipazione di quello che prima o poi l’esercito tenterà di fare. Entrare e avanzare nelle regioni ucraine di Sumy e di Kharkiv, a ridosso della Russia. La città di Kharkiv in particolare è ad appena trenta chilometri dal confine, era uno dei primi obiettivi dell’invasione nel 2022 e non si è mai scrollata di dosso il presagio di un’offensiva russa per prenderla. L’annuncio coincide con le analisi militari, grossomodo unanimi, che parlano di un’offensiva russa nell’estate. Le truppe di Putin dopo aver consumato il 2023 a difendere la cosiddetta linea Surovikin che protegge i territori occupati useranno il 2024 per lanciare un attacco contro gli ucraini che ormai soffrono una carenza preoccupante di aiuti militari dall’esterno. Spesso le parole del presidente russo fanno da premessa, anche a distanza di tempo, alle mosse delle truppe — a partire da un suo saggio del luglio 2021 che spiegava l’appartenenza storica dell’Ucraina alla Russia e di fatto prevedeva l’invasione. Sul campo ci sono già movimenti: ieri per esempio nella regione frontaliera di Sumy, dove in teoria non c’è un fronte attivo come nel Donbass, i russi hanno lanciato cinquanta ondate di bombardamenti con missili e bombe guidate e sono state contate più di duecento esplosioni. I «tragici eventi» citati da Putin nel discorso della vittoria a Mosca sono i raid dei battaglioni di combattenti russi di estrema destra — gestiti dall’intelligence militare dell’Ucraina — che seminano il panico nella regione di Belgorod. Accade con una certa regolarità. Milizie come i Corpi dei volontari russi e la Legione Libertà della Russia superano il confine, combattono contro l’esercito russo per qualche giorno, infliggono il maggior danno possibile e poi si ritirano di nuovo in territorio ucraino. Il governatore russo di Belgorod, Vyacheslav Gladkov, ha appena annunciato che intende evacuare circa novemila bambini da quella regione e spostarli verso Est — al sicuro dai bombardamenti frequenti delle forze di Kiev. I miliziani russi anti Putin sono un bersaglio naturale dell’apparato politico-militare di Mosca. Ieri il presidente russo ha partecipato a una riunione del consiglio del servizio di sicurezza russo, l’Fsb, e ha ordinato di dare la caccia «ai traditori che si sono uniti ai gruppi di sabotaggio e di ricognizione ucraini: non dimenticate chi sono, identificateli per nome. Li puniremo senza prescrizione, ovunque si trovino». Senza prescrizione: vuol dire che in teoria anche fra decenni i combattenti russi che oggi sono in guerra dalla parte dell’Ucraina saranno bersagli dell’Fsb. Del resto, è una cosa che i russi anti-Putin hanno sempre messo in conto. La fase post-vittoria di Putin comincia anche con il rafforzamento del rapporto privilegiato con la Cina e con minacce all’Europa. A maggio il primo viaggio presidenziale, secondo un’esclusiva di ieri di Reuters, sarà in Cina per parlare con il presidente Xi Jinping, che nel frattempo sta facendo pressione perché la Russia sia di nuovo ammessa agli incontri internazionali dove si parla di una soluzione per la guerra in Ucraina — a cominciare dalla prossima conferenza di pace in via di preparazione in Svizzera. E il direttore dei servizi segreti esterni della Russia, Sergey Naryshkin, ha detto che la Francia starebbe già preparando il contingente che sarà inviato in Ucraina. Nella fase iniziale si tratterà di circa duemila militari, ha detto, e saranno un obiettivo legittimo dei soldati russi. È possibile che si tratti di una manovra propagandistica dei servizi russi, per giocare sulle divisioni interne in Europa e sfruttare le notizie di queste settimane che vorrebbero il presidente francese, Emmanuel Macron, pronto a inviare soldati in Ucraina — non a combattere nelle trincee ma con il ruolo di specialisti che dovrebbero aiutare i soldati ucraini a usare armi sofisticate. L’arrivo delle truppe di Macron, secondo Naryshkin, sarebbe una svolta che precederebbe di poco una guerra mondiale».
PERCHÉ L’EUROPA VUOLE LA GUERRA?
Roberta de Monticelli per il Manifesto cerca di comprendere perché gli europei siano diventati “ciechi alla storia presente”. La lezione di Simone Weil e le speranze, tradite, di Mikhail Gorbaciov.
«Davvero se vogliamo la pace dobbiamo preparare la guerra, come afferma Charles Michel, presidente attuale del Consiglio europeo, a conclusione del discorso con cui prepara il vertice che dovrà tradurre lo squillo di tromba in spesa di riarmo? Davvero è più unita, questa Ue, dopo le parole di Emmanuel Macron che non esclude l’invio di truppe europee in Ucraina e dopo il triangolo di Weimar, episodi entrambi che hanno finito di sfasciarne la ragione d’esistenza - la pace - nello stridore degli interessi nazionali e soprattutto elettorali differenti, con le elezioni europee alle porte? Molte volte mi sono chiesta che cosa ci renda ciechi alla storia presente, impedendoci di discernere i torti e le ragioni, ma anche solo la vera grandezza e la vera miseria, almeno con il grado di lucidità con cui li discerniamo nelle azioni e negli eventi del passato: lucidità relativa, comunque non comparabile alla nebbia intrisa di menzogne che circonda le azioni mentre si svolgono, i fatti mentre accadono. Perché da sempre le civiltà implodono e le guerre accadono prima che la coscienza media, comune, ne percepisca i segni: e tanto meno li percepiamo, quante più parole evocatrici di scenari catastrofici circolano sugli organi della coscienza quotidiana, i media appunto. Dove, è vero, vige un’equiparazione fra le trombe dell’apocalisse, i risultati dei mondiali di calcio e la pubblicità delle vacanze, secondo le imperscrutabili ma democratiche leggi del giornalismo (o del nichilismo?). La filosofia ha una risposta propositiva: bisogna scrivere di cose eterne perché siano di vera attualità, perché sia fatta luce sul presente. Lo sapeva Tomaš Masaryk, il fondatore di quella che fu la Repubblica Cecoslovacca indipendente, che nel suo La rivoluzione mondiale (1925) espose il suo luminoso credo: che la democrazia mondiale sia solo nella sua infanzia, e ci sia una «politica sub specie aeterni», che consiste nel costruirla. Questo filosofo cui fu dato, sia pure per poco, regnare con la ragion pratica edificando democrazia, aveva capito che senza il respiro dell’alto la democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la gioventù, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro dell’alto - ed è questa che volle chiamare «una politica dell’eternità». Un’iniezione di spirito che dissesta gli ingranaggi dell’amor proprio e della volontà di potenza. In quel suo grande libro lesse con sguardo lucidissimo e puro l’inutile strage che aveva insanguinato il globo; e vi vide lo scatenarsi di una tendenza assassina, omicida e suicida, di proporzioni planetarie, l’«oggettivazione violenta», nata dalla confusione di dio con l’io. Un io perfettamente liberato, prima, dal demone di Socrate e dai fastidiosi vincoli della giustezza, e poi da ogni cristiana pietà. Lo sapeva Simone Weil, che a Londra nel 1943, chiusa in uno stanzino a passare carte purché non desse noia a de Gaulle che la riteneva una pazza, scrisse pagine Sul colonialismo - Verso un incontro fra Occidente e Oriente (a cura di Domenico Canciani, Medusa 2003), che insieme alla grandiosa opera sul Radicamento (e lo sradicamento di altre civiltà in cui il colonialismo consiste) individuano la condizione vera di una rinascita della civiltà europea: riconoscere la tragedia che incombe sull’Europa post-bellica. E cioè proclamare la civiltà dei diritti umani rimuovendo la faccia oscura della luna, il buio dietro lo splendore illuministico della modernità europea - la rapina dei continenti, l’orrore criminale del colonialismo, che è suicida, alla lunga, per chi lo perpetra. Perché la perdita del passato che è la vera tragedia umana, inflitta con la violenza ai popoli colonizzati (oggi vediamo cos’è, nella lente del genocidio di Gaza), è insieme la perdita dell’anima di chi assassina (cosa è divenuto Israele? Che ne è dell’eredità della prima religione monoteistica?). Il passato è il deposito di «tutti i tesori spirituali» delle civiltà che l’Europa coloniale ha sradicato, a oriente, a sud, e anche entro se stessa. Contiene il miracolo greco, il cristianesimo evangelico, la filosofia arabo-musulmana, la spiritualità catara... Per questo una completa americanizzazione rappresenta un pericolo molto grave - la perdita del passato, l’avvitamento completo sul presente. Ossia - conclude assai profeticamente Simone - la ricaduta nell’idolatria che scrive i nomi di dio («i nostri valori») sulle bandiere e ne fa «parole assassine», menzogne come quelle che hanno in effetti giustificato le disastrose guerre americane fino a ieri. La «perdita del soprannaturale» diventa l’idolatria della forza: la politica dell’egemonia mondiale. Ma lo sapeva anche il più grande sconfitto della storia contemporanea: Michail Gorbaciov. Che nell’ultimo suo scritto rilancia questo suo messaggio oltre la morte: «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente» (La posta in gioco. Manifesto per la pace e la libertà. Baldini e Castoldi 2020). Pochi capirono che il disarmo nucleare iniziato a Reykjavik su sua iniziativa nel 1986 era per il nuovo leader russo l’aspetto «esterno» o globale della perelstrojka. Cioè di quella «rivoluzione democratica delle menti» che non una «parata delle sovranità» avrebbe dovuto produrre, ma la Casa Comune Europea, la realizzazione delle ragioni ideali per cui l’Unione europea si apprestava a nascere. È in questo senso che nel ’91, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, aveva detto: «Se la perestrojka fallisce, svanirà la prospettiva di entrare in un nuovo periodo di pace nella storia». Abbiamo visto come sta andando a finire».
MATTARELLA, NUOVO APPELLO PER LA PACE
All'inaugurazione del nuovo quartier generale della Stampa estera a Roma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella rinnova un appello alla pace, con criteri di "giustizia ed equità". Ugo Magri per La Stampa.
«Sempre più spesso Sergio Mattarella pronuncia la parola «pace». Due volte nella stessa giornata di ieri. La prima inviando un caloroso messaggio a Papa Francesco per l'undicesimo compleanno del suo pontificato; la seconda inaugurando il nuovo quartier generale della Stampa estera a Roma. Non più tardi di venerdì il presidente aveva ricordato il bombardamento che 80 anni fa a Cassino fece migliaia di vittime civili, e pure quel discorso era suonato come un forte richiamo contro l'orrore delle guerre, tutte senza eccezioni. Ma gli appelli a far tacere le armi non dipendono certo dagli anniversari o dalle commemorazioni, a legarli c'è un filo, la pace appunto. Di qui il punto di domanda che qualche osservatore solleva: Mattarella è giunto alla convinzione che in Ucraina sia ormai tempo di voltare pagina, rinunciando a sostenere Kiev e, anzi, spingendo Vlodymyr Zelensky a negoziare con Mosca qualche forma di resa? Al Quirinale la risposta è no, messa in questi termini non se ne parla nemmeno. La posizione rimane la stessa che il Capo dello Stato ribadisce da due anni a questa parte, in piena sintonia con i governi Draghi e Meloni. Dunque condanna senza «se» e senza «ma» dell'invasione russa; sostegno finanziario (e non solo) all'Ucraina fino a quando ciò risulterà necessario per riaffermare il diritto internazionale violato; necessità di favorire un confronto tra le parti belligeranti, spingendole negoziare per porre fine alla strage. E nessuna condiscendenza nei confronti di Mosca: prova ne sia che già due volte l'ambasciatore della Federazione Russa non ha ricevuto l'invito al Colle per la Festa della Repubblica, né il presidente ha mandato a Vladimir Putin le congratulazioni per il trionfo nelle elezioni-farsa. Un segnale inequivocabile. Nel messaggio a Francesco, del resto, è detto chiaro: la fine del conflitto deve corrispondere «a criteri di giustizia e di autentica equità». Guai se fosse un premio alla prepotenza (lo stesso Vaticano ha ridimensionato le controversie sulla «bandiera bianca» evocata dal Papa giorni fa). Ma non c'è dubbio che l'accento di Mattarella cada, da qualche mese soprattutto, sulla ricerca di soluzioni, sulle possibili vie d'uscita. Davanti ai corrispondenti stranieri il presidente ha fatto pesare come, fino all'aggressione russa, l'Europa vivesse un'epoca di serenità che ci auguriamo «di riuscire a difendere, a preservare e a ripristinare appieno, eliminando, rimuovendo ed estinguendo venti e fuochi di guerra, dentro l'Europa e accanto all'Europa». Una speranza tra mille incognite. C'è lo stallo al fronte dove la controffensiva è abortita. C'è la stanchezza delle pubbliche opinioni, testimoniata da tutti i sondaggi. C'è la spada di Damocle delle elezioni americane, che se tornasse Donald Trump cambierebbero le carte in tavola. Dare voce alla pace non è pacifismo a senso unico: è prudenza, è realismo».
A GAZA LA GESTIONE DEGLI AIUTI È NEL CAOS
La caccia alla polizia di Gaza mette a rischio la gestione degli aiuti. Israele punta all’apparato amministrativo di Hamas. Distribuire cibo ora è diventato più difficile. Michele Giorgio per Il Manifesto.
«Le Forze armate israeliane bombardano edifici civili a Gaza senza disporre di informazioni d'intelligence sulle postazioni di Hamas o di altre organizzazioni armate. Joe Biden lo ha sempre saputo, almeno dal 27 ottobre, rivelava ieri il Washington Post riferendo del contenuto di un incontro avuto dal presidente americano con un gruppo di esperti e funzionari della politica estera Usa. Rivelazioni che si abbinano all’ultimo rapporto dell’associazione Breaking the Silence - riunisce militari israeliani che «rompono il silenzio» sui crimini contro i palestinesi che demolisce «il mito israeliano dell’Esercito Morale» e spiega le stragi di civili con la violazione consapevole di ogni regola di ingaggio. Gli abitanti di Gaza non hanno bisogno di leggere rapporti per sapere che i presunti «attacchi mirati contro obiettivi di Hamas» invece colpiscono tutti. Vivono sulla loro pelle un’offensiva militare che ha ucciso circa 32mila persone – 2/3 dei quali donne e bambini - senza dimenticare migliaia di dispersi e decine di migliaia di feriti. Quanto è accaduto due giorni dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city ha offerto una dimostrazione pratica di cosa avverrà nei prossimi giorni e mesi se non sarà proclamato un cessate il fuoco permanente nella Striscia: «operazioni mirate» israeliane improvvise con effetti devastanti e letali. Non c’è un bilancio definitivo dei civili rimasti uccisi nel raid di lunedì nel più importante degli ospedali della Striscia. I giornalisti che erano sul posto però confermano che sono numerosi i non combattenti uccisi o feriti intorno e dentro al complesso ospedaliero. L’esercito israeliano, che ha spianato anche il cortile che ospitava migliaia di sfollati, non parla di civili, sostiene di aver ucciso oltre «50 combattenti di Hamas», tra cui Faiq Mabhouh, un alto funzionario del movimento islamico, e di «aver catturato 180 sospetti». A Gaza city altre case sono state rase al suolo e sono morte per le bombe 15 persone di una stessa famiglia. Rafah sul confine con l’Egitto, avvertono i palestinesi, è sistematicamente sotto attacco: nelle ultime ore 14 persone sono state uccise. L’uccisione di Faiq Mabhouh rientra nella caccia ai dirigenti di Hamas incaricati di gestire gli aiuti umanitari e ai comandanti e agenti della polizia di Gaza. Il funzionario di Hamas, non in clandestinità, era responsabile del coordinamento della distribuzione dei generi di prima necessità. La politica israeliana di eliminazione di ogni apparato di Hamas, anche non militare, di fatto impedisce la protezione dei camion con gli aiuti umanitari provenienti dal sud e la distribuzione organizzata del cibo alla popolazione. Il gabinetto di guerra guidato da Netanyahu, spiega il giornalista Ahmed Rizek (nome di fantasia per ragioni di sicurezza) «vuole che siano guardie private, reclutate da famiglie locali, e non i poliziotti di Hamas a scortare gli autocarri che dal valico di Kerem Shalom vanno al nord. Sino ad oggi però ben poche persone si sono dette pronte a farlo. Nessun palestinese vuole e può lavorare per Israele. Anche da questo sono nate le stragi degli affamati del 29 febbraio e di qualche giorno fa alla rotonda Kuwait». Il 24 febbraio, secondo il sito Axios, l’Amministrazione Biden aveva chiesto a Israele di non colpire la polizia civile perché accelerando il crollo dell'ordine pubblico avrebbe provocato il caos e, quindi, la fine della distribuzione ordinata delle razioni di cibo. «Ora – dice Ahmed Rizek - per gli autisti senza scorta è quasi impossibile raggiungere i centri di distribuzione e le migliaia di persone che assaltano gli autocarri finiscono per avvicinarsi troppo alle postazioni dei soldati israeliani che aprono il fuoco». Israele invece, contro le posizioni degli Usa, tiene nel mirino comandanti e agenti della polizia di Gaza. L’ultimo è stato ucciso ieri a Nuseirat. L’attacco a Rafah intanto resta sul tavolo dei comandi militari israeliani. Netanyahu ha acconsentito a inviare, la prossima settimana, una delegazione a Washington per discutere con gli Stati uniti i piani di invasione della città, dove sono rifugiati oltre un milione di sfollati. Biden ha tentato nuovamente, invano, di dissuadere Netanyahu dal lanciare l’offensiva durante il colloquio telefonico di lunedì, ma il primo ministro israeliano farà ciò che vuole, come succede dal 7 ottobre. In ogni caso gli Stati uniti continuano a difendere il premier israeliano e il suo governo dalle accuse internazionali per la grave crisi umanitaria a Gaza – la carestia è imminente, avverte un rapporto dell’Onu di due giorni fa - causata dall’offensiva israeliana. Il portavoce del dipartimento di Stato Vedant Patel ha detto che gli Usa non hanno le prove che Israele stia usando la fame come arma di guerra. Il Ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor ieri ha accusato Israele di aver ignorato la sentenza di gennaio della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia volta a prevenire «atti di genocidio». «Ora vediamo la fame di massa e la carestia davanti ai nostri occhi – ha detto Pandor in un’intervista Come umanità, dobbiamo guardare a noi stessi con orrore e sgomento ed essere preoccupati di aver dato l’esempio». Parole non recepite dal Consiglio europeo che nella riunione di domani e venerdì, secondo una bozza di risoluzione circolata ieri, chiederà solo una «pausa umanitaria» e non il cessate il fuoco a Gaza».
“HAMAS SCAPPA E NOI RESTIAMO SOTTO LE BOMBE”
Drammatico diario da Gaza oggi di Sami al-Ajrami per Repubblica. Racconta: “Anche le seconde linee di Hamas fuggono all’estero con le famiglie mentre noi restiamo qui a morire”.
«Durante la notte ci sono sempre bombardamenti aerei su Rafah e a volte i jet israeliani volano molto bassi, radenti al suolo, e infrangono la barriera del suono. Lo fanno apposta perché così il rumore fortissimo spaventa la gente. Ho trovato una sistemazione a Rafah, in una cantina assieme ad altre persone, e per adesso vengo qui in città perché è l’unico posto dove riesco a trovare connessione. C’è molto pessimismo, tutti dicono che gli israeliani attaccheranno alla fine del mese di Ramadan o anche prima. Netanyahu è convinto che senza attacco a Rafah non ci sarà la vittoria contro Hamas e la gente teme che per l’offensiva sia soltanto questione di giorni. Ci sono tanti dirigenti di Hamas che lasciano Gaza attraverso il confine egiziano, loro e le loro famiglie. Il portavoce del ministero della Sanità, Ashraf al Qadra, è andato via dalla Striscia ed è in Egitto. Il portavoce della polizia di Hamas, Iman Batanji, ci ha provato. In molti stanno mettendo in salvo loro e le loro famiglie. Hamas ha portato la guerra dentro la Striscia e sulla testa della popolazione, ha scatenato il conflitto, e ora lascia la popolazione ad affrontare le conseguenze. Del resto già prima della guerra i leader di Hamas come Ismail Haniyeh avevano lasciato Gaza, ora tocca alle seconde file, la gente è molta frustrata quando sente queste notizie e si sente lasciata a soffrire. Il resto del gruppo con il quale mi sono mosso per sfuggire alla guerra è in una tenda sulla spiaggia, donne, anziani e bambini, e anche per loro queste notti sono terrificanti. Ci sono molte operazioni militari a Khan Yunis, troppo vicino alla loro area, ci sono stati colpi sparati a caso dai carri armati, uno è finito vicino ma non ci sono stati feriti. In teoria è una zona che era stata indicata dagli israeliani per chi voleva evacuare dalla zone dove si combatte, ma non ci sono zone sicure a Gaza, nemmeno in quell’angolo che ci sembrava intoccato. Lì dove sono non c’è connessione e questo aumenta l’incertezza, io vado e vengo ma non posso restare lì perché voglio rimanere connesso e sapere che cosa succede. La gente guarda la costruzione del molo sul mare da dove arriveranno le navi con gli aiuti, è un molo costruito con le macerie degli edifici buttati giù dalle bombe, ma è scettica. Perché l’America vuole costruire quel molo per portare cibo, si chiedono, basterebbe far entrare le centinaia di camion con gli aiuti che stanno fermi appena al di là del muro, si vede che non c’è la volontà di farlo. La paura è che alla fine della guerra Israele vorrà spingere i palestinesi fuori da Gaza e mandarli da qualche altra parte, in qualche altro Stato, e che a nessuno sarà permesso restare. Sono le condizioni stesse della vita a Gaza che, quando la guerra finirà, ci spingeranno via – se sarà possibile. Israele spremerà la popolazione fuori dalla Striscia».
PNRR, LA CORTE DEI CONTI CONTRO IL GOVERNO
Nella rimodulazione del Pnrr sono stati dati troppi poteri a Palazzo Chigi. L’accusa è contenuta nella memoria depositata alla Camera dai giudici della Corte dei Conti. Dubbi anche per i poteri ispettivi di Palazzo Chigi: “Non coerente con l’autonomia costituzionale degli enti locali”. L’articolo per Repubblica è di Giuseppe Colombo.
«Le mani di Palazzo Chigi sul Pnrr. Così invasive da travalicare i limiti previsti dalla Costituzione. Tentacolari, fino a ledere l’autonomia di Regioni, province e Comuni. Eccolo il grande azzardo che emerge dal decreto voluto da Giorgia Meloni e dal suo fedelissimo Raffaele Fitto. Obiettivo, controllare il Piano nazionale di ripresa e resilienza da 194,4 miliardi. Lo scrive la Corte dei Conti: la destra al governo ha forzato la mano. In una memoria depositata in Parlamento, la magistratura contabile lancia l’allarme sulle ispezioni e i controlli a campione che la Struttura di missione - la “stanza dei bottoni” della presidenza del Consiglio - potrà condurre nei confronti dei soggetti attuatori e delle amministrazioni centrali titolari delle misure del Piano: ministeri, enti locali, partecipate di Stato che realizzeranno le grandi infrastrutture finanziate dai fondi Ue. L’esecutivo vuole verificare come l’attuazione degli investimenti e delle riforme viaggi in parallelo alla programmazione concordata con l’Europa; ma sono gli strumenti scelti a essere definiti, di fatto, illegittimi. Perché, ammoniscono le toghe, il potere ispettivo «non appare coerente con i compiti di mero coordinamento attribuiti dall’articolo 95 della Costituzione alla presidenza del Consiglio dei ministri, presso la quale la predetta Struttura è allocata». Un vulnus che, si legge in un altro passaggio del documento, «appare ancor più evidente in caso di esercizio del potere ispettivo nei confronti di Regioni o enti locali, in ragione del principio costituzionale di autonomia che governa i rapporti tra questi e le amministrazioni centrali». Insomma, Palazzo Chigi in versione Grande fratello. Un nuovo atto della centralizzazione del Pnrr che la premier ha perseguito fin dall’insediamento, con lo “scippo” dei poteri al ministero dell’Economia. Voluto e ottenuto, anche con il silenzio-assenso di Giancarlo Giorgetti. Ma le “picconate” della Corte non finiscono qui. Anche le diramazioni del controllo sui territori presentano forti criticità: la decisione di istituire una cabina di regia presso ogni prefettura rischia di generare un ingorgo se non si definiranno meglio «compiti, ruoli, responsabilità e modalità di raccordo » con il “cervellone” centrale. Altro che velocizzazione dei progetti: così come è scritta, la norma mette a rischio «l’obiettivo di miglioramento dell’efficacia ed efficienza della gestione del Pnrr a livello territoriale». La matita rossa della Corte si fa sentire anche sulla parte relativa alle coperture del decreto. Evidenzia i tagli alla sanità. «Oltre a ridurre l’ammontare complessivo delle risorse», le forbici tagliano anche gli investimenti già avviati dalle Regioni. Un raffica di rilievi sulla relazione tecnica che, annotano i magistrati, «si limita a fornire gli elementi di sintesi delle valutazioni condotte per pervenire alla stima delle risorse Pnrr da integrare ». E «non vengono riportate le informazioni di dettaglio, al fine di ricostruire pienamente» le stesse valutazioni. Manca persino l’elenco delle misure che richi edono più risorse. È così confuso il quadro finanziario che sui conti pubblici aleggia un dubbio. Meglio, una zavorra: in futuro potrebbero essere necessari «integrazioni degli stanziamenti di spesa» In aggiunta ai 16 miliardi che il governo ha dovuto recuperare a colpi di tagli per finanziare i nuovi progetti e una parte di quelli che non potranno più contare sul Pnrr. Il conto lo pagheranno i ministeri, le Regioni e i Comuni: a loro sono stati imposti sacrifici e controlli. Meno ospedali, per la stretta sulla sanità. I cantieri delle ferrovie più lenti, per la scelta di asciugare il Fondo “anti inflazione”. Persino il rinvio dei fondi per la ricostruzione post terremoto. Ha deciso tutto Palazzo Chigi. Con le sue “mani”».
SCHLEIN SI OPPONE AL PREMIERATO
La segretaria del Pd Elly Schlein attacca frontalmente il progetto del premierato «pericoloso e furbissimo», presentato dal governo. L’attacco a Meloni anche sul caso Regeni e sulla sanità: la spesa è diminuita. Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Elly Schlein annuncia «l’opposizione durissima e senza sconti» del Pd al premierato. La segretaria dem sferra la sua offensiva nei confronti di Giorgia Meloni, ma non si lascia coinvolgere nella polemica innescata dalla premier che l’ha accusata di demonizzare l’avversario: «Gli attacchi personali e la lotta nel fango non sono mai stati nel mio stile. Abbiamo molte ragioni politiche e argomenti di merito per attaccare la presidente del Consiglio». Ci vuole «rispetto, rispetto reciproco», puntualizza Schlein, che aggiunge: «Ma pretendo rispetto anche per le persone che sono colpite dalle scelte del governo». In una conferenza stampa al Senato, con i capigruppo Francesco Boccia e Chiara Braga, il responsabile per le Riforme Alessandro Alfieri e Alessandro Giorgis, che guida la pattuglia dem nella Commissione Affari costituzionali di palazzo Madama, la segretaria va dritta al punto: «È una riforma pericolosa e furbissima e anche un bambino capirebbe che è una colossale bugia sostenere che non tocca i poteri de capo dello Stato. Meloni dice “decidete voi” ma dietro c’è un gigantesco “decido io per voi per 5 anni”. La democrazia, però, non è la libertà di acclamare un capo. Non mi stupisce che questa sia la riforma di un governo in cui c’è un ministro che dice che le elezioni in Russia sono state libere e democratiche». Perciò, come sottolinea Boccia, il Pd «utilizzerà tutti gli strumenti per opporsi a questo scempio». «Tutti gli strumenti — gli fa eco Braga — dentro e fuori il Parlamento». E Alfieri incalza: «Vogliamo fare questa battaglia con le altre opposizioni e anche con la forze sociali». Ma quella di puntare tutto sul referendum, che pure è un’idea che si è fatta strada nel Pd, è una strategia che non è stata ancora definita in tutti i dettagli al Nazareno. Occorre infatti capire prima fino dove sono disposti a spingersi i possibili alleati di questa campagna anti premierato, soprattutto i 5 Stelle. Conte finora non ha lanciato segnali univoci. Landini, invece, è già pronto a schierarsi: «Ci mobiliteremo contro il premierato». Certo, visto che la riforma non passerà con la maggioranza dei due terzi in Parlamento, la strada referendaria è inevitabile, ma a tutti è chiaro il rischio evocato dal segretario della Cgil qualche tempo fa: «Il paradosso che potremmo trovarci di fronte è che attraverso questo referendum potrebbe avvenire un consenso democratico che sancisce una svolta autoritaria nel nostro Paese». Schlein (che venerdì sarà a Messina per dire no al ponte) attacca la premier anche su altri fronti. Contesta la veridicità delle affermazioni di Meloni quando sostiene che la spesa sanitaria è aumentata: «Lei fa un gioco di prestigio, visto che rispetto al Pil è diminuita». E la critica per non aver detto una parola su Regeni ad Al Sisi: «Avrebbe dovuto chiedergli gli indirizzi di quelli che sono imputati per la sua morte». Inevitabile, nel botta e risposta con i giornalisti, la domanda su Calenda. Ma Schlein su questo non cambia linea: «Continueremo a lavorare per costruire coalizioni competitive in grado di battere la destra. A volte ci stanno tutti, a volte no, noi non smetteremo di parlare con nessuno, parleremo con tutte le forze alternative alla destra». E per dimostrare che il suo «pallino fisso», l’idea, cioè, dell’unità delle forze d’opposizione, è realizzabile, benché le difficoltà siano molte, Schlein lancia una proposta per una nuova iniziativa comune: «Il congedo paritario è una battaglia su cui la destra ha votato contro quando ho presentato un emendamento alla manovra, ma le altre opposizioni hanno votato tutte con noi. Facciamo insieme questa battaglia».
ANTIMAFIA, SCONTRO CAFIERO-LAUDATI
Il caso del dossieraggio diventa uno scontro tra Antonio Laudati e Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia e oggi 5 Stelle. Uno scaricabarile inquietante che apre nuovi interrogativi sull’uso politico della giustizia e delle indagini. Giovanni Bianconi per il Corriere.
«dieci parole per far pensare a uno scontro fra toghe; anzi ex toghe, visto che uno se l’è tolta due anni fa e l’altro lo farà il mese prossimo, entrambi «per raggiunti limiti di età». Per disegnare uno scaricabarile fra ex colleghi. È bastato che Antonio Laudati dicesse (non al procuratore di Perugia che l’aveva indagato e convocato per un interrogatorio, bensì in un comunicato stampa) di aver agito «sotto il pieno controllo del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo» per rinfocolare le polemiche contro Federico Cafiero de Raho, seduto su quella poltrona dal 2017 al 2022 e oggi è deputato dei Cinque Stelle, nonché vicepresidente della commissione parlamentare antimafia. Che indaga sull’oscura vicenda dei presunti dossieraggi, mettendolo così nella doppia veste di inquirente e testimone; e ora anche di «inguaiato», «tirato in ballo» o «scaricato» da Laudati, a leggere certi titoli di giornale dopo la suddetta dichiarazione. In realtà Cafiero è da tempo nel mirino dei partiti di maggioranza (spalleggiati anche in questo caso dai renziani), che hanno colto al volo l’occasione di attaccare l’ex magistrato transitato dalla pensione alla politica. Seguendo l’esempio dei suoi due predecessori alla Dna, Piero Grasso e Franco Roberti, eletti nelle file del Pd. Il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama Maurizio Gasparri s’è fatto appositamente inserire in Antimafia per potergli dire in faccia ciò che ripete da settimane: non può restare in quella commissione. E l’ex ministro azzurro (oggi sindaco di Imperia) Scajola ha ricordato come nel 2014 ci fosse proprio Cafiero alla guida della Procura di Reggio Calabria quando lui fu arrestato in un’inchiesta dov’era impegnato anche il tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano, divenuto ora «l’uomo dei dossier», sfociata «in un processo mediatico teso a eliminarmi». Accuse che rischiano di coinvolgere la stessa Direzione nazionale antimafia. Più volte citata, non a caso sempre da Gasparri, come pietra dello scandalo insieme all’ex capo oggi deputato. Battaglia politica e nient’altro, ribatte Cafiero, che ha bollato come «inaccettabili e gravemente offensive» le allusioni di Scajola; il resto è strumentalizzazione e propaganda «per attaccare l’opposizione». Nel merito della vicenda — gli accessi abusivi contestati a Striano, alcuni in concorso con Laudati, e gli ipotetici dossieraggi scaturiti da un’attività ritenuta illegittima — l’ex procuratore nazionale non è ancora voluto entrare. Salvo spiegare ai colleghi di partito e di opposizione — amareggiato quanto basta, a tratti quasi incredulo — che gran parte dei presunti illeciti attribuiti a Striano sarebbero stati commessi con le chiavi d’accesso alle banche dati della Guardia di finanza, e non dai computer della Dna per la quale lavorava. Dunque non verificabili nemmeno per il procuratore nazionale aggiunto Giovanni Russo, da lui delegato alla supervisione su quel tipo di lavoro e nominato direttore delle carceri dal governo Meloni. Russo e Laudati, ripete a tutti i suoi interlocutori Cafiero de Raho, sono due ottimi ex colleghi, legati anche dall’appartenenza alla stessa corrente della destra togata, Magistratura indipendente, e alla stessa area politica, Forza Italia. A loro Roberti aveva affidato rispettivamente la responsabilità della banca dati e dell’ufficio Sos (segnalazione operazioni sospette), posti in cui lui li ha confermati in virtù della loro professionalità ed esperienza, che a Laudati era valsa pure una docenza presso la Guardia di finanza. Ma allora perché il pm finito sotto inchiesta «tira in ballo» il suo ex capo? Il messaggio sembra indirizzato a Cafiero, ma non ci sono nomi: col termine «procuratore nazionale» potrebbe riferirsi a ognuno dei capi che ha avuto, da Roberti fino a Melillo che l’ha tolto da responsabile del gruppo Sos a novembre 2022, e da componente a giugno 2023. Un modo per sottolineare che se c’è qualche responsabilità è collettiva, perché tutto avveniva sotto il controllo del vertice dell’ufficio. Tuttavia gli abusi contestati a Laudati sono corredati dall’accusa di falso; ciò significa che di falsità si sarebbe nutrito il confezionamento dei dossier pre-investigativi autorizzati da Russo e poi degli atti d’impulso sottoscritti da Cafiero de Raho, ai quali il collega li aveva sottoposti. Come potevano, il procuratore e l’aggiunto, immaginare una simile ipotesi e andare a controllare il lavoro del sostituto? Sulla base di queste e ulteriori considerazioni, gli altri tre componenti pentastellati dell’Antimafia ieri hanno difeso Cafiero, giudicando la sua gestione della Dna «parte lesa». Ma difficilmente basterà a fermare l’offensiva della maggioranza, in commissione e fuori. Perché è stato lo stesso Melillo, a proposito del «mercato clandestino delle informazioni riservate» custodite nelle banche dati, a definire «disastrosa» la situazione trovata alla Dna a maggio 2022, sulla quale è subito intervenuto, e sebbene abbia esteso il giudizio alle «condizioni generali dell’amministrazione della giustizia». Ma agli avversari politici basta e avanza la prima parte».
PIOLTELLO, ISPEZIONE DEL MINISTERO CONTRO L’AUTONOMIA SCOLASTICA
Non un liceo della Ztl, occupato da rampolli radical chic, ma una scuola di Pioltello (periferia Est di Milano) che chiude l’ultimo giorno di Ramadan, è oggetto di una “ispezione” del ministro Giuseppe Valditara. Il racconto di Gianni Santucci sul Corriere è eloquente.
«Ed è subito calcio. Reti sbrindellate. Ma le porte stanno su. Campetto in cemento. Proprio là, a due metri dall’uscita della scuola (la scuola è la «Iqbal Masih» di Pioltello, 40 mila abitanti a Est di Milano, epicentro delle polemiche della «chiusura della scuola per Ramadan»). Tanto sono contigui, scuola e campetto, che il suono della campanella equivale al fischio d’inizio. Zaini sulle panchine e via. Cinque contro cinque. Le polemiche per loro sono aria, nulla, zero. Però ritornano nel vociare sommesso dei prof: «Stanno davvero esagerando». Il giovane preside Alessandro Fanfoni (dirigente scolastico, anche violinista e interista) in maglioncino verde accompagna all’uscita, tiene le mani in tasca, sorride: «La vicenda è stata vissuta con massima tranquillità nel nostro contesto scolastico» (a guardarsi intorno, è così). Poi però aggiunge: «Mi spiace, ma vedo purtroppo minata la mia sicurezza, per le minacce e gli insulti». Solo via social? «No, no. Anche diretti», aggiunge un collaboratore scolastico. Pioltello sta poco oltre l’aeroporto di Linate. Da Milano è un quarto d’ora. Conformazione edilizia: villette dopo villette. Qualche palazzina. E poi, gruppi di palazzoni enormi. Eredità d’un antico e indegno capitolo di storia lombardo-milanese: quando i «palazzinari» spadroneggiavano. Risultato: migliaia di appartamenti alla deriva in decenni di mutui non pagati, affitti e sub-affitti, occupazioni e innesti criminali, approdo di disperati che ancor oggi arrivano in Italia con un bigliettino in tasca «Quartiere Satellite, Pioltello» (il «Satellite» sono palazzoni per un totale di 2 mila appartamenti, 10 mila abitanti, quasi 100 nazionalità, uno tra i quartieri più multietnici e problematici d’Italia sul quale Comune e prefettura hanno lanciato un efficace programma di rigenerazione profonda). E così si spiega perché alla «Iqbal Masih», in sette plessi, da asilo a scuole medie, nel giorno dell’Eid-al-fitr, fine del Ramadan, molti non vadano a scuola. E questo è il punto. Lo spiega una docente anziana, poco dopo le 14, chiedendo «per cortesia» che non venga scritto il suo nome: «Solo una questione pratica, l’abbiamo chiesto noi. Meglio fare un giorno con metà bambini in classe, o uno con tutti presenti? Non un’ora di scuola persa. All’inginocchiamento all’Islam non vale la pena rispondere. Non si capisce dove sia lo scandalo». Lo ha ribadito anche il preside: 43 per cento di alunni stranieri, molti di famiglia islamica, molti assenti per fine Ramadan: «Nessuna motivazione politica nella scelta». Riflette Andrea Di Giovanni, docente di Urbanistica al Dastu, dipartimento di Architettura e studi urbani al Politecnico di Milano, che a Pioltello, con altri colleghi e altri atenei, ha lavorato per anni (il risultato è il volume: «Un quartiere mondo: abitare e progettare il Satellite di Pioltello», Quodlibet ): «Parliamo di uno dei Comuni con più alta percentuale di residenti stranieri in Italia. Abbiamo lavorato in scuole con buone strutture, ben gestite, con docenti estremamente motivati. Pioltello è un fronte che riguarderà l’Italia a breve: molti alunni sono di seconda generazione e hanno aspirazioni, desideri, visioni molto simili a tutti gli altri studenti. Sono molti più gli elementi comuni, che quelli di differenza. Parliamo delle nostre città di domani». Lunedì pomeriggio, gli ispettori del ministero (commento di una docente: «Sono stati mandati a fare le pulci a un preside che lavora 14 ore al giorno, in una delle scuole più difficili d’Italia; vi rendete conto?»); nella notte, uno striscione estremista e intimidatorio. «La politica ha creato questo clima di guerra e di insofferenza che c’è ora a Pioltello», dice Ivonne Cosciotti, sindaca del Pd. Alla scuola elementare di via Bolivia, ore 16.20, uscita dei bambini, il titolare di una ditta edile, Hassan Burkan, 38 anni, aspetta il figlio: «Con rispetto, fine Ramadan è come per i cristiani il Natale. Alcuni non mandano i figli a scuola. Non credo sia reato, altrimenti che mi dite dei bambini di Milano che saltano una settimana di lezioni per lo sci? La chiusura? Nessun genitore l’ha mai chiesta, ma sì, credo sia un segno di rispetto». S’avvicina una maestra. E chiede: «Ma finita questa polemica, ci sarà la stessa attenzione da Roma per una scuola che fa i salti mortali per aiutare tutti, e sottolineo tutti, i bambini?». Lei che dice? Risposta implicita. Sorriso. «Arrivederci».
PIOLTELLO 2. LA DIOCESI DIFENDE LA DECISIONE SUL RAMADAN
Parole sacrosante del Servizio ecumenismo della Diocesi di Milano che commentano la decisione dell’istituto di chiudere a fine Ramadan: così si favorisce la conoscenza. Ancora minacce al preside, difeso dalla sindaca: «La politica ha creato un clima di guerra». Dirigenti e sindacati si schierano con la scelta dell’istituto. Paolo Ferrario per Avvenire.
«Siamo a favore di questo gesto». Dopo giorni di polemica politica, parole chiare sul “caso Pioltello” arrivano da Roberto Pagani, diacono permanente che dal 2013 è responsabile del Servizio ecumenismo e dialogo interreligioso della Diocesi di Milano. «Come i musulmani in Italia condividono e festeggiano insieme a noi cattolici il Natale e la Pasqua, trovo bello che un’iniziativa di dialogo interreligioso parta da una scuola, che si fa promotrice della creazione di un ponte tra giovani che a casa vivono fedi differenti – dice Pagani a Famiglia Cristiana –. Dalle parole del preside lette in questi giorni noto che c’è un lavoro dietro la scelta che punta ad aiutare i ragazzi a conoscere la cultura e la religione di loro compagni di banco. Se non prendiamo la strada della conoscenza reciproca e del rispetto, gli integralisti diventiamo noi», conclude il diacono. Parole che arrivano al termine di un’altra giornata ad alta tensione. A tenere banco è sempre la decisone del Consiglio d’istituto della scuola “Iqbal Masih” di Pioltello, in provincia di Milano, di sospendere le lezioni il 10 aprile in occasione della Festa di fine Ramadam, Una ricorrenza molto sentita dalle famiglie musulmane, che rappresentano oltre il 40% dell’utenza dell’istituto. Contro la scelta della scuola, è apparso, nottetempo, un delirante striscione firmato da un gruppo neofascista, prontamente rimosso dalle forze dell’ordine. Ulteriore benzina sul fuoco della polemica, che ha messo in mezzo il dirigente scolastico Alessandro Fanfoni. «Insulti e minacce minano la mia sicurezza », si limita a dire il preside, prima di chiudersi in un preoccupato silenzio. In questi giorni dovrà anche presentarsi agli ispettori del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che ha chiesto approfondimenti all’Ufficio scolastico regionale della Lombardia. «La politica ha creato questo clima di guerra e di insofferenza che c’è ora a Pioltello », denuncia la sindaca Ivonne Cosciotti. Che invita Valditara a «visitare le nostre scuole per rendersi conto che i risultati dei test Invalsi nei nostri istituti sono più alti della media nazionale», ricorda Cosciotti, lodando il preside Fanfoni: «È particolarmente bravo», dice. L’invito ad abbassare i toni è, però, caduto nel vuoto. Ieri anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha approvato la decisione del Ministro di inviare gli ispettori. Di diverso avviso il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, che invita a «non politicizzare una questione che è soltanto tecnica», mentre un’aperta condivisione della scelta della scuola è arrivata dai sindacati. «Scelta del tutto legittima, alla luce delle prerogative che le norme assegnano all’autonomia delle istituzioni scolastiche – commenta Ivana Barbacci, segretaria generale Cisl Scuola –. Ma io la considero, soprattutto, una scelta giusta e opportuna sul piano educativo, sorretta da motivazioni a mio avviso ineccepibili, ispirate al rispetto reciproco su cui deve fondarsi, in una comunità, il dialogo tra confessioni religiose e tradizioni diverse». E di decisione «pienamente legittima» parla la segretaria generale della Flc-Cgil, Gianna Fracassi, mentre per il coordinatore della Gilda degli insegnanti, Rino Di Meglio, si tratta di «polemiche fuori luogo».
PIOLTELLO 3. “VALDITARA DOVREBBE CONGRATULARSI CON QUEL PRESIDE”
Per una volta la sociologa Chiara Saraceno è d’accordo con la posizione della Diocesi e dei cattolici milanesi. Ne scrive oggi sulla Stampa, difendendo la scelta del Preside dell’istituto di Pioltello.
«Altro che chiedere un'ispezione all'Ufficio scolastico regionale. Il ministro Valditara avrebbe dovuto congratularsi con il preside e il consiglio scolastico della scuola di Pioltello che hanno deciso di utilizzare quel poco di flessibilità di calendario concesso alle singole scuole per dichiarare vacanza il giorno in cui si conclude il Ramadan, che per i musulmani è una festività importante. Senza modificare il calendario deciso a livello nazionale, regionale e comunale, rimanendo nello stretto perimetro dei poteri che loro competono, hanno dato prova di quella attenzione per il contesto in cui opera la scuola, per le caratteristiche della sua popolazione scolastica, che sono una precondizione essenziale del processo educativo. Non hanno stabilito una nuova festività religiosa e neppure fatto perdere un giorno di scuola, stante che in previsione di questa sospensione hanno anticipato di un giorno l'inizio delle lezioni. Semplicemente hanno fatto in modo che quel 40 per cento di ragazzi che frequentano la scuola e sono musulmani possano celebrare la loro festa importante senza dover saltare un giorno di scuola, mostrando rispetto e dando riconoscimento a questa dimensione della loro identità e del loro stare al mondo. Che cosa c'è di più educativo, non solo nei confronti degli studenti e studentesse musulmane, ma anche dei loro compagni? Ricordo che il Dpr 275 del 1999 attribuisce alle istituzioni scolastiche il potere di adattare il calendario scolastico alle esigenze rappresentate nel piano dell'offerta formativa, fermo restante la determinazione fissata con disposizioni di legge da parte delle singole regioni relativamente a inizio, fine e interruzioni per vacanze natalizie e pasquali e il minimo di 200 giorni di lezioni. Non desta nessuno scandalo e richiesta di ispezione la decisione di un consiglio scolastico di concedere "un ponte" per permettere a chi può e vuole di andare a sciare o fare un breve viaggio, anche se chi non ne ha i mezzi dovrà stare semplicemente a casa e il nesso con l'offerta educativa non è perspicuo. Perché, allora, Ministro e ufficio scolastico regionale si muovono, avvallando chi grida allo scandalo e all'arbitrio decisionale, quando la decisione è presa per riconoscere l'esistenza di esigenze che, oltre ad essere religiose, fanno parte della tradizione familiare e comunitaria di una parte importante degli studenti di una scuola? Con un calendario pubblico punteggiato quasi esclusivamente da festività religiose cattoliche – stragrande maggioranza rispetto alle festività civili – la presenza dell'insegnamento della sola religione cattolica nell'orario scolastico settimanale per un totale di ore complessivo che va ben oltre quello di un solo giorno di scuola, il crocefisso dappertutto e guai a chi lo tocca, si teme forse che ciò porti ad una pericolosa islamizzazione della scuola? Dal punto di vista educativo, e del rispetto reciproco tra religioni e culture, sarebbe piuttosto opportuno che nelle scuole si riconoscesse il valore della tenacia con cui adolescenti rispettano il digiuno dall'alba al tramonto per un mese intero, alzandosi prima dell'alba per fare l'unico pasto consentito prima del tramonto e poi frequentando normalmente la scuola con i loro compagni più riposati e che possono rifocillarsi più volte durante il giorno. Ammirevoli e degni di assoluto rispetto e riconoscimento. Un riconoscimento che, come diceva stamani un'insegnante in un intervento alla radio, dovrebbe anche estendersi ad altri aspetti organizzativi della scuola, a partire dalla possibilità che chi osserva il digiuno nell'orario della mensa (dove c'è) non sia obbligato a guardare i propri compagni che mangiano, ma possa stare altrove in condizioni di sicurezza, quindi con personale di sorveglianza. In una società sempre più multireligiosa e in cui la presenza dei musulmani è consistente, come adattare orari di lavoro, di scuola, dei servizi che non prevedono il Ramadan forse dovrebbe cominciare ad essere affrontato senza paure e senza veti, dialogando con i rappresentanti delle comunità musulmane per valutare i possibili, reciproci, accomodamenti. Nel frattempo, lasciamo che i presidi usino con intelligenza e comprensione educativa almeno quel poco potere che hanno sul calendario senza timore di essere oggetto di ispezioni e sospettati di andare contro la legge… ».
“IL GOVERNO VUOLE OSTACOLARE GLI NCC”
Federico Fubini intervista per il Corriere l’Ad di Uber. Che denuncia: l’Italia sta per mettere fuorilegge le vetture degli Ncc, così sarà il caos nelle città.
«Forse perché Dara Khosrowshahi è nato (54 anni fa) in Iran in una famiglia che ha lasciato tutto per fuggire la rivoluzione degli ayatollah, passando dalla ricchezza in patria alla povertà da rifugiati, lui è sempre molto diretto. A maggior ragione ora, da amministratore delegato di Uber. E lo è anche nel dire ciò che pensa dei decreti sul noleggio auto con conducente in preparazione a Roma.
Uber cresce molto in fretta: per quanto tempo pensa che potrà mantenere il ritmo attuale?
«L’anno scorso abbiamo dimostrato che possiamo continuare a generare una crescita forte e redditizia su scala enorme. Nel 2023, oltre 150 milioni di persone nel mondo hanno usato le app di Uber, mentre più di 6 milioni di persone hanno usato Uber per andare al lavoro premendo un pulsante. E siamo solo all’inizio».
Come si piazza l’Italia per mobilità urbana, tra i Paesi europei?
«Uber ha aiutato gran parte del mondo a progredire, ma alcuni Paesi hanno nostalgia del passato. In Italia, tanti visitatori ormai rinunciano a trovare un passaggio: sono rassegnati a raggiungere le loro destinazioni a piedi, anche in un caldo inimmaginabile. Questa realtà ha fatto notizia in tutto il mondo l’estate scorsa. Purtroppo, per milioni di italiani era già vecchia. Sono abituati al fatto che le loro città sembrino dei parcheggi. Sono abituati a muoversi negli ingorghi. Molti dei loro vicini europei hanno accolto i vantaggi del trasporto on-demand, sia che si tratti di noleggiare un’auto, una bicicletta elettrica o un treno con il telefono. Gli italiani invece sono costretti a vivere in città bloccate».
L’imminente decreto del ministero dei Trasporti sembra prevedere limiti agli Ncc, inclusi quelli nella rete di Uber, sui tempi di prenotazione e l’obbligo di rientro in rimessa. Che impatto si aspetta?
«Difficile crederci, ma sembra che i giorni più bui per chi vuole andare dal punto A al punto B in Italia siano ancora davanti a noi. La scorsa settimana il ministero dei Trasporti ha annunciato l’intenzione di mettere sostanzialmente fuori legge il trasporto a chiamata in Italia, con un decreto che imporrebbe agli Ncc di aspettare un’ora prima di prendere un passeggero, anche se l’autista è a pochi metri. In Europa in media il tempo è di circa cinque minuti. Con questa nuova legge, il tempo obbligatorio di attesa in Italia sarebbe di 60: il 1.100% in più rispetto alle controparti europee. Perché i romani devono aspettare 55 minuti in più rispetto ai parigini o ai madrileni? Non c’è alcuna ragione o logica, è semplicemente un modo di proteggere e placare un piccolo ma rumoroso gruppo di tassisti. Ciò che rende il tutto ancora più assurdo è che Uber e i tassisti collaborano in tutto il mondo, anche in Italia. A livello globale Uber ha aiutato 235 mila tassisti in 33 Paesi a guadagnare oltre 1,6 miliardi di dollari negli ultimi anni. Siamo amici, non nemici».
L’Italia può gestire i picchi del turismo senza una mobilità urbana più liberalizzata?
«La cruda realtà è che si tratta di scegliere tra il riparare un sistema di mobilità a pezzi o placare le persone che gridano più forte. Con l’estate alle porte, questa nuova legge rischia di far sembrare il caos che abbiamo visto nel 2023 una passeggiata nel parco. Al governo italiano dico: volete abbracciare il meglio della tecnologia e contribuire a rendere le vostre città più verdi, più facili e più piacevoli? O avete intenzione di lasciare che una piccola minoranza detti la vita di milioni di cittadini? La scelta è semplice: l’Italia è pronta a progredire o vuole rimanere in un cono d’ombra in Europa?».
Le bozze di decreto, se approvate, costringerebbero Uber a ridurre la trasparenza dei prezzi dei servizi sulla sua app. Che ne dice?
«Il cuore dell’esperienza di Uber consiste nel fornire a conducenti e autisti pagamenti semplice e fluidi, comprese le tariffe note in anticipo. Per i consumatori, significa sapere quanto pagheranno prima di richiedere una corsa. Per gli autisti, significa che possono prendere decisioni informate prima di accettare una corsa. Se questo decreto passasse, l’Italia diventerebbe un’anomalia a livello globale: uno dei pochi Paesi al mondo in cui sia i conducenti che i consumatori non vedono il costo della tariffa in anticipo, peggiorando l’esperienza di tutti senza benefici per nessuno».
I servizi di mobilità come i taxi e Ncc in Italia hanno un fatturato che rimane una frazione dei mercati in Francia o Spagna. Perché?
«Con 60 milioni di abitanti, l’Italia ha un enorme potenziale per diventare uno dei maggiori mercati di Uber nel mondo. I nostri studi dimostrano infatti che il mercato degli Ncc e dei taxi in Italia può diventare un settore da 6 miliardi di euro: quattro volte le dimensioni attuali. Ma dipende da una regolamentazione equa e aperta che avvantaggi la maggioranza delle persone, invece di proteggere una minoranza. Uber vuole aiutare l’Italia a progredire, rendendo la mobilità urbana più verde, sicura e accessibile ai milioni di persone. Ma l’Italia è pronta a entrare nel 21esimo secolo o vuole rimanere bloccata nel passato?».
EMERGENZA DENGUE IN BRASILE
Veniamo alle altre notizie dall’estero. La corsa dell’epidemia da dengue procede inarrestabile in Brasile, al ritmo di ventimila contagi al giorno: la causa principale è il riscaldamento globale. Allarme anche in Europa e in Italia che ha rafforzato i controlli. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva lanciato l’allarme a dicembre: la dengue rischiava di trasformarsi in un problema sanitario mondiale urgente. La corsa dell’epidemia, però, è stata perfino più veloce del previsto a causa del riscaldamento globale. Non a caso, l’epicentro è il Brasile, nazione particolarmente sensibile agli effetti del clima. La settimana scorsa a Rio de Janeiro le temperature hanno toccato i 62 gradi percepiti. Come spiegato dalla ministra della Sanità, Nísia Trindade: «Le temperature elevatissime e le precipitazioni straordinarie, prima dell’estate, hanno fatto proliferare le larve della zanzara Aedes aegypti che trasmette il virus». Il Gigante latinoamericano si avvicina drammaticamente ai due milioni di casi. Il record del nuovo millennio. A preoccupare, però, è la rapidità di propagazione del contagio: meno di tre mesi, al ritmo di oltre ventimila infezioni al giorno. «Immaginavamo che non fosse un buon anno. Ma non fino a questo punto», afferma Ernesto Marques, dell’Università di Pittsburgh. Finora, secondo i dati del ministero della Salute, i colpiti sono 1,9 milioni, quattro volte la cifra registrata nello stesso periodo del 2023. Di questo passo, le autorità non escludono di raggiungere quota cinque milioni entro la fine dell’anno. I medici sottolineano che si tratta di “malati probabili” perché tre quarti degli infettati non manifestano sintomi e, in chi li ha, somigliano a una lieve influenza. Questo fa sì che ci sia una reticenza nella popolazione a vaccinarsi. Finora è stato somministrato poco più del 30 per cento delle dosi. Un quarto dei contagiati, però, ha effetti pesanti: forti dolori alla testa e alle articolazioni, febbre alta e vomiti. Un cinque per cento di questi, infine, passano in breve alla cosiddetta “dengue grave”, con la fuoriuscita del plasma dai vasi sanguigni che costringe i malati a ricorrere a trasfusioni. Senza cura, il virus ha una letalità del 15 per cento e si accanisce in particolare sugli anziani. In Brasile, ha già ucciso 561 persone, oltre la metà delle vittime registrate in tutto l’anno precedente. Di fronte all’emergenza dieci Stati hanno già dichiarato lo Stato di emergenza, inclusi San Paolo, Rio de Janeiro, Rio Grande do Sul e il distretto federale di Brasilia. L’epidemia, inoltre, si sta estendendo. In Argentina si contano 57mila casi, una cifra mai raggiunta finora nella sua storia, con un aumento del 2.500 rispetto all’anno precedente. Paraguay, Perù e Uruguay sono in emergenza. Secondo gli esperti, tuttavia, si prevede che il virus si sposti verso il nord del Continente – allerta in particolare a Porto Rico, Texas, Arizona e sud della California – e l’altra sponda dell’Atlantico, in concomitanza dell’estate. «Quando si registra un’ondata in un Paese, in generale, ben presto se ne verificano anche in altri Paesi. Il mondo è profondamente interconnesso », spiega l’esperto Albert Ko dell’Università di Yale. L’aumento delle temperature, poi, crea le condizioni ambientali per il proliferare del contagio. L’Oms teme che entro la fine dell’anno si scoprano dei casi in luoghi finora non toccati dal virus, come la Francia. In Europa meridionale le temperature sono già tali da permettere alle zanzare tigre di trasmettere malattie come la dengue e la chikungunya: negli ultimi 10 anni si è passati da soli 10 casi l'anno a centinaia, e ormai si contano anche casi autoctoni. In Italia, nel 2023, ci sono stati 362 casi di dengue. Numeri che hanno spinto il Paese a rafforzare i controlli, soprattutto sulle merci per evitare che l'Aedes aegypti, maggiore responsabile della trasmissione della malattia, attecchisca».
HONG KONG SI INCHINA ALLA CINA
Hong Kong si inchina alla Cina: sì alla nuova legge sulla sicurezza. Il Parlamento dell’ex colonia approva all’unanimità: ergastolo per il dissenso. Guido Santevecchi per il Corriere.
«Hong Kong ha una seconda legge sulla sicurezza interna, dopo quella nazionale cinese imposta da Pechino nel 2020 per schiacciare il movimento di protesta democratica nel territorio, che fino ad allora aveva mantenuto garanzie di libertà civili ereditate dalla «common law» britannica. I deputati del Legislative Council hanno votato 89 a 0 l’introduzione delle nuove norme che elencano 39 reati suddivisi in 5 categorie: tradimento; insurrezione, sedizione e incitamento all’ammutinamento o al malcontento; sabotaggio; interferenza straniera; diffusione di segreti statali e spionaggio. La pena per alcuni di questi crimini è l’ergastolo. Secondo il governo di Londra è l’assalto finale all’eccezionalità di Hong Kong rispetto a cento altre città della Cina: nel negoziato per la restituzione della colonia, avvenuta nel 1997, Pechino si era impegnata a garantire per cinquant’anni un sistema di governo diverso da quello del Partito unico. Promessa dimenticata da Xi Jinping. Percorso parlamentare lampo: la legge è stata presentata l’8 marzo, è passata in meno di 10 giorni di lavori ed entrerà in vigore sabato 23, ha annunciato il governatore di Hong Kong John Lee, che ha un passato da comandante della polizia. Lee ha affermato che è un «momento storico» per Hong Kong, la nuova legge locale «completa e integra quella nazionale». Dice il vero: la storia è cambiata nell’unico lembo di Cina che ha conosciuto una democrazia anche se imperfetta. Nel 2003, quando il governo della City aveva cercato per la prima volta di introdurre nella costituzione l’Articolo 23, una legislazione per la sicurezza nazionale, gli hongkonghesi erano scesi in strada a centinaia di migliaia per protestare e il progetto era stato abbandonato. Il fronte di opposizione si era mobilitato ancora nel 2014 con la Rivoluzione degli ombrelli (usati per proteggersi dai lacrimogeni) e infine nel 2019. Dal 2020, con la prima legge di sicurezza cinese, manifestare è diventata l’anticamere del carcere. E ora nel Legislative Council possono sedere solo deputati di «provato patriottismo», vale a dire che amano la Repubblica popolare cinese e sono fedeli al suo Partito-Stato. Così il governatore Lee ha potuto avere un voto all’unanimità. Nessuna mobilitazione popolare ha cercato di impedire il varo della legge. I leader della protesta giovanile come il carismatico Joshua Wong stanno scontando lunghe pene detentive o sono fuggiti all’estero; l’editore anti-comunista Jimmy Lai è in cella, rischia l’ergastolo e il suo giornale Apple Daily ha chiuso. Ma evidentemente il governo ancora non si fidava di aver chiuso la partita, serviva una legge più dura. Pechino si è congratulata con Hong Kong per lo «scudo contro le attività dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti tese a sovvertire l’ordine e infiltrare la città». Diplomatici ed esponenti della business community a Hong Kong avvertono che molte attività possono essere considerate «incitamento al malcontento». E criticare il governo parlando con un giornalista straniero potrebbe essere catalogato come collusione con «forze esterne». Rischiosa anche l’attività di raccolta e analisi dei dati economici, essenziale in una piazza finanziaria come Hong Kong: recentemente Pechino ha deciso di allargare il campo dei «segreti» includendo proprio le informazioni sullo stato dell’industria, dello sviluppo tecnologico e scientifico».
SPAGNA, AYUSO NELLA BUFERA
La leader dei popolari in Spagna Isabel Ayuso è travolta da sospetti sugli affari per le mascherine ai tempi della pandemia. Per colpa del marito. Alessia Grossi per Il Fatto.
«Mascherine, vaccini, frodi fiscali, attici, prestanome e soldi nei paradisi fiscali. Così rischia di interrompersi l’ascesa della promessa dei Popolari spagnoli, Isabel Ayuso, in odore di candidatura a premier. Proprio lei, la avvenente governatrice di Madrid – incoronata alle scorse Regionali da una maggioranza assoluta – che dall’approccio morbido alla pandemia aveva guadagnato voti e consensi contro le restrizioni del premier socialista Pedro Sanchez, dopo quattro anni è perseguitata dallo spettro del Coronavirus e rischia di cadere su questo. L’accusa, indiretta, è di aver favorito, coprendolo, il compagno, Alberto Gonzalez Amador, imprenditore a capo della Mawell Cremona Sl, nonché intermediario nella vendita delle mascherine anti-Covid nei primi tre mesi del 2020 alla Regione da lei governata. Il momento era duro. A Madrid, come in tutta la Spagna e in tutta Europa e in tutto il mondo, mascherine, guanti e altri dispositivi sanitari di protezione dal virus ignoto che stava provocando migliaia di morti a settimana erano introvabili, e quelli che regioni e governi riuscivano ad aggiudicarsi arrivavano negli presidi ospedalieri a prezzi esorbitanti. La regione di Ayuso era nel momento più buio anche per via delle numerose morti nelle Residenze per anziani – solo in questi giorni la commissione preposta ha concluso che 4 mila ospiti avrebbero potuto salvarsi se solo fossero stati spostati negli ospedali–. La lotta tra governo centrale e la comunità di Madrid era all’apice: con il ministro socialista della Salute, Salvador Illa, che intimava alla presidente popolare di ascoltare la scienza ed estendere il lockdown all ’intera Comunità. In Italia le strade del Nord si riempivano di furgoni militari zeppi di bare e la Spagna guardava noi, sempre qualche settimana avanti quanto a contagio, per specchiarsi in quel futuro distopico di morti su morti impossibili da evitare. Nel segreto delle stanze del potere traslate su Zoom, mentre le strade di Madrid erano deserte, Gonzalez Amador incassa 2,3 milioni di euro di cui 1,9 in un’unica operazione di intermediazione per l’azienda spagnola Fcs che vendeva alla regione prodotti sanitari anti-Covid. Contratto occultato dalla Regione: l’ispezione del Fisco, da cui prende il via l’inchiesta del giornale spagnolo online Eldiario.es, riporta che nell’accordo, il compagno di Ayuso risulta come “mero intermediario che si limita a mettere in contatto le due parti che formalizzeranno la compravendita dei prodotti” e sottolinea che “in nessun caso apparirà né come acquirente, né come venditore né come parte dell’accordo”. La paura di essere scoperti esiste. Ma non basta, la Mawell Cremona SL su quei ricavi spaventosi per un’impresa nata nel 2017 (aveva incassato quell’anno 8 mila euro, l’anno dopo 287 mila euro fino ad arrivare ai 357 mila euro del 2019, grazie a contratti con ospedali madrileni, eche arriva a toccare i 2,3 milioni nel 2020 e 1,3 milioni nel 2021, proprio con l’entrata in scena delle mascherine), non paga le tasse. Ed è così che dopo due anni di indagini, il Fisco spagnolo scopre che Gonzalez Amador ha frodato tasse per 350.951 euro negli anni della pandemia. E ancora: quei 2 milioni guadagnati dall’intermediazione per la vendita delle mascherine alla Regione presieduta dalla sua compagna, attraverso fatture false, finiscono alla società di Gonzalez Amador a Panama, la Insumos medicos del Pacifico Sa creata nel 2013 con altri imprenditori, tra cui il presidente di Quiron Prevencion, tra i principali clienti sanitari di Gonzalez Amador. La denuncia del Fisco ha scoperto anche che l’azienda di intermediazione che è arrivata a fatturare 3,7 milioni di euro in due anni non ha dipendenti. In compenso detiene varie automobili di lusso. A proposito di lusso, la coppia della paladina della Salute di Madrid–che voleva essere ricordata per l’opera faraonica dell’ospedale Isabel Zendal terminato giusto allo scadere della pandemia e destinato ad accogliere solo 14 pazienti al giorno – compra nella stessa estate del 2022 in cui non dichiara al Fisco tutti gli introiti dell’anno precedente, un appartamento nel centro della Capitale il cui valore di mercato, secondo i cronisti del diario si aggira introno a 1,9 milioni di euro. Qui, in 183 mq di superficie e altri 25 di zona comune, la coppia convive da qualche mese. La casa è intestata ad Alberto Gonzalez Amador – definito dalla stampa rosa “imprenditore sanitario” – e l’atto di vendita, datato 27 luglio 2022, è posteriore all’ispe zione dell’Agenzia delle Entrate alla Mawell per gli introiti milionari non dichiarati in pandemia, secondo la ricostruzione del quotidiano spagnolo. Nello stesso palazzo, la coppia dispone anche di un secondo appartamento, l’attico, acquistato dall’amministratore unico di Babia Capital Sl, Javier Gomez Fidalgo, avvocato, a cui il compagno di Ayuso ha messo in mano proprio la pratica dell ’Agenzia delle entrate il Primo giugno 2022, dopo la notifica dell’inizio dell’ispezione fiscale alla sua azienda per la questione delle mascherine».
“NON STANCHIAMOCI DI SEMINARE SPERANZA”
Ecco il testo del messaggio di papa Francesco in occasione della 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni sul tema: “Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace”. La Chiesa celebrerà la Giornata il prossimo 21 aprile.
«Cari fratelli e sorelle! La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita. Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso; è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo. Così, questa Giornata è sempre una bella occasione per ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita. Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita. Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune. Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio. Ai giovani, specialmente a quanti si sentono lontani o nutrono diffidenza verso la Chiesa, vorrei dire: lasciatevi affascinare da Gesù, rivolgetegli le vostre domande importanti, attraverso le pagine del Vangelo, lasciatevi inquietare dalla sua presenza che sempre ci mette beneficamente in crisi. Egli rispetta più di ogni altro la nostra libertà, non si impone ma si propone: lasciategli spazio e troverete la vostra felicità nel seguirlo e, se ve lo chiederà, nel donarvi completamente a Lui. La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in sé stesse, ma siamo parti del tutto. Perciò, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni porta impresso il timbro della sinodalità: molti sono i carismi e siamo chiamati ad ascoltarci reciprocamente e a camminare insieme per scoprirli e per discernere a che cosa lo Spirito ci chiama per il bene di tutti. Nel presente momento storico, poi, il cammino comune ci conduce verso l’Anno Giubilare del 2025. Camminiamo come pellegrini di speranza verso l’Anno Santo, perché nella riscoperta della propria vocazione e mettendo in relazione i diversi doni dello Spirito, possiamo essere nel mondo portatori e testimoni del sogno di Gesù: formare una sola famiglia, unita nell’amore di Dio e stretta nel vincolo della carità, della condivisione e della fraternità. Questa Giornata è dedicata, in particolare, alla preghiera per invocare dal Padre il dono di sante vocazioni per l’edificazione del suo Regno: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» ( Lc 10,2). E la preghiera – lo sappiamo – è fatta più di ascolto che di parole rivolte a Dio. Il Signore parla al nostro cuore e vuole trovarlo aperto, sincero e generoso. La sua Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, il quale ci rivela e ci comunica tutta la volontà del Padre. In quest’anno 2024, dedicato proprio alla preghiera in preparazione al Giubileo, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini di speranza, perché «la preghiera è la prima forza della speranza. Tu preghi e la speranza cresce, va avanti. Io direi che la preghiera apre la porta alla speranza. La speranza c’è, ma con la mia preghiera apro la porta» ( Catechesi, 20 maggio 2020). Pellegrini di speranza e costruttori di pace. Ma cosa vuol dire essere pellegrini? Chi intraprende un pellegrinaggio cerca anzitutto di avere chiara la meta, e la porta sempre nel cuore e nella mente. Allo stesso tempo, però, per raggiungere quel traguardo, occorre concentrarsi sul passo presente, per affrontare il quale bisogna essere leggeri, spogliarsi dei pesi inutili, portare con sé l’essenziale e lottare ogni giorno perché la stanchezza, la paura, l’incertezza e le oscurità non blocchino il cammino intrapreso. Così, essere pellegrini significa ripartire ogni giorno, ricominciare sempre, ritrovare l’entusiasmo e la forza di percorrere le varie tappe del percorso che, nonostante le fatiche e le difficoltà, sempre aprono davanti a noi orizzonti nuovi e panorami sconosciuti. Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri. Così, il nostro camminare su questa terra non si risolve mai in un affaticarsi senza scopo o in un vagare senza meta; al contrario, ogni giorno, rispondendo alla nostra chiamata, cerchiamo di fare i passi possibili verso un mondo nuovo, dove si viva in pace, nella giustizia e nell’amore. Siamo pellegrini di speranza perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino. Questo è, alla fine, lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Come singoli e come comunità, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali: l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta. E a tutto ciò si aggiungono le difficoltà che incontriamo quotidianamente e che, a volte, rischiano di gettarci nella rassegnazione o nel disfattismo. In questo nostro tempo, allora, è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace. Questa speranza – ci assicura San Paolo – «non delude» ( Rm 5,5), perché si tratta della promessa che il Signore Gesù ci ha fatto di restare sempre con noi e di coinvolgerci nell’opera di redenzione che Egli vuole compiere nel cuore di ogni persona e nel “cuore” del creato. Tale speranza trova il suo centro propulsore nella Risurrezione di Cristo, che «contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276). Ancora l’apostolo Paolo afferma che «nella speranza» noi «siamo stati salvati » (Rm 8,24). La redenzione realizzata nella Pasqua dona la speranza, una speranza certa, affidabile, con la quale possiamo affrontare le sfide del presente. Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace, allora, significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità. Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace. Il coraggio di mettersi in gioco Per tutto questo dico, ancora una volta, come durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona: “ Rise up! – Alzatevi!”. Svegliamoci dal sonno, usciamo dall’indifferenza, apriamo le sbarre della prigione in cui a volte ci siamo rinchiusi, perché ciascuno di noi possa scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace! Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto e dell’ambiente che abitiamo. Ve lo ripeto: abbiate il coraggio di mettervi in gioco! Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità, sempre dalla parte degli ultimi e degli indifesi, ripeteva che nessuno è così povero da non aver qualcosa da dare, e nessuno è così ricco da non aver bisogno di ricevere qualcosa. Alziamoci, dunque, e mettiamoci in cammino come pellegrini di speranza, perché, come Maria fece con Santa Elisabetta, anche noi possiamo portare annunci di gioia, generare vita nuova ed essere artigiani di fraternità e di pace».
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